Archivio mensile:Settembre 2018

Papaioannou

MEMORIE DAL SOTTOSUOLO: DIMITRIS PAPAIOANNOU E THOMAS RICHARDS

A volte ci sono spettacoli che, per quanto siano diversi per concezione, stili e produzione, dialogano tra loro e con il pubblico (inteso come comunità) e pongono delle domande a cui non necessariamente esiste una risposta. O forse ne prevedono infinite, quelle che ciascuno di noi si sente di dare.

É il caso di The great tamer di Dimitris Papaioannou, in cartellone a TorinoDanza, e The Underground: a Response to Dostoevskij di Thomas Richards, direttore artistico del Workcenter of Jerzy Grotowski, in scena alla Cavallerizza occupata.

Dimitris Papaioannou porta in scena il mito di Persefone, la figlia di Demetra, rapita da Ade, dio dei morti, e costretta a vivere tra la vita e la morte, perennemente divisa tra due mondi. Persefone è Kore, la pupilla, colei che vede e nel cui occhio si riflette ciò che viene osservato e solo allora diventa reale e possibile. Persefone è anche mostro, corpo ibrido, che avvinta e violata da Zeus in forma di serpente, partorisce Dioniso.

Su un palcoscenico sconnesso e dissestato, Dimitris Papaioannou racconta in uno spettacolo che è grande coreografia benché non sia quasi mai danza, l’avventura del corpo perennemente oscillante tra la vita e la morte. Immagine ricorrente è un corpo nudo disteso, quasi Cristo morto di Mantegna, velato e svelato continuamente in ossessiva ripetizione.

Attraverso il corpo si esplora l’intimo dell’umano agire/patire, incessantemente sospeso sull’abisso, presente e inquietante a fondo palco, laddove spariscono le figure e dal quale riemergono. Un corpo ibrido, composto e ricomposto, persino mostruoso, frutto di generazioni equivoche: una donna con le gambe di due uomini; un corpo assemblato da parti di sei uomini diversi che si frantuma al suolo come una statua di gesso; un corpo morto, che diventa oggetto di studio in una parodia de La scuola di anatomia di Rembrandt, e le cui parti asportate diventano piatto principale di un illecito banchetto.

Il palco è colmo di trabocchetti, fosse nascoste dal quale emergono e scompaiono i corpi, dalla terra alla terra, in un continuo scendere e ascendere da e per il regno dei morti.

Papaioannou attraversa il mito di Persefone con un’ironia pervasa di afflizione per il tempo che scorre e ci avvicina all’abisso. Il dolore di Demetra, alla ricerca della figlia scomparsa, è il nostro dolore, e quel campo di grano che sorge dalla terra è anche freccia che la ferisce. Il mito di Persefone, dea divisa tra la vita e la morte, primavera destinata al gelo dell’inverno, è l’immagine poetica e struggente di un tempus fugit che dobbiamo cogliere prima che il buio ci incateni alla terra.

Un teschio, un libro e due arance, è l’immagine finale, un barocco vanitas vanitatum, per un’esistenza frale, senza sostanza e colma di vane aspirazioni.

Infiniti i riferimenti iconografici e filmici, primo fra tutti 2001, Odissea nello spazio, Ricordata non solo nelle immagini, ma anche con l’ossessivo ritorno del Danubio blu di Strauss scomposto, rallentato, rimontato da Stephanos Droussiotis. Inutile elencarli, anche perché forse è inutile.

Al di là delle immagini e dei riferimenti, resta l’atmosfera densa di poesia, per quanto gelida come la luce fredda che cade dall’alto. Il dolore della vita strappata dalla terra che alla terra ritorna non tocca il cuore ma affascina l’occhio e la mente.

Thomas Richards in The Underground: a Response to Dostoevskij esplora anch’esso un mondo sotterraneo e inquieto attraversando un collage di testi di Dostoevskij, primi fra tutti Le memorie dal sottosuolo e Il grande inquisitore da I fratelli Karamazov.

La sua esplorazione delle parole del grande autore russo, avviene attraverso la commistione con antichi testi sapienziali, i canti vibratori e la semplice povertà della scena. Un’atmosfera rituale, quasi misterica, scandaglia il sottosuolo interno all’uomo che pur cercando di sfuggire alla sofferenza, la abbraccia e la cerca.

Un mondo di esseri fragili, persino corrotti ed empi, esseri mai veramente vivi, più vicini alla morte, dalla quale tentano inutilmente di fuggire, che alla vita.

La scena è attraversata da semplici figure, che non sono mai personaggi, ma attori che danno corpo a istanze e prendono sostanza nello spazio del teatro. La voce evoca le immagini, con il canto e la parola, in una dimensione quasi sciamanica, che tocca il cuore e l’animo e fa vibrare lo spazio e le emozioni sepolte nel profondo sommerso e radicato in ciascuno di noi.

Una scena semplice, di povertà francescana, pochi elementi a indicare uno spazio e una minima geografia. Non racconto, né parola riferita, quanto esperienza corporea di un pensiero liquido, in perenne divenire, mai fermo nell’asserzione.

Sia Papaioannou che Richards esplorano il mondo della sofferenza, della privazione, della fragilità della vita, utilizzando processi artistici diversi benché abbiano in comune un’altissima qualità di esecuzione. Sebbene da opposte balze, ricercano i fondamenti del teatro. Papaioannou indaga le radici culturali dell’Occidente attraverso una dissezione razionale del mito attraverso immagini e citazioni in una forma pregna di fascinazione estetica, Richards al contrario fa emergere il sottosuolo scuotendo le emozioni, l’anima sottile sepolta e trattenuta, utilizzando soprattutto la capacità evocatoria e magica della voce umana..

Entrambi fanno parlare il teatro con il suo proprio linguaggio, attraverso l’azione, le immagini, il corpo e il movimento sebbene le loro opere sorgano da universi produttivi radicalmente diversi. Se quello di Papaioannou è uno spettacolo prodotto da una fittissima cordata di grandi festival europei, il lavoro di Thomas Richards rappresenta l’emersione di una corrente minoritaria, artigianale e sommersa, di un fare teatro come missione più che come professione.

Due maestri, due poetiche molto diverse che hanno in comune una grande qualità di esecuzione e una forte coscienza del significato del fare teatro oggi. Sono due istanze differenti di una scena che è sempre alla ricerca di se stessa. Sono forse le due sponde estreme di un fare teatro che oggi, meno di ieri, ha poco chiara la propria funzione nel contesto sociale contemporaneo. Nel mezzo ci sono miriadi di piccoli fiumi che danno risposte diverse sul perché fare teatro oggi. Non c’è una risposta, non c’è mai stata. C’è solo la ricerca, la pratica, la pazienza dell’artigiano alla ricerca di una forma perennemente fuggevole.

Dimitris Papaioannou e Thomas Richards hanno dato vita a due opere che raccontano la grandezza del teatro come mezzo per esplorare l’umano, per indagare le sue pulsioni e paure, per riflettere sulla sua condizione fragile e mortale. Entrambi gli autori hanno chiare le possibilità del mezzo che usano e le possibili funzioni che possono assumere. Questa chiarezza di intenti e coscienza di azione sono un’eccezione eccellente, e poco importa che siano radicalmente diverse. La qualità del loro lavoro dipende da esse.

Compagnia exvUoto Teatro

Sister(s). Miraggio su strada qualunque: Compagnia exvUoto Teatro.

Per la rassegna Trame d’autore, Festival internazionale delle drammaturgie, è andato in scena, al Piccolo Teatro Grassi, la Compagnia exvUoto Teatro con Sister(s). Miraggio su strada qualunque, di Andrea Dellai per la regia di Tommaso Franchin, vincitore del Bando Cura nel 2016, progetto di residenze multidisciplinari.

Siamo a Rovigo… in Alabama! Luogo immaginario. ma non troppo. Potrebbe essere una qualsiasi città di provincia italiana e non. Quei luoghi in cui il tempo ti scorre accanto, la vita è sempre altrove, il cambiamento è visto come il diavolo in chiesa.

In un’isolata e assolata stazione di servizio vivono due fratelli Bruno e Allison (in scena interpretati da Massimo Scola e Laura Serena).

Insieme all’attività, i due fratelli ereditano, i comportamenti, le abitudini, le routine. Non possono sfuggirvi. Indossano la loro vita come si farebbe con un paio di vecchie ciabatte, per pigrizia di cambiare. Il frigorifero nuovo è l’evento dell’anno. La novità quasi imprevista.

Insieme al frigorifero giunge nella vita di Allison e Bruno anche un ospite imprevisto: la Madonna. Con l’abitante abusiva nell’elettrodomestico, si palesa anche uno strano angelo (Andrea Dellai) che semina imprevisti sulla strada dei due fratelli spinti, loro malgrado, sulla strada di un cambiamento repentino quanto impensato.

Nel portare mutamento il soprannaturale che irrompe è goffo e ciabattone. La Madonna nel frigo instilla in Bruno il desiderio di diventare suora col nome di Sorella Bruno.

Siamo nel mondo del surreale, dove ogni elemento è quasi un sogno a occhi aperti, perturbante, esagerato, il tempo fuor di sesto. Lo spazio immaginario e la vicenda improbabile, nascondono nel loro grottesco iperbolico, l’insicurezza e i dubbi di una generazione giovane che ha ereditato un mondo ma non sa cosa farci.

Deve accadere qualcosa di improbabile, anche se minuscolo, affinché la gabbia invisibile di Rovigo in Alabama possa cadere e si corra verso nuovi orizzonti.

La Compagnia exvUoto Teatro, mette in scena, con ironia delicata, una favola contemporanea, senza orchi né draghi (anche se qualche mostro si intravede dietro il velo), dove una coppia di fratelli si libera della casetta/prigione, grazie all’intervento e un aiuto soprannaturale (la Madonna e l’angelo) e un oggetto magico (il frigo).

Gli attori in scena interpretano la storia con una buona dose di energia che si trasmette al pubblico. Qualche esagerazione e sbavatura di troppo (come la scena in stop motion in cui gli attori si muovono prima di attendere il buio completo per esempio) e alcune complicazioni drammaturgiche eccessive non inquinano il lavoro che risulta godibile ed efficace.

Un allestimento semplice che, tramite una regia lineare seppur classica, fa trasparire un intento limpido. Si vuole raccontare una storia che comunichi un disagio e un’aspirazione con toni leggeri e divertenti, attingendo al comico e al grottesco.

La linearità formale della Compagnia exvUoto Teatro mi porta a una considerazione. Si può notare in molti giovani gruppi teatrali (un esempio può essere Liv Ferracchiati), una necessità di semplificare il linguaggio al fine di ottenere un’efficacia comunicativa. Il linguaggio registico si accomoda su stilemi tradizionali, quasi obsoleti, puntando tutto sul contenuto e la trama spesso desunta da una drammaturgia che preesiste allo spettacolo. Con questo si vuole solo indicare una tendenza non dare giudizi di merito, solo mettere in luce una tendenza a semplificare la forma per far emergere il contenuto. Resta da capire se indagando principi formali più contemporanei il contenuto venga veramente sacrificato e non maggiormente valorizzato, ma non sta a noi dare una risposta seppur ve n’è una.

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Festival Opera Prima

A ROVIGO RINASCE IL FESTIVAL OPERA PRIMA

A Rovigo rinasce il Festival Opera Prima diretto da Massimo Munaro e il Teatro del Lemming. È questa senz’altro una buona notizia.

Il Festival Opera Prima segnò una fase importante nella ricerca teatrale nel corso degli anni ’90 e oltre, non solo come vetrina di lavori di compagnie allora giovani come Socìetas Raffaello Sanzio, Fanny&Alexander, Masque Teatro, Motus, Accademia degli Artefatti, ma anche come luogo di riflessione sul teatro e il suo linguaggio in evoluzione.

Oggi, otto anni dopo la battuta di arresto, Opera Prima rinasce sotto il titolo di Generazioni a significare fin da subito un intento di incontro tra i giovani artisti e coloro che possono considerarsi dei maestri, parola scomoda, non più di moda e che si declina in molti modi diversi.

Un incontro di generazioni, dove artisti e compagnie più affermate (Lenz Fondazione, Fortebraccio Teatro, Accademia degli Artefatti) segnalano i giovani che si affacciano alla scena (Tim Spooner, Pietro Piva e Filippo M. Ceredi). Un dialogo fatto di opere, di linguaggi che cambiano, di punti di vista in evoluzione.

A questo si affianca quanto di meglio giunto attraverso un bando pubblico specificamente dedicato ai giovani.

Il Festival Opera Prima riparte con una linea curatoriale forte, significativa, che punta non solo a valorizzare dei giovani e giovanissimi di talento ma a connetterli a un tempo passato recente, in un dialogo che sembra oggi, non solo infrequente, ma molto sfilacciato e fragile.

Le giornate di festival iniziano a mezzogiorno, con gli artisti che presentano le loro opere al pubblico nel Giardino delle due torri, nel centro di Rovigo, e proseguono con una lunga maratona di lavori che si susseguono per tutta la giornata, fino a ritrovarsi nello stesso luogo, a tarda sera, per un dopo festival che permette di chiacchierare e ripensare a quanto visto ed esperito.

Benché tutte le opere viste meriterebbero un discorso vorrei soffermarmi su alcune opere che, non solo mi hanno colpito non solo per la qualità dell’esecuzione e dell’impianto drammaturgico, ma soprattutto per le questioni che ponevano al pubblico.

Bocca di Amantidi, duo vicentino formato da Fabio Benetti e Andrea Buttazzi, propongono una performance di quindici minuti per un solo spettatore nei sotterranei delle due torri.

All’entrata vengono mostrate tre fotografie che ritraggono tre diverse bocche. Bisogna scegliere con quale interagire. Si viene avvertiti: la bocca non dice solo la verità, né proferisce solo menzogna. Si viene messi su un sentiero. Sta a noi non solo percorrerlo ma scegliere una modalità di attraversamento.

Si entra in un ambiente illuminato da poche candele. Su un tavolo della frutta, olive, rossetti. Da un velo nero ecco apparire la bocca scelta che interroga. Dove sei? Mettimi il rossetto. Come staresti in una stanza senza specchi? Si inizia un dialogo fatto non solo di parole ma di interazioni. Dobbiamo compiere delle scelte che rivelano molto sulla nostra identità. Uscendo si viene messi di fronte a un oculare e invitati a vedervi attraverso. C’è la nostra bocca riflessa nello specchio: ha detto verità o menzogna?

Attraverso la leggenda della bocca della verità, Amantidi avvia una riflessione intelligente sull’identità e sulla natura del sé attraverso un’opera che travalica i linguaggi. Non veramente performance ma nemmeno teatro, pur prendendo da entrambe le forme delle modalità espressive.

The Telescope di Tim Spooner è un viaggio surreale e immaginario che si interroga sulla natura della visione. La lente del telescopio si è rotta e quello che vediamo ora sullo schermo non si capisce se sia un lontano pianeta o un microscopico mondo nascosto.

Piccoli oggetti informi si muovono sul minuscolo tavolino inquadrato dalla lente di ingrandimento. Le immagini proiettate ci mostrano un mondo alieno, di materie in movimento, formazioni geologiche irruente, laghi salini, esseri viventi astrusi e inquietanti. La voce racconta quanto l’occhio percepisce o crede di percepire attraverso le lenti rotte e spesso sfocate.

Ma cosa stiamo veramente cedendo? Ciò che vogliamo vedere o ciò che veramente è in movimento?

Un mondo animato che ricorda le generazioni equivoche di certe animazioni di Jan Švankmajer, i suoni cacofonici ed esasperati, le animazioni che si alimentano una con l’altra, le formazioni improbabili di oggetti inanimati che prendono vita improvvisamente e misteriosamente.

Pietro Piva presenta invece Abu sotto il mare, menzione speciale al Premio Scenario Ustica nel 2017. Quella di Piva è una storia di migrazione che diventa favola e si spoglia di ogni patetismo e moralismo riguardo a una questione oggi sempre più scottante.

Un viaggio per valicare il mare visto con gli occhi di un bambino costretto ad entrare in un piccolo trolley rosa per poter raggiungere il padre in Spagna da Ceuta. Nel racconto di Pietro Piva vi sono tutti i timori, le speranze, le ingenuità, i voli pindarici di un’immaginazione fertile che attraversano l’animo di un bambino costretto a vivere un’esperienza brutale nelle mani dei trafficanti di uomini.

Essi diventano orchi in alleanza con una strana fatina a cui Abu è affidato. Lei cerca di tranquillizzarlo senza troppo riuscirci essendo alleata e complice degli orchi.

Abu paragona il suo viaggio nella valigia rosa a quello di Ulisse dentro il cavallo alla conquista di Troia, ed è quello di un bambino sul fondo di un mare in cui appaiono solo strani animali, muti e inquietanti, che nulla possono fare per placare la sua sensazione di soffocamento.

L’arrivo alla dogana spagnola è per Abu una liberazione. Gli orchi sono spariti insieme alla fatina. Resta un padre piangente, i medici, gli operatori addetti alla disinfestazione, un mondo che costringe un bambino a viaggi orribili.

Pietro Piva dimostra la fretta di incasellare certi lavori nella categoria di Teatro Ragazzi, categoria che prevede un certo tipo di pubblico. Abu sotto il mare è semplicemente teatro e aspira a incontrare la comunità senza distinguerla tra adulti e ragazzi.

La sua semplicità di favola per bambini è solo una modalità espressiva per veicolare un tema senza trasformare l’opera in una tribuna politica. Pietro Piva racconta una storia con i toni delicati della fiaba che, ricordiamo, non solo pone domande urgenti, ma è piena di orrori e inquietudini.

Angst vor der angst di Welcome Project diretto e interpretato da Chiara Rossini è un’indagine sulla paura. Attraverso le favole ci si incammina verso un mondo di incubi dove quello che appare chiaro è soprattutto il nostro terrore di avere paura.

Chiara Rossini, in questo secondo studio che segue quello finalista al Premio Dante Cappelletti, raduna frammenti di uno specchio in frantumi, un discorso illogico fatto di salti e interruzioni improvvise, di immagini, suoni e parole, all’interno del mondo della paura che da un ombra sul muro inventa mostri inesistenti.

Da ultimo Hey, Kitty! il lavoro ispirato al Diario di Anna Frank della danzatrice armena, di formazione classica, Rima Pipoyan. Kitty è il diario di Anna. Così iniziava i suoi racconti sulla pagina bianca. Ma il diario non è l’unico elemento di ispirazione: vi è anche una piccola poesia di un bambino tedesco sulle scarpe che emergono dalle macerie, la scarpe dei morti.

Rima Pipoyan racconta che in Armenia, dove sono molto vivi la danza e il balletto classici, la danza contemporanea è assente. Il suo è quindi un approccio alla ricerca di un linguaggio che manca nel suo paese.

La danza di Rima Pipoyan, che si interfaccia e si alterna con i video di Davit Grigoryan, è un viaggio alla ricerca di un linguaggio che ancora non c’è. Si nota la transizione dalla forma balletto a qualcosa di diverso. È un tendere verso qualcosa che ancora non si è trovato. Rima Pipoyan. negli incontri prefestival. racconta che il suo lavoro nasce dalla domanda: cos’è la danza contemporanea? E su questa domanda innesta le sue sperimentazioni, in Armenia pionieristiche, alla ricerca di un linguaggio che non c’è nel suo paese e di uno stile personale. Ma la domanda che si pone Rima è la domanda di ogni artista e danzatore per andare al di là di ciò che si considera definito e mai lo è stato.

Quella del Festival Opera Prima è un’ottima ripartenza. Un festival accogliente che induce al dialogo e all’incontro. Molto è il lavoro che ancora si dovrà fare per recuperare il pubblico, per ricostruire i legami con la città e il territorio, nonostante il Teatro del Lemming non abbia mai interrotto la sua attività a Rovigo.

La provincia è sempre difficile, tende a richiudersi nelle abitudini, è diffidente a tutto ciò che turba la routine. È un territorio che pone delle sfide, ma è anche un ambiente in cui, se si ha la cura del Teatro del Lemming, si può far nascere radici forti e durevoli. É questo l’augurio che rivolgiamo a Massimo Munaro e a tutti i suoi collaboratori.

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Sidi Labi Cherkaoui

TORINODANZA: NOETIC E ICON DI SIDI LABI CHERKAOUI

Sidi Labi Cherkaoui apre al Teatro Regio di Torino Torinodanza con due opere, Noetic e Icon, nate dalla collaborazione la Compagnia di Danza dell’Opera di Göteborg e con lo scultore inglese Antony Gormley.

Sidi Labi Cherkaoui, coreografo belga di origine fiamminga, allievo di Anne Teresa De Keersmaeker, ha già una lunga e acclamata carriera nonostante la giovane età (è nato nel 1976). Tra i suoi lavori più acclamati ricordiamo Zero Degree in duo con Akram Khan, Origine e le coreografie per Anna Karenina, il film di Joe Write, per la sceneggiatura di Tom Stoppard, con Jude Law e Keira Knightley.

In Noetic Sidi Labi Cherkaoui ci conduce in uno spazio danzato in cui le forme geometriche sfuggono a qualsiasi stasi, in perpetua trasformazione e permutazione, in un eterno movimento metamorfico.

Noetico è aggettivo riferito a quella attività dell’intelletto che pertiene all’intuizione al di la di ogni giudizio. È la percezione nel suo stato più puro e, forse, ingenuo, quella che coglie la meraviglia in una semplice foglia scossa dal vento. E a questo stato, che richiede perenne attenzione all’istante e al mondo – non a caso è citata l’ode di Orazio con il famoso Carpe diem -, ci invita una danza che trattiene in sé origini e stili diversi in un unico fascio di movimento.

Piccoli listelli flessibili compongono figure e spazi geometrici sul bianco neutro del tappeto danza. Linee che presto diventano curve, perché: “nulla nel mondo fisico si muove in linea retta, né proiettili, né fulmini che scendono dal cielo”. E così sorgono onde e sfere armillari.

Le parole di Randy Powell descrivono la forza della bobina-toro, questo schema di forze che attraversa ogni cosa in natura, forze sdoppiate che concorrono alla creazione e permeano l’esistenza. Un moto da solo è niente, si compone sempre di un contrasto che non si oppone ma coopera.

In Noetic la danza si intreccia con il canto di Miriam Andersén, con la musica di Szymon Brzóska, in parte eseguita dal vivo da Kazunari Abe al flauto e alle percussioni e i testi di Randy Powell.

Se Noetic nasce dall’aerea leggerezza dei listelli flessibili, Icon si genera dalla terra e dalla pesantezza dell’argilla malleabile. Sulla scena i danzatori creano e distruggono icone e costrutti, in un gioco di creazione e distruzione che conduce a una nuova ricomposizione del mondo. I corpi, i sessi, gli oggetti si creano e si disfano, sorgono dalla terra e alla terra ritornano.

Niente permane e tutto si trasforma: la scena si traveste con il corpo di Proteo in metamorfosi continua prima di proferire l’oracolo.

Nuovamente assistiamo a una tessitura in cui la danza abbraccia la musica che esegue, dal vivo, brani antichi di musica tradizionale dando a ciò che avviene in scena un carattere sacro, ctonio, colmo di misteri e saperi antichi.

Sia in Noetic che in Icon di Sidi Labi Cherkaoui ciò che vediamo è una danza che sfugge a sé stessa contaminandosi di un gesto a volte teatrale e a volte performativo, inserendo altri linguaggi artistici come la parola poetica, la prosa scientifica, il canto, la musica con la quale la danza si intreccia inestricabilmente e mette in luce l’affermarsi di una composizione scenica che travalica i generi.

La danza di Sidi Labi Cherkaoui è anche costante tensione verso il superamento del contrasto,visto sempre in positivo, come moto di rafforzamento dell’individuo nel suo percorso di trasformazione. Anche il trauma è visto nel suo aspetto positivo, come formazione della percezione e cui sta a noi dare una connotazione e una valenza.

Quella esperita in questa apertura di TorinoDanza è una visione dell’arte come messaggio di speranza, luogo in cui i contrasti e gli abissi vengono ricomposti e superati. L’orrore del mondo non è cancellato ma privato della sua forza distruttiva, sempre superabile dall’attenzione, dalla meraviglia, dallo sforzo costante di non vedere ostacoli e muri, ma fluide conformazioni che si mescolano nella creazione di nuova vita.

Photo: @Eastman

Carmelo Bene

GLI ORACOLI DI CARMELO BENE

Negli anni Novanta Carmelo Bene in maniera lapidaria scolpì due sentenze oracolari sul futuro prossimo del teatro italiano: ”un applauso non si nega a nessuno” e :”se lo Stato non pensa ai mediocri, chi ci pensa?”.

Quel futuro delineato da Carmelo Bene ora è il nostro presente. E ciò che antivedeva l’artista più irriverente del teatro italiano, ora è sotto gli occhi di tutti ma si fa finta che non sia così.

Partiamo dal primo assunto che un applauso non si nega a nessuno. Le conseguenze sono una critica depotenziata. Come già ha fatto notare Giulio Sonno pubblicando Il nuovo che (ci) avanza http://www.paperstreet.it/il-nuovo-che-ci-avanza/ : esprimere un parere che non sia favorevole a un lavoro o a una rassegna o festival è brutto e non si fa.

Subito di fronte a una critica che pone una domanda, o mette in discussione la riuscita di un lavoro, si levano infantili lamentele, si asserisce che non questo è il compito della critica, che mica siamo a scuola che si consegnano le pagelle. Qualcuno scomoda persino Artaud e indignandosi protesta: basta con i capolavori! battendo metaforicamente i pugni sul tavolo. Come se il critico andando a teatro volesse vedere solo spettacoli da iscrivere nel grande e luminoso libro della storia del teatro. Quelli più dignitosi fanno finta che le critiche – diciamo negative – non esistano e le nascondono inutilmente come polvere sotto il tappeto, dimenticandosi che siamo nell’epoca di internet e tutto diventa immediatamente di dominio pubblico.

Si scorda in tutto questo che la critica, quella migliore e più consapevole, pone domande scomode, non afferma giudizi di merito o estetici (l’era dell’arte come bello e del giudizio estetico è finita più di cento anni fa!). Lo fa non perché ne prova piacere, perché odia un artista o un festival, ma perché è il suo compito, si assume la responsabilità di porre in luce un’idea di teatro possibile.

La critica non ha sempre ragione obbietterà qualcuno o, come rispondeva Sidney Lumet alla critica Pauline Kael, vuole parlare di un’esperienza artistica senza prendersi alcun rischio. Ma qui non ha importanza chi ha ragione o torto, si parla di far muovere il pensiero sul teatro che si sta disabituando al contraddittorio.

E la responsabilità, ripeto, la si assume proprio nel porre pubblicamente domande scomode all’artista, al curatore, al pubblico, e di risponderne, altrettanto pubblicamente, a coloro che sono in disaccordo.

In questi giorni rileggevo il bellissimo romanzo di Milan Kundera L’insostenibile leggerezza dell’essere e ho trovato una frase illuminante: “L’ideale estetico dell’accordo categorico con l’essere è un mondo dove la merda è negata e dove tutti si comportano come se non esistesse. Questo ideale estetico si chiama Kitsch”

Se il secolo scorso è iniziato con i Futuristi che si crogiolavano nella voluttà di essere fischiati, ora si è passato al divieto di critica. Si passa per essere dei bastian contrari, dei brontoloni a cui non va bene nulla, e si procede tutti spediti verso l’accordo unanime. Nessuna pubblica discussione, nessun movimento di pensiero, solo i rimbalzi delle critiche positive a far vedere che i propri festival e i propri lavori piacciono proprio a tutti. La fiera della vanità.

Ma veniamo al secondo assunto di Carmelo Bene: la mediocrità sostenuta dallo Stato. Tutti i bandi, ma proprio tutti, richiedono come presupposto nuovo pubblico. Questa bulimia di audience, ossessione spasmodica che non si interroga sulle funzioni della scena nella società, ma desidera solo che a teatro ci si vada e sempre più numerosi, comporta che per accontentare tutti si abbassino i livelli e si renda il teatro riconoscibile anche a un analfabeta. E così il ritorno di schemi teatrali e registici che si pensavano sepolti dalla storia: rinascita di un teatro borghese (senza i presupposti socio economici che hanno reso quel teatro necessario al suo tempo), ritorno prepotente della rappresentazione e di un teatro di regia dei tempi di Stanislavkij, il tutto condito in salsa social o talent show, con qualche proiezione qua e là per assolvere all’altro criterio ossessivo: la multimedialità.

Quest’ultima altra aberrazione del contemporaneo. Per essere chiari il teatro è multimediale dal tempo dei carri di Tespi. Teatro era Koreia ossia danza, musica e poesia. L’opera lirica è multimediale dall’Orfeo di Monteverdi, così come i trionfi del Brunelleschi mettevano in campo dall’ingegneria alla pittura, dalla danza alla musica, scultura e architettura. Piantiamola quindi di richiedere una cosa che è implicita nell’arte teatrale stessa!

I bandi determinano anche gli argomenti e così anno dopo anno ci ritroviamo ammucchiate di lavori che parlano tutti delle stesse cose e si dimentica che il teatro non è la cronaca del quotidiano ma pone domande alla società/pubblico a cui si rivolge, anche quelle che proprio non vuole sentire. Non si fa la morale o si espone il proprio punto di vista come al bar, si mette in questione il reale al di là di se stessi.

Di come la pensava Shakespeare sulla politica dell’Inghilterra con la Spagna non sappiamo proprio nulla, abbiamo le sue splendide opere che mettono in questione la natura umana nel suo complesso tanto che Harold Bloom è giunto ad affermare che il Bardo abbia inventato l’umano. Thomas Mann chiamava questo: la visione stereoscopica dell’autore ossia vedere tutto da ogni angolazione possibile al di là delle proprie opinioni.

Oggi invece sempre più ci si ritrova davanti a lavori che esprimono solo il punto di vista del suo autore su questo o quell’argomento e con la morale della favola, aspetto che anche Giulio Sonno mette in luce nel succitato articolo. Dell’opinione dell’artista su questo o quello non frega un beato niente a nessuno. Quello che ci si aspetta da lui è che metta in questione la realtà, che getti luce sulle crepe della civiltà e della società che abitiamo.

Come dice Kundera: “nel regno del Kitsch totalitario, le risposte sono già date in precedenza ed escludono qualsivoglia domanda. Ne deriva che il vero antagonista del Kitsch totalitario è l’uomo che pone delle domande. Una domanda è come un coltello che squarcia la tela di un fondale dipinto per permetterci di dare un’occhiata a ciò che si nasconde dietro”.

Questo ci si aspetta dall’artista e dal teatro anche se l’opera non è un capolavoro, anche se è mediocre. Non si tratta di valori estetici, si tratta di funzioni e di consapevolezza del ruolo. Una nuova interpretazione di Amleto, il bravo attore che lo interpreta magnificamente, o la regia impeccabile non servono a niente e a nessuno se questo non scuote alla base l’idea che abbiamo del mondo.

Torniamo quindi al ruolo della critica: non diamo pagelle, non diamo voti e stelline. Non è nel mio interesse dare voti a nessuno, quanto, invece, pensare il teatro, scuoterlo, generare pensiero scenico, confrontarmi con artisti, curatori e pubblico, cercare soluzioni possibili ai problemi che affliggono questo nostro mondo (sempre più chiuso in se stesso) e assente di voci discordanti.

Uno dei dipinti che ho sempre trovato tra i più inquietanti è La parabola dei ciechi di Brueghel. Sei ciechi si avviano verso un baratro uno dietro l’altro. Il primo già sta cadendo, il secondo ha appena il tempo di rendersi conto che la terra è finita e inizia l’abisso. Quello che veramente mette a disagio è il terzo che con incrollabile fiducia si avvia verso il baratro senza nulla sospettare conducendo quelli che lo seguono al precipizio.

Dire che va tutto bene, che siamo tutti bravissimi non serve. È solo un prendersi per mano con occhi bendati e camminare fiduciosi verso il vuoto che ci attende qualche passo più in là.