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Border Tales

BORDER TALES: Di Luca Silvestrini, Protein (UK)

L’8 maggio è andato in scena alle Lavanderie a Vapore di Collegno lo spettacolo Border tales di Luca Silvestrini per la Compagnia Protein.

Border Tales nasce in una prima versione nel 2013 e torna sulle scene, in una seconda versione, nel 2017 al Fringe di Edimburgo ottenendo un grandissimo successo di pubblico e critica.

Sette danzatori di provenienze e origini geografiche diverse si incontrano sul palco e si confrontano su tutti i possibili pregiudizi a cui vanno incontro giorno per giorno. Yuyu è taiwanese, eppure la gente la saluta in giapponese, o pensa che non vuol stringere la mano perché gli orientali rifuggono il contatto. Eryck è di origini pachistane, ha la barba ed è mussulmano e ogni giorno fronteggia le paure di chi lo incontra vedendo in lui un estremista.

Ma le cose funzionano anche a senso inverso: Andrew è inglese per cui il venerdì deve ubriacarsi o andare allo stadio come un hooligans? E tra Andrew, inglese, e Stephen, irlandese, non ci sono gli stessi pregiudizi benché condividano in buona parte la stessa cultura e la stessa lingua? Protestante o cattolico? London Pride o Guiness?

Border tales però non racconta solo episodi sui pregiudizi razziali (e ricordiamo per inciso che le razze non esistono), ma racconta una società che vuole integrare per livellare, non abbraccia le differenze ma desidera appiattirle. Come racconta Kenny, originario di Hong Kong: “mi sono trovato a scuola con la divisa che era per tutti uguale, ma in questa uguaglianza risaltavano le differenze”.

Border tales racconta il fallimento di una politica che non è solo inglese. L’integrazione è rendere uguale ciò che è diverso. Si cerca di far diventare europei chi non lo è, per far diventare gli stranieri come noi, riassorbendoli nella nostra identità, benché sia quest’ultima a essere debole e fragile.

Border tales racconta con ironia e leggerezza della Gran Bretagna pre- e post-Brexit, ma quello che accade in scena lo possiamo ritrovare ogni giorno scendendo nelle nostre strade, prendendo l’autobus o un caffè al bar, non solo in Gran Bretagna. Gli italiani non sono più tolleranti o meno razzisti degli inglesi. Tutti siamo pregni di pregiudizi, vogliamo appiattire l’altro che non conosciamo a misura della nostra pochezza. Si ha paura di ciò che non si conosce perché pensiamo che tale differenza mini la nostra identità. E così, nonostante si condivida una medesima umanità, continuiamo a vedere nell’altro uomo un nemico e non una possibilità.

I confini evocati all’inizio e alla fine dello spettacolo, in quella linea discontinua che divide arbitrariamente la scena come i confini nelle ex-colonie, non sono solo tra nazioni e continenti, ma tra generi sessuali, professioni, età della vita, colore della pelle.

In Border tales interessante è la presenza di stereotipi nella danza, con elementi e gesti orientali, mediorientali, latini, afro, con abilmente si mischiano con quelli raccontati a parole. Il gesto del corpo e la parola si intrecciano in un contrappunto di narrazioni che sviluppano, con l’arma dell’ironia, la vacuità dei pregiudizi sullo straniero.

Border Tales mi ricorda molto The blind poet di Jan Leuwers, e non perché i due spettacoli siano simili, ma in quanto raccontano, da due opposte balze e con tonalità differenti, l’impossibilità di essere in qualche modo puri e esenti dall’incomprensione che il pregiudizio porta con sé. Come alla lontana tutti noi siamo stati invasori e invasi, come ognuno di noi ha antenati che hanno lasciato le proprie terre per andare altrove, così nessuno può dirsi privo di un alterità.

L’ironia è poi l’arma in più perché disinnesca la minaccia con una risata. Di fronte al riso tutto crolla come per effetto delle trombe di Gerico. La leggerezza ironica è dunque l’elemento che rende questo spettacolo così godibile pur restando profondo.

L’operazione delle jesino Luca Silvestrini e della Compagnia Protein è dunque interessante e riuscita. L’arte si occupa del reale, lo discute e lo disseziona insieme al pubblico mettendo in discussione le nostre posizioni in una forma forse troppo confortevole (il razzismo e l’intolleranza sono una piaga che continua ad ammorbare le nostre società). Border tales resta uno spettacolo intelligente, fruibile e che non rinuncia a scandagliare le crepe che intaccano il nostro tempo e le nostre società. Farlo con il sorriso sulle labbra è certo un valore aggiunto.

Ph: @Jane Hobson

Birds Flocking

BIRDS FLOCKING: duo di Daniele Albanese e Eva Karczag

May days, Incontri con la danza d’autore, organizzati dal 1 al 6 maggio da Europa Teatri e Teatro delle Briciole a Parma, si concludono con Birds Flocking, il primo studio del nuovo lavoro firmato da Daniele Albanese in duo con Eva Karczag.

Il titolo è quanto mai evocativo: Birds Flocking. Richiama alla mente i volteggi degli stormi d’uccelli nei periodi di migrazione, il costruire e distruggere geometrie frutto di un continuo tiramolla tra casualità e organizzazione.

Un titolo, a volte, è anche una trappola. Costringe a cercare una corrispondenza immediata, oserei dire scontata, invece di lanciarsi in quel gioco delle perle di vetro per connettere cose e pensieri tra loro lontani che in qualche modo risuonano.

Un gioco delle corrispondenze che si concreta nel richiamo del volo e della migrazione, nella libertà di cambiare inaspettatamente direzione. Due corpi che condividono uno stesso spazio e, nell’essere punti in movimento, lo duplicano in un altrove sterminato che sta al di là, e in un tra loro che si contrae e distende come un elastico. Ma vi è anche lo spazio del pubblico, che sta di fronte e osserva, ma potrebbe essere ovunque. L’occhio che osserva, apprende e comprende, e infine modifica con la sua osservazione quanto avviene.

I corpi abitano una connessione, stanno insieme senza essere uguali, senza condividere una stessa modalità, velocità, direzione; ed è proprio in quella coesistente diversità, non mai sincrona ma semplice compresenza, che si sostanzia la possibilità di migrazione delle conoscenze corporee.

Birds flocking intreccia la fissità della forma con la fluidità dell’improvvisazione, causalità e casualità; e si sostanzia nei percorsi di due stelle binarie di velocità e massa diverse che gravitano una sull’altra, attraendosi e respingendosi, ruotando liberi in uno spazio infinito e indefinito, rispettando e infrangendo le regole da loro stesse di volta in volta stabilite.

Una compresenza di movimenti che genera scambio di energie, modalità, desideri e pulsazioni. Una serie di stazioni, in un percorso che culmina nel contatto, breve e significativo, dove il migrare si concreta e in un battito d’ali si svapora. Eppur tutto è cambiato, perché quel tocco ha mutato lo stato dei corpi, la loro reciproca interazione, la capacità di coabitare.

Birds flocking canta l’esistenza: due corpi che vengono dal buio alla luce, convivono, si scambiano esperienze, si toccano e poi svaniscono, dalla luce al buio, così come son venuti. Pensiero profondo di una fisica del movimento.

Dunque Birds flocking non è tanto un volare di stormi, quanto un gesto artistico e politico che con gli strumenti propri della danza parla e riflette sulla natura dell’esistere e del con-vivere. Ulteriore indizio è la musica, di Luca Nasciuti, piena di voci di mercati e stazioni, di voci straniere compresenti nei luoghi di scambio.

Suggestivo e pregnante il disegno luci di Fabio Sajiz, che scolpisce continui cambi di prospettiva e punti di vista, modellando le profondità e la plasticità dei corpi, donando consistenza e fisicità agli spazi che si dilatano e contraggono per effetto del movimento.

Birds Flocking è ancora in fase di primo studio (il lavoro prevede nei desideri di Daniele Albanese ancora un lungo percorso di raffinazione per un debutto previsto nel 2019), ma possiede già una notevole e solida consistenza che attrae senza possibilità di fuga lo sguardo dell’osservatore. Un primo stadio che possiede robuste fondamenta e ottimi interpreti e ci rende trepidanti e curiosi di vederne i successivi sviluppi.

Ph: @AndreaMacchia

Angelo Mai

SULLA CHIUSURA DELL’ANGELO MAI

A Roma si chiude l’Angelo Mai, luogo di cultura e di socialità. Lo chiude il Comune di Roma e la Polizia Municipale per l’Assessorato al Patrimonio. Ovviamente l’Assesorato alla Cultura nulla sapeva. Ovvia disputa fra assessorati  e ora tutto è sospeso per venti giorni per cercare una soluzione che bypassi l’ordinanza di sgombero del 2016.

È un fatto grave che si ripete. E non solo nei confronti di questo spazio in particolare. È una consuetudine anche perché molti spazi vengono restituiti alla comunità dei cittadini tramite riappropriazioni e occupazioni più o meno legali. Sono restituzioni al pubblico di ciò che il Pubblico dissipa. Ma in questo piccolo scritto non voglio tanto e non solo essere solidale o analizzare il fatto particolare, quanto provare ad ampliare lo sguardo.

Negli ultimi anni sono continue e preoccupanti le notizie riguardanti occupazioni e sgomberi, o conflitti tra Comuni e Associazioni che gestiscono spazi pubblici di cultura che sono in primo luogo della cittadinanza (e penso al Teatro dell’Orologio, sempre a Roma, al Dialma Ruggero a La Spezia, ma la lista potrebbe farsi infinita).

Se sommiamo queste notizie al continuo e inarrestabile contrarsi del sostegno economico pubblico e il relativo ritardo nel pagamento (a volte si arriva a 24 o 36 mesi), alle barriere burocratiche messe in atto per accedere ai bandi di finanziamento delle fondazioni bancarie, è lampante come risulti sempre più difficile il rapporto con le istituzioni.

Potremmo piangere, disperarci, indignarci per quanto accade oggi all’Angelo Mai ma sarebbe anche ora che tutti questi fatti, e non solo quello di oggi, ci portassero a una seria riflessione su quale sia oggi il ruolo della cultura nella visione della politica e cosa possa fare la cultura (intendo operativamente, proponendo delle soluzioni alternative) per sopravvivere in questa temperie.

Il rapporto tra cultura e potere è da sempre problematico. Come dice Bauman l’uno tende a conservare lo status quo, l’altra a metterlo in crisi. I due termini, sempre per citare Bauman: “perseguono finalità opposte e sono in grado di coabitare solamente in modo conflittuale, combattivo e sempre pronto allo scontro”. La parola stessa “cultura” intrattiene in sé stessa l’idea di controllo di ciò che nasce spontaneo.

Ora il problema non è solamente che si chiede a chi fa cultura di presentare dei prodotti che rispondano alle esigenze della burocrazia e del management bancario, ma risiede nella completa soggiacenza della cultura all’accoglimento delle domande di sostentamento. La ribellione è stata disinnescata.

Se guardiamo oltre confine, per esempio in Francia dove le serrate dei teatri sono state compatte e furiose, nel nostro paese vediamo cumuli di lamenti ma poche azioni condivise che siano di efficace contrasto ai soprusi della politica. Si cancellano festival, si negano pagamenti per anni, si chiudono spazi riconosciuti per la loro attività culturale di pregio, si cancellano spazi storici di azione culturale eppure, a parte le proteste del momento, tutti si torna a riverire l’assessore di turno.

Nessuno osa ribellarsi veramente. Si urlicchia un po’, si occupa per qualche tempo, ma poi l’iter torna a essere per tutti uguale. Per quanto la vicenda della serrata dell’Angelo Mai sia grave, essa non è che un sintomo. Il limitare l’incremento dei finanziamenti ministeriale al 5% è qualcosa di molto più grave, perché impedisce la crescita e l’investimento.

Se una compagnia o un festival ha preso in prima istanza quindicimila euro non potrà sperare in nessun salto di qualità. O dovrà cercare soluzioni alternative. Per quanto il suo progetto sia meritevole, non verrà premiato. Congelamento della crescita. Il che porta come conseguenza che alle prime istanze o si ottiene un congruo sostegno o si è praticamente impediti sul nascere.

L’Angelo Mai chiude, ma a avvolgersi intorno al collo degli operatori di cultura è una serpe che ha molte teste. Già Carmelo Bene profetizzava questa situazione negli anni ’90. Diceva CB che lo Stato pensa ai mediocri se no chi ci pensa? Quello che interessa allo Stato è un’aurea mediocritas non l’eccellenza. Gli si fa guerra all’eccellenza e urgono risposte condivise, azioni comuni e dialogo, tanto dialogo per costruire strategie efficaci di contrasto.

Ballo 1945 Grande adagio popolare

BALLO 1945 GRANDE ADAGIO POPOLARE: Il primo maggio di Virgilio Sieni

Ieri nella grande fabbrica di Fiat Mirafiori non più destinata alla produzione, ha preso vita il progetto Ballo 1945 Grande adagio popolare di Virgilio Sieni con più di cento performers di tutte le estrazioni. Il progetto segue quello di Altissima Povertà e rinnova l’alleanza tra il grande coreografo fiorentino e l’Associazione Didee.

Ballo 1945 Grande adagio popolare prende avvio da alcune suggestioni: il luogo, innanzitutto, la fabbrica nel giorno della festa del lavoro. Uno stabilimento dismesso, non più produttivo che viene riqualificato dall’azione performativa di una comunità che crea insieme un oggetto immateriale, non merce né prodotto, ma esperienza di popolo, non calata dall’alto ma condivisa.

Un’immagine: Il Quarto Stato di Pellizza da Volpedo presentato proprio a Torino per la prima volta nel 1902. Un pretesto quegli uomini in marcia. Un punto di partenza per sviluppare un percorso.

Una geografia: politica e sociale che si sviluppa a partire da mappe e percorsi di corpi in movimento in uno spazio ormai privo di funzione, vivo solo di un passato, privo di un presente alla cittadinanza, per non dire di un futuro. Una riappropriazione della comunità di uno spazio, non più incognitus, ma riqualificato dall’agire insieme, dall’esperire insieme.

Ballo 1945 Grande adagio popolare è un cammino di una massa che prende possesso di un luogo. Un gruppo che si muove compatto riunendo e accogliendo le differenze che lo animano. Nel cammino seminano le azioni di singoli e di piccoli gruppi che presto vengono riassorbiti da quell’incedere irrefrenabile.

Una madre con figlia, un gruppo di immigrati, delle donne, semplici gruppi di persone di tutte le età, sesso e condizioni. Cellule di un corpo in movimento perenne, che come uno squalo muove perché la stasi è morte. Non stiamo parlando di progresso, di un incedere verso una meta prefigurata, ma di una manovra verso nuove configurazioni, allineamenti, assestamenti.

È il ritorno del tempo antico della metamorfosi, dove tutto partecipava alla natura del tutto. Quel tempo forse irripetibile, utopico, prima dell’impero della tecnica dove le parti sono specializzate e hanno uno scopo. Qui il gruppo si muove e genera nuove fisionomie che sono frutto di un agire senza progetto, generazioni spontanee ed equivoche, perché non finalizzate. E il tutto nel luogo della tecnica, la fabbrica, dove ogni pezzo assume un ruolo e una funzione secondo specifiche immodificabili, del lavoro in linea dove ciò che precede anticipa ciò che seguirà.

Ballo 1945 Grande adagio popolare è anche un mosaico dedicato all’accoglienza, alla condivisione, alla partecipazione. Il suo gesto da antico umanista, fiducioso nell’umanità, restituisce l’idea di un gruppo sociale che procede insieme sostenendo tutti, accogliendo tutti (e nelle figure ritornano i motivi delle deposizioni, delle pietà, del sostegno). Parrebbe un gesto politico e artistico ingenuo ai cinici, eppure nella sua manifestazione risulta commovente come pochi altri. È un gesto politico e artistico fuor dai termini della ragione giudicante. È un atto di fede e di fiducia illimitato e perciò potente perché ingiustificato.

Vedendo Ballo 1945 Grande adagio popolare mi tornava in mente un piccolo grande racconto di Kafka dal titolo Di notte. Non per assonanza, quanto più per contrappunto. Una grande massa di uomini in un deserto sterminato sdraiati dove prima erano in piedi. Un uomo solo con un lume perché uno deve vegliare, uno deve esserci, qualcuno deve pur aver fiducia.

Di Ballo 1945 Grande adagio popolare ho avuto il privilegio di vedere anche la prova generale e vedere una volta di più la grande umanità di Virgilio Sieni nel lavoro di coreografia. Non impone una visione, suscita piuttosto un atteggiamento di concentrata presenza. É il suo un mettersi a disposizione che invita a seguirlo in un percorso che si costruisce. Non è Sieni un capriccioso dio della danza che impone i suoi voleri, ma più un artigiano umanista animato da profondo amore e compassione per ciò che fa e verso coloro con cui lo fa. È il suo un mettersi a disposizione, un donarsi che si nutre dello scambio di doni vicendevoli con la folla che partecipa con lui alla costruzione di questa marcia.

Ph: @Giorgio Sottile

Oyes

VANIA di Oyes: tra immobilismo e rimpianto di una vita che non c’è.

Ieri sera per la rassegna Schegge di Cubo Teatro è andato in scena al Cecchi Point Vania della Compagnia Oyes, recentemente insignita del Premio Hystrio Iceberg.

Vania è ispirato al dramma di Cechov Zio Vania attraverso una riscrittura comune che aggiorna i temi del grande maestro russo a un paesino di provincia italiano. Quattro i personaggi in scena più il Professore, presente in assenza. Di lui solo un suono di respiratore che lo fa né vivo né morto.

La moglie Elena, la figlia Sonia, il fratello Ivan e il Dottore, non stanno meglio di lui. Certo si muovono, sono coscienti, ma sono anch’essi appartenenti a un mondo in cui la vita non è presente se non in un altrove dislocato nel tempo o nello spazio geografico lontano. Questi mondi immaginari sono per tutti il paese dei balocchi, laddove tutto è possibile, dove è realizzabile una qualche felicità.

I quarantenni volgono lo sguardo al passato, la giovane nipote a Londra, la bella Elena guarda ad altri uomini: tutti impossibilitati a trovare quel che cercano nel loro qui ed ora. I personaggi sono bloccati verso una qualsiasi azione efficace, incapaci di contrastare la forza d’inerzia che li trascina a un tetro immobilismo.

In questa riscrittura di Cechov, Oyes mantiene la forza espressiva che promana dai suoi testi sempre rivolti all’emersione del dramma dal piccolo noioso quotidiano. Dolori intensi e struggenti, speranze infrante, illusioni irrealizzabili, amori spenti e disillusi: tutto nel lento chiacchiericcio domestico, nell’agire d’ogni giorno tra una tisana e la spesa, tra un cambio di lenzuola e una sbornia al bar.

I personaggi intorno all’infermo sono anch’essi tutti malati, appestati dal male di vivere senza entusiasmo, illuminati da lampadine che non sono altro che aste da flebo. A turno visitano il Professore, e dalla stanza dedicata al dolore si immergono nel flusso dell’anonimo e scialbo vivere d’ogni giorno.

Non ci sarà evoluzione. Il blocco rimane tra l’aspettare Godot e la rassegnata certezza che mai arriverà.

Quella di Oyes per Cechov è un vero esercizio di ammirazione, frutto di uno studio attento e di una passione costante (altri due i lavori della compagni dedicati alla sua drammaturgia: Io sono il Gabbiano e Anton).

Convincenti gli interpreti: naturali, sebbene forse un po’ raggelati all’inizio, intensi, misurati. Piccola sbavatura solo l’inutile nudo mezzo busto della moglie Elena nel finale.

La riscrittura dosa ironia e dolore, rendendo sopportabile quel cumulo di dolore e immobilismo. Certo non siamo di fronte a un teatro di reale innovazione, soprattutto nella regia e nell’interpretazione.

La regia è appiattita su movimenti orizzontali, con scene chiuse. La recitazione è classica seppur non ammorbata da una dizione falsa come le monete di cioccolato. Benché si sia svecchiato il linguaggio siamo nell’alveo del teatro di tradizione e della rappresentazione.

Vania di Oyes è un lavoro ben costruito dunque, e ben recitato, che tocca l’animo e il cuore del pubblico con una storia che ci appartiene e che ci fa riflettere sulla nostra vita e su quanto siamo in grado di viverla pienamente. Tutto questo con un linguaggio scenico conosciuto, senza ansie avanguardistiche, ma forse un po’ datato e impolverato. Non basta aggiornare un testo per trovarsi di fronte a un teatro contemporaneo.

Benché sia sempre refrattario agli stilemi della rappresentazione classica, di fronte a lavori ben fatti come questo, ne riconosco l’efficacia ma mi domando: non è possibile raggiungere lo stesso effetto sfruttando le conquiste della migliore tradizione del Novecento senza per forza ancorarsi a stilemi funzionali ma stantii? Non sarebbe più auspicabile il coraggio di affrontare modalità più moderne per raccontare a teatro? E ancora: non si commette lo stesso peccato dei personaggi di Cechov nel conformarsi agli stilemi tradizionali, seppur aggiornati, invece di lanciarsi all’adozione di nuove tecniche anche se non conferiscono la certezza del risultato?

Sono domande che mi pongo sempre più spesso e mi piacerebbe vedere più coraggio nei giovani artisti, non tanto nella ricerca del nuovo per il nuovo, quanto nell’emersione di un vero linguaggio scenico moderno, che sfrutti le potenzialità del teatro invece di adagiarsi sul conosciuto sfruttamento di un testo letterario.

Queste sono ovviamente solo mie piccole paturnie. Vania di Oyes è uno spettacolo che funziona e fa pensare e forse questo è già abbastanza.

Festival delle Colline Torinesi

ONDE MIGRANTI E NUOVA DRAMMATURGIA: presentata la 23ma edizione del Festival delle Colline Torinesi

Giovedì 26 aprile è stata presentata alla Fondazione Merz in Torino la nuova edizione del Festival delle Colline Torinesi. Ventitré spettacoli e otto prime nazionali nel programma che si incentra sulla figura del viaggio in tutte le sue declinazioni: come migrazione, come ricerca dell’identità sessuale e non, come memoria.

Non mi dilungherò troppo sul programma che si può consultare sul sito del Festival delle Colline Torinesi a questo link http://www.festivaldellecolline.it/edizione/edition

Cercherò invece di fare alcune considerazioni sulle linee di programmazione e di direzione artistica partendo dal presupposto che un libro non si giudica dalla copertina.

Molti i nomi di prestigio, alcuni per la prima volta a Torino come Milo Rau e Agrupación Senor Serrano, Liv Ferracchiati, Blitz Theatre Group; altri ritornano come Amir Reza Koohestani, Romeo Castellucci, Silvia Costa, Licia Lanera, Cuocolo e Bosetti. Presenti alcuni degli ultimi premi Ubu come Macbettu di Michele Serra, e la Compagnia Dammacco con Serena Balivo, migliore attrice under 35.

Un programma che tiene presenti alcune delle migliori proposte nel panorama nazionale e internazionale e che riflette alcuni dei punti di forza e le caratteristiche del Festival delle Colline Torinesi: una visione delle arti sceniche sul confine di tradizione/innovazione, una solidità di programmazione che punta su una qualità certificata senza prendersi grossi rischi (i giovani artisti e gli ospiti internazionali presenti sono tutti stati premiati e riconosciuti e hanno tutti beneficiato di un’abbondante distribuzione sul circuito nazionale e internazionale), un forte appoggio istituzionale.

Tutti questi aspetti non sono necessariamente difetti e neppure pregi al di là di ogni ragionevole dubbio. Sono scelte che fanno un’identità di direzione artistica. Non sempre nei grandi festival questo è visibile. Molto spesso per accontentare ogni tipo di pubblico si sceglie di tutto un po’, mentre il Festival delle Colline Torinesi afferma una propria identità e va avanti per la propria strada che affianca qualche contaminazione (teatro circo, danza, e multimedia) a una decisa preferenza per il teatro di parola e di testo.

Certo dato il prestigio sarebbe auspicabile un maggiore impegno nella ricerca di sconosciuti di valore, (e ce ne sono) favorendone il lancio ma forse questo potrà avvenire con la nuova partnership avviata con la Fondazione Teatro Piemonte Europa (TPE) diretto da Walter Malosti. Tra i due enti si inaugura un triennio di programmazione condivisa allo scopo di produrre nuovi lavori per la creazione di un nuovo polo del contemporaneo. Attenzione particolare dedicata alla formazione di una nuova drammaturgia e alla produzione di giovani di talento.

Il progetto è ambizioso e interessante ma presenta sulla carta delle criticità: da una parte manca apparentemente un’attenzione verso l’altro aspetto decisamente insufficiente nella filiera italiana ossia la distribuzione, dall’altro i tentativi di creare nuove drammaturgie spesso falliscono perché non basta creare delle condizioni occorre che ci siano le esigenze e le urgenze.

Mi spiego meglio. Produrre un lavoro è sicuramente azione meritoria in un panorama desolante ma senza creare le condizioni per un’efficace distribuzioni si rischia di creare le solite cattedrali nel deserto. Affiancare alla produzione la creazione di efficaci canali distributivi dovrebbe andare di pari passo. Non dico che manchino dei passi in tal senso ma mi pare che questo aspetto sia caduto in secondo piano.

Per quanto riguarda la creazione di una nouvelle vague (per riprendere il tema del festival Fluctus, onda in latino) drammaturgica occorre non solo crearne i presupposti ma che da parte degli artisti si manifesti una volontà e un’urgenza in tal senso e in questo non sono sicuro che il teatro oggi necessiti di una drammaturgia letteraria quanto di riformulare degli stilemi di drammaturgia della scena e che privilegi le specificità del teatro così come è uscito dalle sperimentazioni del Novecento.

Oggi il miglior teatro apparso nel panorama europeo non crea drammaturgie a partire da un testo preesistente ma ne costruisce una che parte dalla scena stessa, dalle sue ibridazioni con altri linguaggi, e che si palesa come una vera e propria forma di composizione sinfonica.

Ripeto non si giudica un libro dalla copertina, né un uomo dal suo aspetto esteriore, mi limito a indicare dei possibili punti di debolezza non per sciocca voglia di trovare il difetto a tutti i costi ma come stimolo. Nell’indicare le criticità come sguardo esterno, ruolo che trovo sia proprio della critica, si può anticiparle e prevenirle. La discussione poi su questi temi non è mai abbastanza, e il dialogo tra artisti, direttori, critici e operatori può essere solo fruttuoso perché movimenta lo scambio di idee e di posizioni impedendo la stagnazione che sempre avviene nel consenso unanime.

Come chiusa di questa breve riflessione mi limiterò a segnalare alcuni degli spettacoli secondo me imperdibili nel programma del Festival delle Colline Torinesi. Innanzitutto Milo Rau, artista che seguo da prima che apparisse in Italia e ritengo sia uno dei più dirompenti talenti mondiali teso sempre ad affrontare il reale e la storia e a sondare il limite di cosa possa o meno essere tollerato sulla scena. A Torino viene con Empire opera che tratta il tema della migrazione forzata dalla violenza degli eventi storici.

Segnalo anche Liv Ferracchiati con la Trilogia dell’identità che ho seguito insieme a Nicola Candreva l’anno scorso tra Santarcangelo, nell’ultima edizione del Premio Scenario, e la Biennale di Venezia. Una/un giovane interessante, molto maturo/a e formato/a anche se contiene ancora qualche germoglio acerbo che va curato affinché giunga a completa fioritura.

Agrupación Senor Serrano e Blitz Theatre Group, sono due gruppi che attuano dinamiche e strategie di intervento davvero dirompenti capaci di mettere il dito nella piaga nelle ipocrisie del nostro tempo. Il gruppo catalano, con grande ironia, ha millantato l’assunta direzione del Teatro Nacional de Catalunya, mettendo con il loro annuncio in luce la mancanza di sostegno a una vera innovazione nelle arti sceniche nella loro regione (ma il discorso andrebbe benissimo anche per la situazione italiana). Il gruppo greco ha modalità di creazione condivisa e una decisa volontà di esplorare la realtà tramite un teatro che prima di tutto è incontro/scontro con la società.

Una certa curiosità, e questo benché non sia un suo ammiratore, mi suscita il progetto di Licia Lanera su Roberto Zucco di Koltes con gli allievi della scuola del Teatro Stabile di Torino. Roberto Zucco è un testo violento, forte, estremamente poetico che indaga la vita del serial killer italiano che saltò agli albori della cronaca alla fine degli anni ’80. Un testo che ho amato molto fin da quando lo vidi per la prima volta alla Biennale del 1995 alle Corderie dell’Arsenale per la regia di Luis Pasqual.

Da ultimo ovviamente Macbettu di Michele Serra vincitore del Primio Ubu come miglior spettacolo 2017.

Non resta dunque che ritrovarsi il 1 giugno per iniziare le visione di questa 23ma edizione del Festival delle Colline Torinesi e incontrare direttamente gli artisti e le opere che, in fondo, sono il vero scheletro portante di ogni manifestazione dedicata al teatro.

Attilio Scarpellini

INTERVISTA AD ATTILIO SCARPELLINI: per uscire dalla fortezza vuota.

Attilio Scarpellini è critico, saggista e autore, insieme a Massimiliano Civica, de La fortezza vuota sulla perdita di senso del teatro e sulle gabbie legislative che imbrigliano produzione e distribuzione delle arti sceniche nel nostro paese.

L’ho incontrato per un’intervista qualche giorno dopo quella con Civica per tornare a parlare con lui di questi temi e cercare, per quanto possibile, di scoprire le vie per uscire da un’impasse che da troppo tempo grava sul teatro italiano.

Enrico Pastore: Il teatro, ma potremmo dire anche la danza, sono oggi afflitte da molti problemi. Mi piacerebbe provare ad analizzarne alcuni con te. Cominciamo da una parola d’ordine che oggi tutti sbandierano come fosse il graal: audience engagement. Il pubblico da portare a tutti i costi a teatro senza veramente indagare il motivo della sua latitanza. Non ti sembra che si cerchi in tutti i modi di creare un bisogno indotto più che cercare di incentrare il discorso sull’opera, su che tipo di lavori vengano proposti, sui suoi livelli di eccellenza, sulla qualità e sui tempi della ricerca?

Attilio Scarpellini: C’è senza dubbio un eccesso di enfatizzazione su questa supposta latitanza, assenza, mancanza di pubblico. I numeri parlano abbastanza chiaro. C’è sicuramente più pubblico oggi nelle sale teatrali, che sono aumentate, di quanto ce ne fosse negli anni ‘60 e ‘70, che sono il modello di riferimento per indicare una stagione felice del teatro italiano e in particolare del teatro di ricerca.

Al teatro mancano dei risuonatori nella società. Mancano quegli intellettuali che una volta fungevano da cassa di risonanza dei grandi eventi teatrali e che i giornali consideravano notiziabili, mentre oggi, come è noto, da Paolo Mieli in poi, la recensione è considerata come una forma di opinionismo. La mia impressione è che questa tanto spasmodica ricerca di pubblico, che si apre anche a un tentativo di formare il pubblico – e non so bene per quale ragione il pubblico dovrebbe essere formato come se il teatro fosse qualcosa di alieno o una lingua che va spiegata quando è qualcosa inscritto nelle origini dell’esperienza culturale umana -, sia un offuscare il vero problema che riguarda il rapporto e la relazione mancante tra il teatro e quell’entità veramente assente che è la società.

Ronconi prima di morire rilasciò un’intervista in cui disse: ”forse il teatro ha ancora bisogno della società, ma forse la società non ha più bisogno del teatro”. Questo secondo me è il vero problema che non viene affrontato con il risultato che la ricerca continua di pubblico assomiglia più che altro a una ricerca del consenso che fa capo a organismi in crisi come i poteri rappresentativi.

Enrico Pastore: Quello che latita in questo meccanismo incappato tra artisti e pubblico non è forse una mancanza di ridefinizione delle funzioni della scena? O per meglio dire, l’emersione delle esigenze che spingono l’artista a incontrare il pubblico, e il pubblico a frequentare la scena?

Attilio Scarpellini: Questo secondo me è verissimo. È vero che il pubblico che si cerca oggi non è più quello di ieri. Oggi si cerca il pubblico della società di massa. Questo anche perché il teatro è stato marginalizzato dalla vittoria, che ormai si sta trasformando in vittoria malata, di quella che Guy Debord chiamava la società dello spettacolo.

Il teatro come forma è stato molto marginalizzato dall’emergere di forme spettacolari mediate e tecnologiche che hanno una capacità di trasmissione senza precedenti. Cercare il pubblico dentro quello appartenente alla società di massa significa implicitamente uccidere il teatro. Significa invitare il teatro a rifarsi agli standard della comunicazione spettacolare. Si schiaccia ancora di più il teatro sotto il calcagno del cinema, della televisione, del web. Tutto questo senza rendersi conto che le origini dell’ascolto teatrale sono molto più semplici e più profonde di quello che tendiamo a immaginare.

Enrico Pastore: Sì, hai ragione. E questa ricerca spasmodica di pubblico inoltre non indaga la natura dell’evento dal vivo. Lo si mette erroneamente a confronto con forme spettacolari mediate, dimenticandosi che il teatro, come la danza e la performance vivono dell’istante dell’incontro reale, in carne ed ossa, qui e ora.

Attilio Scarpellini: e in più le forme mediate non portano la consacrazione di un luogo. Quando Peter Brook diceva: “posso usare qualsiasi spazio vuoto e chiamarlo teatro” non stava parlando di una casualità dello spazio teatrale. Al contrario stava dicendo: laddove io riesco a recintare uno spazio e a fare in modo che lì avvenga qualcosa, una trasformazione, lì il teatro continua ad esistere.

Il fatto che il teatro si veda soprattutto nei luoghi deputati alla sua rappresentazione, nelle sale con le poltrone rosse, non è che una storicizzazione di questo movimento. Senza dubbio il teatro resta uno degli ultimi luoghi in cui il corpo dello spettatore si incontra con il corpo del performer e dell’attore. Il teatro è innanzitutto un luogo di incontro e di riconoscimento, e la sua condizione è quella di essere presente, qui, adesso, in situ e de visu.

Enrico Pastore: Applicare le modalità di strumenti e mezzi mediati per classificare e misurare un’arte immediata, come hai detto precedentemente, non fa che uccidere il teatro.

Attilio Scarpellini: Sì, e questo quando moltissime forme artistiche nel momento in cui toccano la loro crisi, regrediscono verso la scena come sostenevano i vari odiatori del teatro. Basta pensare al successo della performance nelle arti visive proprio negli anni ‘60. Cos’altro è la performance se non un ritorno a quell’elemento originario che Claudio Morganti chiama: il teatrico. La necessità di questo elemento, che non è solamente e semplicemente corporeo, è molto più sentito di quanto non venga fatto credere al pubblico.

Enrico Pastore: Viviamo in un periodo di latitanza della politica in ogni campo e la cultura non è da meno. Oggi la politica culturale pare essere in mano alle fondazioni bancarie che tramite i bandi di finanziamento indirizzano le modalità di azione di artisti, teatri e festival. È corretto a tuo modo di vedere considerare l’azione culturale come impresa di cultura dove contano numeri e bilanci più che l’effettiva qualità dell’azione proposta?

Attilio Scarpellini: Io rimango legato, anche per ragioni anagrafiche, a un’idea di teatro pubblico che dal dopoguerra in poi ha fatto tutt’uno con l’idea di democrazia rappresentativa. Il teatro è stato legato all’idea di democrazia in Europa da una sorta di matrimonio cattolico. Infatti il teatro è entrato in crisi con la decadenza degli istituti rappresentativi e della cultura pubblica. Basta tornare a quel vecchio manifesto che scrisse Baricco su Repubblica tentando di introdurre una cultura più economicista dell’arte e di riposizionare i finanziamenti in quella che chiamava una nuova alfabetizzazione al moderno. Tra i vecchi strumenti il teatro era quello più colpito. E questo proprio perché il trasformare il teatro in impresa è una cosa che non è mai riuscita a nessuno neppure ai vecchi impresari novecenteschi.

Enrico Pastore: Uno dei maggiori problemi nella filiera produttiva nel teatro italiano è la mancanza di una vera distribuzione. Questo per tanti motivi a partire dai finanziamenti che privilegiano il sistema degli scambi formando un mercato chiuso e non reale. Così come la questione degli under 35 che appena superano la soglia di età diventano improvvisamente demodé. Quali sarebbero secondo te le azioni da fare per migliorare il sistema? Dove e in che modo si potrebbe agire?

Attilio Scarpellini: la prima azione da fare si trova a monte del problema, ossia riformare le norme, cambiare radicalmente l’organizzazione dell’impresa teatrale, se la vogliamo così definire, rendendo più centrale il ruolo e la presenza degli artisti rispetto a quella dei teatri stabili, ad esempio.

La mia impressione è che oggi, paradossalmente, nelle politiche teatrali ad essere penalizzato è quello che gli economisti chiamerebbero il core business che altro non è se non l’arte stessa. Oggi uno dei grandi paradossi prodotti dalla nuova legge è che gli attori o vengono scritturati o possono morire. diventano ostaggi delle produzioni e dei teatri stabili che spesso producono ma quando si arriva al momento della distribuzione non lo distribuiscono.

Il caso oggi di distribuzione di spettacoli bloccate benché annunciate è sempre più diffuso così come il caso di cancellazione di spettacoli dai cartelloni e dai programmi che erano stati stabiliti. Questo accade perché gli artisti non hanno voce in capitolo e non perché non abbiano rappresentanza. Il problema è proprio che gli artisti non vengono presi in considerazione come soggetti primari della produzione teatrale.

Quanto poi ai meccanismi di distribuzione, e so che il discorso sarebbe lungo e complesso, la mia impressione è che spesso ci siano spettacoli che non vengono distribuiti perché nessuno intravede la convenienza economica nell’operazione.

Enrico Pastore: Sono d’accordo. A mio parere nei termini dei bandi e dei finanziamenti e nei discorsi di politica economica e culturale legata al teatro si dimentica l’opera. Anche per quanto riguarda il discorso affrontato prima sull’audience engagement, se l’opera funziona l’engagement si fa da sé. Ricordo alla Biennale del 1999 quando lavoravo con il Theatre du Radeau di François Tanguy, alla prima serata di Orpheon la sala era piena a metà, l’ultima sera si dovette mandare via il doppio delle persone. il passaparola nei confronti di uno spettacolo meraviglioso aveva richiamato più pubblico di quello che si poteva ospitare.

Attilio Scarpellini: Hai detto la parola giusta, la parola che oggi nessuno vuole più pronunciare: opera. E questa può funzionare se viene sgravata da questa neoideologia che fa dei direttori artistici i veri soggetti e burattinai del teatro. Le opere sono offuscate dalle stagioni. Le opere non fanno che rientrare nelle stagioni che sono firmate dai direttori artistici. Viene da pensare che l’oggetto centrale non sia proprio più l’opera dell’artista quanto la rassegna del direttore. Un vero e proprio rovesciamento di quelle che dovrebbero essere le relazioni gerarchiche.

Enrico Pastore: In questi giorni è uscito un articolo di Porcheddu sul ruolo della critica oggi. In un mondo dove tutti possono dire la loro, e dove si chiede ai critici di formare il pensiero critico del pubblico dove e in che modo si può essere incisivi. Quale ruolo può assumere in questo panorama?

Attilio Scarpellini: Partiamo dall’idea fondamentale che il pubblico è già critico e non ha tutta questa necessità di essere formato. i critici avrebbero il dovere, e lo dimostra l’articolo di Porcheddu citando quei pezzi di Gramsci, il dovere di andare contro il pubblico per andare a prefigurarne uno diverso.

A Gramsci capitò nel momento in cui comprese che il pubblico della borghesia torinese non aveva capito il personaggio di Nora Helmer in Casa di bambola di Ibsen. Gramsci fece una cosa che se fosse fatta da un critico oggi, ossia scagliarsi contro il pubblico, verrebbe tacciato di lesa maestà.

La critica è, secondo me, una forma di contemplazione che si pone rispetto all’opera in una relazione direi di salvezza. Questo perché l’opera si pone sempre in una situazione di rischio. Non va dimenticato che in questa operazione la soggettività del critico è e resta, comunque sia, fondamentale.

Se vogliamo togliere alla critica il suo statuto come esercizio letterario della soggettività la uccidiamo. Certo può essere che la critica sia inutile, un qualcosa che serve solo a riempire le cartelle degli uffici stampa, ma resta il fatto che essa è nata con la funzione di rivolgersi a un pubblico più ampio di quello presente in sala. Svolge in questo anche una funzione di memoria rispetto a un evento che è per sua natura precario.

Pensiamo ad Apocalypsis cum figuris di Grotowsky: in quante persone l’avranno effettivamente visto nel mondo? A essere ottimisti cinquantamila? Centomila? Se rapportiamo questi numeri a un film come Via col Vento che da quando è apparso in sala l’avranno visto miliardi di persone ed è tutt’oggi visibile, i numeri dell’opera di Grotowsky diventano minimi. E quindi cosa sarebbe stato di Apocalypsis cum figuris se non ci fossero stati quei critici che sono stati folgorati in Polonia, in Italia, ovunque sia stata rappresentata ? Ne resterebbe ben poco.

Massimiliano Civica

INTERVISTA A MASSIMILIANO CIVICA: per la rinascita di un teatro popolare

In occasione del debutto del suo nuovo spettacolo Belve al Metastasio di Prato (Dal 17 al 22 aprile) ho incontrato in questa intervista il regista tre volte Premio Ubu Massimiliano Civica.

Enrico Pastore: Parlando di Belve, tua ultima fatica: perché scegliere la farsa? E se è impossibile, come ormai si dice dall’inizio del Novecento, una rinascita del tragico mancando noi tutti di un destino che ci elegga, la farsa è la forma del tragico nella postmodernità?

Massimiliano Civica: Io e Armando Pirozzi abbiamo deciso di fare una fare per un gusto di sfida. Volevamo provare a fare uno spettacolo dove il pubblico ridesse molto. Ci eccitava provare a fare uno spettacolo comico mantenendo la struttura tradizionale della farsa, i colpi di scena, le entrate e le uscite dei personaggi, l’agnizione finale. Oltre a questo avevamo anche il desiderio di inserirci nella tradizione in quanto, in vari periodi della storia del teatro, alcuni grandi maestri come Mejerchol’d e Copeau, Leo De Berardinis e Carlo Cecchi son tornati alla farsa con un impulso quasi antiaccademico e antiavanguardistico per ritrovare un rapporto immediato e popolare con lo spettatore.

Non ti so rispondere se la farsa sia la forma del tragico concessa a noi nel postmoderno. Posso dire che il tragico in qualche modo ha sempre fiducia nell’umanità. chiunque faccia una predica, abbia un attaccamento morale, creda che bisogna interrogarsi sui valori è una persona positiva. Il comico invece, e soprattutto la farsa che del genere è la frangia più estrema, secondo me nasconde una totale sfiducia verso gli uomini. Secondo me l’autore farsesco quasi dice con livore: ma non vi accorgete che tutto questo è da piangere? La farsa è un meccanismo quasi nichilista in cui non ci resta che ridere, ridere, ridere. Anche questo aspetto ci affascinava.

Prima di tutto c’era la voglia di inserirsi in una tradizione. Io credo fortemente in un teatro dell’attore e la farsa ha rappresentato sempre il tempo dell’apprendistato e il banco di prova dei grandi attori. Penso ai Fratelli De Filippo, a Petrolini, a Totò, a Sordi, ad Anna Magnani, allo stesso De Sica. Mi piaceva cercare questo confronto e vedere se era possibile immaginare una farsa moderna sia dal punto di vista della drammaturgia sia dal lato della tecnica attoriale ossia: come far ridere con i corpi, con i tempi e ritmi.

Enrico Pastore: Belve rinnova la tua alleanza scenica con Armando Pirozzi: hai trovato il tuo drammaturgo in una temperie teatrale che difetta di buone drammaturgie soprattutto tra i giovani?

Massimiliano Civica: Con Armando c’è prima di tutto una grande sintonia perché lui è uno dei pochi drammaturghi che scrive storie e che costruisce dei veri personaggi. Lui riesce a crearli tutti credibili, ciascuno con le proprie motivazioni che si scontrano sulla scena. Riesce a creare un mondo. Nei testi di Armando l’autore si nasconde. Non è quindi quello che per me è cattiva drammaturgia dove c’è un io centrale che parla attraverso tutti i personaggi e esprime la sua visione del mondo. Armando scrive delle storie in cui il senso viene fuori dalla relazione tra i personaggi e non senti un io invadente e unico che parla per tutti.

Altra cosa importante è che, sia io che Armando, crediamo nella creazione di un teatro popolare d’arte. Un teatro che riunisca due termini uniti in un apparente ossimoro: arte e popolare. Crediamo che sia una soluzione importante per il teatro di oggi. Crediamo anche che sia un’importante azione di politica culturale proporre allo spettatore un intrattenimento alto, ben fatto, ben eseguito che faccia ridere, perché nella farsa la risata è d’obbligo.

Enrico Pastore: È ancora possibile, secondo te, un teatro che sia genuinamente popolare?

Massimiliano Civica: Non so se sia possibile. Sicuramente lo è una tensione verso un teatro che torni a essere popolare. Possiamo dire che per questioni storiche e politiche la soglia di attenzione del pubblico si è drasticamente abbassata e anche il loro gusto. Il problema è che la televisione ha sdoganato non il popolare, ma il sotto popolare. L’arte popolare era in passato a un livello superiore a quella che abbiamo oggi.

Credo però che una tensione verso un teatro che non abbia soglie di ingresso anche soprattutto grazie alle storie, perché se le sai raccontare riesci anche ad accogliere il pubblico, sia doverosa. L’altra cosa, ossia piacere al nostro piccolo circolo di amici e addetti ai lavori, ce l’abbiamo già. Non c’è neanche più il gusto della sfida, ci raccontiamo le cose tra di noi, tra gli happy few che non so se sono happy ma sicuramente sono few e cade qualsiasi tensione.

Enrico Pastore: Il tuo pensiero mi sembra costantemente orientato al recupero della tradizione come se non fosse possibile innovazione se non innervandola di tutto il suo passato, è corretto?

Massimiliano Civica: Innanzitutto bisogna capire cosa si intende per tradizione. Io la penso come Leo De Berardinis che diceva: esiste solo la tradizione del nuovo. Quello che è diventato tradizione, lo è stato perché ai suoi tempi creava qualcosa di nuovo. Ora sembra che non lo sia, per il fatto che prendiamo le categorie dalla storia dell’arte, che funziona per opposizioni, ci sono gli ismi che si superano. Io non vedo nulla di male nell’evoluzione e trovo che la vera tradizione sia innovare evolvendo che non vuol dire assolutamente migliorare.

Io sono convinto per esempio che il progresso sia dato solo a livello tecnologico. Nel campo delle arti c’è solo evoluzione non si dà progresso, se con questa parola si intende che una cosa di oggi funziona meglio di una cosa di ieri. A livello tecnologico sì, ma non è che l’epopea di Gilgamesh sia meno progredita di un testo scritto oggi.

Nel campo umano, visto che le questione rimangono sempre le stesse, – l’amore, la morte, l’amicizia, il tradimento, la povertà – si dà evoluzione e, in quel senso, la tradizione vivente risulta sempre un trampolino vivificante.

Enrico Pastore: cerco di mirare un poco di più questa domanda. Tu hai parlato di Mejerchol’d e Copeau, due grandi innovatori che hanno permeato la loro ricerca con la grande tradizione per esempio della Commedia dell’Arte, o con il Teatro No giapponese.

Massimiliano Civica: Sì, certo. Anche con il circo, per esempio. Loro cercavano nelle forme del teatro popolare quello che ogni teatrante, visto che secondo me il teatro riguarda l’umanesimo, deve cercare. Un rapporto a due direzioni aperto tra gli spettatori e gli attori. Per esempio Capeau, insieme a Jouvet, cercò di creare per lungo tempo una compagnia di farsatori, e traduco all’impronta direttamente dal francese. Io credo che in questo ci sia una tensione umanistica verso un miglioramento dell’uomo. E credevano che questa apertura potesse venire anche dal comico e attraverso la farsa proprio perché ristabilisce un rapporto primario e immediato.

Enrico Pastore: Rispetto a questo aspetto della tradizione, forse oggi l’atteggiamento a tutti i costi avanguardista, alla ricerca del nuovo a tutti i costi, sta diventando noioso cliché?

Massimiliano Civica: Io credo che fare avanguardia oggi sia impossibile. Mi spiego: avanguardia prevede una trasgressione, la rottura e il superamento di un limite. Non c’è niente oggi di più avanguardistico della televisione, dal punto di vista della perversione, del sadismo e della distruzione di qualsiasi valore. Siamo immersi in una società che celebra fintamente la libertà assoluta. Io credo che oggi per essere avanguardisti l’unica possibilità sia credere nei valori. Per essere rivoluzionari oggi, in un mondo dove nulla conta, dove tutti hanno ragione, dove finalmente non dobbiamo più scegliere, che sono i mantra della nostra società, l’unica cosa è dire: no, ci sono dei valori, bisogna fare delle scelte. Bisogna scegliere anche cosa perdere. Il teatro deve sempre essere nel suo specifico e la televisione è sicuramente più avanguardista di qualsiasi teatro. Maria De Filippi è l’hardcore del sadismo. La trasgressione è diventato il brand. Se nella pubblicità della Mercedes tu ti devi comprare la macchina perché sei un trasgressivo, uno libero che non rispetta le regole, è chiaro che è già tutto finito. Non si può essere ribelli a vita, né timbrare il cartellino della ribellione permanente. Se così fosse vuol dire solamente che si è incapaci a dire sì. Se lo scandalo diventa un lavoro risulta essere solo l’emblema di una funzione che ti hanno dato altri.

Enrico Pastore: Oggi la parola d’ordine che tutti sbandierano è audience engagement perché tutti si sono accorti che qualcosa nel rapporto con il pubblico si è rotto. Com’è possibile ricostruire la relazione? Il teatro è dunque diventato irrimediabilmente una Fortezza vuota?

Massimiliano Civica: La realtà è molto complessa. da un certo punto di vista il teatro è in piena crisi. Ma a chi appartiene questa crisi? Non è degli artisti. Potrei nominare molti artisti più che rispettabili nel panorama teatrale italiano: Deflorian e Tagliarini, Claudio Morganti, Anagoor, Babilonia Teatri, Danio Manfredini, Roberto Latini. C’è una ricchezza incredibile. Solo a teatro si riflette della morte o della religione. Qual è il problema? la crisi non è degli artisti. Bisogna individuare di chi è la crisi.

C’è poi qualcosa di buffo perché, numeri alla mano, non c’è mai stata nella storia del teatro fino ad oggi un così gran numero di spettatori e di spettacoli offerti. Bisogna capirsi perché se il problema è raggiungere i numeri della televisione l’obiettivo è irraggiungibile. Il problema è capire che i valori e la loro comunicazione sono importanti di per sé. Non si può mettere tutto a bilancio. cento spettatori sono meglio di quattro? Va valutata la qualità dell’esperienza e il fatto che sia aperta a tutti, perché gli artisti devono essere in grado di parlare a tutti. Detto questo il teatro d’obbligo o l’obbligo a far numeri e spettatori non ha senso.

Un teatro pubblico deve offrire una possibilità di elevamento di cultura importante. Mi dispiace ma se contano i numeri vincerà sempre Maria De Filippi. Per l’audience engagement basta offrire nani e ballerine o regalare smartphone. Il problema è che manca il fine. Nessuno ha chiaro quale sia l’obiettivo. Son tutti confusi. Da una parte vogliono tanto pubblico dall’altra vogliono la qualità ma che siano anche tutti contenti. Bisogna mettersi d’accordo.

Ph: @ Duccio Burberi

Permutazioni

PERMUTAZIONI SUITE 2018: un progetto di sostegno alla nuova danza.

Venerdì 20 aprile presso la Lavanderia a Vapore di Collegno sono andate in scena tre piccole e preziose restituzioni di artisti ora in residenza nell’ambito del progetto Permutazioni presso Casa Luft, luogo creativo della compagnia Zerogrammi.

Permutazioni è un progetto di residenza, co-working e formazione che già da qualche anno anima la ricerca nel campo della danza nella città di Torino. Dedicato a giovani danzatori e coreografi costruisce una piccola comunità artistica che condivide uno stesso spazio di lavoro. Gli artisti residenti non sono solo affiancati da tutor qualificati ma svolgono tra loro quello che oggi si definisce peer-coaching, un donarsi gli sguardi reciproci, un confronto sano di pratiche e punti di vista.

Permutazioni è quindi uno strumento di affiancamento alla produzione, una messa in rete di competenze e capacità quanto mai necessario in un contesto produttivo alquanto desolante.

Tra i lavori presentati, tutti in fase creativa e di sviluppo, quindi offerti in un momento quanto mai delicato e fragile, Luci di Carni di Amina Amici insieme a Francesca Cinalli, Oltremai di Lucrezia Maimone e Stato di Grazia di Francesca Cola con Andrea Atzeni, Paki Belmonte, Francesco Dalmasso, Virginia Ruth Cerqua, Alessia Refolo.

Di Luci di Carni di Amina Amici ne avevo già visto una fase qualche tempo fa e devo con piacere constare un grosso miglioramento. Ispirato ai quadri di Caravaggio un movimento delicato, estremamente concentrato e minimo fa affiorare i corpi in luce che in qualche tratto li disegna con la crudezza chirurgica che i quadri del Merisi emanano. Una danza netta, senza fronzoli, asciugata al suo minimo emerge a tratti dalla penombra alla luce portando con sé la poesia fisica dei corpi,

Luci di carni, che nel suo esito finale prevederà cinque danzatori, ora in questa versione vede in scena solo Amina Amici con Francesca Cinalli, necessita ancora di lavoro sulle luci troppo statiche e diffuse, ma si è incamminato verso un percorso di maturazione che darà i suoi frutti anche in ambito drammaturgico.

Oltremai di Lucrezia Maimone, ha l’aria e il profumo di una favola, e della fiaba possiede i tratti fantasiosi conditi da risvolti cupi, inquietanti e fatali. Una donna con una lunga treccia e un lungo vestito verde danza con le movenze di un automa meccanico da racconto di Hoffmann o Edgar Alla Poe. La luce di taglio la inquadra seduta e pensierosa mentre a poco a poco si muove e si innalza su un cumulo di grossi libri su cui danza come ballerina di carillon.

I libri si spargono nello spazio, vengono aperti e come scatole a sorpresa rilasciano immagini in movimento che si snocciolano con grazia e una certa ironia. Una danza giocosa e seria insieme, evocativa e intensa in perpetua relazione con quei grossi volumi che pesano, gravano eppure elevano e spingono. Un lavoro molto convincente benché si noti una prima parte più solida e fluida e una seconda più incerta e ancora in fase di evoluzione.

Infine a chiudere questa serata dedicata a Permutazioni, Stato di grazia di Francesca Cola. Da tempo seguo il lavoro di Francesca e conosco la sua delicata poetica dedicata all’emersione di fragili visioni di intensa e morbida gentilezza. In particolare Stato di grazia l’ho seguito dal suo sorgere e conosco il percorso di ricerca che Francesca insieme ai suoi danzatori ha messo in atto.

Ispirato al libro di Georges Didi-Huberman Come le lucciole che in qualche modo si ribella alla visione di Pasolini che lamentava la scomparsa dei piccoli insetti che in cinquemila danno appena il barlume di una candela, e a cui oppone una visione accanita e poetica della sopravvivenza, Stato di grazia mette in relazione il movimento di una giovane non vedente con quello del gruppo di danzatori che è posizionato, in contro campo, dietro a lei.

Una voce narra l’esplorazione di un corpo fragile ma pronto al volo, e cui segue il movimento del gruppo che accoglie e sostiene quella fragilità. Attraverso immagini ispirate a un umanesimo quattrocentesco, in primis Piero della Francesca, si sviluppano figure piene di commovente delicatezza accompagnate dal Cum Dederit dello Stabat Mater di Vivaldi.

Il lavoro è intenso nei momenti in cui la danza è colma di concentrata presenza che ancora non si mantiene per tutta la durata del pezzo facendo svanire i momenti di grazia che pur riesce a creare. Stato di grazia è un lavoro molto promettente che necessita ancora di un grande periodo di ricerca e gestazione per raggiungere l’intensità necessaria a sostenere la delicata ragnatela di immagini e relazioni che dipana.

I tre lavori presentati nel corso della serata dedicata al progetto Permutazioni , quattro se si considera l’istallazione nel foyer Loop N.1 dangerous di Camilla Sandri con lo sguardo di Statolento dedicata al senso di pericolo che emanano gli oggetti di uso quotidiano, sono tutti ben concepiti e pieni di potenzialità. Necessitano certo ancora di un lavoro di raffinazione ma questa non era serata dedicata ai debutti quanto una condivisione con il pubblico di un momento nel lungo percorso di ricerca.

Forse proprio in quanto si mostrava bozzoli di lavori che venivano condivisi in questa delicata evoluzione andava forse dedicato un momento ai singoli artisti per spiegare e raccontare il proprio percorso, o forse una piccola presentazione dedicata alle loro poetiche.

Comunque sia, merito al progetto Permutazioni per una serata riuscita che ha fatto conoscere al pubblico alcuni giovani artisti che animano la nuova danza nella città di Torino e per il sostegno produttivo loro fornito in un momento di grande carenza.

Ph: @FabioMelotti

I Lombardi alla Prima Crociata

I LOMBARDI ALLA PRIMA CROCIATA : di Giuseppe Verdi

I Lombardi alla Prima Crociata è l’opera di Verdi che segue il Nabucco. Siamo nel 1843 e al suo debutto, l’11 febbraio, appare come un incredibile successo. Verdi e Solera, autore del libretto, cercano di replicare i moduli riusciti del Nabucco: abbondanza di cori, scene di massa da cui si stagliano le vicende individuali, le vicissitudini umane di un popolo e dei personaggi all’interno del magma degli eventi storici che li travolgono.

Quello che affascina nei Lombardi alla Prima Crociata (ieri sera in scena al Teatro Regio di Torino) è però l’abbondanza di contrasti e il continuo riformularsi dei rapporti tra i personaggi rispetto al cardine dello sviluppo drammaturgico: il tema del perdono e il riscatto del reprobo. La vendetta reiterata di Pagano che si tramuta in ricerca della santità e di riscatto; l’amore di padre di Arvino che si tramuta in rabbia per Giselda quando la scopre amante di un mussulmano e il perdono che ne segue. I personaggi vengono presi dal vortice della storia e dalle sue contraddizioni, e con sforzi umani superano le loro divergenze tramite la forza del perdono.

Giselda e Oronte si trovano su campi opposti e nemici, divisi dall’appartenenza a un popolo e un credo diversi, eppur si amano. La morte li divide due volte e in entrambi i casi, prima con un miracoloso salvataggio, e poi tramite una visione di salvezza, in qualche modo si ritrovano. I fratelli Pagano e Arvino per due volte si fronteggiano uno contro l’altro divisi dall’amore e dalla gelosia per una donna e per due volte si riconciliano. E se il primo perdono aveva basi false il secondo rigenera e rinnova nonostante la morte.

Verdi era fondamentalmente un pacifista e lo sembra ancor di più in quest’opera attualissima (guerra tra cristiani e mussulmani in terra di Siria e Palestina). Accorato l’appello di Giselda durante l’assedio che porta alla conquista di Antiochia: “No! Giusta causa – non è d’Iddio la terra spargere – di sangue umano […] Queste del cielo – non fur parole… No, Dio no’l vole – No, Dio no’l vole”.

Perdono e superamento dei contrasti all’interno di un contesto di guerra. I sentimenti seppur fioriti da una lingua in versi e dal canto, sono tendenzialmente realistici, veritieri, perfino rudi. Si pensi all’invettiva di Pagano nei confronti di Viclinda: “Sciagurata! Hai tu creduto/ che obliarti avrei potuto/, tu nel colmo del contento/ io nel colmo del dolor?”.

Grandi contrasti anche nella partitura musicale. Si pensi all’uso dei cori che innalzano inni di guerra insieme a pie preghiere, canti di vendetta insieme a invocazioni di perdono. E si pensi anche ai ritmi forsennati di tamburi e piatti delle marce militari insieme alla splendida e lirica pagina che apre il terzo quadro del terzo atto; un quasi concerto per violino e orchestra di una dolcezza intrisa di tristi accenti, una pagina sperimentale anche nel dialogo tra il violino e la voce dei cantanti.

I Lombardi alla Prima Crociata è dunque un laboratorio drammaturgico e musicale, e come ogni esperimento alterna momenti riusciti ad altri meno congeniali. La drammaturgia compie salti temporali e spaziali che tralasciano i nessi causali (per esempio Giselda che nel quarto atto si ritrova non si sa come nella caverna dell’eremita Pagano), alcuni sentimenti e situazioni sono sviluppati in maniera forse un po’ troppo sbrigativa. Eppure I Lombardi alla Prima Crociata è un’opera affascinante che cattura.

Verdi è un mago dell’azione. Tutto sembra trascinato in una valanga, gli eventi precipitano e i personaggi non possono far altro che reagire come possono. Carmelo Bene diceva che Verdi è “un abitare la battaglia” e di fatto è quanto ci si trova a sperimentare; nel caos degli eventi chi vi viene coinvolto reagisce come può. A volte quasi agito dagli accadimenti e dalle circostanze stesse.

Peccato che la regia di Stefano Mazzonis di Pralafera non abbia in nessun modo evidenziato questo aspetto dell’opera verdiana. Tutto si svolge nella più completa prevedibilità risultando una regia scolastica e noiosa. Le scene sono sostanzialmente statiche nonostante le grandi masse generate dai cori. Il movimento è quasi limitato a entrate e uscite. Laddove si discosta da questo schema basilare le scene si animano immediatamente e diventano più riuscite (per esempio all’inizio del primo atto sul sagrato di Sant’Ambrogio; nei giochi alla palla nel recinto dell’harem). Spesso i registi si dimenticano che l’opera è anche e soprattutto teatro, e che è nel movimento, nel comporre lo spazio e l’azione che si sviluppa un’idea di regia, non solo negli atteggiamenti e nelle pose studiate.

Gli interpreti al contrario risultano molto convincenti, Molto applauditi a scena aperta soprattutto la soprano Angela Meade nella parte di Giselda e il tenore Francesco Meli nella parte di Oronte.