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Babele silenziosa: La democrazia in America, un ulteriore sguardo su Romeo Castellucci

«Elizabeth sells her daughter Mary to buy agricultural tools and seeds, 1789».

E le streghe danzano il loro sabba a ritmo di can-can. Il patto è compiuto e nessun giuramento permette di affrancarsi dalla vacuità di uno spazio – che intrattiene a un tempo una relazione transitiva e traduttiva fra topografie geografiche e interiori – i cui confini si allontanano con la stessa velocità e ostinazione della parola che li insegue, significante vuoto e frustrato, quando convenzionale.

Questa, una possibile summa da parte dello spettatore che non abbia lasciato la sala prima della fine dello spettacolo.

È innegabile che Democrazia in America di Castellucci sia stato soggetto prima ancora della sua messa in scena a più di un fraintendimento. Complici la discendenza dal testo omonimo di Alexis de Tocqueville, l’attuale situazione internazionale, la confusione, sempre vigente a dispetto del continuo abbaiare sulla questione da parte dei presunti addetti ai lavori e non, sul rapporto fra politica e scena teatrale, fra democrazia – partendo da quella ateniese del V secolo, come da riallaccio dello stesso Castellucci in molte interviste, dunque non concettualmente limitabile alla sola contingenza storica, viziata del resto oggi come allora – e scena culturale.

«Tecnicamente, la politica nasce quando gli dei muoiono. Quando il grande dio Pan muore, nasce la politica; quando la festa finisce, nasce la politica. La politica e tutti i diritti che ne conseguono hanno origine nel momento in cui si smette di danzare». Da lì, la nascita del teatro greco.

Nello spettacolo approdato invece all’Arena del Sole di Bologna l’11 maggio la danza scandisce moltissimi momenti e gli dei, anzi, preferendo una formula singolare e artaudianamente “con la minuscola”, il dio, c’è, In absentiam, ma c’è.

Così non c’è polis ma solitudine, non c’è America ma limbo.

Nella cornice che racchiude il vuoto rappresentato dal fallimento delle aspettative di rinnovamento e rinascita dei puritani sei e settecenteschi alla conquista della Terra Promessa, Castellucci è anche capace di una sottile, anche se a tratti, e in special modo nel finale, un po’ didascalica, forma di ironia, un ammiccamento amaro all’indirizzo del linguaggio, delle parole che giocano con se stesse ma non conoscono più loro stesse. Se rimandano a qualcosa, sempre che questo qualcosa fuori di sé ci sia, è una profezia di sangue, conflitto. Nel mezzo, due figure che non condividono più il linguaggio del dio né quello degli uomini, non costruiscono relazione fra loro e la comunità, fra loro e lo spazio. Corpi rifiutati, in effetti. Rimane un caos babelico e glossolalico che li trascina ancora più fuori dal consorzio sociale di sanzioni, statuti e guerre che lo spettatore intuisce già attorno, ma soprattutto dentro, i virtuali protagonisti dell’azione scenica. «Non sanno proprio cosa sia il silenzio» finiranno col constatare i due indiani del finale. Una confusione voluta, un intersecarsi voluto, fra voci, musiche e dati storici, i quali tuttavia se non perdono la forza dell’idea, a volte però rischiano di non arrivare a un livello di potenza tale da illuminare davvero la scena. Nell’intensità naturalistica di un’azione che sfocia suo malgrado in un focus ravvicinato, le immagini che prendono vita sulla scena, di pure intensa e variegata spiritualità, fra lo sciamanico, il tribale, lo stregonesco, rischiano di non accompagnare l’occhio dello spettatore al di là di una prospettiva di semplice commento. Mai accessorio, ma chissà in che grado necessario.

Al di fuori delle didascalie che compaiono proiettate sul velo che divide lo spazio del palcoscenico dalla platea, di politica ne rimane solo l’ombra. E giustamente: non si può parlare di polis, in effetti, quando la comunità è assente, respinge, resta pura parola, ma proprio quella che ha smesso di rivestire importanza. Come da volontà del regista, infatti, rimane la polemica, verso l’indirizzo della politica. Ed è una polemica di spirito e di linguaggio che, nella sua ripetizione ossessiva, nell’intrecciarsi volutamente non lineare (e non sono certo una linearità o una falsa idea di comprensibilità le componenti di cui si ha bisogno in teatro, anzi) delle differenti tematiche, raggiunge paradossalmente quello che, cercando di non fermarsi a una lettura frettolosa di questo spettacolo, sembra invece il vero proposito di Castellucci: creare, nel vuoto e nella solitudine assoluti, una glossolalia al contrario, che si avvicini all’essenza dello spirito solo per bestemmiarne quell’insindacabile e puritano non discutibile tratto di esistenza; «Io-sono. Abbiamo sbagliato il nome. Dovevamo pregare io-sono». Dietro quell’io-sono, non c’è nulla. E qui Castellucci vince la sfida con Tocqueville. Con lo spettatore, invece, non del tutto.

Articolo di Maria D’Ugo

foto: Gian Marco Bresadola

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