Archivio mensile:Luglio 2017

Maja Kleczewska

THE RAGE di Maja Kleczewska – Leone d’argento 2017

Recensire The Rage di Maja Kleczewska, Leone d’argento alla Biennale Teatro, è una vera e propria impresa. È estremamente arduo rendere a parole un teatro di estrema complessità che tende all’abnorme. È come un’esplosione che genera onde che si espandono sempre più lontano ridondando la propria potenza di propagazione. Un teatro eccessivo come i testi di Elfride Jelinek e una tale dismisura è difficile da raccontare.

Assistere a The Rage è stato difficoltoso e non solo per la durata (165 min.). Uno spettacolo molto parlato con i sottotitoli disposti ai lati della scena rendendo difficile seguirli senza abbandonare la visione. Da ultimo una scena occupata per intero da svariate immagini simultanee sia sugli schermi che agite dagli attori dal vivo. Uno spettacolo quello di Maja Kleczewska che obbliga lo spettatore a crearsi un proprio montaggio delle attrazioni, ed è pertanto diverso per ognuno. Questa modalità mi affascina tremendamente perché fomenta una percezione attiva, partecipata, creativa. Lo spettatore opera scelte, si fa suggestionare dalla marea montante sulla scena, coglie frammenti di un universo in formazione, monta e smonta la sua propria visione.

Ma The Rage non è solo questo. È una cattedrale della composizione scenica, una vera e propria sinfonia degli elementi che compongono il linguaggio teatrale. Video, corpo scenico, suono (spesso spazializzato), uso degli oggetti, scenografie, illuminotecnica. Tutto concorre a creare un mondo. Quella di Maja Kleczewska è una regia totale e di grande maestria. La Polonia è stata nel Novecento una fucina di grandi registi. Non solo Kantor e Grotowski, ma anche Warlikowski, e Lupa, per citare i più noti. Maja Kleczewska è erede legittima di questo grande teatro. Si è molto accennato all’influsso di Kantor che traspare solo da un punto di vista visivo, nell’impiego del cardinale e del grande crocefisso che richiamano un immaginario, ma per quanto riguarda recitazione e l’uso degli oggetti di scena siamo molto lontani dal mondo teatrale kantoriano. Forse, per quanto riguarda la recitazione, siamo molto più vicini a Grotowski.

The Rage è una bestemmia, contro Dio e l’uso di Dio da parte degli uomini, che ne fanno strumento di violenza. È strumento di denuncia, un grido a sua volta rabbioso, che ben si intreccia con il testo della Jelinek che torna e ritorna, ribadisce, scandaglia furiosamente, eccede in verbosità come se non trovasse risposta a tutte le domande che pone. La rabbia è evocata in ogni dove, nella politica, nell’estremismo religioso, nelle vittime, in chi subisce e in chi offende, nelle chiese, nei lavoratori, nell’estrema destra come tra i moderati. La rabbia è semplicemente di tutti, è elemento costituente di una società che non trova altre aspirazioni, che non costruisce sogni se non di morte e distruzione anche auto inflitte.

The Rage nasce dalla violenza dell’attentato a Charlie Hebdo e dagli eventi del Bataclan. Indaga la rabbia che genera questi eventi e che segue gli accadimenti.

Si parte in una sorta di studio televisivo, dove nascono dibattiti e telegiornali che trattano della rabbia: immagini di clandestini che cercano di superare le barriere, di poliziotti che manganellano folle di manifestanti, diagrammi di flussi migratori. Ma presto questa modalità sfugge di mano, la scena deborda in platea, sugli schermi, in ogni angolo del teatro. Le scene sono simultanee come detto, ed è difficile da tenere a mente ogni cosa che avviene. Non è nemmeno necessario in una recensione. Basterebbe riuscire a evocare la bulimia di icone di violenza a volte esplodenti, come colpi di Kalashnikov che vengono effettivamente sparati, a volte più soffici e sottili, altre più simboliche e mediate. Una ragazza si strafoga di hamburger con grande gusto e piacere fino a svenire mentre una telecamera rimanda la sua bocca piena di cibo mal masticato su un grande schermo; una donna vestita bizzarramente come la Effie di Hunger Games, vaga sulla piattaforma girevole con due affilatissimi coltelli; un crocefisso viene annegato in una piscina, un cardinale si aggira sul fondo della scena, e così via. Le immagini proliferano come una cultura di muffe e di spore.

La seconda metà dello spettacolo prende poi una strada diversa. Le scene si fanno più focalizzate in un centro, partecipate da tutti gli attori, si individua un obbiettivo verso cui ci si indirizza. Sono tutte molto forti: una donna in elegante abito rosso che si arrampica su un quarto di bue appeso al soffitto; l’intero gruppo di attori a cui si unisce un nano con la gorgiera e palloncini dorati che ridono, ridono a crepapelle, e le risate sono amplificate e rigettate dalle casse come eco inestinguibile, sono le risate di tutti i morti e che non finiranno mai; l’elenco delle vittime del Bataclan, e così via. I finali si susseguono perché non c’è mai una fine.

È difficile raccontare uno spettacolo così debordante che tracima dal palcoscenico come un’inondazione. La rabbia è ovunque e dappertutto. Forse le parole più giuste le ha pronunciate proprio Maja Kleczewska. «The Rage è un requiem per l’Europa, per questo continente tragico, indifferente, indifeso e vuoto. Questo vuoto è riempito dalla rabbia».

Ph @Natalia Kabanow

Nathalie Beasse

ROSES di Nathalie Beasse

Chi è Riccardo? Al calar delle luci di sala, Roses di Nathalie Bèasse conduce subito là dove vuole, in quel luogo fisico che è la scena dove la sospensione del tempo e dello spazio si attuano attraverso una delicatezza di immagine che cela il duro lavoro dell’attore nel controllo del proprio corpo. Una ouverture che già mette in campo uno degli aspetti che ritengo più rilevanti del teatro della Bèasse: la leggerezza. E’ una leggerezza che non toglie nulla alla gravità, la sfida solo nella percezione dello spettatore: è una leggerezza riconquistata, come un mare in tempesta che si placa dopo aver travolto ogni cosa quando inizia a restituire, uno alla volta, i frutti della distruzione.

Una manciata di minuti in cui si fa vuoto, ed è un vuoto che già parla, e le luci di sala si riaccendono. Un grande tavolo, un enorme drappo di velluto grigio, calici di vino rosso, sedie, bauli di costumi e di attrezzeria scenica e luci da set fotografico sono gli elementi a vista. Si gioca a carte scoperte, come dire. Tutto ciò che serve a comporre e a scomporre la scena è a portata di mano. Mettere a nudo il teatro è togliere ossigeno alla rappresentazione, chiuderla con tutti i suoi alibi fuori dalla porta.

Gli attori, mescolati tra il pubblico, raggiungono il palco e si scambiano un brindisi di benvenuto. Un incontro familiare che segna il vero punto di inizio, che ci riporta in quella dimensione della quotidianità che è campo di indagine privilegiato di Nathalie Bèasse. Qui non si rappresenta il Riccardo III di Shakespeare, qui si indaga la natura umana, qui ci facciamo delle domande su noi stessi.

Roses di Nathalie Bèasse, il cui titolo si rifà evidentemente alla sanguinosa lotta dinastica della Guerra delle Due Rose tra la casa degli York e quella dei Lancaster per la corona d’Inghilterra, substrato storico nel quale Shakespeare pianta radici per dare alla luce il suo Riccardo III (riprendendo del personaggio storico poco più del nome), è un tiro alla fune tra leggerezza e forza di gravità, tra il gioco del teatro e quello della vita, in un continuo scambio di ruoli tra i bravissimi attori, indomiti nel loro frenetico cambiar pelle attraverso continui cambi costume a vista.

Non c’è un Riccardo III, ce ne sono quattro che in momenti diversi dello spettacolo rispondono alla domanda: “Chi è Riccardo?” E ogni volta questa domanda ci riporta alla realtà, spezzando con ironia l’inganno della scena (che ci vede spettatori senza alcun ruolo attivo) e riportandoci al tavolo della discussione: la ricerca sul personaggio, attraverso l’analisi del testo e il lavoro dell’attore, si è tramutata in ricerca del personaggio, con uno slittamento di senso carico di ironia. Ed è la natura critica e autoironica di questo fare teatro che continua a svelarsi, ad autodenunciare se stesso, che conquista forse di più nel lavoro di Nathalie Bèasse. La capacità di passare con leggerezza, senza forzature, da un’azione scenica di rara poesia al dibattito, trascinando l’attenzione dello spettatore, attaverso il frammentato racconto del trionfo e della caduta di Riccardo III, fino alla follia dell’interrogatorio nel totale sdoppiamento fisico tra Riccardo e la propria coscienza.

In continua mutazione, la scena prende forme curate in ogni dettaglio, dall’aspetto scenografico a quello coreografico, alla musica e alle luci, il cui impianto delicato resistuisce un’atmosfera da sala prove quasi sempre presente, a ricordarci dove siamo.

Secondo appuntamento dei quattro dedicati dalla Biennale Teatro alla regista francese, Roses di Nathalie Bèasse al Teatro alle Tese dell’Arsenale di Venezia è un gioiello di 80 minuti in cui nulla è fuori posto.

Nicola Candreva

Ph: © Wilfried Thierry

Nathalie Bèasse

LE BRUIT DES ARBRES QUI TOMBENT di Nathalie Bèasse

Quello di Nathalie Bèasse è un universo teatrale a bolle. Il suo non è un racconto univoco, lineare ma uno spargere frammenti di uno specchio, pezzi di puzzle di cui, come nel libro di George Perec La vita istruzioni per l’uso, manca sempre un elemento per completarlo. L’immagine completa ci sfuggirà sempre.

Come afferma la stessa Nathalie Bèasse: «esploriamo senza rendere le cose leggibili». E così si ha in un primo tempo l’idea di confusione, di trovarsi di fronte a un oggetto sconclusionato, fumoso, che via via chiarisce la sua natura: come gli agenti in incognito ne Un oscuro scrutare di Philip Dick, lo spettacolo indossa una tuta disindividuante, lasciando trasparire di sé mille immagini sovraimpresse nascondendo la sua vera natura. Proteo redivivo.

La Biennale Teatro dedica a Nathalie Bèasse una piccola personale di quattro lavori, Le bruit des arbres qui tombent, Roses, Tout semblait immobile, Happy Child.

Il titolo del primo spettacolo in scena ieri sera al Teatro Piccolo Arsenale è Le Bruit des arbres qui tombent, ed è preso da una raccolta di poesie e canti di Indiani d’America, e letteralmente significa: il rumore degli alberi che cadono. Un titolo che sussurra parole di morte, un franare inevitabile tra rumori di schiocchi di rami infranti e frusciar di foglie. E questo sussurrar parole in un mondo perennemente sul filo del rasoio tra la vita e la morte incombente si ha da subito con la prima immagine: un enorme telo nero mosso dai quattro attori agli angoli del palco, che aleggia ora rabbioso ora soave, oscurando le luci, nero sipario, creatura viva e terrifica come il fumo nero di Lost mentre si diffonde l’Adagietto della Quinta Sinfonia di Mahler già tema de La morte a Venezia di Luchino Visconti.

Da questo incipit pieno di dolce tristezza e incombente ineluttabilità si dipana un universo di immagini che i quattro attori in scena (Estelle Delcambre, Karim Fatihi, Erik Gerken, Clèment Goupille) raccontano usando immagini ora lievi, ora divertenti, o struggenti e melanconiche, attraverso lingue diverse (Arabo, Inglese, Danese, Francese e qualcuna che forse non ho riconosciuto) piccoli frammenti narrativi.

Si racconta di una famiglia povera costretta a vivere insieme e che sogna di poter vivere finalmente separati; si enumera la genealogia di Gesù mentre un attore si spoglia e viene inondato d’acqua, – la genealogia si disperde, così come l’acqua -; si racconta di una lince che vivendo impara e quel che impara scompare con lei. Ma i racconti non sono fatti di sole parole, le immagini da sole si snocciolano e snodano sul palco costruendo un labirinto figurativo dove ritorna l’immagine famigliare, la morte e la solitudine. Bellissima quella dei vestiti gettati furiosamente in alto che si gonfiano quel tanto da far intravedere una figura umana che svanisce in un attimo, o come quella dell’uomo albero che vaga sul palco alla ricerca di radici. Molte sono le immagini e non serve qui descriverle ed elencarle tutte. Basta un accenno per comprendere il mondo narrativo-compositivo di Nathalie Bèasse, un universo delicato e deciso, che parla degli argomenti ultimi, di vita e di morte, di solitudine e melanconia, di struggimento che sorge dalla ricerca affannata di noi tutti di un oggetto d’amore che ci scaldi il cuore nel breve istante che ci separa dalla morte.

Il merito di Nathalie Bèasse è di usare un tono lieve e leggero, mai asseverativo, totalmente fuori dal mondo della rappresentazione e che evoca il mondo di François Tanguy e del Theatre du Radeau.

A tal proposito vorrei terminare questo piccolo racconto con un omaggio a un attore, Erik Gerken, che in un lontano passato insegnò moltissimo a me e ai miei compagni di viaggio nel periodo di residenza a La Fonderie di Les Mans. Ricordo questo straordinario attore che con estrema umiltà ci consigliava strade e percorsi possibili, insegnandoci esercizi di training, mostrandoci possibili interazioni con gli oggetti di scena. Lo ricordo in scena durante Orpheon, proprio durante la Biennale teatro del 1999 quando ci conoscemmo e per un breve tratto di strada ebbi l’onore della sua amicizia. Il suo pezzo di Amleto con Frǿde Bjornstad mi fece innamorare del teatro, amore che dura tutt’oggi.

Ph: ©J.Blin

Armando Punzo

PROGETTO HYBRYS: LE PAROLE LIEVI di Armando Punzo

Una nota singolare, specie all’ingresso in un carcere: quella che accoglie il pubblico all’interno della Fortezza Medicea di Volterra, per i cinque giorni di presentazione de Le parole lievi, preludio di un lavoro più lungo che approderà a compiutezza da parte di Armando Punzo e degli attori tutti della Compagnia della Fortezza soltanto il prossimo anno, è un’architettura di potente, ma leggera, delicatezza. Due colonne di uomini, gli attori detenuti della Fortezza, in due schiere ordinate l’una di fronte all’altra; in mano lunghe canne di bambù leggermente inclinate in avanti, da muovere ritmicamente; al termine di questo varco sottilmente proteso in avanti, muovendosi attraverso un’ipotetica e geometrica triangolarità di due file di drappi rossi e volti pesantemente truccati a colori brillanti, il pubblico segue la figura di un bambino che si muove con una sfera bianca in mano. Lento, nello spiazzo di fronte al cortile, conduce a un cumulo di libri ammonticchiati in colonne, fra i quali donne in tacchi anni venti e metodica cura fluttuano con costanza leggera, muovendo, spostando, aprendo pagine. Un uomo dal corpo dipinto con simboli d’oro sembra dirigere il vento stesso con un bastone puntato verso l’alto, mentre una musica nasce dal pianoforte accostato sotto un albero, a lato. Una donna dai capelli biondi riversi sulle pagine di un libro illustrato, unico elemento immobile. C’è tutto il tempo per osservare, per lasciarsi guidare. Prima ancora che dalle “parole lievi” – quelle di Borges, sulle quali quest’ultimo lavoro di Armando Punzo trova il suo puntello – dalla loro diretta traduzione in pure, e potentemente lievi, immagini.

Il pubblico affezionato agli spettacoli della Compagnia della Fortezza è già più che abituato al pensiero che quello del carcere sia un palcoscenico già di per sé espressivo e potente, specialmente nella comprensione di Volterra nella sua interezza di borgo medievale dalla identità profonda, la memoria della città-fortezza, città- “panettone” che si sviluppa verso l’alto lievitando sopra alle colline, che crea già nella sua geografia un grado di separazione e alterità particolari di cui la Fortezza Medicea non è stata – storicamente – altro che un segno particolare.

Evidentemente però quella di continuare a ricollocare degli spazi attraverso una parola che fa e che costruisce (non serve scomodare troppa filosofia o diritto giuridico per ricordarci l’intrinseco valore performativo delle parole) resta una necessità che comunque non smette di rinnovarsi, anno dopo anno: per il bisogno di non sentirsi soli, come da preghiera dello stesso Punzo; per denunciare che altro è il fiume che si sta cercando, come da parafrasi borghesiana.

Quello dell’argentino è notoriamente un delicato intarsio di simboli, di varchi che si squarciano continuamente nel tessuto di razionali ossessioni e geometriche corrispondenze, di proliferazione infinita della ripetizione, memoria che nasce sempre eternamente nuova. Quello che si apre oltre le sbarre del cortile del carcere, dove la schiera conduce il pubblico, è una bolla che restituisce in atto la totalità di quel “sacro disordine”. Lo sentiamo parlare, lo vediamo accadere.

Tre vasche rettangolari, molto basse e inizialmente coperte con teli cerati che solo dopo un tempo le riveleranno piene d’acqua, sono disposte nel perimetro visibile; la musica arriva da dietro le sbarre, la sensazione che il limite oltre il quale il pubblico non possa spingersi – delimitato a terra da una linea nera – non sia un mero fatto logistico è dovuta forse più alla suggestione, soprattutto inizialmente. Ma tant’è, ragionare su un “reale della rappresentazione”, poste le basi concettuali dell’intero progetto, del resto esemplificato attraverso una documentazione informativa di una esaustività impeccabile, qui diventerebbe piuttosto un reale tradimento allo suo spirito e nucleo profondo.

Eccezion fatta per le vasche, e per il tavolo sul fondo sul quale sono posati i libri da cui attingere le parole, di fisso resta la ricorsività del simbolo e della figura, cangiante senza strepiti e obbediente alla voce di Armando Punzo, che denuncia in scena la funzione registica. Bisognerà aspettare un po’, una corsa della schiera intorno alle vasche a formare il simbolo dell’infinito, un abbandonarsi dell’uomo sopra alla tera cerata, ai piedi di una figura (il dio? Il Mago che crea l’uomo modellandolo in sogno fra le rovine circolari?) che in inglese allude alla Genesi, mentre il bambino scuote la tela come acqua creando movimento ondulatorio, la corsa interrotta della schiera di due in due all’indirizzo del pubblico, l’apparizione del “grande architetto” (con tanto di barchetta di carta in testa e pantaloni a macchie di colore) che porta previa lunga meditazione i primi simboli tridimensionali in scena, il triangolo, la sfera, il cubo, e l’apparizione di molte altre immagini, parole, sospiri, fruscii, prima che si possa affermare: ok, possiamo cominciare.

E allora ricompaiono i carcerati con in mano sfere bianche con le quali farsi guidare lungo il perimetro, appare un uomo con la valigia e il vestito grigio, l’uomo tutto bianco, una donna completamente velata di rosso, il bambino, il drappello in perenne corsa e movimento, la donna con l’impermeabile, l’uomo con l’ombrello verde, l’uomo col gilet che porta con sé un nido e finirà immobile in uno dei rettangoli d’acqua, quello che balla con le scarpe imbottite di carta (“bisogna immaginare il battito del cuore”, urla, e il ritmo è quello di danza gioiosa); e i focus proliferano come proliferano i passaggi e i valichi fra l’asfalto e l’acqua, come le sfere che nella benedizione di un pomeriggio ventoso riescono a rotolare libere e spesso a raggiungere anche il pubblico, ancora separato tuttavia da uno spazio che si sveste, ricompone e levita pian piano sempre in forme altre, nella frammentarietà dei racconti borghesiani particolari e nella suggestività più generale dello spettacolo.

Venite più vicino, viene allora detto al pubblico. E ci si avvicina a nuove figure, il “lampionaio” dal viso coperto di giallo, Asterione coperto invece da pittura rossa, nel racconto così ravvicinato e presente della sua casa infinita, si possono toccare gli oggetti e, cosa che è una costante fin dal primo ingresso nel carcere, incontrare gli sguardi. Certo è che se in un carcere lo sguardo è così libero di vagare all’interno degli elementi di una stessa rappresentazione, lo sguardo si apre all’incontro. Ed è questo l’elemento più potente che si rincorre durante tutte le quasi due ore di spettacolo. Su questo incontro, fra Punzo e l’uomo che con voce inferma e occhi bassi aveva precedentemente raccontato la sua storia, sull’Aleph da cui guardare tutti i punti che esistono e quelli che non esistono ancora, punto di inizio, fine e movimento, su questa nota luminosa e umanamente densa, si chiude lo spettacolo.

C’è sempre una qualche forma di verità e volontà di resistenza nel desiderio di portare l’invisibile al livello del visibile, da non limitarsi necessariamente alla speculazione artistica, sia essa letteraria o teatrale, ma anche a livello scientifico o bio-etico: ciò che è libertà, ricordano Stefano Canestrari e Gianluca Fiorentini nella discussione immediatamente successiva allo spettacolo del 27 luglio, è cosa lecita, ma non costituisce diritto. La Compagnia della Fortezza, arrivata all’anticamera del suo trentennale, sulla sovversione di quel mancato diritto è riuscita a costruire qui un frammento – ma farlo attraverso la scrittura di Borges equivale a farlo con frammenti di natura “alephiana”, diventa immediatamente uno scorcio che racchiude una biblioteca infinita – non meramente verbale, ma attivamente agente e, di nuovo, dalla straordinaria e (paradossalmente) muta potenza, attraverso un ritmo drammaturgico che lascia spazio all’aria, allo spazio e all’uomo, che coglie qualcosa di profondo e vivo, pulsante dentro a questa foresta di simboli che più che monoliti sono marcatori di direzione, frecce verso qualcosa che è ancora al di là da venire ma è presente. Quel tema di cui non si può fare esperienza ma che si sente, come viene detto nello spettacolo. E parteciparvi, in questo anno così complesso per le sorti del connubio di Armando Punzo con Volterrateatro, ha di sicuro ancora un suo valore intrinseco.

Si è discusso a lungo sul titolo, Le parole lievi, paradigma di una levità che è tutta azione, forza non più del corpo dell’attore, del carcerato, dell’uomo, ma dello spazio che questo corpo abita e di quanto potenziale ancora ne possa scaturire. Una nuova hybris, forse? L’idea, del resto, è precisamente questa. Ma quanto ancora da poter lasciar nascere, quanto da dire. Dunque meglio piuttosto per il momento sospendere un ragionamento che nel caso di Volterra aspetta ancora un altro anno per concludersi e chiamare in causa altre parole, che pure con Borges avevano qualche affinità, se nel 1983 Italo Calvino poteva scrivere: “Nel momento in cui la mia attenzione si sposta dall’ordine regolare delle righe scritte e segue la mobile complessità che nessuna frase può contenere o esaurire, mi sento vicino a capire che dall’altro lato delle parole c’è qualcosa che cerca d’uscire dal silenzio, di significare attraverso il linguaggio, come battendo colpi su un muro di prigione”.

di Maria D’Ugo

ph. di Stefano Vaja

Ene Liis Semper

ENE LIIS SEMPER – NO42 EL DORADO: THE CLOWNS’ RAID OF DESTRUCTION

Ene Liis Semper resuscita sul palco della Biennale un mondo antico, terribile, inquieto e demonico che come un virus dormiente è rimasto seppellito nelle pieghe profonde del teatro, dimenticato nei magazzini sotto teli di fondali muffiti e vecchi costumi di scena.

Orderico Vitale riporta nelle sue cronache del secolo XII il racconto di un monaco testimone, in una lontana e fredda notte normanna, del passaggio della Masnada di Arlecchino: teoria di demoni e d’anime sofferenti condotte verso nessun luogo da Harle King, con il suo volto dipinto, la sua mazza, i suoi goffi e deformi aiutanti. Dietro la maschera del clown c’è un mondo infero, tellurico, assolutamente pagano, che ancor oggi inquieta. It è solo l’ultima manifestazione del potere terrifico di queste maschere. Dietro al suo volto sformato, alle sue gag ridicole e crudeli, dietro al riso che ci strappa controvoglia, c’è la terribile e assurda violenza della vita e la misera e patetica parte che noi recitiamo in questa commedia.

Il clown è disteso su un tavolaccio. A terra un candelabro. Siamo subito nel funereo. Non c’è dubbio: quello disteso è un cadavere ch’eppur si muove. La morte c’è e non c’è, è evocata ma non troppo, quel tanto che basta per sentire il suo gelido fiato sul collo. Poi il clown si alza e un mondo di voci come di sirene anima lo spazio. Come Prospero il clown zittisce e comanda le voci, e con loro evoca nel cerchio magico della scena la sua deforme e tremenda masnada.

Ecco che appaiono i clown, spingono carrelli della spesa colmi di oggetti sporchi, vili, insulsi relitti di una misera vita, e spingono con tremenda fatica, con le facce deformi, le bocche stirate in un riso che non risuona, le membra rigide, i sessi ambigui, non morti e non vivi. La loro lunga e oscena processione si reitera in un eterno ritorno, in un circolo vizioso che per quante assurde variazioni possa permutare risulta senza scopo alcuno. Gli oggetti vengono mostrati, impiegati, smontati e rimontati in nuove combinazioni, mentre la scena scorre, ruota su se stessa su questo palco mobile.

E da questo giro della morte, da questa teoria di maschere che ricorda riti magico misterici dei monasteri tibetani, si sviluppano episodi che conducono quasi sempre a una menomazione del protagonista, un’amputazione, una violenza fisica mentre il clown capofamiglia osserva e urla: non basta! Un appetito di vita e di morte che non si esaurisce mai, che cerca nuovo eccesso. Si evirano a vicenda i clown, si percuotono, si lacerano i corpi di dannati e nell’esplicare così tanta e sacra violenza ci strappano risate, le strappano da noi con le lame delle loro azioni sconclusionate e precisissime.

E la ruota gira, continua a girare inesorabilmente lenta, portando con sé nuovi episodi, nuove violenze. La clown/bambola gonfiabile continua a partorire cuscini dal suo ventre, e lei ride, ride come un carillon incantato; il clown/boia defeca oggetti che attirano l’attenzione della masnada che in un impeto di gioia incontenibile finisce per lacerargli il ventre; il monaco nel preparare la cena si amputa tutte le dita/carote facendo banchetto di sé; il clown in calza maglia dopo aver acquistato i testicoli viene evirato per sbaglio e rimontato con lo scotch; un diluvio costringe la banda e rimontare la carovana prima di una folle ultima cena davanti a una croce montata alla carlona e infilata in un secchio.

Episodi osceni ed equivoci si susseguono, tanto da dimenticarci che questo era il funerale del clown. Si torna al punto di partenza, il clown torna sul tavolo autoptico, il clown boia con una sega elettrica alimentata da una spia nel culo gli lacera il ventre, apre la ferita, denuda gli intestini mentre il moribondo urla l’inutilità di ogni agire, l’insensatezza di una vita cieca e senza scopo dove nulla rimane se non la ferita e il dolore che l’accompagna. La compagnia intanto ha sgombrato il palco, restano solo boia e torturato, seppelliti da un diluvio di palle dorate che piove dall’alto da un chapiteau montato al contrario. Un sacca ovipara di insetto malvagio che seppellisce i corpi di palline.

Quello che Ene Liis Semper ha messo in scena è un mistero pagano di una forza sconvolgente, un rito misterico in cui i clown sono come le assurde e mostruose divinità dei miti di Chtulu, un rito illecito seppur necessario per gettare uno sguardo lucido sull’insensata nostra misera vita. Per quanto millenni di evoluzione ci abbiano spinto in avanti, restiamo animali ciechi mossi da insensata brama, da istinti voraci che ci precipitano in un abisso di violenza e dolore senza fine. Sotto la patina sottile che le civiltà usa per addolcire e indorare la pillola, s’agita il mondo dei clown di Ene Liis Semper.

Nell’osservare rapito come non mi succedeva da anni questo teatro potentissimo fatto di gesto, azione, spazio e corpo, non potevo non pensare alle processioni di tanto teatro di Kantor, agli oggetti dalla realtà dal rango più basso, alle iterazioni, ai meccanismi ripetitivi e ossessivi, alle macchina di tortura del grande maestro polacco.

Ene Liis Semper sembra esserne l’erede, questo suo NO42 mi ha scioccato positivamente tanto quanto Crepino gli artisti. Era dai tempi di Orpheon del Theatre du Radeau che non provavo così intense emozioni legate alla scena e se potessi rivederlo altre 10 volte lo farei senza mai stancarmi. Questo di Ene Liis Semper è grandissimo teatro, di altissima qualità, un teatro che utilizza tutta la sua ancestrale potenza di rito per creare immagini che non hanno quasi bisogno di parole, ma che sono talmente potenti da non necessitare di alcuna spiegazione. Dal palco scaturisce la vita, erutta violenta tutta la crudeltà che accompagna l’esser vivi, tutta la lacerante sofferenza che comporta l’esser comparse in questo vasto mondo che respira.

Ph: ©Tiit Ojasoo

Santarcangelo

IDENTITÀ E ALTERITÀ A SANTARCANGELO DEI TEATRI

Le interrogazioni dell’On. Fedriga e del Consigliere Regionale Foti contro il programma di Santarcangelo dei Teatri incentrato sul tema del corpo e del genere provano una volta di più, qualora che ne fosse bisogno, che l’immagine del corpo e la sua fisicità son ancora un terreno di scontro politico e ideologico notevole.

Analoghe interrogazioni si rinnovano nella loro goffaggine di tanto in tanto qualora appaiano immagini del corpo che esulano da una cosiddetta normalità. È successo, per esempio, ad Andres Serrano nel 1995 con la mostra fotografica The morgue (a cui appartiene l’immagine in testa all’articolo). Ogni giorno vediamo immagini di morti ammazzati nei cinema o in qualsiasi telegiornale all’ora di pranzo o cena, ma le immagini parziali di morti che sembrano vivi provocarono l’indignazione politica in Francia. Così come di tanto in tanto fa discutere Cattelan (pensiamo a Him, o a La Nona ora, e infine ai bambini appesi a Milano nella serie Untitled).

L’immagine del corpo fa discutere, offende, crea scompensi alla politica e alla società che tranquillamente ingurgita immagini di morte ogni giorno senza battere ciglio. Eppure un bacio omosessuale, il corpo ambiguo di un trans, un malato terminale intrappolato nel suo corpo che chiede una morte dignitosa, scatenano putiferi senza fine. Se quindi Fedriga e Foti si scandalizzano e polemizzano con il festival di Santarcangelo non stupisce più di tanto: il corpo è soggetto politico, come viene specificato nel comunicato stampa di risposta da parte delle due curatrici Eva Neklayeva e Lisa Gilardino e quindi è ovvio che l’arte se ne occupi. E se il corpo è politico lo sono anche gli atti che compie fuori e dentro la scena. Ma la questione è un po’ più ampia.

Nel 1995 per il centenario della Biennale di Venezia, si inaugura una mostra dal titolo Identità e alterità. In essa il curatore Jean Clair riunì una miriade di immagini e rappresentazione di corpi che attraversano l’arte, la fotografia, la scienza in quegli ultimi cento anni. Raggi X, fotografia, telecamere che sondano l’interno del corpo, immagini di guerra, di ospedali psichiatrici, corpi deformi, ibridi, automi, burattini, maschere. Una vera e propria teoria di inquietudini legate al corpo. Come non provarne di fronte agli archi isterici, ai tipi lombrosiani, alle deformità derivate dalle mutilazioni delle guerre, dai mostri partoriti dall’immaginazione, ma anche di fronte ai corpi perfetti, maestosi e marziali partoriti dai regimi. Il corpo e la sua immagine scatena dentro l’animo umano un terrore e passioni incontrollabili.

Pensiamo alla morbosa attrazione verso gli automi, che dal Sette e Ottocento si trasferisce nella fantascienza in Blade Runner, Ghost in the Shell e Battlestar Galactica: quella cosa che si muove, che sembra viva lo è veramente? Dove nasce la coscienza e l’identità? Essere corpo è anche essere vivo? La filosofia e la scienza, non solo l’arte, non sono ancora riuscite a dare risposte certe in merito. E quindi anche l’ambiguità sessuale incute timore. Dove tutto non è manicheamente diviso in maschi e femmine, il pensare comune si inquieta e si appassiona. Vi è tutto una scatenarsi di attrazioni e repulsioni, di scontri ideologici, intolleranze religiose, elucubrazioni filosofiche.

Il corpo scheletrico di una modella anoressica, così come quello obeso, il transessuale nella sua ambiguità, il corpo deforme da freak show, le malattie imbarazzanti: tutto diventa inquietante perché ci ricorda che non è assolutamente chiara la nostra identità. Non c’è canone che la stabilisca. Persino la genetica è ambigua. A tutti può capitare di non essere in quella calda e rassicurante divisione manichea di maschi e femmine. Soprattutto perché tale divisione non esiste. Scriveva Antonin Artaud: «nei ritratti da me disegnati […] alla testa umana ho spesso accostato oggetti, alberi, o animali, in quanto non sono ancora sicuro dei limiti entro cui può fermarsi il corpo dell’io umano».

L’On. Fedriga e il Consigliere Foti invitano il Ministero a vigilare su «eventi culturali realizzati da parte di enti […] che utilizzano finanziamenti statali […] che si qualificano come propaganda politica e di diffusione di ideologie totalmente scollegate dalla realtà e dai problemi di concreto interesse di cittadini». Ma come? Il corpo non è di comune interesse ai cittadini? Nemmeno la sessualità? Essere corpo e l’immagine di quel corpo non è di interesse? Diciamo che l’immagine del corpo che risulta dall’indagine artistica è molto più vasta, ambigua, indefinibile di quello che si pensava. E questo inquieta e scuote i pregiudizi. Ma questo non è questione degli ultimi giorni nostri contemporanei ma dell’inizio della nostra cultura. I miti greci sono cosparsi di dei ambigui, si pensi a Dioniso né maschio né femmina, dio degli opposti; pensiamo a Tiresia che primo fra tutti sperimentò la natura del maschio e della femmina; al mito di Ermafrodito, che ricordiamo era essere costituito di coppia sì maschio e femmina, ma anche maschio/maschio e femmina/femmina. E solo per elencarne alcuni. Quindi l’arte si occupa di argomenti molto vicini ai cittadini, ma di cui la politica e molta parte della società non vuole occuparsi perché significherebbe mettere mano e pensiero a qualcosa che ridefinirebbe l’essere umano, la sua sessualità e la sua corporeità. È più facile dividere tutto in maschi e femmine, sani e malati, belli e brutti. E così i corpi della Gribaudi o di Chiara Bersani diventano subito indefinibili, portatori di angosciose domande, di questioni irrisolte. Ignorarle sarebbe sicuramente più comodo e semplice. Quindi le interrogazioni politiche dimostrano solo una cosa: una costante e prevedibile pigrizia della politica ad affrontare i temi di interesse capitale per i cittadini che non chiedono definizioni ma diritti fondamentali riconosciuti dalla costituzione. E l’arte continuerà ad occuparsene finché la società e la politica non affronteranno queste immagini e le domande che comportano.

Il corpo non è solo l’involucro di carne e ossa che abitiamo, è lo scrigno delle domande fondamentali sull’esistenza. Cosa ci rende vivi? Cosa ci rende quello che siamo? Cosa si può definire umano? E soprattutto: l’immagine che abbiamo di noi corrisponde veramente alla realtà? Direi che queste sono domande capitali e se non sono di interesse ai cittadini è perché in fondo viviamo in una civiltà soporifera, addormentata nei piaceri e nelle schiavitù quotidiane, immerse in illusioni di superiorità e normalità, e dove le infinite sfaccettature della vita vengono sempre più relegate all’estremo. E quindi l’arte e i festival come Santarcangelo, come azione politica, hanno il diritto/dovere di ribellarsi e proporre immagini e riflessioni sul corpo che possano scuotere, e portino a nuove formulazioni dell’umano.

Mara Oscar Cassiani

MARA OSCAR CASSIANI Spirit THE INVISIBLE CITY di Daniele Bartolini

Performance. È forse il termine più fluido e ambiguo delle arti contemporanee. Se alla sua nascita individuava una categoria di artisti proveniente dall’ambito delle arti visive, oggi è decisamente usato e abusato in tutte le Live Arts. Performance è indefinibile, e per quanto ci abbia provato negli ultimi vent’anni non sono riuscito a trovare una definizione che mi soddisfasse appieno.

Una forse, di Attanasio De Felice: Performance is a flexible testing ground for ideas. Una piattaforma flessibile per testare delle idee. Questa semplice frase individua da subito degli ambiti interessanti. Innanzitutto la flessibilità che si espleta nella dinamicità di un processo e non nella staticità dell’oggetto; e poi nell’essere un test che di volta in volta da esiti diversi. Si testano delle idee, le si mette alla prova, non si dimostra un teorema. Fluidità, dinamicità, sperimentazione, processualità. Tutti elementi che fanno della performance un genere ambiguo, una generazione equivoca, che ha radici su piani artistici e filosofici diversissimi. È un universo magmatico, privo di genere, proteiforme. Mutua procedure e linguaggi da tutte le arti dal vivo, le mescola, le ripropone ibridate divenendo una sorta di mitica creatura mostruosa delle arti contemporanee.

Seppur indefinibile o poco definibile (e non lo ritengo certo un difetto), alla Performance, come luogo artistico di territorialità smisurata, si pongono fin dalle origini del genere dei paletti, seppur molto ampi.

Primo confine esterno: The Untitled Event primo Happening di John Cage. Black Mountain College, 1952. Un processo indeterminato all’interno di frame temporali. Niente è stabilito, non c’è punto di vista, il pubblico è libero di crearsi il suo proprio montaggio della visione e dell’esperienza.

Secondo confine esterno: New York 1959 18 happenings in six parts di Allan Kaprow. Partitura di eventi rigidissima. Il pubblico è come costretto a divenire esso stesso materia dell’opera. Visione orientata, intenzionalità artistica determinata. Si recupera l’oggetto benché esperito nel flusso di un’esperienza.

Tra questi due estremi subito si scatena una reazione termonucleare. Il dibattito si incendia e non è ancora terminato. Processo vs. oggetto. Punto fermo: l’idea che l’opera d’arte sia qualcosa da esperire, da vivere e non da osservare distanti e distaccati. E in questo si ritorna all’alba di ogni ritualità. Si vive non si osserva.

La qualità di una performance non si misura, seppur misurabile, in qualità estetica che pertiene forse più all’oggetto, quanto in qualità dell’esperienza proposta, nella profondità di visione che essa provoca e produce nello spettatore/partecipante.

Dopo questa lunga ma necessaria premessa parlerei di due performance: Spirit di Mara Oscar Cassiani vista a Santarcangelo, e The invisible city di Daniele Bartolini a Kilowatt.

Nella prima, Spirit di Mara Oscar Cassiani, l’intento è chiaro richiamare o ricreare una ritualità originaria e metterla a confronto con il contemporaneo: la musica da club, un immaginario superflat e anime (non a caso all’inizio si ascolta il pezzo di Kenji Kawai di Ghost in the shell). Delle ossa su una coperta, delle maschere dipinte sul volto, e poi tanta musica e ballo a cui il pubblico alla fine si unisce. Ripetitività, ritmi ossessivi, luci strobo. L’impressione netta è che più che trovarsi di fronte a un rito ci si trovi dinanzi alla dimostrazione di un teorema. Le ossa, le maschere, i campanelli che richiamano i mamuthones sardi, e poi la musica da club, le danze circolari intorno al pubblico indirizzano senza dubbio la visione e l’esperienza verso un risultato sicuro. Non c’è nessun processo esperienziale vero, ma un allineamento con il pensiero dell’artista che diventa oggetto artistico. È un seguire le molliche di pane dell’artista/Pollicino. Il pubblico è strumento di verifica. Poste queste premesse avviene questo e quest’altro. L’unica scelta che rimane al pubblico è accettare quest’immersione forzata, e quindi partecipare alla danza e passare una serata in questo club allestito ad hoc, oppure andarsene.

Anche nella seconda performance, The invisible city di Daniele Bartolini, chiaro è il riferimento al noto libro di Italo Calvino, non solo nel titolo ma anche nelle differenti sezioni della performance. Cinque spettatori sono invitati a entrare in un palazzo abbandonato e deserto di Sansepolcro, per iniziare un percorso di conoscenza reciproca e di immaginazione di paesaggi reali o immaginari determinati dai propri ricordi, desideri, esperienze. Ora il processo potrebbe essere anche suggestivo se lasciasse la possibilità di compiere il proprio percorso, stabilire il proprio tempo di sviluppo, invece tutti gli eventi sono rigidamente compartimentati nei tempi e nei modi, tanto che per esempio, nella prima parte in cui i partecipanti, attraverso una serie di domande, vengono portati a parlare di sé a esplicare il materiale proveniente dalla propria interiorità, materiale che serve nello sviluppo del percorso, viene bruscamente interrotto per passare ad altro.

Dette queste poche cose su entrambe le performance, e tralasciando le facilonerie con cui sono state eseguite, le sciatterie nei modi di esecuzioni, nella presentazione del materiale e nelle procedure (non bastano quattro ossa a terra e delle facce dipinte di nero per fare un rito – e parlo di Spirit -, così come enunciare un desiderio per fare una città del desiderio), quello che mi pare fatalmente frainteso rispetto alla performance, è la processualità condivisa con il pubblico.

In entrambi i casi il processo non è condiviso ma subito. Si è burattini nelle mani dell’artista che ti accompagna dove vuole lui e se non sei disposto, o quell’esperienza non ti interessa, non ti resta che andartene o subirla di malavoglia. Non c’è apertura a una reale interazione con un terzo elemento – il pubblico – portatore di esperienza a sua volta e fattore di indeterminazione. L’artista vuole il controllo del risultato e poco accetta la possibilità di compiere insieme al pubblico un percorso di esperienza arricchente comune generato dalle interazioni casuali all’interno di un processo scatenante.

Sia Mara Oscar Cassiani che Daniele Bartolini producono oggetti tendenti più alla staticità che alla dinamica propria della performance. Premesso che questo è il mio personale punto di vista e che si può assolutamente non essere d’accordo, anzi spero di generare un dibattito anche con gli stessi artisti, trovo che questo modo di approcciarsi alla performance, a questo flessibile terreno di prova delle idee di cui parla Attanasio De Felice, sia alquanto lontano da una reale flessibilità. Di fronte a oggetti artistici di questo genere è netta la sensazione di non essere per niente distanti dal mondo della rappresentazione da cui in fondo si vuole scappare. Si ripresenta un quadro, un’immagine più che un territorio esplorabile insieme a una comunità riunita per condividere un’esperienza. Non siamo dunque nel campo di una prassi filosofiche che si esplica nell’atto artistico condiviso, ma nel quadro consueto dell’osservazione e fruizione dell’oggetto d’arte. E credo personalmente che questo risultato sia alquanto deludente.

Marco Martinelli

INTERVISTA A ERMANNA MONTANARI E MARCO MARTINELLI

Quest’intervista è stata realizzata insieme a Tessa Granato a Borgo Sansepolcro durante la prima giornata di Kilowatt davanti al Palazzo delle Laudi. Non posso che ringraziare Marco Martinelli ed Ermanna Montanari per la loro disponibilità e per la capacità di donarsi e raccontarsi con estrema generosità e sincerità. Abbiamo parlato di Maryam, loro ultimo lavoro, della ricerca sulla voce, di ribellione e delle nuove generazioni.

Enrico Pastore: Partiamo da Maryam: com’è nata l’idea di questo spettacolo, da quale esigenza? E quali sono state le fonti?

Ermanna Montanari: Ci siamo trovati a parlare con Luca Doninelli che ha scritto il testo dopo un processo drammaturgico fatto principalmente con Marco. Noi eravamo partiti con l’idea di affrontare un lavoro su Santa Teresa D’Avila ma a un certo punto non abbiamo trovato la chiave, ma volevamo assolutamente affrontare delle questioni rimaste ancora aperte con Rosvita. Fu allora che Luca Doninelli ci parlò di questa sua visita alla Chiesa della Natività a Betlemme dove aveva visto questa devozione delle donne mussulmane per Maryam. Una devozione che era preghiera e racconto per chiedere vendetta per le morti di figli, sorelle, per quello che si era subito nella vita. Luca Doninelli ha incominciato a scrivere sotto nostra pressione perché subito ci siamo detti: questo è quello che dobbiamo fare, è qui che dobbiamo andare. Ci ha aperto una luce che trovavamo fortissima e altamente vera in un mondo come questo. C’era sia l’abbraccio religioso sia, d’altra parte, una tremenda ferocia. Una preghiera non è solo un’Ave Maria o un Padre Nostro ma è anche una confidenza di tipo violento. Così abbiamo iniziato a lavorare con Luca Doninelli e con Luigi Ceccarelli per il suono e a cui abbiamo chiesto di creare una musica di stile nordafricano.

A un certo punto abbiamo cominciato a lavorare in una visione nera, scura, solo con un microfono e un performer. Abbiamo anche chiesto al poeta tunisino Tahar Lamri, che vive a Ravenna, di darci una mano con tutto il materiale relativo a queste donne che sono soprattutto palestinesi e siriane. A un certo punto abbiamo pensato di usare anche la lingua araba come scrittura. Il pubblico è separato da un velo e su questo velo sono proiettate le parole di tutto il racconto, che appare quindi sopratitolato ma per noi è soprattutto un’immagine. È come essere dentro a un libro religioso, un libro che porta le parole di queste donne. Io dietro il velo faccio tutto, nel senso che faccio tutte le voci. In realtà non c’è scena. È tutto nero, c’è solo un corpo immobile ma ciò che danza sono la musica, la luce e le parole. La luce è importante, perché quello che chiedono le donne, la domanda che fanno a Maryam è soprattutto una richiesta di luce anche se è una luce di tenebra. La luce c’è anche nelle tenebre se no non potremmo vedere né l’una né l’altra. È un lavoro dove tutto è sfocato.

Alla fine appare Maryam che dice delle cose molto potenti. Quando abbiamo fatto le prime anteprime al Sud, tra Bari e Napoli, la gente piangeva. Sono luoghi dove la Madonna è nel quotidiano. Le parole di Maryam, non so come dire, è come se io portassi veramente quelle parole. Non c’era spazio per la critica. È stato per noi qualcosa di sorprendente. A Milano invece è stato completamente diverso. Ognuno poteva dire la sua sulle parole di Maryam. In realtà Maryam dice tre cose fondamentali: cosa posso darvi io che non ho potuto nulla di fronte a mio figlio in croce? Non ho nulla da darvi: né riscatti, né vendette. E dice anche che non ha perdonato Dio, perché il dolore non si dimentica anche nella gloria eterna. E comincia a parlare dei pianti. Dio conosce il pianto, l’amore conosce il pianto. L’amore è pianto. È potenza e insieme impotenza. L’ultima frase, molto potente, dice: voi sarete sempre con me là dove nessun figlio muore. Non c’è nulla. Parla del mistero. Un mistero doloroso. Perché le tre donne di cui si parla vivono nella dimensione del dolore. Sono donne che hanno subito una perdita. E la perdita è qualcosa di molto terreno che ognuno di noi prima o poi prova.

Tessa Granato: Il fatto che in Maryam lei reciti dietro un velo, sempre, mi fa pensare al suo essere una Voce, bagno sonoro e atto concreto, materiale. Mi fa pensare anche alle guaritrici africane, che lei so avere incontrato nel suo viaggio in Senegal, e che proprio nascoste da un velo emettono canti e formule che portano, in certi casi, alla guarigione. Lei ritrova una vicinanza tra il potere della sua voce e quello di alcuni rituali magici?

E.M.: Quando siamo stati in nella savana senegalese ho assistito ad alcune guarigioni. Le voci provenivano da una persona che mai si rendeva visibile, perché tutto avveniva dietro un telo, che spesso era sporco, annerito, su cui sopra vi avevano magari poco prima dormito degli animali. Il potere di questi suoni, e vibrazioni, era palpabile. E sì, Marco ha volutamente ideato per Maryam un luogo nero, oscuro, da cui escono voci di donne (Zeinab, Intisar e Douha), che poi in realtà diventano una sola voce, la voce del femminile, ma anche del maschile, dell’umano, dell’universale, di un quotidiano esemplare. Se a qualcuno viene stuprata un’amica, l’istinto è di rivolgersi a una entità superiore per chiedere giustizia, e vendetta. Chiaramente questo disturba, ma io credo che sia allo stesso tempo una forma di preghiera naturale, seppur feroce, e che in chiesa si possa inveire, bestemmiare. Un controsenso, come anche i mostri che vi troviamo raffigurati, dipinti o scolpiti, quasi ci suggeriscono. Penso a quella stessa spinta contrastante che c’è in Testori, ad esempio, e senza la quale non avremmo avuto tutto quello che di meraviglioso ha scritto.

EP: vorrei farti una domanda tecnica: come si sviluppa la tua ricerca sulla voce anche rispetto all’utilizzo della tecnologia? Ti faccio questa domanda pensando, per esempio, a quanto diceva Carmelo Bene, su quanto la tecnologia potesse aiutare la ricerca, e come permettesse alla voce di uscire dal dire, potesse aiutare a depensare la voce.

EM: Il lavoro sulla voce inizia ben prima che noi stessi scoprissimo tutto di questo lavoro, ben prima di immaginare un involucro sonoro che contenesse e avviluppasse anche la platea. Qui all’Auditorium di Santa Chiara forse non riuscirete a vederlo e ad averlo nella sua sontuosità. C’è un impianto audio costituito da molti diffusori posti sia intorno alla platea che all’interno del palcoscenico, solo che in spazi così piccoli, come qui a Sansepolcro, tutto è compresso. La regia del suono è di Marco Olivieri che lavora con noi già da qualche tempo, ha curato anche la regia del suono di Inferno. È lui a decidere ogni volta lo spazio sonoro, così come noi decidiamo lo spazio scenico. E qui. in questa piccola chiesa, che contiene solo 80 spettatori, ha creato un spazio compresso, ma nonostante questo ci si trova immersi in questo orecchio. Questo lavoro è un grande orecchio perché a Dio giungono i pianti dei padri e delle madri. Tecnologicamente questo è un lavoro estremamente raffinato e sontuoso così come lo era L’isola di Alcino, Lus, Inferno. Sono tutti dei bozzoli sonori. La ricerca sulla voce è un processo estremamente complesso. È ciò che si ascolta, ciò che si da e ciò che la voce genera. Marco Olivieri però non mi ruba la voce e me la restituisce in altro modo. Io lavoro solo con un microfono, e Marco con i diffusori. Non c’è nessuna alterazione vocale.

Marco Martinelli: Sì, direi che è Ermanna che fa tutto il lavoro con la voce, che genera le alterazioni e i toni. Marco Olivieri pensa a portare questa voce, a farla viaggiare intorno e per gli spettatori.

EM: Il lavoro con il microfono è estremamente importante. Esso genera la voce. È uno strumento, una sonda. Ti faccio un esempio: Marco Olivieri mi ha suggerito un nuovo microfono che le prime volte mi imbarazzava tantissimo. Non sapevo proprio cosa farci. Era come non saper muovere i tasti di un pianoforte o suonare le corde di una chitarra. Poi ti alleni, provi e cominci a capire come suonarlo. Capisci che questo strumento può dare al tuo strumento qualcosa di imprevisto e allora puoi volare, puoi creare una dimensione. Questo microfono prende tutte le cose più piccole, al limite dell’udibile, dove magari, per esempio, puoi non chiudere una vocale. Prende il resto, ciò che resta. Rende tutte le sottigliezze, puoi quasi sussurrare, parlare come una sonnambula. Così come la luce posso diventare quasi impalpabile.

EP: possiamo dire rubando le parole a Demetrio Stratos che è un modo per suonare la voce?

EM: Sì, è così. È assolutamente così. Demetrio Stratos è un maestro per me.

T.G.: Le vorrei chiedere come si prepara per la costruzione di uno spettacolo: ha un metodo, un procedimento a lei caro per concentrarsi, e cercare la chiave per entrare nel lavoro che deve venire alla luce?

E.M.: Tra tutti i luoghi chiusi, le chiese sono spesso i luoghi dove passo del tempo, sono il mio luogo. Ci vado perché lì vi scorre il mondo, ed è dove restano le voci del mondo. Ci vado per ascoltare, nient’altro. Lì non sono solo custodite le voci presenti, ma anche quelle passate e future, è lì che le pietre suonano, perché racchiudono miracoli, racchiudono i secoli. La voce è avere un grande ascolto, la voce è ascolto, è un atto spugnoso. Tutti ne abbiamo una, perché tutti noi abbiamo un piccolo o un grande ascolto, e questo determina l’avere una piccola o una grande voce.

Per raggiungere lo stesso scopo amo anche stare negli spazi aperti, come il mare, le terre sconfinate. Ho smesso di condurre i laboratori vocali proprio perché estremamente difficoltosi, dato che presuppongono il passare giorni e giorni in silenzio e in spazi ben precisi, in totale ascolto. Non si tratta infatti, nel mio caso, di cercare una figura, calarsi in un personaggio e imitarne una voce, no – perché tutti in fondo siamo bravi a fare le imitazioni. Per me si tratta di un altro tipo di ascolto, interiore, quello di cui parlano Carmelo Bene e Antonin Artaud. è come produrre icone: la tecnica, i passaggi giusti, perfetti, sono necessari, ma dopo un po’ si viene posseduti da una smania, dal bisogno di farsi attraversare da più movimenti, più voci. Si sente l’urgenza di non pensarsi.

EP: Nella vostra lunga carriera avete attraversato un periodo di grande fioritura del teatro italiano, forse l’ultimo grande periodo di grande sviluppo in Italia e in un regione che ha dato tantissimo. Ecco rispetto a questo vostro percorso, alla vostra storia cosa vedete nel nuovo teatro che sorge? Vi faccio questa domanda perché parlando spesso con i giovani artisti sento in loro un grande senso di solitudine nella ricerca, fanno fatica a prendere contatti con i maestri che li hanno preceduti. Ma non solo il loro agire è molto più imbrigliato nei bandii, nel rispondere a delle call precise che indirizzano il lavoro più nell’assolvere a queste richieste che sono l’unico sbocco produttivo più che seguire un’urgenza personale. Questa per esempio è la netta sensazione che ho riscontrato nell’osservare le ultime finali del Premio Scenario. Ecco voi cosa vedere nel nuovo teatro che sorge anche rispetto alla vostra storia personale?

Marco Martinelli: È una bella domanda. Innanzitutto penso che tu veda molte più cose di quelle che vediamo noi. Noi facendo tanto, lavorando tanto non abbiamo molte possibilità di vedere. È un po’ come diceva Gadda quando gli chiedevano dei romanzi suoi contemporanei e lui rispondeva: faccio così tanta fatica a scrivere i miei che non ho proprio tempo di leggere quelli degli altri, come faccio a essere così informato? D’altra parte noi conosciamo e collaboriamo con diversi gruppi giovani con cui abbiamo collaborazioni e rapporti di amicizia e forse ci troviamo con loro perché nessuno di questi parte dai bandi. Il nostro è uno sguardo limitato. Noi siamo in sintonia con i ribelli di oggi e per noi questi sono un segno di grande speranza e di grande bellezza. E c’è da dire un’altra cosa. Ogni epoca ha il suo conformismo, non è che la nostra fosse diversa. Magari non aveva certi tratti che oggi sono così micidiali però c’era lo stesso un conformismo. I veri ribelli non erano la maggioranza neanche allora.

Ermanna Montanari: Nella nostra generazione tutti facevano teatro all’università. C’era il voto politico, tutti lavoravano con i bambini. Mi ricordo che era stato fatto un censimento e c’erano più di seicentocinquanta compagnie solo nel Nord Italia. E questo quando siamo nati noi, Valdoca, i Magazzini Criminali, la Societas Raffaello Sanzio. Non eravamo soli quindi. C’era un Humus da cui qualcuno riesce a emergere, a sfuggire dalle urgenze della propria epoca.

T.G.: Rispetto alla vostra esperienza con gli adolescenti di Scampia, che avete iniziato al teatro con il metodo della non-scuola (ormai esportato anche nel Bronx di New York, o nel quartiere portoricano di Rio de Janeiro, o nella comunità afroamericana di Chicago), avete seminato qualcosa che può davvero germogliare per i partecipanti in uno sbocco professionale?

Marco Martinelli: Questi ragazzi sono il nostro orgoglio. Molti di loro hanno cominciato a lavorare con noi, nel progetto Arrevuoto a Scampia, quando avevano 14/15 anni; e dopo 3 anni di esperienza, quando questa stava volgendo al termine e loro avevano più o meno 17/18 anni, abbiamo pensato che non avremmo potuto lasciarli soli. Abbiamo quindi ideato un’altra sorta di scuola, della durata di tre anni, chiamando anche Danio Manfredini e Armando Punzo, mettendoli in relazione reciproca, per far conoscere ai ragazzi altre modalità di lavoro rispetto al nostro, farli confrontare con altro teatro contemporaneo. Dopo quindi un periodo formativo durato 7 anni, c’è stata la spinta, da noi supportata, di fondare una Compagnia: la Compagnia Punta Corsara, un gruppo indipendente che potesse costruire la propria poetica. Perché per noi lavorare nel teatro è questo – più che fare provini per registi e compagnie altrui. Seguendo l’esempio del Teatro delle Albe, in una felice operazione di buona mimesi, si è creato un gruppo divenuto una realtà forte e concreta, che ha ottenuto anche premi e riconoscimenti. Posso dire che ai ragazzi di una zona penalizzata come Scampia, il teatro ha cambiato la vita, ha dato un senso al loro stare al mondo.

T. G.: Lo scopo quindi è cercare le fessure, le crepe del sistema, e allargarle per fare entrare le proprie idee creative ed espressive?

M.M.: Sì, è questo il concetto che cerchiamo di passare agli adolescenti. Non so se vi ricordate quella perla cinematografica che è Che cosa sono le nuvole? di Pasolini, quando a un certo punto Otello/Ninetto Davoli chiede confuso quale sia la verità, se quella di Otello, di Desdemona, o quella del burattinaio che lo manovra. E Totò/Jago (che morirà proprio pochi mesi dopo la fine del film) risponde, “ma cosa senti dentro di te? Prova a sentire. Ecco, quello che senti è la verità. Però non dirla, altrimenti scompare.” La cosa che parla e risuona nella testa, nel corpo, e che dobbiamo provare ad ascoltare, ecco quella è la nostra forza. Aldilà di bandi e terrorismi. Ciò che urge e pulsa dentro di noi, dobbiamo metterlo in atto, con determinazione d’acciaio. Ripensando anche al concetto di speranza, come recita il titolo di Kilowatt Festival, Principio speranza, proprio come il libro di Ernst Bloch: speranza è un rigagnolo che sopravvive anche alla siccità più estrema; è prezioso, e va alimentato e tenuto in vita.

Ermanna Montanari

LE MINIATURE CAMPIANESI di Ermanna Montanari

Immaginate il porticato del Palazzo delle Laudi a Sansepolcro, immaginate l’eleganza di quelle volte di pietra nel borgo di Piero della Francesca. E ora immaginatele abitate da genti raccolte intorno a Ermanna Montanari. Non è lei che recita, niente performance per la madrina del festival. A proferir parola poetica è la comunità tutta che legge l’ultimo libro di Ermanna Montanari Miniature Campianesi edite da Oblomov Edizioni. Bambini, donne incinte, madri di famiglia, anziani, giovani. Tutti loro si mettono in fila dietro il microfono e un pezzo per uno leggono e restituiscono a Ermanna le sue parole. Le loro voci non impostate, piene di difetti, a volte balbuzienti e insicure, oppure sicure e baldanzose, sempre devote, restituiscono il racconto di una vita in mille tonalità, gradazioni, modulazioni e volumi. La voce squillante della ragazzina, quella timida della bambina che lancia occhiate timorose alla grande attrice, il signore balbuziente e timido con la mano tremula che non riesce ad alzare gli occhi dal foglio, la signora anziana che da toscana fatica nel dialetto romagnolo, l’anziano con la voce baritonale. Tutti questi toni si fanno suono, si fanno vita. Nessuna rappresentazione, nessuna intenzione, solo omaggio sentito. Tale freschezza così spesso lontana dai palchi del nostro teatro commuove e rinfranca. Ermanna Montanari è lì che ascolta elegantemente seduta sul bracciolo di un divano, insieme a Marco Martinelli. Segue con gli occhi intensi tutto quello sfilare di voci e di corpi che la circonda e la lascia alla fine con la voce rotta di commozione.

Non è spettacolo, non è neanche teatro, è qualcosa di diverso. Giustamente nel programma è indicato come Rito iniziale, e rituale è questa teoria di voci che sotto il portico antico ritorna all’autrice il suo dire sfuggente alla sua autoralità.

Un rito collettivo e commovente consumato insieme alla comunità che accoglie l’artista, mentre si ascolta, si beve, i bambini giocano, la gente passeggia e curiosa si ferma. Questo evento mi ha ricordato l’amato Tibet in esilio durante lo Shötön, il festival del teatro tibetano. Anche in quelle lontane terre martoriate la comunità si stringeva intorno agli artisti, si beveva il thè, si mangiava, si partecipava al rito della scena che si consumava nei giorni. Vi era qualcosa di antico, che faceva pensare ai primi giorni quando la comunità si raccoglieva e rifletteva per immagini sul mistero della vita. Un percorso che si è perso e solo raramente riappare, presi come siamo dall’imperio dell’enterteinment e della selfexpression. Invece sotto il Portico del Palazzo delle Laudi, non c’è niente di tutto questo, solo le parole di Ermanna rifratte dalle mille voci della comunità che si fa corpo/voce unico, quasi legione. Un’esperienza rinfrancante di quelle che vorresti veder più spesso e che accogli nel cuore come ricordi indelebili della potenza del vero teatro.

Maryam

MARYAM di Ermanna Montanari e Teatro delle Albe

Maryam è Maria, madre di Gesù, nel mondo islamico. La Sura XIX del Corano è a lei dedicata ed è figura amata dalle donne dell’Islam. La sua icona di madre sofferente, di colei a cui Dio/Allah ha chiesto il sacrificio più grande, di credere in lui nonostante la morte in croce del proprio unico figlio, raccoglie la devozione e la preghiera delle donne del Maghreb e della Palestina. Maryam è colei attraverso cui Allah, il Misericordioso, ha voluto dare un segno, “prescelta tra tutte le donne del mondo”, “segno per le genti” e il cui abbandono e il cui dolore sono ricettacolo di altro dolore e sofferenza. A Maryam le donne d’Islam si rivolgono per ottenere pace, vendetta, ascolto per e alle proprie sofferenze di mogli e di madri. Figura di donna angelicata, cara a Dio, elevata sopra e al di là del mondo e della sua immensa sofferenza, anche nella gloria di Dio ricorda il dolore e lo conserva, perché niente può far dimenticare. E così Maryam diventa dea madre, erede delle Grandi Dee dei pagani, a cui le donne tutte possono rivolgersi per chiedere e ottenere grazia, protezione e vendetta.

In questo ultimo lavoro di Ermanna Montanari, diretta da Marco Martinelli, Maryam ascolta le invocazioni di tre donne palestinesi, – Zeinab, Intisar e Douha -, che hanno perso figli e sorelle. Tre storie terribili, violente, strazianti. Le parole di Luca Doninelli che le riscrive si fanno voce e suono attraverso Ermanna Montanari che le rende vive, solide, potenti, feroci e crudeli. La madre che ha perso il figlio, autore di un attentato suicida, che con orrore scopre la borsa contente il denaro prezzo di un’inutile sacrificio; la donna che piange l’amica venduta dallo zio indegno, ubriaco e lubrico, che alla morte del fratello si impossessa di una famiglia non sua disfacendola nel dolore e nella violenza; la madre che perde il figlio nel tragitto di fuga attraverso il mare verso l’Europa. Tutte loro gridano a Maryam il loro dolore, tutte loro chiedono vendetta, chiedono che coloro che portarono il male nel mondo siano dal mondo espulsi tra infinite sofferenze, per essere ripagate del loro strazio, non chiesto, non cercato, non voluto. Ah, quanto è duro il loro dire che si fa schiaffo attraverso la voce di Ermanna Montanari. Quanto dolore che ci fa tristi e raccolti, quanto dolore spinse queste donne al doloroso passo di chiedere alla Madre di Gesù di vendicarle, sostenerle, consolarle, persino strapparle a quella sofferenza che non si può contenere in un’anima sola.

Ermanna, come una sciamana, dietro il velo si fa voce per loro, riporta le invocazioni, le maledizioni, mentre immagini traforate di finestre arabe disegnano reticoli e scritte in arabo solcano il velo che ci divide da lei, in quella lingua misteriosa fatta di piccole curve, vermicelli, brulicante di vita in quei segni per noi incomprensibili e alieni. Un disegno di luci che accompagna e potenzia quanto si ode al di là del velo: macchie rosse che come demoni prendono forma di corpo informe e inquieto; la donna che ci fissa immota se non per lo sbattere delle palpebre, occhi duri che pongono domande, che chiedono conto di questo infinito sopportare; glifi arabi che tagliano come spade di luce il nero velo.

E la voce di Ermanna si fa creatura viva, si fa attraversare dalla rabbia, dal dolore, dal chiedere senza sosta giustizia e vendetta. Si fa materia dura, come diamante e come lui tagliente, a cui niente resiste allo stridere delle parole che come macigni lapidano i misfatti che prendono vita. Si perché il peccato commesso chiede che si scagli la prima pietra di una lunga fila che seppellisca il male commesso e subito. Per lo zio che condanna a una vita infame l’amica si chiede il peggior cancro, a coloro che hanno corrotto quel figlio gentile fino a fargli commettere una strage si chiede una vita di dolore e sofferenza, senza amore, senza figli, senza famiglia; la madre senza più figlio né marito, ormai inaridita e incattivita chiede a Maryam di capire, di poter almeno comprendere. Ermanna si fa preghiera e maledizione, perché la preghiera a volte si avvicina alla bestemmia, per scuotere il divino, per costringerlo a proteggerci dal male che incombe su di noi in ogni istante e ad ogni passo di questa vita miseranda. Ma il divino tace, mortalmente assente da questo mondo, ritirato forse per sempre in un abisso incomprensibile e sideralmente distante.

E ora l’ultimo passo: Ermanna si fa voce di Maryam, risuona della voce della madre. E non ha risposte per noi. Non ha nessuna consolazione lei che per prima è stata incapace di allontanare il calice, non ha potuto schiodare il figlio da quella croce infame. Non ha potuto aiutare il figlio abbandonato da dio e lasciato a disperarsi aggrappato a quei chiodi e a una corona di spine. Che posso per voi io che per prima non ho potuto niente per me?

In quel nero quadrato che è la scena dove voce, suono e luce disegnano preghiere non c’è risposta alla domanda di giustizia e vendetta. Sembra esserci solo rassegnazione. Lontana è ogni giustizia, nemmeno rinviata al giorno del giudizio. Un finale in minore, che lascia insoddisfatta questa rabbia, questo desiderio di giusta vendetta. All’impotenza di queste donne di fronte alla tragedia e al male, risponde altrettanta impotenza da Maryam che pur partecipa del divino e della sua gloria. Il dolore resta, sfregia le anime irrimediabilmente. Le cicatrici restano come segni indelebili, il male non si cancella e non si vendica, e nemmeno l’amore di Maryam può lenirlo.

Questo ultimo lavoro di Ermanna Montanari e Marco Martinelli andato in scena a Kilowatt a Borgo Sansepolcro è disperato e disperante, colmo di sofferenza che non trova canale di scolo in cui dissiparsi. L’orrore monta e riempie il cubo nero in cui il suono/racconto prende vita e poi si sgonfia come la rabbia di Pluto nell’inferno dantesco e poi che l’alber fiacca, tal cade a terra il dolore di queste donne, cade su questa ripa che’l mal de l’universo tutto insacca. Come i pianti e le bestemmie dei dannati nell’inferno le parole di queste donne non trovano consolazione perché Dio è distante, e per quanto conosca tutte le nostre lacrime nulla fa per lenirle.

Foto Cesare Fabbri