Maja Kleczewska

THE RAGE di Maja Kleczewska – Leone d’argento 2017

Recensire The Rage di Maja Kleczewska, Leone d’argento alla Biennale Teatro, è una vera e propria impresa. È estremamente arduo rendere a parole un teatro di estrema complessità che tende all’abnorme. È come un’esplosione che genera onde che si espandono sempre più lontano ridondando la propria potenza di propagazione. Un teatro eccessivo come i testi di Elfride Jelinek e una tale dismisura è difficile da raccontare.

Assistere a The Rage è stato difficoltoso e non solo per la durata (165 min.). Uno spettacolo molto parlato con i sottotitoli disposti ai lati della scena rendendo difficile seguirli senza abbandonare la visione. Da ultimo una scena occupata per intero da svariate immagini simultanee sia sugli schermi che agite dagli attori dal vivo. Uno spettacolo quello di Maja Kleczewska che obbliga lo spettatore a crearsi un proprio montaggio delle attrazioni, ed è pertanto diverso per ognuno. Questa modalità mi affascina tremendamente perché fomenta una percezione attiva, partecipata, creativa. Lo spettatore opera scelte, si fa suggestionare dalla marea montante sulla scena, coglie frammenti di un universo in formazione, monta e smonta la sua propria visione.

Ma The Rage non è solo questo. È una cattedrale della composizione scenica, una vera e propria sinfonia degli elementi che compongono il linguaggio teatrale. Video, corpo scenico, suono (spesso spazializzato), uso degli oggetti, scenografie, illuminotecnica. Tutto concorre a creare un mondo. Quella di Maja Kleczewska è una regia totale e di grande maestria. La Polonia è stata nel Novecento una fucina di grandi registi. Non solo Kantor e Grotowski, ma anche Warlikowski, e Lupa, per citare i più noti. Maja Kleczewska è erede legittima di questo grande teatro. Si è molto accennato all’influsso di Kantor che traspare solo da un punto di vista visivo, nell’impiego del cardinale e del grande crocefisso che richiamano un immaginario, ma per quanto riguarda recitazione e l’uso degli oggetti di scena siamo molto lontani dal mondo teatrale kantoriano. Forse, per quanto riguarda la recitazione, siamo molto più vicini a Grotowski.

The Rage è una bestemmia, contro Dio e l’uso di Dio da parte degli uomini, che ne fanno strumento di violenza. È strumento di denuncia, un grido a sua volta rabbioso, che ben si intreccia con il testo della Jelinek che torna e ritorna, ribadisce, scandaglia furiosamente, eccede in verbosità come se non trovasse risposta a tutte le domande che pone. La rabbia è evocata in ogni dove, nella politica, nell’estremismo religioso, nelle vittime, in chi subisce e in chi offende, nelle chiese, nei lavoratori, nell’estrema destra come tra i moderati. La rabbia è semplicemente di tutti, è elemento costituente di una società che non trova altre aspirazioni, che non costruisce sogni se non di morte e distruzione anche auto inflitte.

The Rage nasce dalla violenza dell’attentato a Charlie Hebdo e dagli eventi del Bataclan. Indaga la rabbia che genera questi eventi e che segue gli accadimenti.

Si parte in una sorta di studio televisivo, dove nascono dibattiti e telegiornali che trattano della rabbia: immagini di clandestini che cercano di superare le barriere, di poliziotti che manganellano folle di manifestanti, diagrammi di flussi migratori. Ma presto questa modalità sfugge di mano, la scena deborda in platea, sugli schermi, in ogni angolo del teatro. Le scene sono simultanee come detto, ed è difficile da tenere a mente ogni cosa che avviene. Non è nemmeno necessario in una recensione. Basterebbe riuscire a evocare la bulimia di icone di violenza a volte esplodenti, come colpi di Kalashnikov che vengono effettivamente sparati, a volte più soffici e sottili, altre più simboliche e mediate. Una ragazza si strafoga di hamburger con grande gusto e piacere fino a svenire mentre una telecamera rimanda la sua bocca piena di cibo mal masticato su un grande schermo; una donna vestita bizzarramente come la Effie di Hunger Games, vaga sulla piattaforma girevole con due affilatissimi coltelli; un crocefisso viene annegato in una piscina, un cardinale si aggira sul fondo della scena, e così via. Le immagini proliferano come una cultura di muffe e di spore.

La seconda metà dello spettacolo prende poi una strada diversa. Le scene si fanno più focalizzate in un centro, partecipate da tutti gli attori, si individua un obbiettivo verso cui ci si indirizza. Sono tutte molto forti: una donna in elegante abito rosso che si arrampica su un quarto di bue appeso al soffitto; l’intero gruppo di attori a cui si unisce un nano con la gorgiera e palloncini dorati che ridono, ridono a crepapelle, e le risate sono amplificate e rigettate dalle casse come eco inestinguibile, sono le risate di tutti i morti e che non finiranno mai; l’elenco delle vittime del Bataclan, e così via. I finali si susseguono perché non c’è mai una fine.

È difficile raccontare uno spettacolo così debordante che tracima dal palcoscenico come un’inondazione. La rabbia è ovunque e dappertutto. Forse le parole più giuste le ha pronunciate proprio Maja Kleczewska. «The Rage è un requiem per l’Europa, per questo continente tragico, indifferente, indifeso e vuoto. Questo vuoto è riempito dalla rabbia».

Ph @Natalia Kabanow

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