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SHE SHE POP: IL FASCINO OSCURO DEL MITO E I LUMI DELLA RAGION CRITICA

Testament e Frühlingopfer. King Lear e le Sacre du Printemps. I padri e le madri all’ombra di due miti potenti e oscuri. Materia difficile da maneggiare il rapporto con il padre e con la madre. Roba che rischia di finire in clinica. Il collettivo tedesco She She Pop invece tratta la materia incandescente con l’abilità e la perizia di un maestro vetraio di Murano.
In Testament è il Re Lear che viene preso in esame. In scena le attrici con i loro padri a esaminare con minuzia critica ciò che avviene nel testo di Shakespeare, come in una prova alla Stanislavskij, verificandolo alla prova dei fatti d’oggi: cosa vuol dire lasciare in eredità? E da vivi poi? E quel giochino oscuro che apre l’abisso della tragedia all’inizio? E così si procede atto per atto con padri e figli che si mettono nei panni di Lear e Cordelia, Regan e Gonerilla verificando passo per passo. I cento cavalieri di cui viene spogliato Lear diventano così libri da spostare in caso che il vecchio padre, ex professore universitario, passi il fatidico mese ospite in casa dei figli. Risultato: nessuno spazio vitale, rapporti tesi, affetti lesi. Ma i cento cavalieri sono irrinunciabili perché sono la dignità che rimane al padre, ciò che è stato e ha fatto, ciò che lo ha reso quello che è e perderli significa perdersi per sempre. E così si arriva alla tempesta, all’atto di spoliazione, all’abbandono nella solitudine. Per un attimo il ritorno di Cordelia fa intravedere una riconciliazione (un ascoltare seduti abbracciati con il vecchio padre una canzone, quella preferita e amata, quella che fa loro ricordar i vecchi tempi), ma in verità è solo un’illusione, in fondo alla strada per padri e figli c’è l’abisso della morte che vanifica ogni sforzo.
Con precisione crudele, con spietatezza lucida e inflessibile, come chirurghi si intaglia sul tavolo operatorio il mito, lo si esamina e lo si mette alla prova, scientificamente, con l’esperienza: si vive il mito, si esamina, si prova sulla propria pelle, ma senza patemi emotivi, guardando in faccia alla verità che ne esce qualsiasi essa sia. Non c’è clinica. Di nessun tipo. Anzi c’è l’ironia a illuminare la scena. Certo uno humor noir, quello che ha il potere di farci guardare in faccia la realtà del mito, il suo ciclico riaffacciarsi in ognuno di noi, senza scampo, senza possibilità che questo abisso si colmi o si riconcili. Si può sperare solo in preziosi e momentanei riavvicinamenti.
Tutto questo in una partitura precisa e puntigliosissima di gesti, segni, tempi. Non un movimento è lasciato al caso. Tutta la scena è significante. Interessante e intelligente l’uso di telecamerine che aprono spazi ulteriori alla scena, benché tutto quello che riprendono sia in fondo in scena e ben visibile. Ma è la lente di ingrandimento con cui si guarda il reale e il mitico. Le facce dei padri, quelle dei figli, il testo del Lear, la tomba che aspetta padri e figli alla fine del cammino.
Il testo poi del Lear, non è recitato. Nessuna retorica. Nessun intento interpretativo. Nessuna nenia emotiva, nessuna finzione di voler esser qualcun altro, quel fenomeno da Croce Verde di cui parlava Carmelo Bene e che troppe volte abbiamo visto sulle scene in queste Colline. Il testo viene letto. I rapporti che si enunciano sulla scena sono semplicemente detti, con distanza critica che rianima il miglior Brecht. Un metodo di sondare il reale con feroce lucidità che si riscontra in altri fenomeni visti nel corso dell’anno con Milo Rau o Ivo Dimchev. Qualcosa che a casa nostra latita pericolosamente. Noi ci cincischiamo a recitar sermoni dai palchi o con i drammetti borghesi. Ma c’è un motivo per cui questo avviene e ne parleremo alla fine di questo articolo. Ora passiamo ad analizzare l’altra faccia della medaglia di ciò che She She Pop ha presentato nella rassegna torinese: Frühlingopfer ossia Le sacre du Printemps di Igor Stravinskij.
Nel balletto tanto celebre si evoca un rito pagano: il sacrificio di una giovane adolescente, di fronte a un cerchio di vecchi saggi, affinché il dio conceda il ritorno della primavera. Il sacrificio. Un’altra immagina potente e ricorrente. Un qualcosa che ci perseguita dall’alba.
Questa volta più che il mito a essere sezionato è il rito. Madri e figli alla luce del sacrificio vicendevole che la civiltà richiede. Gli attori e le proprie madri diventano tutte le madri e tutti i figli. Anche in questo caso si esclude la clinica. Ciò che avviene sulla scena è universale come il rito che la divinità richiede per il ritorno della primavera, affinché il ciclo ricominci e si ripeta inflessibile. Il passato che chiede al presente di perdere una parte di se stesso per onorare ciò che è stato per permettere a ciò che sarà di palesarsi. Il racconto delle vite di madri e figlie, la figura della donna ieri e oggi, e la danza sacrificale ripetuta mentre risuona potente la musica di Stravinskij. Parole e musica, rito e analisi. Tutto concorre all’emergere del fondo oscuro che si ripropone in ogni vita dall’alba della civiltà a oggi. E ancora l’immagine in video ad aprire spazi e significati. In video le madri, sulla scena le/i figlie/i. Separati e distanti nello spazio, ma in qualche modo, con semplicità magistrale, le figure si sovrappongono, si compenetrano, dialogano e si scontrano. E ancora l’ironia a impedire la ricaduta nella psichiatria, nel dramma, nel senso di colpa.
Esecuzione perfetta, rigorosa, inflessibile. Un livello magistrale di ricerca. E tutto attraverso il linguaggio proprio del teatro. Nessun elemento ha rilevanza rispetto agli altri. Non la parola, non la musica, non l’immagine. Tutto è usato affinché sia la scena ad agire. Spazio, corpi in movimento, suoni, immagine nel tempo e fuori dal tempo.
Questo livello altissimo di costruzione e composizione raggiunto da questo collettivo tedesco mi da il là per aprire un discorso più ampio rispetto al teatro italiano.
I risultati raggiunti dalle She She Pop prevedono un modello produttivo sano che consideri la ricerca come fondamentale per il raggiungimento di alti risultati. La salvaguardia del tempo di ricerca, della professionalità di attori e autori. Il tempo segreto dedicato alla formazione e maturazione del lavoro. In questo modello produttivo si riconosce il ruolo, la funzione e la professionalità dell’artista di teatro. C’è inoltre attenzione alla programmazione, allo sviluppo di un futuro e di una pratica culturale che sia d’utilità a una società. In questo modello si preserva la cultura dallo scadere in enterteiment. È un modello di azione culturale proiettato verso un futuro e adatto a un presente, dove la realtà non sia esclusa ma avvinta, criticata, affrontata a viso aperto anche laddove dispiaccia.
In Italia invece il modello che appare evidente è quello in cui la ricerca sia sacrificata sull’altare del risultato certo, il tutto condito dalla scusa per ogni nullafacenza: non ci sono soldi. E così modelli vecchi e obsoleti si ripropongono, inadatti ad affrontare il mondo come si presenta. La ricerca non è considerata quasi mai. Per il modello italiano è tempo perso, come già denunciava Carmelo Bene nei lontani anni ’90. Il modello produttivo che propone il nostro paese preserva il consueto, il solito, ciò che accontenta il potere, l’abbonato e la pigrizia degli operatori culturali e dei direttori artistici.
In tutto questo si vede il ritorno di modelli ricorrenti e corrotti, che non ricercano nuove strade per il linguaggio teatrale, perchè questa ricerca proprio non è prevista. E la critica si accoda e acclama lavori che di interessante non hanno proprio nulla, Concede premi ad attori che seppur bravi navigano in acque conosciute o conosciutissime, e ricordiamo che le cose migliori vedute in Italia negli ultimi anni sono state agite sulla scena da barboni, malati di mente, carcerati, dilettanti. E questo sia detto non per sminuire la tecnica e la professionalità dell’attore, ma perché la scena richiede altro che attori con tecniche obsolete. Richiede interpreti che scelgano strade nuove al di là dei modelli proposti da scuole e accademie.
Il futuro delle arti richiede coraggio, capacità di osare e non acquiescenza di fronte a modelli inveterati e polverosi. E non è solo questione di soldi. È il pensiero che deve cambiare.
I due lavori delle She She Pop ci hanno mostrato con evidenza ineludibile che la ricerca, quando ben condotta e sostenuta, quando si ha il coraggio di affrontare le sfide che il presente storico ci pone, porta a risultati straordinari al di là dell’estetica, al di là della comunicazione, al di là della clinica lacrimevole e di facile successo.
Bisogna avere coraggio, credere nel lavoro necessario compiuto dalle arti, bisogna riformare i modelli produttivi. E questo è compito di politica culturale che non sembra nemmeno essere preso in considerazione. Affrontare percorsi rigorosi di ricerca sul linguaggio e le funzioni del teatro è cosa che compete agli artisti. Qui, sì, manca il denaro ma a volte anche la volontà. Ci vuole che istituzioni e enti preposti considerino che uno o due anni chiusi a lavorare non sia tempo perso, ma percorso fondamentale e irrinunciabile se si vuole ottenere risultati. Cosa che non ho detto io ma Carmelo Bene in quella Biennale dedicata alla ricerca che tanto fu insultata.
Come in altri campi, in questo paese si è rinunciato a pensare, programmare, immaginare un futuro. Si vivacchia. Si tira a campare. Si pensa all’aurea mediocritas del premietto d’oggi, al meno peggio. Non ci può essere futuro se si pensa solo all’odierno problematico, all’emergenza e non all’emergere. Questo ci insegna il lavoro delle She She Pop: un modello virtuoso di ricerca sostenuto da un sistema paese che considera la cultura e i suoi risultati come necessari e non decorativi. Non sto dicendo, badate, che è tutto oro quello che luccica. Se mancasse il talento il sistema produttivo, benché virtuoso sarebbe sterile. Diciamo però ma che questo modello virtuoso sia necessario affinché sorga il nuovo, affinché il talento possa trovare la propria strada e si raffini. Se in Italia non affrontiamo questo percorso, se artisti, politici, direttori artistici non si orientano a creare le condizioni, continueremo ad applaudire il meno peggio e ripeto, come diceva Carmelo Bene, “il meglio del peggio è il pessimo!”.

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