Enrico Castellani

INTERVISTA A ENRICO CASTELLANI – BABILONIA TEATRI

Le volte che mi è stata concessa l’occasione di assistere ai lavori di Babilonia Teatri sono sempre rimasto colpito, incuriosito e persino turbato dalla loro modalità scenica. Una parola aggressiva che si impone e impone una scelta, la separazione tra testo e immagine, un misto perturbante di tradizione innovazione. E mi sono sorte molte domande. Ho voluto quindi questa intervista per chiarire alcuni punti affinché lo sguardo critico sia la prossima volta più profondo e più utile. Ringrazio Enrico Castellani per la disponibilità e schiettezza nelle risposte che permettono di gettare una luce sul processo creativo di una delle compagnie più interessanti nel panorama italiano.

Enrico Pastore: Mi sembra di capire che alla costruzione dello spettacolo preceda un momento di composizione testuale. Per lo meno è quanto ho intuito assistendo a Jesus e Pedigree. Da cosa nasce la scintilla che vi fa sentire l’esigenza di un lavoro nuovo? E come procedete alla raccolta dei materiali?

Enrico Castellani: Generalmente quando decidiamo di affrontare una nuova creazione è perché succede qualcosa nelle nostre vite che ha a che fare con il concetto che andiamo ad affrontare e indagare. Non è mai una scelta a tavolino, ma ha sempre a che fare con delle questioni che per noi sono brucianti e rispetto alle quali sentiamo la necessità di interrogarci. È lì che nasce il desiderio di condividere le nostre domande con il pubblico. Con Jesus è stato sicuramente così, mentre per Pedigree vi è stata una scintilla esterna che  comunque coinvolge questioni che sentiamo anche noi, che sono vive anche per noi. Il lavoro è sempre quello: partire da interrogativi propri, capire quanto questi riguardino la società in cui viviamo. Questo avviene non facendo un’indagine sociologica, ma capendo cosa, rispetto a quel tema, la società ti rimanda e in te si è sedimentato. A volte esiste un testo che viene scritto integralmente prima dello spettacolo, per Pedigree è stato così, ma generalmente per noi il momento di creazione e composizione non coincide con la scrittura di un testo preesistente. I materiali vengono raccolti progressivamente. C’è una raccolta di materiale che sono sì testi, ma anche immagini e suoni e a questo segue un dialogo con la scena. Esiste continuamente un rapporto tra una sorta di tavolino dove noi ragioniamo, e la verifica sulla scena di quello che abbiamo pensato.

EP: Quindi il momento in cui inizia il processo di composizione delle immagini coincide con il processo di composizione testuale?

EC: Sì. Nel momento in cui formuliamo delle idee con un possibile taglio da dare a un testo, ragioniamo anche a delle immagini che possano sostenerlo, o che possano essergli affiancate. È chiaro che non esiste una legge. A volte può essere il testo a divenire motore di creazione, ma può avvenire anche il contrario. C’è sempre una dialettica tra l’immagine e la parola, tra il pensiero e la scena. A volte è davvero difficile stabilire una legge o un’equazione che possiamo dire: per noi funziona. Di solito lasciamo abbastanza aperte le possibilità. L’utilizzo delle immagini e la selezione dei testi a volte procedono per contrasto, altre volte vanno in accordo A volte andiamo a creare immagini che vanno a sostenere quello che andiamo a dire, altre volte sono completamente scisse.

EP: Come mai spesso e volentieri sono completamente scisse dalle parole?

EC: La nostra idee è che nel momento in cui c’è la parola, il nostro compito è quello di farla arrivare allo spettatore. Noi scegliamo la frontalità per consegnarla e lasciare poi allo spettatore in qualche modo il compito di prendere una posizione. Riteniamo che nella fissità, nell’immobilità possa risiedere la forza più grande per la parola e così consegnarla allo spettatore. In altri spettacoli a volte costruiamo un immagine che va a sostenere le parole. Faccio un esempio in Made in Italy, lo spettacolo si apriva con un lungo giuramento di una sorta di contemporanei Adamo ed Eva, gli spergiuri per definizione. In qualche modo quindi costruivano un’immagine che creava già un corto circuito con le parole che andavamo a dire. In questo senso a volte noi costruiamo delle immagini all’interno delle quali mettere le parole. Non è sempre necessariamente così. Generalmente le immagini sono separate dal momento della parola nei nostri spettacoli. Quantomeno in quelli dove è nostra la drammaturgia e dove il lavoro sul testo è importante. Un discorso è forse diverso per i lavori tipo Pinocchio, Inferno, Purgatorio. Adesso stiamo lavorando a Paradiso dove la dinamica scenica non passa attraverso un testo vero e proprio, ma mediante una parte di improvvisazione e un lavoro sull’immagine più preponderante.

EP: Ti pongo ora una domanda che rivolgo a ogni artista che intervisto, convinto come sono che si debba tornare a riflettere su questa questione: qual è la funzione delle live arts, se pur ve n’è una, nel nostro contesto?

EC: Io credo che fare teatro oggi possa avere ancora un senso nel momento in cui si fa qualcosa che si occupi del mondo in cui viviamo, del nostro tempo, che riesca a porre delle questioni e quindi a creare qualcosa che nel momento in cui finisce è riuscito a instillare una domanda nello spettatore.

Al di là dell’aspetto formale, che comunque per noi è importante, quello che può avere un senso è fare un teatro che ancora ha quel ruolo che ha sempre avuto, quello di fotografare il mondo e provare a riflettere su di esso nel proprio tempo. Altrimenti il rischio è di fare un museo del teatro. Secondo noi il problema è che, spesso e volentieri, lo spettatore non ha consapevolezza di questo, per cui non sceglie. Se tutti avessero una consapevolezza di quali tipi di modalità esistono e si scegliesse cosa si vuole andare a vedere forse le cose potrebbero essere diverse.

EP: Certo è che la vostra modalità di dizione in qualche modo obbliga a scegliere. Si viene invistiti da una tale raffica di parole che si è quasi costretti a prendere posizione. È decisamente una modalità molto forte. Ora un ultima domanda: nella mia attività di critico mi trovo spesso a parlare con giovani artisti i quali sentono una solitudine tremenda nella ricerca, trovano poche occasioni di dialogo con coloro che appartengono alle generazioni che li hanno preceduti. Ritieni che ci sia bisogno di tornare al dialogo e al confronto tra le pratiche e che sia utile creare occasioni di confronto fra artisti soprattutto rispetto a chi inizia un mestiere sempre più difficile e negletto?

EC: Quello che credo io è che il dialogo possa essere interessante, forse anche fondamentale o fondante, però credo che, come sempre nella vita, si tratti di incontri. E quando questi incontri sono preparati a tavolino, costruiti dall’esterno rimangano sterili. Ci sono degli incontri che sembrano quasi impossibili ma possono essere forieri di chissà quale collaborazione, o quale illuminazione. Però nascono da un’affinità che è prima di tutto umana e poi teatrale. In un mondo in cui di sicuro siamo sempre più monadi è sicuramente vero che questo avvenga meno di un tempo, che il dialogo tra gli artisti e le compagnie non rispecchia quello che è avvenuto in anni passati, però dall’altra parte dobbiamo guardare alla realtà, al dato di fatto: siamo questo, ma non vuol dire che non possano esserci degli incontri anche importanti. Quello che tu dici è sicuramente vero ma credo che forse questo dialogo di cui parli stia tornando come un’orizzonte possibile.

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