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KRONOTEATRO Educazione sentimentale

Questa Educazione sentimentale di Kronoteatro ieri sera al Festival delle Colline Torinesi è l’esempio più fulgido di ciò che si dovrebbe evitare sui palcoscenici.

Progetto e realizzazione viziati da mali diversi che conducono alla medesimo naufragio della scena. Partiamo dal primo

Tre uomini in tre villette a schiera separate. Località di mare. Tra loro solo banali interazioni, luoghi comuni, abitudini e cliché, sostenuti da diffidenza e sospetto reciproco. Tra loro si inserisce una giovane donna, a risvegliare possibilità diverse. Poi la rapacità ha il sopravvento e tutto finisce in tragedia. Il sospetto e la banalità hanno la meglio, la catastrofe si avvicina a ritmo di corsa.

L’idea, pare, è quindi di rappresentare una società maschilista, dove la donna dovrebbe donare speranza di rinascita, o per lo meno di sperimentare nuove possibilità, che verranno negate dall’imperante, capitalistica e machista società dei consumi e del sospetto, dove l’individuo è ingabbiato nella sua solipsistica soddisfazione dei bisogni personali. E per dimostrare questo non si risparmia nessuna freccia nell’arco della banalità. Il plot è di una sconcertante prevedibilità. Tutto è già nella testa dell’osservatore prima che qualsiasi fotone attivi la retina. È la più ovvia delle trame, costruita con le più ovvie delle battute. Tutto poteva ancora salvarsi se non ci si fosse presi troppo sul serio, se il grottesco o l’ironia avessero fatto l’ingresso in scena (per esempio Rodriguez o Tarantino al cinema sono campioni nell’ironizzare sulla banalità dei luoghi comuni del cinema di serie C), invece niente: in questo lavoro di Kronoteatro tutto è serio, tremendamente, anche quando si vuole alleggerire. Si vuole fare il discorso politico/sociale a tutti i costi con quattro idee e di quelle scontate. Un esempio virtuoso di tale processo di uso della banalità, illuminata da una graffiante ironia, è Carnage di Roman Polansky. Beckett o Jarry non li sto nemmeno a nominare.

Un vecchio, un uomo di età media, e un ragazzo. Tre villette a schiera stilizzate con un bel water in primo piano. Tra loro discorsi che possiamo sentire in ogni bar: spariamo ai negri che arrivano a rubarci il lavoro, quello con la barba è sicuramente un terrorista perché si lava troppo i denti etc. Ripeto: l’ironia o, al massimo, una seria critica sociale, addirittura l’assurdo avrebbero potuto salvare l’insieme. E invece si procede con il comizio.

La donna poi è ovviamente una donna delle pulizie, con tanto di scopa e straccio della polvere. Ingenuotta, fiduciosa, sciacquetta, frivola. Logicamente mica poteva essere un’astrofisica. Le piace ballare il latino americano, coltiva l’orto che non si sa più cosa mangiare tutto è veleno, vuole vivere sull’isola deserta ma con un ponte che gli amici poi mi vengono a trovare. E via di ovvietà.

I tre naturalmente la vogliono ognuno a modo suo. E visto che per lei sono solo amici, via con lo stupro. E poi, non contenti, se la mangiano. Colpo di genio finale, i tre water in scena, illuminati da dentro nel buio come a dire che tutto finisce in merda.

Già tutto questo basterebbe per stroncare uno spettacolo balordo. Ma non è tutto. Passiamo all’interpretazione. Nessuno degli attori in scena va al di là di un dilettantismo da strapazzo. Voci che suonano false come monete di latta, padronanza dello spazio tendente allo zero, un uso del corpo imbarazzante, nessuna scorrevolezza del gesto, tanto che emerge chiaramente l’idea di pupazzi mossi dall’alto. Niente è naturale. Tutto artificio. Si sente lontano un chilometro quella che Carmelo Bene chiamava: la puzza del creato. Siamo nel più triviale teatro di regia, quello scontato, quello da filodrammatica che però vuole fare le cose importanti.

Se poi si pensa che molti spettacoli di valore, creati da giovani compagnie che tentano nonostante le mille difficoltà la difficile strada della ricerca vera, combattendo strenuamente le difficoltà produttive e distributive del sistema cultura italiano, vengono costantemente osteggiati e negletti dalle grandi istituzioni, fa rabbia che il dilettantismo imbarazzante di questo spettacolo di Kronoteatro abbia tanta luce e visibilità. La catastrofe in arrivo è questa: dar luce alla faciloneria, abbassare il livello di qualità nelle programmazioni ospitando lavori di questo tenore non potrà che condurre al disastro. La qualità della ricerca, delle tecniche, del pensiero deve ritornare la priorità nelle scelte, perché se si continua a far compromessi al ribasso, si otterrà un deserto dove nulla potrà crescere. É prioritario tornare a riflettere non solo su materiali e tecniche, ma sulle funzioni dell’arte scenica. E nessuno mi canti il peana della leggerezza, perché anche quella, se ben fatta, necessità di qualità e precisione chirurgica. Va bene rivalutare Ed Wood, ma portarlo a paradigma di qualità mi sembra una innecessaria bestemmia.

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