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Roberto Zucco

ROBERTO ZUCCO: di Bernard Marie Koltes, regia di Licia Lanera

La prima volta che vidi Roberto Zucco fu alla Biennale del 1995 per la regia di Lluis Pasqual alle Corderie dell’Arsenale. Ci andai perché ricordavo, seppur vagamente, quell’uomo sul tetto del carcere di Treviso. Su Youtube si trovano ancora stralci di filmati di repertorio della Rai. Mi incuriosiva la sua storia.

Mi innamorai di quel testo impregnato di solitudine, intriso di contagio e di peste, una corsa verso l’abisso, un viaggio di sola andata. Roberto Succo, il serial killer dagli occhi di ghiaccio per tutti noto come Roberto Zucco, proprio grazie al testo di Koltes, suo ultimo prima della morte del 1989, diventa una figura mitica, un terremoto che scuote le fondamenta della civiltà e diffonde intorno a sè una gragnola di domande urgenti.

La vicenda di Roberto Succo si sviluppa dal 1981, anno in cui uccise i due genitori, fino al 1988 quando si suicidò nel carcere di Vicenza soffocandosi con un sacchetto di plastica e una bomboletta di gas butano. In mezzo l’ospedale psichiatrico, la fuga, la Francia e la Svizzera, gli omicidi (ben 5!), gli stupri, l’arresto e il nuovo tentativo di fuga con la conferenza improvvisata sul tetto.

La società normale cercò di archiviare la vita di Succo sotto definizioni da medicina psichiatrica: schizofrenia paranoide. Tutto qui? Gli artisti non si sono accontentati e il cherubino nero è diventato Roberto Zucco, una figura su cui continuare a riflettere (oltre al testo di Koltes messo in scena da grandi registi negli ultimi trentanni da Peter Stein ad Andrea Adriatico, ne è stato tratto un film in concorso a Cannes nel 2001).

Koltes con Roberto Zucco ha scritto un testo per il teatro densamente poetico, lirico, sublime e tremendo come dovrebbe essere una tragedia.

Qualcuno si sarà accorto che non ho ancora cominciato a parlare dell’allestimento di Licia Lanera. Non c’è molto da dire. Tutto il materiale che riguarda questa vicenda, e non parlo solo del testo, rimane sepolto sotto una coltre di macchiette, faccette, smorfiette, nudi inutili, tautologie ancora più inutili (esempio: al riferimento testuale sui rinoceronti mettere in scena un rinoceronte a grandezza naturale è solo ridondante e non aggiunge nulla, e questo è solo l’esempio più evidente ma se ne potrebbero fare tanti altri), balletti e musichette.

Mentre guardavo lo spettacolo continuava a tornarmi in mente la scena della locura in Boris, quando gli sceneggiatori spiegano a Renè Ferretti cosa necessita Occhi del Cuore per sfondare: la locura appunto. E cos’è? :”la tradizione ma con una bella spruzzata di pazzia. Il peggior conservatorismo che però si tinge di pazzia, di colore, di paillettes”,

Un testo e un materiale straordinario ed esplosivo disinnescato da una semplificazione banale, e scioccamente caricaturale per sembrare giovani e pop quando invece si tratta di un allestimento del tutto conforme ai canoni tradizionali di una rappresentazione interpretativa. Facciamo finta di essere moderni solo perché ci infiliamo qualche bella immagine mischiata col trash, Jeff Buckley e Jannacci.

Non c’ molto altro da dire. Come dice lo sceneggiatore in Boris: “un’immagine di un paese di musichette mentre fuori c’è la morte”. Roberto Zucco poteva e meritava di essere qualcos’altro.

Ph. @Ilgazzettino

Liv Ferracchiati

INTERVISTA A LIV FERRACCHIATI

Il Festival delle Colline Torinesi si è aperto con la Trilogia dell’identità di Liv Ferracchiati, un giovane autore e regista che ha saputo ritagliarsi uno spazio importante nel panorama italiano. In questa intervista abbiamo parlato del suo teatro, del suo lavoro e dei suoi progetti.

Enrico Pastore: Come sei giunto al teatro? Quanto hai cominciato a sentire sentire l’esigenza di usare la scena come mezzo espressivo/creativo?

Liv Ferracchiati: È un mio modo di mettere a fuoco, un tentativo di metabolizzare.

Il primo approccio avviene sempre con la scrittura, con la parola.

Una parola che utilizzo come strumento per ricostruire la realtà, sopravviverla.

Il teatro che faccio io ha a che fare, credo, con la disperazione e l’ironia e non sono d’accordo quando viene detto che l’ironia non mostra che la distanza e che la leggerezza “è poca cosa”, può apparire così ad uno sguardo superficiale.

L’ “atto ironico”, per me, è preceduto dalla disperazione più totale. Misurare il reale, anche nei suoi aspetti più tragici e antinomici, rovesciarlo ed elaborarlo per contrasto è un atto disperato, intrinsecamente poetico

Enrico Pastore: Che tipo di teatro hai in mente, intendo a livello registico/compositivo, o per meglio dire, che tipo di teatro vuoi/vorresti costruire?

Liv Ferracchiati: In realtà, ho la profonda convinzione che non esista solo un tipo di teatro possibile. Ogni progetto richiede una ricerca nuova e, quindi, una nuova elaborazione di linguaggio. Credo di volermi prendere la libertà di “vagare”, di non confezionare ogni volta lo stesso prodotto. Ho molti progetti in mente, così tanti che a volte mi scopro a pensare: speriamo di non morire prima.

Ognuno di questi sarà un incontro/scontro con il materiale creativo che, suppongo, porterà in direzioni diverse, magari anche opposte. Quello che rimane invariato, come mi sembra accada anche per la “Trilogia sull’Identità”, è il sostrato.

Enrico Pastore: C’è un autore o un nucleo di autori teatrali, parlo di registi o pensatori di teatro, più che drammaturghi che ispirano il tuo lavoro sulla scena?

Liv Ferracchiati: Dovrei ripercorre a ritroso buona parte della mia vita per identificare quali siano stati gli autori teatrali (e non), conosciuti, visti o letti, che hanno influenzato un dato momento del mio fare teatro, ma credo sia poco utile nominarne alcuni.

Se dovessi però pensare al primo testo che mi viene in mente: direi “Il teatro delle marionette” di Heinrich von Kleist, con l’aneddoto del giovane che perde tutta la grazia nel tentativo di ripetere un movimento riuscito per caso in cui aveva raggiunto la bellezza dello Spinario, la statua greca. La voce narrante, nel testo, dialoga con con un danzatore e gli dimostra come le marionette abbiano più grazia dei danzatori stessi, di fatto perché sono “senz’anima”, inconsapevoli quindi.

Anche gli attori possono raggiungere quel grado di inconsapevolezza, quel momento di pura grazia, per chi agisce e chi guarda, in cui accade davvero qualcosa di non facilmente identificabile.

Una dimensione che viene immediatamente sfasciata dal pensiero razionale o dal tentativo di replica.

Non ha che fare con l’immedesimazione, è un essere mossi dalla scena, come appunto accade ad una marionetta, è qualcosa con sé e, insieme, al di fuori di sé.

Richiede la presenza di attori in grado di essere lucidi eppure immersi interamente nel gioco scenico.

Enrico Pastore: Assistendo alla trilogia mi sembra che vi sia una sorta di immedesimazione estraniata nell’attore, una sorta di mix, – passami il paragone – tra Stanislavskij e Brecht. Come si svolge dunque il tuo lavoro con l’attore? In che modo si passa dalla drammaturgia alla scena viva?

Liv Ferracchiati: Ogni spettacolo ha una sua modalità di approccio al lavoro con l’attore. Ad esempio, in Stabat Mater ho chiesto alle attrici di stare “a lato” del personaggio, di non lasciare mai che l’immedesimazione prendesse il sopravvento.

È però un’indicazione concettuale, che ci siamo detti all’inizio e sulla quale si è anche molto scherzato, perché, di per sé, non è un concetto recitabile.

Credo che un attore poi se ne dimentichi, quello che crea quest’effetto è il dover seguire il ritmo del testo e, insieme, la drammaturgia dei sottotesti. Quello che viene detto appare semplice e quotidiano, ma c’è dietro un lavoro complesso, prima in scrittura e poi nella riscrittura con gli attori. Per riscrittura intendo proprio la direzione dell’attore che è per me l’ultima stesura del testo. Da una parte si lavora sul ritmo, sulle frazioni di secondo negli attacchi o negli stop di una battuta, sugli accenti, ha a che fare con la musicalità, dall’altra si inquadra la situazione di ogni scena, si ricerca la sfumatura più minimale di un’intenzione, si provano le reazioni con dei tempi naturali e poi si dimezzano per renderle a servizio del tempo teatrale. Ogni battuta viene prima studiata al microscopio e poi scolpita nel dettaglio. Nemmeno un respiro è casuale nei miei spettacoli, ma dentro queste rigide griglie l’attore è libero. Sembra un paradosso, ma non essendoci gesti prestabiliti o toni dati, il lavoro funziona solo se si è davvero presenti e in ascolto perché, ogni volta, i segmenti si spostano di qualche millimetro. La bravura sta nel tenere questa fragilissima struttura fatta di suono, tempo e reazioni emotive in equilibrio.

Per Un eschimese in Amazzonia il lavoro è stato diverso seppure con delle somiglianze, abbiamo lavorato soprattutto sulla musicalità ed è stato il testo che, insieme al tema di ogni “link”, suggeriva i movimenti del Coro. Per il terzo capitolo, infatti, si è trattato di una scrittura scenica collettiva a partire dalla drammaturgia testuale che scrivevo io durante le prove e che poi veniva verificata subito dopo. Abbiamo rinunciato al codice interpretativo sia per me, ossia per l’Eschimese, che si trova ad improvvisare e a giocare con un linguaggio che si avvicina alla stand-up comedy, sia per il Coro che parla all’unisono, che quasi si limita a dire e basta, senza intonazione, come un unico corpo agente e parlante. Diversamente i monologhi dell’Eschimese non sono mai stati scritti, ci sono degli appuntamenti prestabiliti, ma ogni volta tutto viene improvvisato da zero.

Enrico Pastore: Mi sembra che nella vostra compagnia, The baby walk, siate molto uniti e formiate una sorta di comunità teatrale. Come è nata la compagnia e quali sono, se vuoi dirlo, i vostri progetti futuri?

Liv Ferracchiati: La compagnia è nata nel 2014, ufficialmente nel 2016, e si è formata intorno al primo capitolo della “Trilogia sull’Identità”. All’interno del gruppo ci sono ormai le dinamiche che ci sono in una famiglia, nel bene e nel male.  The Baby Walk è prima di tutto un gruppo, ma composto da delle personalità piuttosto forti.

Greta Cappalletti, è un’autrice, ma spesso nel lavoro con me è la dramaturg, mi aiuta nella concezione del progetto e, quando è quella la modalità, strutturiamo insieme le improvvisazioni per ampliare e verificare il testo. Laura Dondi è interprete, coreografa e costumista, spesso aiuto regia, con lei è fondamentale il confronto  nell’elaborazione del progetto e nel filtrare il magma di materiale istintivo che io  ogni volta metto in gioco.

Alice Raffaelli, seppur in un lavoro corale come il nostro, è la protagonista della Trilogia, in lei ho trovato un’intelligenza teatrale rara che spesso riesce a realizzare quel binomio di lucidità e inconsapevolezza di cui parlavo sopra. Linda Caridi, è un’attrice di estrema sensibilità e raffinatezza, con una tecnica invidiabile che, però,  adopera a favore della complessità emotiva del suo personaggio.

Chiara Leoncini, interprete abile sia nel registro comico che in quello tragico, è stata la prima attrice della compagnia con cui ho lavorato, il progetto è stato poi acquisito da TBW, era Ti auguro un fidanzato come Nanni Moretti.

Gli attori che lavorano in compagnia, così come i danzatori, sono tutti anche autori del proprio personaggio. Giacomo Priorelli è tecnico e ideatore luci, sempre aperto al confronto con me, presta il suo immaginario poetico agli spettacoli. Lucia Menegazzo, la scenografa, che spesso mi odia, perché scelgo di non usare nulla in scena, ma dalle cui suggestioni si sono anche sviluppate delle idee drammaturgiche, com’è successo per Todi is a small town in the center of Italy. Andrea Campanella che fin dall’inizio ha avuto il ruolo di documentare con riprese video l’elaborazione del progetto. Rispetto ai progetti futuri non posso parlarne ancora, per adesso ci concentriamo sulla Trilogia appena finita.

Io sto lavorando ad un nuovo testo, il cui titolo è al momento Prova Aperta, sui meccanismi della creazione, inizierà le prove tra cinque giorni, lo spettacolo sarà prodotto dal Teatro Stabile dell’Umbria.

Piccola Compagnia Dammacco

PICCOLA COMPAGNIA DAMMACCO: La buona educazione

La buona educazione della Piccola Compagnia Dammacco presentata in questi giorni al Festival delle Colline Torinesi è l’ultimo capitolo de La Trilogia della fine del mondo i cui primi capitoli sono L’inferno e la fanciulla ed Esilio.

Serena Balivo interpreta una donna sola, che ha deciso di non avere figli, e a cui piace la sua solitudine. Improvvisamente la sorella muore e deve occuparsi del nipote, ultimo rampollo ed erede della famiglia.

Come fare? Ma soprattutto: è possibile veramente influenzare, impostare, indirizzare o perfino coltivare la vita di un altro? Questa la domanda che viene riformulata di continuo, come un rovello, un tarlo instancabile, per tutto lo spettacolo.

In questo salotto retrò ingombro di oggetti che richiamano un lontano passato, la donna, vestita anch’essa con abiti d’altri tempi, severa e un po’ polverosa, riflette ossessivamente sul suo ruolo rispetto al giovane nipote che non la capisce. Nemmeno lei comprende il linguaggio costituito di soli verbi all’infinito del ragazzo, e cereto non i suoi sogni e i suoi desideri.

Il conflitto è però espulso dalla scena. Lo indaghiamo da un’unica fonte, ironico e perdente unico verso di una medaglia che comunque ha due facce. La scena è ingombra di ciò che pertiene a chi è sconfitto dal nuovo che è assente, fantasma anch’esso come il più lontano passato.

Il salotto, affollato di manichini, i fantasmi dei familiari che ossessionano le notti della donna, diventa come una sorta di ultimo rifugio, unico luogo dove far correre i pensieri e provare a mettere un argine all’incomprensione. Un’ultima e inutile fortezza vuota. Il ragazzo ha deciso di vivere altrove, correre altri lidi. Non lo vediamo mai ed è significativo.

Brava ed efficace Serena Balivo. Il tono ironico, leggermente surreale, con cui viene affrescata la vita in comune della donna e del ragazzo, due mondi che convivono ma non si capiscono, sgrava l’atmosfera di cupezza e oppressione. L’ironia salva una storia che non ha fine o conclusione. Potrebbe ripetersi all’infinito. Le generazioni si susseguono senza capirsi e non si capiranno mai perché abitano due presenti contrapposti, quello che sta lasciando il passo e quello che si sta affermando. Il ragazzo rifiuta infatti la tutela della zia.

Una generazione già resa polverosa da valori sorpassati che fallisce il confronto con quella più nuova e già incomprensibile forse perché troppo vacua, o forse solo più cinica e pragmatica. Sembra che tra zia e nipote vi siano secoli di distanza anche se probabilmente non si parla che di due decadi.

La buona educazione della Piccola Compagnia Dammacco è uno spettacolo che presenta in sé alcune contraddizioni mascherate da una grande giovane attrice, ed è in qualche modo è paradigmatico. Spicca su tutto l’ottima recitazione di Serena Balivo, che riesce sempre a rendere le sfumature più difficili di un interpretazione complessa, e a costruire un bel melange di ironia e commozione, surrealtà e verità.

Suggestivo anche l’allestimento anche se per molta parte del lavoro nient’altro che decoro: sia gli oggetti polverosi e pesanti di un passato che resta l’unico segno, sia i manichini immobili, folla di fantasmi, di un passato ancora più lontano e incomprensibile, che avrebbero potuto essere qualcosa di più.

Ma La buona educazione è in qualche modo uno spettacolo che contiene in sé alcuni dei paradigmi del nuovo teatro italiano. Modelli che potrebbero essere visti sia come vizi di forma, che salutati come un felice ritorno di qualcosa che in fondo conosciamo bene. Non è il giudizio che qui ci interessa, quanto determinare se esistano dei vettori e cosa portino in dono.

Il mio è un invito alla riflessione sull’estrema semplificazione del linguaggio scenico in cui quasi scompare la regia, o comunque si riduce ai minimi termini, al fine di far passare un messaggio quasi esclusivamente affidato alla parola. Con il termine semplificazione non intendo qualcosa di buono o di cattivo, di giusto o di sbagliato. Non ha l’accezione di superficialità o di facilità. Intendo più un processo di scarnificazione e intendo soprattutto evidenziare un fenomeno.

Quello che vedo negli ultimi tempi non è tento una scena intesa come insieme dei plurimi segnali significanti provenienti da corpo, movimento, spazio e tempo, luce e suono, e che vanno trattati come singoli strumenti di un’orchestra e quindi messi in relazione tramite un processo di composizione, quanto un asservirsi di questi al messaggio contenuto in un testo come se solo la parola potesse raggiungere il cuore del pubblico.

È un ritorno prepotente della rappresentazione, in quanto messa in scena di un testo che preesiste. La vecchia generazione che fece di tutto per uscire o andare al di là della rappresentazione sembra che parli una lingua sconosciuta e incomprensibile.

E così si assiste a spettacoli, non necessariamente fallimentari, – La Buona educazione della Piccola Compagnia Dammacco non è uno lavoro mal riuscito o mal concepito, tutt’altro! -, ma impostati sull’unico cardine della parola cui gli altri elementi servono più che altro da corredo rafforzativo di un unico segnale.

Laddove in molta parte d’Europa si sviluppa e si sperimenta un’arte della composizione scenica dove i linguaggi diventano parte di un insieme che concorre a costruire un segnale intenso e composito anche quando si confronta con un testo, nei lavori di molti artisti italiani si assiste a una riduzione all’uno.

Non faccio in questo discorso nessun riferimento al passato perché il teatro vive solo il presente. Per quanto si porti dietro un retaggio si confronta sempre e solo con il tempo in cui vive perché reagisce alle condizioni del hic et nunc in cui si manifesta.

Anche quando si assiste a spettacoli apparentemente multimediali è la parola che fa da direttore d’orchestra. L’abbiamo visto, per limitarsi solo a questa edizione del Festival delle Colline Torinesi, nella Trilogia dell’Identità di Liv Ferracchiati, così come in Ritratto di donna Araba che guarda il mare di LAB121 con il testo di Carnevali e lo riscontriamo anche ne La buona educazione della Piccola Compagnia Dammacco, ovviamente con esiti, gradazioni e intensità diverse.

È come se la parola fosse un porto sicuro per raggiungere la comprensibilità e il maggior numero di persone possibile ottenendo il maggior impatto possibile. E non è esclusivamente una questione di mezzi è qualcosa di più profondo. È la ricerca spasmodica di un’efficacia a volte per mezzo della tecnica a volte al di là di essa. È come se la parola in qualche modo proteggesse da un fallimento, quest’ultimo elemento di fatto necessario a ogni ricerca.

Sembra che manchi una visione della funzione del teatro, che in qualche modo si rinunci a indagarne le possibilità: si segue un sentiero di sicura efficacia, si lascia per il momento da parte la ricerca di cosa si possa raggiungere veramente tramite il teatro oggi se si utilizzasse efficacemente il suo linguaggio plurimo, in cui la parola è solo uno degli elementi a disposizione.

È un fenomeno che andrebbe indagato con maggior attenzione e non nello spazio di un articolo. Anzi spero che queste poche righe portino altri a dire la loro sull’argomento, che si possa riflettere insieme, artisti, critici e pubblico. E credo sia giusto sollevare la questione proprio in seguito a un lavoro nel complesso solido e di ottimo livello recitativo.

Ph: @lucadelpia

Roberta Bosetti

A SPASSO CON EMILY: La Dickinson’s walk di Roberta Bosetti

L’appuntamento con Cuocolo/Bosetti è al Caffè Elena, al calar della sera, finalmente una bella sera dopo tanta pioggia. Roberta Bosetti ci aspetta con le poesie di Emily Dickinson. Si indossano le cuffie, si sintonizzano le radioline e poi a spasso per il centro di Torino.

La voce di Roberta Bosetti ci invita a seguirla. Dalla grande piazza giù per via Piana fino ai giardinetti di Piazza Maria Teresa. Una breve sosta sulle panchine, poi di nuovo in movimento da via Giolitti fino al Lungo Po.

All’orecchio giungono i numeri delle poesie di Emily. E le parole seguono calde e stranianti sul sottofondo di brusio cittadino. La musica che giunge dal bar in piazza, le risate di un gruppo di ragazze che si affrettano all’aperitivo del venerdì, un cane che abbaia, il rombo di una motocicletta.

E intanto si passeggia e le parole di Emily, che non uscì per lunghi anni dalla sua camera, si mischiano alla città, ai suoi rumori e alle sue immagini e tutto appare sotto un’inquadratura differente. Quel dire la verità per piccoli passi, un poco mascherata per non diventar ciechi al suo fulgido apparire, svela piccoli misteri che il passo quotidiano impedisce di scoprire.

La voce di Roberta Bosetti ci porta le poesie senza riferirle, non è la voce di un audiolibro o di una visita guidata. Sono parole solide, suoni di un pensiero che fu, partorite nella solitudine, corpo di un’immaginazione che creò un mondo che quasi non vide che da una finestra ma dava ragione a quel passo di Lao Tzu che ricorda come, per conoscere il Tao, non serva uscire dalla porta.

Le poesie sono richiamate a nuova vita, a farsi nuovamente suono, ad abitare un paesaggio e svanire nell’aria della sera. Finalmente un’esperienza di una voce che non riferisce, che non dice, ma che è esperienza sonora di un pensiero e di una vita. E non è un caso che questa esperienza avvenga fuori da un teatro affollato sempre più di voci gridate, che devono dire per forza, che devono comunicare, spedire un messaggio a più orecchie possibili. Noi si cammina insieme al concerto di parole che Roberta Bosetti ci regala in questa breve passeggiata.

Ci fermiamo un attimo sul Lungo Po a guardare il Monte dei Cappuccini, la Gran Madre lontana e austera, il fiume che scorre e porta via le poesie, numerate e mai nominate,

E da questo esterno entriamo in un cortile. Chiudiamo fuori le voci della città che si appresta al suo venerdì sera. Portiamo solo Emily con noi su per le scale che ci conducono in una casa, in un salotto, dove ascoltiamo le ultime poesie. E poi brindiamo con un dito di Rum alla grande poetessa che in vita non pubblicò che sette poesie delle sue migliaia cucite insieme con il filo. E brindiamo anche a Roberta Bosetti che le ha fatte rivivere per noi scolpendole nel paesaggio che abbiamo attraversato.

Vico Quarto Mazzini

VIENI SU MARTE: Vico Quarto Mazzini

Debutta in prima nazionale alla Casa del Teatro Ragazzi all’interno del Festival delle Colline Torinesi Vieni su Marte di Vico Quarto Mazzini.

Vieni su Marte rispetta perfettamente il tema del Festival di quest’anno che, lo ricordiamo, tratta del tema del viaggio in tutte le declinazioni possibili, Il pretesto o motivo scatenante sono le candidature (ben 202568!) inviate nel 2012 per essere selezionati per la missione Mars One con lo scopo di costituire di una colonia permanente sul Pianeta Rosso.

Un viaggio di sola andata verso un mondo pervaso da un ambiente ostile e arido. Cosa ci spinge ad affrontare simili imprese? Alcune delle risposte sono presenti in video, dove alcuni candidati da tutti gli angoli del mondo, spiegano le loro ragioni. Alcune sono fantasiose, altre utopistiche, improbabili, sconcertanti. Dalla pace in un nuovo mondo, alla costituzione di una società diversa e migliore, dalla semplice vanagloria di essere i primi a farlo, a dimostrare strampalate teorie pseudoscientifiche.

Tutte manifestano una volontà di fuga e tutte dimenticano che, se anche lasciamo il mondo intero, portiamo dietro sempre noi stessi e le nostre miserie.

Vico Quarto Mazzini indaga attraverso piccole scene le ragioni del viaggio. Marte diventa qualsiasi cosa. Quegli africani che cercano di salire sul razzo vanno veramente su Marte? Quella è la destinazione per l’insegnante precario trasferito nella sede più lontana e pulciosa possibile? L’attore che vuole portare i testi Bernhard e fondare un teatro lo vuole fare proprio lassù tra le stelle (suggestiva la sua scena in concerto con la vecchina con la bara sulle spalle)? Marte non diventa simbolo di una fuga dai problemi, dalla paura della morte, della nostra incapacità di risolvere e risolversi, così come immagine di un esilio, volontario o meno, netto e irreversibile?

Cornice a tutte queste storie, il marziano, quello vero, in seduta dallo psicologo, per cercare di capire l’umano e le emozioni che lo spingono. Sembra più che altro che voglia conformarsi ai nuovi invasori, compiacerli, diventare come loro.

Vieni su Marte di Vico Quarto Mazzini è dunque uno spettacolo composto per frammenti di storie. I video intervallano le scene. Le storie dei viaggiatori a loro volte alternate con le sedute psicoanalitiche del marziano con il suo scostante e assurdo analista, scene queste le più deboli, a mio avviso, nell’impalcatura drammaturgica. L’amalgama di tutti questi vettori narrativi non sempre è riuscita, per quanto i singoli frammenti siano ben composti e recitati. L’ironia è sottile ed efficace nel tono generale benché, ripeto, manchi un collante forte a tenere insieme l’incedere drammaturgico.

Un esempio potrebbe proprio essere il finale dove alla scena, suggestiva e poetica, della partenza degli astronauti, segue l’ultima seduta del marziano, ormai quasi completamente umano, che racconta un’ultima storia. Una sorta di doppio finale in cui a una scena forte ed evocativa segue una in minore e non veramente pregnante. Il vuoto e la solitudine presente dentro di sé e che ci accompagna ovunque andiamo era già stata ampiamente evocata e forse risulta ridondante. Ultima immagine le facce dei tanti candidati alla partenza per Marte che forse poteva seguire semplicemente la partenza dei due astronauti in casco da motociclista.

Le scene visivamente sono ben costruite. Nel loro apparire dietro il telo di tulle riescono sempre a sorprenderti, pur nella semplicità della composizione, nel creare un mondo al limite della fantascienza. Quelle scale di ferro diventano rampa di lancio verso un nuovo mondo reale o immaginario che sia.

I video del terreno arido, pieno di copertoni abbandonati, che diventa suolo marziano grazie al filtro rosso donano una certa qual atmosfera da Stalker. Molto riuscito quello che inquadra il vuoto nero all’interno della ruota di gomma, vuoto che diventa lentamente sempre più ampio, abisso che si illumina e fa apparire un mondo retrostante colmo delle nostre ansie di fronte a quell’oscuro che abita dentro di noi.

Vico Quarto Mazzini in questo Vieni su Marte, prodotto insieme a Gli Scarti, presenta un lavoro con molte cose buone (la recitazione, l’ironia, un ottimo studio delle luci, la capacità di rendere con mezzi semplici atmosfere complesse) unite a qualche difetto strutturale, primo fra tutti qualche incertezza drammaturgica sicuramente risolvibile con l’evolversi dello spettacolo.

Vico Quarto Mazzini si rivela comunque una realtà interessante e promettente che come altre realtà simili nel nostro panorama italiano avrebbero bisogno di un vero e più accurato sostegno, sia produttivo che distributivo, per sbocciare come meritano. Come ho detto molte volte rispetto a lavori simili, la differenza tra un buon lavoro e un ottimo lavoro spesso sono i dettagli che si ha la possibilità di curare o emendare quando vi è una solida e sana filiera produttiva e distributiva che manca completamente in questo paese.

Blitz Theatre Group

LATE NIGHT: Blitz Theatre Group a passo di danza sulle rovine del mondo

Al Festival delle Colline Torinesi torna il Blitz Theatre Group con uno spettacolo sublime e tremendo: Late night. Due anni dopo aver portato a Torino Vanja. 10 years after, la compagnia greca ci stupisce con un lavoro poetico e melanconico come il canto sugli ultimi giorni di Roma di Rutilio Namaziano, graffiante e inquietante come un testo di Cormac McCarthy.

Blitz Theatre Group ci conduce in una sala da ballo ingombra di macerie. La pista si vede a malapena così coperta di polvere e calcinacci. Tre coppie di ballerini siedono al fondo della sala su un gruppo di sedie spaiate. Una televisione è rivolta verso di loro nell’angolo sinistro. Noi non vedremo mai cosa viene trasmesso. Sempre sulla sinistra uno scalcagnato tavolinetto con sopra, disposti in disordine, bicchieri e una brocca d’acqua. Sulla destra un ventilatore, relitto di un tempo che non è più. I ballerini sono immobili. Chi guarda verso di noi in platea, chi un qualche punto sperso nel vuoto. Lo spettacolo inizia con una risata ingiustificata.

I ballerini cominciano a danzare, dapprima timidi, poi in un vortice. La polvere si alza da terra, la musica è malinconica, – si passa da La Masquerade Suite di Khachaturian, al Valzer n.2 di Shostacovich, passando i valzer presenti nella colonna sonora di due celebri film Old Boy e Lady Vendetta -, parla di un mondo che è stato e non torna, di amori finiti, rimpianti, ricordati con dolorosa dolcezza, ma soprattutto di una civiltà che è caduta. Finis Austriae revival.

Ogni tanto i ballerini prendono fiato. Si siedono sulle sedie. Qualcuno guarda il televisore. Qualcuno si alza e va verso il microfono in proscenio. Racconta per frammenti di sogni perduti, di una guerra che continua a squassare l’Europa (città bombardate, ospedali in fiamme, eserciti in marcia, rombi di bombardieri, razzie). Non sappiamo niente perché questa guerra sia scoppiata. Non ci viene detto. Ci raccontano solo le sue conseguenze e dei sogni che agitavano i ballerini prima che tutto succedesse. Intanto loro continuano a ballare sulle note di Quasimodo Tango.

Le luce sparisce. Dopo una lunga pausa si riaccende. I ballerini si impegnano in un’assurda competizione. Scialbi e triti numeri di illusionismo, sciocche esibizioni di nessuna abilità. Un vuoto intrattenimento. Uno dei contendenti accende il ventilatore che muove dei fili colorati facendo finta che la sua mano azioni i fili. Non sembra diverso da ogni altra esibizione ma gli altri si ribellano urlando la finzione. È il ventilatore non la mano. È finto. Che l’intrattenimento sia vuoto ma almeno veritiero.

E la danze ricominciano, come i racconti: “a quel tempo pensavamo che fino a quando la musica avesse risuonato non avremmo avuto di che preoccuparci”. E invece la guerra imperversa e i calcinacci cadono dal soffitto. Tutto ciò che avviene in scena è avvolto da una nuvola di polvere.

Blitz Theatre Group canta la caduta di una civiltà. Non in una giorno e una notte come Atlantide, ma un collasso lento, ignorato, obliato. Non solo. Il collasso sembra anche umano: “A poco a poco siamo diventati ciò che disprezzavamo”. L’amore è passato, ricordato, non vissuto nel momento. Le danze continuano sulle macerie ma senza amore, meccaniche, si balla perché si deve, perché chi si ferma è perduto.

L’Europa è caduta. In guerra da nord a sud. Da qualche parte si festeggia una vittoria, altrove si sopravvive a colpi di morfina e saccheggi. Il tempo sembra circolare, si appiattisce e tutto ciò che avviene è già avvenuto. Passato, presente e futuro sono simultanei. La guerra di oggi è identica alla guerra di domani, solo più cruenta. Non c’è speranza alcuna: “la vecchia vita è finita, idioti!”.

Late Night di Blitz Theatre Group è un lavoro politico, disperante e commovente. Quella sala da ballo diroccata è sia fuori che dentro di noi. Gli amori e i sogni dissolti possono essere i nostri. La civiltà che collassa su stessa è la nostra, lo si dice senza mezzi termini, e l’arte che dovrebbe scuotere e far pensare è sciocca competizione di vuote illusioni.

Late Night di Blitz Theatre Group riverbera atmosfere di un grande teatro che fu: da Pina Bausch a Kantor. Di entrambi prende alcuni stilemi. La clownerie da relitti disastrati di un mondo sommerso da un diluvio, le vuote processioni, le ripetizioni, le danze ossessive, la sublime poesia, gli oggetti di una realtà dal rango più basso.

In questo lavoro di Blitz Theatre Group, aldilà dei significati che ciascuno può scoprirvi e cogliervi all’interno, è il teatro che parla con la sua lingua più propria, senza appoggi letterari. La poesia della scena frutto della composizione dei corpi in movimento, degli oggetti significanti, dei gesti che torturano il pensiero.

Late Night è anche il grido di Artaud, quello che ricorda come il cielo possa caderci in testa in ogni momento. Nessuna rassicurazione. Nessuna confort zone: “la vecchia vita è finita, idioti!”.

Ph: @vassilij makris

Davide Carnevali

DAVIDE CARNEVALI: Ritratto di donna araba che guarda il mare. Regia Claudio Autelli

Ieri sera alle Lavanderie a Vapore è andato in scena per il Festival delle Colline Torinesi Ritratto di donna araba che guarda il mare di Davide Carnevali nell’allestimento prodotto da LAB121 per la regia di Claudio Autelli.

Cominciamo dai dati di fatto: Davide Carnevali è uno dei drammaturghi più interessanti del panorama europeo. Fortunatamente il suo talento è riuscito a emergere, e questo è avvenuto di più in e grazie all’Europa.

Ritratto di donna araba che guarda il mare è un testo teatrale premiato a Riccione nel 2013. Davide Carnevali racconta, in dieci frammenti, l’incontro o, per meglio dire, il mancato incontro tra due civiltà.

In una città senza nome, in un mondo mussulmano non veramente identificato (non è Medio Oriente, la popolazione non è propriamente araba, saremmo quindi tentati di dire Nord Africa, ma non è così importante), un uomo senza nome, con una professione non veramente precisata tra il lecito e l’illecito, europeo ma non turista, incontra lo sguardo di una donna del luogo, giovane, forse bella, forse libera (lei almeno dice di esserlo ma possiamo veramente crederle?), proveniente da una famiglia di larghe vedute.

La storia raccontata da Davide Carnevali appare fin dalle prime battute, sfuggente, in qualche modo sfocata. Non si riesce a trattenere dati certi se non che i due protagonisti appartengono a due culture distanti. Perfino la lingua da loro parlata è detta diversa ma percepita dallo spettatore come identica. In qualche modo siamo in un universo simile seppur diverso da quello dei racconti di Camus.

L’incontro sulla spiaggia, alle porte della città vecchia, seppur banale, produce una serie di conseguenze. L’uomo si invaghisce della donna che a sua volta subisce il fascino della conquista. I due cominciano a frequentarsi se ppur in un continuo fraintendimento. Lui, con il passare del tempo, perde interesse, in lei invece si questo si rafforza. Il tutto lentamente scivola fino a giungere a una tragedia annunciata.

Oltre alla donna e all’uomo, un fratello minore e uno maggiore della donna. Non sappiamo se la parola fratello sia intesa in senso ampio oppure induca a pensare a veri e stretti legami personali. Entrambi sono motori della tragedia. Le loro azioni e le loro parole, anch’esse sfuggenti, causano e conducono all’evento tragico finale.

L’interesse per il testo di Davide Carnevali non è nella vicenda, quanto nel modo e nella tecnica usata per raccontarla. Frammenti di tempo e di conversazione intervallati da un vuoto che tocca noi riempire. Personaggi ambigui. Parole enigmatiche con un significato controverso. Finale sospeso.

Quello che è chiaro è una sorta di paradossale sfiducia nelle parole, nella comunicazione, nell’incontro tra persone e culture. Davide Carnevali, quasi si sgambettasse da solo, attua dei meccanismi che tramite il linguaggio palesano una sfiducia verso il linguaggio. Frammenti di conversazione passano da un personaggio all’altro, cambiando contesto e significato, slittano senza sosta, scivolano verso un abisso di incomprensione. L’incontro, che pur avviene tramite lo sguardo, si sgretola sotto il flusso delle parole.

Ritratto di donna araba che guarda il mare, che fin dal titolo si sabota in quanto la donna protagonista afferma fin dalle prime battute di non essere araba, è una sorta di tragedia del linguaggio, dove quest’ultimo è già condannato dalle Moire a fallire per quanti sforzi faccia. Anche le frasi più neutre e semplici sono fraintese, le parole assumono continui nuovi significati che vengono equivocati in modalità sempre peggiorativa.

Un testo teatrale, per quanto ottimamente scritto come quello di Davide Carnevali, non è il teatro. È una premessa o un auspicio. Il teatro è sempre quanto avviene sulla scena, nella carne degli attori, nello spazio/tempo del palcoscenico.

Claudio Autelli, intervistato alla fine della rappresentazione dall’amica e collega Laura Bevione, ha usato più volte la parola traduzione rispetto al suo allestimento. Una regia se è una traduzione di quanto già detto dal testo sacrifica il teatro alla letteratura. Kandinskij diceva che in arte uno più uno dà somma zero. Dire due volte le stesse cose smorza e non spinge. Se il testo dice che sento il suono del mare e in sottofondo sento il rumore delle onde si raddoppia il segnale indebolendolo. La scena dovrebbe dire quello che il testo non dice. O dire altro, lavorare in contrappunto. Comporre a sua volta perché il testo è materiale come qualsiasi altro e la scena lo trasforma non lo traduce.

Anche gli aspetti migliori dell’allestimento, come per esempio il plastico della città che evoca visivamente non solo il luogo senza nome ma anche le immagini dei quadri di Edward Hooper, inquadrato dalla telecamera e proiettato sul fondale, per quanto bello e suggestivo, non fa che rendere visivamente quanto il testo già dice. Si riduce la regia e la composizione scenica a semplice parafrasi del testo.

Ci tengo a dire che non parlo assolutamente di interpretazione o rappresentazione. Intendo dire che la scena ha un suo specifico linguaggio che si interfaccia con il testo letterario e compone con esso qualcosa che non esiste e non è stato già detto dal testo.

Il teatro come traduzione di un contenuto letterario non è interessante. Diventa solo una didascalia tra tante.

Il testo di Davide Carnevali è dunque più forte della sua immagine vivente, perché quest’ultima ha rinunciato a porsi nei suoi confronti da pari a pari. Seppure negli ultimi centoventi anni si sia operata in seno al teatro una costante rivoluzione al fine di far emergere nell’arte scenica il suo specifico, permane tutt’ora il vizietto o il pregiudizio di asservirsi al testo teatrale. Tradurre un testo tramite la scena non significa per niente fargli un favore. Tutt’altro. Lo si sminuisce. Un testo complesso e sfuggente come quello di Davide Carnevali, meriterebbe un allestimento che si confrontasse con lui, che rendesse visivamente, tramite il corpo vivo dell’attore, quell’impossibile incontro di linguaggi e culture. E invece ci si è limitati a ripetere il già detto.

Ph: @Marco DAndrea

Romeo Castellucci

GIULIO CESARE, PEZZI STACCATI di Romeo Castellucci: sulla retorica e il potere

Sabato 2 e domenica 3 alla Fondazione Merz in scena al Festival delle Colline Torinesi Giulio Cesare, pezzi staccati di Romeo Castellucci. Non si tratta del remake o di una riproposta dello storico spettacolo del 1997 ma piuttosto di una serie di frammenti o, meglio, di pensieri e riflessioni su un tema che ancora è spina nel cuore o osso in gola che non riesce a essere digerito.

Il teatro di Romeo Castellucci è da sempre un teatro filosofico, un atto del pensiero che indaga la realtà attraverso i mezzi propri del teatro. Il modello letterario è quindi squartato, dilaniato, dissezionato per andare al di là e al di dentro, verso il cuore pulsante. Non è interpretazione né attualizzazione di Shakespeare, ma riflessione in azione su nuclei di pensiero attuali, resi incandescenti dal presente.

Nel nostro tempo di tribuni della plebe che vogliono uccidere il potere per conquistare il potere, a essere indagata è la retorica e la parola nella sua meccanica, nel suo funzionamento a cercare le cause della sua efficacia.

Romeo Castellucci estrapola un serie di immagini dallo spettacolo originario, in particolare tre momenti (la prima scena del ciabattino, i monologhi di Cesare e di Marco Antonio) in cui si esplica il potere della parola e della retorica.

Nella prima scena l’attore, nominato …vskij, inserisce un endoscopio dal naso fino alle corde vocali proiettate sulla parete. La parola si fa carne, vibrazione di corde vocali, pozzo buio viscoso di saliva e di umori. La meccanica del suono, la sua carnalità sporca, al di là dei significati, delle loro altezze o bassezze infiammate. Solo un cavo, carni tremule, boli salivari che scivolano sulle carni rosee.

Il monologo di Cesare, un vecchio tremulo, una deambulazione incerta e frale. I cui gesti sprigionano un fragore come di tuono. Solo gesti, quasi linguaggio di muto, e un suono senza significato. Cesare avvolto in un manto rosso che presto diventa sacca di cadavere, rimosso dalla scena.

Infine Marco Antonio che pronuncia l’orazione funebre. L’attore è laringectomizzato, emette il suo discorso con vibrazioni gravi, telluriche quasi incomprensibili. Si parla attraverso una ferita e una menomazione dall’alto di un pulpito su cui è scritta la parola Ars. Marco Antonio con un spugna greve di sangue sporca la sua bocca e le sue mani. L’assassinio avviene non tramite il coltello ma con le parole, protagoniste seppur assenti o menomate.

Quella di Romeo Castellucci è dunque una riflessione sul potere della parola mediante un linguaggio altro e più complesso, quello della scena e del teatro, che parla tramite immagini, movimento, ritmi, e parole fatte suono. Ma in quanto linguaggio anche il teatro è retorica, anch’esso è contagiato dalla volontà di essere efficace, di raggiungere i cuori e le anime, e quindi arma e non gioco.

Anche il teatro non è innocente. In qualche modo arringa, seppur con altri mezzi. Ma è ancora efficace? Questa riflessione giunge proprio dopo la presentazione della Trilogia dell’identità di Liv Ferracchiati, dalla quale emerge proprio il sacrificio del teatro al fine di far emergere chiaro e diretto come una frecce, il messaggio e la questione dell’identità. Non è forse appunto una forma di retorica? E nel nostro presente politico non siamo tutti presi al laccio della retorica dei tribuni da social network?

In fondo quello di Romeo Castellucci è un teatro che si è sempre mostrato come un’eccellente forma di oratoria scenica. Le immagini forti, ammantate di fulgida e inquietante bellezza gelida (pensiamo allo splendido cavallo nero che attraversa la scena bianca e sul corpo dipinto e iscritto). Immagini armi, taglienti come un bisturi, che sgranano un discorso. Immagini non tanto atte ad evocare quanto a indicare. Non siamo nel mondo di Kantor dove ciò che si vede apre le strade per dei mondi imprevisti e per ognuno unici, quanto più a indicare un percorso di pensiero che enuncia una tesi e la dimostra.

Con Romeo Castellucci siamo nel più fine mondo del simbolico, dove tutto è rispecchiamento e corrispondenza. Le immagini significano qualcosa di preciso, enunciano e proclamano. Nel teatro c’è anche un’altra via, quella degli oracoli, le cui parole possono dire tutto e niente. Non è il discorso o il significato che importa, ma la modalità, l’accezione, l’intruglio evocativo degli elementi. Un balbettio insignificante che apre la via a tutti i significati possibili.

Ph: @Andrea Macchia

Liv Ferracchiati

LIV FERRACCHIATI: LA TRILOGIA DELL’IDENTITÀ

Si apre con la Trilogia dell’identità di Liv Ferracchiati il Festival delle Colline Torinesi nella sua ventitreesima edizione dedicata al tema del viaggio in tutte le sue declinazioni. Una piccola maratona di tre spettacoli Peter Pan guarda sotto le gonne, Stabat mater e Un eschimese in Amazzonia vincitore del Premio Scenario 2017.

Liv Ferracchiati è un’artista di sicuro interesse e grande personalità che tratta un tema scottante, l’identità e la diversità di genere, e che pone allo spettatore molte domande scomode.

Interrogativi che vengono posti per mezzo del teatro attraverso un privato che diviene pubblico e quindi azione politica, soprattutto nell’ultimo capitolo, Un eschimese in Amazzonia, dove palese è l’opposizione eschimese/società entrambi imprigionati nella stessa gabbia del luogo comune.

Lo spettatore è sempre chiamato in causa, deve interrogarsi, mettere in discussione le sue certezze e le sue opinioni in merito. Non si può rimanere indifferenti. Il pensiero sulle questioni affrontate ti accompagna a casa, ti tormenta e arrovella, resta lì conficcato nel pensiero e nell’animo come un prurito che non dà requie. In un certo qual modo la modalità è simile, seppur in maniera personale e diversa, a quella di Babilonia Teatri: si mette sotto assedio il pubblico nelle sue certezze.

Liv Ferracchiati presenta il suo teatro eminentemente attraverso la sua drammaturgia. Efficace nell’impiego di mezzi semplici, a volte rudi, – esplicito lessico sessuale, gergo volgare, perfino bestemmie -, a volte commoventi, teneri, delicati (soprattutto nel primo capitolo della Trilogia, Peter Pan guarda sotto le gonne, dove il dramma della scoperta di una difficile identità sessuale avviene in età adolescenziale).

Il linguaggio della drammaturgia di Liv Ferracchiati è diretto, senza mezzi termini. Non si usano giri di parole per dire quello che urge, senza scendere nel comizio, nella tribuna. L’ironia è sempre presente, ed è graffiante, stimolante, strumento del disincanto e, come dice Massimiliano Civica, anche forma propria del pessimismo che ride, o semplicemente sorride, in faccia all’orrore.

Il teatro di Liv Ferracchiati è dunque efficace, raggiunge l’orecchio e il cuore del pubblico, toccandolo e scuotendolo, a volte percuotendolo, e sull’altare dell’efficacia si sacrifica la complessità della forma registica, che resta sempre ancorata alla semplicità dei mezzi compositivi ed espressivi.

Per esempio: in Un eschimese in Amazzonia, l’azione si riduce alla contrapposizione coro/eschimese, dove il coro/società è sempre unisono, martellante nelle sue interrogazioni, vincolato al cliché di una maggioranza colma di pregiudizi e che nell’ossessione del ribadire sancisce la sua mancanza di dubbio, grimaldello dell’incertezza di un giudizio che si vuole inappellabile e immodificabile, e l’eschimese anche lui obbligato a ribadire la sua diversità ma è preso al laccio del vaniloquio colmo di luoghi comuni e di citazioni di parole altrui.

Uno contro i molti, entrambi accomunati dalle modalità di ingaggio.

Oppure nel loop, eterno ritorno dell’eguale, dello stesso schema di scene in Stabat Mater dove al pensiero del protagonista segue dialogo di coppia, telefonata della madre onnipresente in video, dialogo con la psicologa per ripartire come un disco rotto sebbene all’indietro nel tempo nel rapporto di coppia, in avanti, nel caso degli incontri con la psicologa.

La semplicità dei mezzi dunque veicola un tema scomodo, l’identità di genere che va al di là dell’opposizione omosessuale/eterosessuale, da molti strati della società rifiutato come un abominio. Il convivere di due nature in uno stesso soggetto inquieta perché mette in discussione l’identità sono solo del transgender ma anche del soggetto “normale e normato”. Ciò che l’occhio vede e le mente, tramite l’esperienza, percepisce divergono e irreparabilmente creano una perturbante anomalia.

Il corpo di donna che appare nei sembianti e nei comportamenti un uomo e viceversa non è contemplabile serenamente. Crea reazioni violente, divide coscienze e opinioni. Liv Ferracchiati riesce, tramite il suo linguaggio scenico a volte semplice fino al basico, a accogliere lo spettatore, lo mette a suo agio seppur pungolandolo con domande a cui non vorrebbe rispondere.

Liv Ferracchiati riduce i mezzi scenici all’essenziale, quasi uno scheletro. Niente orpelli, niente complessità né raffinatezze registiche, scene ridotte al minimo, linguaggio attorico semplice, quasi comune, per ridurre la distanza che separa la scena dal pubblico. È un farsi incontro, un tendere la mano, benché non retroceda di un passo dal dire quello che sente di dover dire.

Certo questa semplicità può risultare urtante. Per me, lo confesso, lo è stato. Ho dovuto combattere con la mia personale predilezione verso un teatro che canta con il corpo, il movimento, lo spazio e il tempo, al di là della parola e della letteratura. E in questo combattimento, doloroso e cruento come quello di Giacobbe con l’angelo, ho afferrato l’utilità di questa modalità che raggiunge ogni cuore nonostante lo spinoso argomento.

Ricordo André Marcowitz, traduttore straordinario, incontrato a La Fonderie del Theatre du Radeau, che spiegandomi come riusciva a tradurre La Divina Commedia di Dante senza sapere l’italiano, mi rispose che forzava il francese a suonare come l’italiano. Se incontri il Buddha, uccidilo! Se il supporto ti impedisce di raggiungere l’illuminazione, brucialo e distruggilo. E quindi se il teatro ti è d’ostacolo, semplificalo e riducilo. Se questo crea un punto di contatto e di incontro tra scena e comunità, se crea il legame per una riflessione che superi o digerisca il contrasto o la supposta anomalia, il teatro ha vinto. Credo che, in fondo, Liv Ferracchiati abbia ottenuto quello che desiderava.

Per le recensioni degli spettacoli confronta:

STABAT MATER di Livia Ferracchiati

PETER PAN GUARDA SOTTO LE GONNE di Livia Ferracchiati

Giselda Ranieri

SPECIALE INTERPLAY: Tecnologia filosofica, Resodancer Company, Andrea Gallo Rosso, Giselda Ranieri

Si chiude Interplay con un’ultima serata che ha visto in scena quattro lavori che per stile e concezione della danza sono molto distanti: dalle quasi mistiche riflessioni sul silenzio di Tecnologia Filosofica, al formalismo della Resodancer Company con la coreografia dell’israeliana Shy Pratt, dalla semplicità e leggerezza di Andrea Gallo Rosso alla nevrotica e divertente instabilità di Giselda Ranieri prodotta da Aldes.

Boule de neige di Tecnologia Filosofica è una meditazione sul silenzio, sulla danza come movimento separata da una componente sonora. Il suono è per lo più evocato da un video proiettato sulla grande tela che cade dall’alto e taglia ortogonale il piano della scena: pioggia e neve che cadono, la nebbia che oscura un sole lontano, le onde del mare che spazzano la battigia.

I due danzatori si incontrano o si fronteggiano ai lati della scena. I movimenti fluidi, a volte sincroni, talvolta a rincorrersi come onde del mare, fino a trovarsi seduti a terra opposti e speculari in posa meditativa.

Boule de neige di Tecnologia Filosofica è un lavoro intenso e delicato, teso a riscoprire il valore del silenzio come luogo per gettare uno sguardo lucido sulla realtà e su se stessi. Al lavoro forse mancano dei gradini di intensità restando sempre in qualche modo ancorato a una stessa temperatura. Diversi gradienti di intensità darebbero uno spessore maggiore a un lavoro che possiede profondità di pensiero.

Moving Closer di Andrea Gallo Rosso, coreografia composta con danzatori professioni e non, di cui alcuni immigrati di seconda generazione. Un incontro tra persone tramite la danza e il movimento forse troppo semplice, quasi dato a priori, senza conflitti. Da un coreografo come Andrea Gallo Rosso ci si può aspettare qualcosa di più complesso e strutturato, ma forse il lavoro è ancora in fase di raffinazione.

Nacreous di Resodancer Company è una coreografia di Shy Pratt, per anni alla Batsheva Dance Company diretta da Ohad Naharin, che trova nella composizione e nello sviluppo della forma la sua cifra. Perfezione tecnica in un intreccio continuo di movimento quasi in un contrappunto severo e virtuosistico.

Un faro in controluce illumina un danzatore che in assolo danza la sua frase di movimento che si allaccia, passando il testimone, a quello che segue in un catena che li vede poi assieme sulla scena a dar il via a una sorta di coro polifonico a quattro voci.

L’intensità emotiva si innalza e diventa ardente e commovente nel duo che prelude al finale. Una coppia che fraseggia con movenze che parlano d’amore, di fisicità e di contrasti fino a che uno dei due sparisce trascinato repentino fuori dalla scena lasciando l’altra nella solitudine del palcoscenico. Un finale che evoca la fragilità dell’esistenza che scompare nel faro di controluce dell’inizio.

T.I.N.A. Di Giselda Ranieri, titolo che evoca in acronimo una frase della Tatcher There is no alternative. Come si sfugge al vaniloquio? Come si fronteggiano i continui stimoli e la marea delle scelte possibili? Nevrotici in questo perpetuo presente ricco di mille alternative sempre a nostra disposizione ci troviamo a non capire chi siamo e cosa vorremmo essere.

T.I.N.A. Di Giselda Ranieri è un quadro ironico e divertente che ritrae l’infinita ricchezza che le meraviglie della tecnica ci mette a disposizione e snaturandoci, percuotono e scorticano la nostra personalità che vaga senza meta alla ricerca di un’ancora che con il suo peso ci ormeggi in un porto qualsiasi, lontano dalla tempesta degli stimoli.

Giselda Ranieri appare in una danza di movimenti convulsi, con la testa in un televisore: testa tagliata come nella scatola magica di un illusionista. Alla danza convulsa si unisce uno sproloquio senza senso, fatto di interruzioni, sincopi, frasi mozzate, ripensamenti, balbettii.

Quello di Giselda Ranieri è un dialogo interiore tra le nostre multiple personalità, nessuna delle quali dominante e completa. Siamo frammenti di voci che non sanno parlare e nemmeno decidere un destino, aquiloni nella tempesta ogni tanto percossi da un fulmine che più che ravvivarci ci paralizza. Avremmo tanto tutti bisogno del silenzio evocato da Boule de neige all’inizio della serata.

Uno spettacolo, quello di Giselda Ranieri, armato di disincantata ironia, buona interpretazione sia coreutica, – in un movimento convulso, isterico, sincopato -, sia recitativa. – nel dare colore e spessore a un monologo fatto di frammenti incomprensibile -, che però, a lungo andare, si arena nel ribadire costantemente lo stesso concetto perdendo la freschezza iniziale.

Si chiude così l’edizione 2018 di Interplay guidato da Natalia Casorati, direttrice artistica di grande intuito, che presenta ogni anno alla platea torinese i sentieri emergenti della nuova danza e giovani coreografi interessanti e promettenti.

ph:@sandro mabellini