Acqua di colonia

ACQUA DI COLONIA INTERVISTA A ELVIRA FROSINI E DANIELE TIMPANO

Enrico Pastore: Come è sorta in voi l’esigenza di occuparvi della sventurata avventura coloniale italiana?

Elvira Frosini: È iniziata un paio di anni fa perché è un argomento tanto sconosciuto. La parola giusta è rimosso. Ci occupiamo spesso di storia ma sempre in funzione del presente, di come la storia ha determinato quello che stiamo vivendo, e ci siamo resi conto di come questo argomento fosse sconosciuto. Anche noi stessi ne sapevamo poco. E abbiamo capito che era un argomento che in qualche modo era stato volutamente messo da parte e non portato alla luce di una coscienza nazionale. Ci siamo subito messi a studiarlo e dal primo momento lo abbiamo messo in relazione con il presente, con queste migrazioni, che non sono direttamente e meccanicamente un prodotto del colonialismo, ma sono comunque strettamente ad esso legate. Abbiamo quindi riscontrato che la posizione scomoda in cui ci troviamo tutti quanti nell’affrontare l’altro che arriva, è in che posizione mettersi e cosa pensare, soprattutto in Italia, e questo deriva dal fatto che non abbiamo quasi coscienza di cosa è avvenuto prima di noi. Della nostra storia e della loro storia. Fondamentale è stato anche l’incontro con Igiaba Scego e la lettura del suo Libro Roma negata che ci ha aperto gli occhi sull’argomento. Il libro contiene anche numerosi documenti fotografici di Rino Bianchi su Roma e su tutte le tracce nell’urbanistica romana che riguardano l’epoca coloniale sia di epoca fascista, quella più conosciuta, sia di quella dell’epoca precedente. Ci siamo resi conto quindi che noi tutti viviamo immersi in questi segni ma non li vediamo perché non li conosciamo. Siamo partiti quindi dall’assunto: nessuno conosce niente. Si studia pochissimo e male a scuola, non ci si interroga veramente sulle conseguenze, insomma è un argomento, ripeto, rimosso. Così abbiamo incominciato a leggere, a studiare per un paio d’anni. Studio non solo storico, ma comprensivo del panorama culturale.

EP: Acqua di colonia infatti è uno spettacolo che utilizza una enorme quantità di materiali provenienti da ambiti culturali diversi: dall’avanspettacolo, al fumetto, alla ricerca storica, una commistione di cultura alta e bassa. Come avete proceduto alla selezione e al montaggio di questo materiale?

EF: Questa è una bella domanda. Noi abbiamo accumulato, come hai già detto, una quantità enorme di materiale di tutti i tipi, dalla barzelletta al libro di storia, dalla pubblicità al romanzo, al fumetto, alla canzone. Poi ci siamo resi conto che il materiale era sterminato e che era necessaria una decantazione e, in seguito, una selezione dei materiali. Tu hai visto abbiamo usato canzoni come Sanzionami questo, Adua liberata, Topolino in Abissinia, ma ce n’erano molte altre. Abbiamo selezionato quelle che più rispondevano al nostro discorso, che rendevano la direzione verso cui stavamo andando. Dobbiamo dire che lo spettacolo ha due intenzioni principali: la prima è fare una sorta di riassunto storico, che abbiamo voluto tenere, perché abbiamo constatato che nessuno ne sa niente, una parte quindi leggermente didattica benché fatta in una certa maniera; dall’altra c’era l’intenzione di sfatare la vulgata comune che il colonialismo è stato solo fascista, e invece ha attraversato tutta la nostra storia dall’unità d’Italia. Il colonialismo italiano non è stato solo Mussolini e l’Etiopia ma qualcosa che ci è appartenuto da subito. Volevamo quindi rendere chiaro da subito questo punto. Tripoli, bel sol d’amore del 1911 è importante, l’abbiamo messa per questo motivo. Marchiamo una differenza di percezione oggi tra questa canzone e Faccetta nera, quest’ultima innominabile perché fascista, Tripoli no. Tripoli la possono cantare e suonare tutti, anche la banda dei Bersaglieri, come canzone patriottica quando invece è una canzone colonialista d’aggressione. Il rimosso dentro il rimosso. I materiali quindi sono venuti a galla piano piano, abbiamo ridotto, tagliato, condensato. Abbiamo tenuto quei materiali che si avvicinavano al discorso che volevamo fare, da Topolino in Abissinia al discorso di Montanelli fino a Pasolini, avvicinandoci gradualmente all’oggi. Perché nel nostro spettacolo c’è sì il colonialismo passato ma anche la domanda: oggi cosa siamo? Perché quel pensiero eurocentrico, occidentale centrico di superiorità, di paternalismo è insito in noi ancora oggi in maniera più o meno inconsapevole.

EP: In che modo è avvenuta la costruzione scenica di Acqua di colonia?

EF: le immagini nascevano durante la scrittura. Come hai visto la prima parte è più un evocare, un’evocazione, se vuoi, anche postdrammatica, – faremo questo, non sappiamo niente e così via -, e non a caso questa prima parte è chiamata zibaldino africano, in cui appunto evochiamo cose che c’entrano e magari anche cose che apparentemente non c’entrano come la torta africana dall’artista svedese di origine africana Makode Aj Linde. In questa prima parte è come se noi facessimo un disegno, uno schizzo a matita, e poi nella seconda parte lo coloriamo, lo rendiamo vivo, lo incarniamo. Mettiamo in scena alcune delle cose che abbiamo evocato nella prima. La messa in scena della seconda è avvenuta durante la scrittura, poi è chiaro che nelle prove si ritocca, si taglia, si cambia. Anche il testo stesso perché quando lo incarni nascono altre esigenze non pensate durante la scrittura. Ci sono anche molte scene che abbiamo tagliato, tipo quella della stele di Axum che parlava diventando personaggio. Avremmo potuto fare anche Audrey Hepburn e Bob Marley che evochiamo solo nella prima parte. La seconda parte quindi è un’incarnazione, una realizzazione nel vero senso della parola, della prima parte. La facciamo accadere e scivoliamo dentro questi piccoli personaggi. Queste evocazioni diventano noi e noi diventiamo loro. In questo senso abbiamo voluto fare intendere che tutti, noi compresi, noi per primi, siamo dentro il problema. Acqua di colonia non è uno spettacolo che ha una tesi da dimostrare. Spero che emerga che c’è tutta una complessità che non è facilmente districabile, che anche nel politically correct c’è una buona dose di paternalismo. Non è quindi tutto bianco e nero, semplice semplice. Noi stessi per primi siamo in questa complessità.

EP: In Acqua di colonia ho apprezzato tantissimo la vostra abilità di mettere il pubblico di fronte ai propri pregiudizi, per esempio quando li invitate a cantare Faccetta nera, che tutti conoscono almeno per le prime due rime, ma che nessuno osa cantare; o quando mettete a raffronto il numero Angeli negri di Tognazzi/Angus con la replica Pasolini/Davoli. É senz’altro una modalità scomoda e difficile, ma anche utilissima perché toglie i veli alle nostre bugie consolatorie. Come siete giunti a mettere in atto questa modalità?

EF: In realtà questa modalità fa proprio parte del nostro percorso e del nostro linguaggio. Anche negli spettacoli precedenti utilizziamo questo metodo che fa parte del nostro modo di scrivere e pensare il teatro. Un modo in cui sia l’attore che lo scrittore non sono depositari di una verità da rivelare allo spettatore, semmai sono in una posizione pari allo spettatore incarnando tutta una serie di contraddizioni. Anche negli spettacoli precedenti come Aldo Morto e Zombitudine ci sono sempre queste piccole deflagrazioni di posizioni sia metodologiche che attoriche. Ci mettiamo in posizioni talmente diverse che non è chiaro se siamo noi che parliamo o il personaggio, e questo obbliga lo spettatore a porsi la domanda: ma io cosa penso? Pasolini per esempio che appare in Acqua di colonia. Pasolini è un grande intellettuale del nostro tempo, un intellettuale che è stato sottoposto a un processo di santificazione, quasi di mercificazione, ecco anche in lui, anche nel nostro pensiero migliore è presente la contraddizione. Le radici di queste posizioni paternalistiche sono presenti anche nei migliori intellettuali, quindi stiamoci attenti, guardiamole bene, le usiamo anche noi quando parliamo o quando pensiamo. Se non ci rendiamo conto di questo è una cosa, ma se cominciamo a vederla allora magari si apre uno spiraglio verso qualcosa di diverso.

EP: Qual è secondo voi la funzione dell’evento scenico nel nostro contesto culturale e sociale? Dove e in che modo acquista importanza incontrare il pubblico?

EF: Questa è una domanda da un milione di dollari. Una domanda difficilissima. Noi ce la poniamo tutti i giorni e non è che abbiamo una risposta. Abbiamo la nostra risposta. Secondo noi la funzione non è tanto quella di sovvertire o cambiare il reale, anche perché oggi il teatro è talmente una nicchia che non riguarda masse di spettatori tali da poter operare un cambiamento nella società. Parliamo di piccole folle. Però questo incontro dal vivo con le persone è, secondo noi, una delle poche cose rimaste che accade realmente. Per noi il teatro è mettersi nella stessa condizione dello spettatore, che per noi è sempre presente. Non lavoriamo senza l’idea di uno spettatore che ti sta ascoltando. Il teatro è fare accadere delle cose che ci riguardano. Se c’è ancora una funzione è proprio questa: far accadere delle cose, ma cose che ci riguardano. Qualcosa che ci parla, che dialoga, che ci fa venire in mente un desiderio o un dubbio. Sono d’accordo con te: la domanda sulla funzione bisogna tornare a porsela, soprattutto in questo momento di depauperamento della cultura. Oggi sentendo la notizia di Armando Punzo che abbandona il Festival di Volterra ho pensato: verso cosa stiamo andando? Fra qualche anno che panorama avremo intorno a noi?

Daniele Timpano: volevo aggiungere una cosa. In questa Italia dove la fruizione culturale e dell’informazione appare sempre più o calata dall’alto, o delegata all’individuo che in maniera sempre più frammentaria, individuale, secondo la propria curiosità, ricostruisce delle informazioni, ecco in mezzo a queste due polarità, mi pare che il teatro sia uno dei pochissimi posti dove rimane in vita quello che un tempo si chiamava diritto di associazione. Parlo proprio delle prime costituzioni e carte dei diritti di fine Settecento. Ecco il teatro secondo me è depositario di queste modalità.

Lascia un commento