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Astorri Tintinelli

FOLLIAR di Astorri Tintinelli: una mistica contemplazione del cadavere

Due figure emergono nel piccolo deserto della scena. Una finestrella che si apre verso un altrove indefinito. Dal pertugio appaiono oggetti che apparecchiano la scena e ne definiscono lo spazio d’azione. Un cerchio mal disegnato al centro sembra essere il fulcro. Ed è in questo preciso istante, quando tutto è preparato, che i due figuri iniziano la loro commedia. Un cieco e il suo aiutante si giocano a pari o dispari l’inizio dello spettacolo. Così inizia Folliar del duo Astorri Tintinelli.

Folliar è un dispositivo scenico di profonda intelligenza che disseziona la scena con l’accuratezza e la freddezza di un chirurgo, ne estrae le misere viscere e le osserva sotto la luce della verità che è disfatta, come dice Bernhard ne La forza dell’abitudine.

Folliar di Astorri Tintinelli parla di teatro e al teatro, della sua incapacità di parlare a un pubblico, delle sua inefficacia dovuta al suo sfuggire all’etimo: Teatron, il luogo da cui si guarda. Cieco l’attore, cieca la finestra che si apre alta su quella parete, si intravedono solo ombre grige e nere. Si avanza a tentoni e a fallimenti, attraverso prove estenuanti che non portano a nulla, si invade zoppicanti la piccola area d’azione senza mai possederne il centro e il fulcro.

Si iniziano le prove di qualcosa che non arriverà mai a compimento. Sterili divagazioni, meccanismo rotto, carillon inceppato sulle stesse piccole note. Si riprende, si rinnova una lotta che è la stessa di sempre ma non ha futuro. E si cerca invano di occupare quel centro, di arrivarci come sovrani designati. Eppure i due figuri non fanno altro che spingersi fuori uno con l’altro.

Anche i genitori sono morti. Non più sepolti nei bidoni della spazzatura, non più presenti con i loro sproloqui, ma scomparsi, vanificati da un presente scollegato da un flusso storico cui, per questo, viene negato un futuro.

Non resta che impiccarsi. Oppure buttarsi da un precipizio altissimo. Si avanza giù, fino in fondo, fino all’immondizia, come dice Beckett in Words and Music, e il cieco si butta, si schianta a terra, in un volo iperbolico, morte in scena da grande clown.

E solo allora il cieco riacquista la vista, rivede il pubblico, trova la gioia del gioco con le persone assiepate sulle sedie, un gioco infantile con la palla, certo, ma un modo per far ripartire la giostra. E finalmente il centro è riconquistato, si è riaperto un canale e scena e platea sono finalmente e nuovamente vasi comunicanti. Come nel Bushido bisogna prima morire per essere veri guerrieri.

In quel balbettio infantile c’è una rinascita, un grado zero su cui ricostruire, dopo le infinite e inutili prove alla ricerca di una perfezione che basta a se stessa.

Folliar di Astorri Tintinelli dice molto del teatro di oggi, affetto molto spesso da una ricerca sterile, priva di un reale sguardo sul mondo, scollegata da una comunità pubblico con cui dovrebbe condividere la volontà di incontrarsi per riflettere. Si parla di teatro con i mezzi propri del teatro.

Una drammaturgia fine e intelligente, frutto di un sapiente incastro tra Finale di Partita di Samuel Beckett con La forza dell’abitudine di Thomas Bernhard. Un dispositivo scenico acuto e sagace, che trafigge il mondo spesso autoreferente di un’arte antica che ha perso, nei meandri dei sui rituali, la capacità di vedere. Tocca spazzare via tutto, rimparare a parlare o, meglio, a balbettare per tornare a cantare.

In sottofondo La morte e la fanciulla di Schubert, non La trota come in Bernhard, ma il quartetto triste e sensuale che racconta dell’abbraccio erotico tra il corpo morbido e sensuale di una giovane con le scarne e fredde ossa della morte. In quel viluppo si consuma la fine di una vita che presuppone l’inizio di una nuova. Solo morendo si rinasce e si perpetua la danza di Shiva che crea e distrugge i mondi. Per rinnovarsi si deve abbracciare una morte.

Folliar di Astorri Tintinelli è in scena ancora stasera al Caffé della Caduta, all’interno della rassegna Concentrica. Non perdetelo. Sarebbe un delitto.

Milo Rau

INTERVISTA A MILO RAU: la scena come sguardo critico sul mondo

Ho conosciuto Milo Rau al Festival de la Batie a Ginevra nel 2015. Avevo appena visto Hate Radio lo spettacolo dedicato al genocidio in Ruanda. Lo intervistai nella hall del suo albergo e lui si dimostrò molto disponibile e generoso. Avevo mille domande perché il suo teatro ha una forza tale da scuotere l’animo di chi guarda da renderci confusi. Il teatro di Milo Rau interroga le nostre coscienze e lo fa essendo radicalmente prossimo all’etimo della parola: Teatron il luogo da cui si guarda.

Da quel giorno ho seguito il suo lavoro con attenzione particolare convincendomi sempre più della necessità di questo tipo di opere che spesso toccano l’estremo e vengono difficilmente digeriti da pubblico e critica. Faccio soprattutto riferimento al suo ultimo lavoro presentato in Italia per esempio, Five easy pieces, in cui i bambini raccontano la vicenda di Dutroux il mostro di Marcinelle e che ha vinto il premio Ubu per miglior spettacolo straniero.

E sono ancora più curioso di vedere il suo ultimo lavoro Le 120 giornate di Sodoma ispirato dall’ultimo lavoro di Pasolini nonché dall’opera del Marchese De Sade e messo in scena con ragazzi down.

Il teatro di Milo Rau è sempre un’esplorazione dei limiti della scena, di cosa è possibile fare, di cosa ci si può spingere a dire o mostrare attraverso il dispositivo di rappresentazione.

L’incontro con Milo Rau da cui scaturisce questa intervista è avvenuto a Venezia a palazzo Trevisan degli Ulivi sede del Consolato di Svizzera dove si svolgeva la rassegna Cinema Svizzero a Venezia organizzata dall’amico Massimiliano Maltoni all’interno della quale è stato proiettato in anteprima nazionale il film The Congo Tribunal del 2017.

Enrico Pastore: Come si inscrive la tua attività cinematografica nel quadro più complesso del tuo progetto teatrale?

Milo Rau: c’è indubbiamente una relazione ma è presente anche una notevole differenza. Ho già lavorato sia per il cinema che per la TV realizzando dei documentari tratti da miei spettacoli. In particolare The Congo tribunal è nato come un lavoro live realizzato tra il Congo e la Germania nel 2015. Come ben sai una performance teatrale è legata al qui ed ora, si svolge una volta sola o per un tempo limitato. La versione cinematografica del progetto è diventata quindi uno strumento per far sì che coloro che non potevano fisicamente partecipare all’evento potessero in qualche modo accedervi attraverso un documento riproducibile ovunque.

Enrico Pastore: Parlando di The Congo Tribunal: in che modo il film ha interagito o influito sulla realtà dei fatti di questo paese così ricco e così travagliato?

Milo Rau: Il tribunale che prende vita come performance e in seguito come film è simbolico. Benché ci sia un vero giudice della corte dell’Aja, vi sia un vero procuratore e le vittime siano reali, il tribunale non ha un vero potere perché non formalmente istituito. In Congo vengono compiuti decine di massacri legati allo sfruttamento incondizionato delle sue risorse naturali e noi ne abbiamo scelti tre particolarmente significativi perché compiuti proprio a causa di motivi economici. Abbiamo raccolto testimoni e vittime e gli abbiamo chiesto di partecipare alla messinscena di questo tribunale simbolico. Il film realizzato è stato poi fatto vedere varie volte in Congo e ha sempre generato molto scalpore nell’opinione pubblica che ha sempre attribuito le responsabilità di questi crimini alle multinazionali. A causa di queste montanti proteste si sono dimessi due ministri del governo e questo sta a testimoniare l’incredibile potenza e l’enorme impatto che l’arte può avere sulla realtà.

Enrico Pastore: Benché sia un film documentario assume la forma teatro. Vi sono i giurati, i testimoni, la corte e il pubblico: ognuno ha la sua parte e partecipa al rito del teatro e ognuno indossa la maschera che ritiene gli sia confacente. In qualche modo pensi che il tuo film sia anche un documentario sulla forza del teatro come sguardo sul mondo che permette a una comunità riunita di confrontarsi con le crisi che si trova ad affrontare?

Milo Rau: Quello che ho cercato di fare con questo film sono essenzialmente due cose: da un parte cercare di avere un impatto sulla realtà politica ed economica; dall’altra descrivere la realtà. Com’è possibile realizzare un film o una performance che parli delle guerre in Congo? E com’è possibile fare un film che tratti allo stesso tempo anche lo sfruttamento delle miniere in Congo? E come dare in un film spazio alle vittime per raccontare le loro storie? Il Tribunale diventa quindi un format in cui è possibile trattare tutti questi argomenti, farli interagire, vedere come un aspetto sia legato all’altro, perché tutti i protagonisti sono riuniti in un unico luogo: il tribunale/teatro. E questo ovviamente si ricollega alle origini proprie del teatro greco antico dove si può riscontrare la nascita della forma tribunale. Pensiamo a l’Orestea o ad Antigone, dove le vicende degli eroi sono legate indissolubilmente alle questioni che riguardano la legge e la sua applicazione. Il tribunale nasce a braccetto con il teatro in qualche modo.

Enrico Pastore: Nel tuo teatro cerchi sempre in qualche modo di sperimentare i limiti di quello che si può fare in scena e di quello che il pubblico potrebbe sopportare, Penso soprattutto a Five easy pieces e a Le 120 giornate di Sodoma. Cosa ti spinge a forzare questi limiti? Il teatro dee essere un gesto estremo per essere significante?

Milo Rau: Sia Five easy pieces che Le 120 giornate di Sodoma hanno un ruolo chiave nel mio percorso creativo. Sono due lavori che sondano i limiti e si pongono la questione di come superarli, ma soprattutto indagano la questione su cosa sia la catarsi al giorno d’oggi. Ne Le 120 giornate di Sodoma ci sono in scena dodici ragazzi portatori di handicap e affetti dalla sindrome di Down che subiscono delle autentiche torture. Ma questo accade anche nella vita quotidiana in virtù della loro condizione a causa di una società che non considera pienamente i loro diritti e le loro esigenze. Allora sorge una domanda: com’è possibile che non tolleriamo vedere certe cose sulla scena eppure le sopportiamo tranquillamente nella vita di ogni giorno? Cosa dice questo di noi come spettatori e come società civile? Cos’è veramente scandaloso? E lo stesso discorso si può dire anche per Five easy pieces dove sono i bambini a raccontare la vicenda di un noto pedofilo, ma più in generale affronta il tema della violenza che gli adulti esercitano sull’infanzia.

Enrico Pastore: Nei due ultimi tuoi lavori teatrali Five Easy Pieces e le 120 giornate di Sodoma lavori con attori non convenzionali, bambini e ragazzi down, per trattare temi estremamente forti e sconvolgenti. Come hai lavorato con loro durante la creazione, che tecniche hai utilizzato?

Milo Rau: Five easy pieces è stato il mio primo lavoro in cui ho lavorato con dei bambini. Nelle opere precedenti avevo sempre lavorato con attori professionisti o con esperti di procedure legali nel caso dei processi (Es. The Moskow trails). Lavorare con i bambini è molto difficile in quanto fanno fatica a concentrarsi, non sanno veramente cosa sia recitare né che tipo di relazione instaurare con il pubblico. Ci sono voluti mesi di prove molto lunghe nei fine settimana per riuscire a creare un metodo che fosse efficace. E tutto questo lavoro mi ha fatto pensare molto a cosa vuol dire essere un regista, cosa sia una regia teatrale e cosa sia la recitazione. La regia in qualche costruisce relazioni di potere e di abusi per poter raccontare una storia e questo non ricorda in qualche modo ciò che fa un pedofilo? Five easy pieces è un lavoro che pone molte questioni sulla regia e le sue modalità.

Dopo aver affrontato il lavoro con i bambini e in seguito con i ragazzi down ne le 120 giornate di Sodoma penso che il mio modo di dirigere sia cambiato e questo proprio a causa delle domande che mi sono posto durante la lavorazione di queste due opere per me così importanti.

Enrico Pastore: Perché hai deciso di confrontarti con Le 120 giornate di Sodoma? e in che modo ti sei confrontato con l’ultimo lavoro di Pasolini?

Milo Rau: Sono da sempre un grande estimatore dell’opera di Pier Paolo Pasolini. Ricordo quando ho visto il film Le 120 giornate di Sodoma. Ero a Parigi come studente e lo vidi una domenica pomeriggio. Rimasi scioccato dalla sua modalità quasi mistica di raccontare il fascismo.

Pasolini aveva una visione molto democratica della recitazione utilizzando nei suoi lavori attori professionisti come la Magnani o Totò a fianco di attori non professionisti. E in parte è questo che ho cercato di fare.

L’opera di Pasolini descriveva anche una società e le sue modalità, e io nel rapportarmi con il suo ultimo lavoro ho voluto in qualche modo porre la questione di che tipo di società siamo diventati.

Ho deciso di affrontare Le 120 giornate di Sodoma con dei ragazzi down perché nella società borghese svizzera e tedesca sono come dei feticci. Sono adorati quanto sono su un palco o in un film, ma sono sostanzialmente ignorati nella vita reale.

Anomalia Teatro

UROBORO: di Anomalia Teatro

Uroboro è il serpente che si mangia la coda: simbolo antico e misterico che attraversa culti lontani, riti alchemici, pensieri mistici, analisi psicanalitiche. Temo scherzosamente che tutto questo con Uroboro di Anomalia Teatro non c’entri nulla. Uroboro è un gioco scenico. Siamo in un improbabile Dojo. Un uomo va in cerca di un maestro di Kung Fu, ma non sempre quel che si cerca dà la felicità. La piccola maestra insegna ma son lacrime e sangue e risate per chi osserva.

Uroboro del giovanissimo collettivo Anomalia Teatro (in scena i due attori Simona Ceccobelli e Sebastian Suarez), contiene elementi dissocianti e inquietanti. Due maschere attraversano la scena in più occasioni. Un coniglio e un rospo. Non hanno un significato simbolico, sono solo elementi perturbanti, fuori contesto che intrecciano la loro storia a quella due abitanti del dojo. Anche il maestro e l’allievo sono in fondo due maschere: un augusto e un clown bianco senza trucchi né ceroni o rossetti, solo nel loro agire crudele e divertente. Uroboro è un gioco ma anche un sogno, come quello di Chuang Tze che sogna di essere un farfalla e al risveglio non sa più se è un uomo o una insetto, se sogna o è desto.

L’elemento comico si inscrive quindi assieme al perturbante a volte potenziandosi, a volte diminuendosi. Gli elementi che costituiscono Uroboro di Anomalia Teatro sono di quando in quando sproporzionati benché ben studiati. La composizione è arte che si impara con la pratica e con il tempo e questa compagnia giovane lascia ben sperare in frutti più gustosi e maturi nel passare delle stagioni.

Uroboro è un gioco si è detto, divertente, coinvolgente, di una comicità intelligente e fine. Come sempre, soprattutto quando si parla di giovani, il problema non è tanto la loro bravura o capacità sulla scena, quanto la abilità e la fortuna di uscire dalla selva oscura e intricata della distribuzione italiana. Farsi vedere, farsi apprezzare dagli operatori e sempre più difficile e la speranza è che questo giovane collettivo possa riuscire non solo a raffinare gli strumenti scenici per presentare lavori sempre più efficaci, ma anche studiare e trovare gli strumenti giusti per poter far circuitare il proprio lavoro.

Uroboro di Anomalia Teatro era a Officine Caos nella stagione di Stalker Teatro nei giorni 2 e 3 marzo.

Carmelo Segura

OSAKA: di Carmelo Segura Dance Company

Osaka di Carmelo Segura è un mito che attraversa in varie declinazioni tutto l’Estremo Oriente. Un filo rosso attraversa la vita di ognuno di noi, ne determina gli incontri, le persone che amiamo, odiamo, ci aiutano o ci ostacolano. Un filo rosso legato a noi e a coloro che in maniera significante influenzano la nostra esistenza; un filamento rosso che intesse le nostre vite nel disegno delle epoche.

Osaka di Carmelo Segura non è un racconto, è un flusso di emozioni e interazioni: piccole lotte, scontri animaleschi, amori focosi o delicate tangenze che in un attimo svaniscono come un fiore d’arancio. Ed è la danza che emana dal palco alla platea queste sensazioni che coinvolgono il pubblico, la avvincono nel movimento, lo coinvolgono senza proferir parola alcuna.

Osaka di Carmelo Segura è un viaggio senza giudizio nei rapporti umani, nel tempo, lungo o breve che sia in cui questi si sviluppano e muoiono, come nel toccante bassorilievo di figure iniziale, dove i due danzatori, sviluppano teorie di possibilità appiattiti su un fondale di carta di riso. O come nel cerchio di fili rossi a racchiudere un giardino zen di chicchi di riso, simbolo di fertilità e prosperità dove avviene una lotta che ricorda il sumo. Nel piccolo cerchio delle interazioni forza e delicatezza giocano e danzano il nostro destino,

Osaka di Carmelo Segura ripeto non è un racconto, ma una compresenza di quadri, situazioni, stati mentali ed emotivi che travalicano uno nell’altro, travasano come coppe comunicanti le esperienze che si maturano nel tempo e nello spazio e perennemente evolvono e si permutano, come nel gioco di ombre dei danzatori in cui ogni azione e ogni movimento conosce il suo doppio ingrandito. Un evolversi come di piccolo sasso gettato in un lago calmo a generare onde sempre più ampie, come ogni gesto, perfino il più gentile e delicato crea onde di risonanza nelle vite a cui è dedicato.

Carmelo Segura è un giovane coreografo e danzatore madrileno, fondatore della Carmelo Segura Dance Company (ospite in questi giorni nella stagione di Officine Caos/Stalker Teatro) con già all’attivo un bel curriculum internazionale e un linguaggio coreografico maturo, estremamente poetico, delicato che in Osaka si palesa in tutta la sua forza gentile.

Tommaso Monza

TOMMASO MONZA – COMPAGNIA NATISCALZI: Lo Schiaccianoci

Ieri sera alle Lavanderie a Vapore di Collegno è andato in scena per Toghether we dance Lo schiaccianoci di Tommaso Monza e Claudia Rossi Valli fondatori della compagnia Natiscalzi.

Tommaso Monza e Claudia Rossi Valli si mettono in relazione con un classico del balletto ibridandolo con il linguaggio del contemporaneo. Lo schiaccianoci viene evocato, citato, trasformato, rielaborato per e con il presente.

La storia si mescola con il ricordo d’infanzia, con il Natale passato per rilanciarsi ed essere materiale per il presente. E la spinta avviene tramite il desiderio di diventare adulti che si confronta con l’oggi in cui l’adulto è diventato qualcosa di diverso dal progetto infantile.

Questo gioco tra passato e presente mosso dal ricordo e dal desiderio si manifesta attraverso un dispiego ampio di linguaggi: il video, il circo, la danza, il teatro. Un caleidoscopio fin troppo ricco, addirittura bizantino ed esorbitante.

L’operazione guidata e diretta da Tommaso Monza e Claudia Rossi Valli tende anche ad implementare tecniche di audience engagement: nel progetto vengono coinvolte le scuole di danza del territorio e per una volta si assiste ad un vero e proprio balletto di massa con grandi movimenti d’insieme.

Questo aspetto però finisce per fagocitare l’operazione. Se la drammaturgia regge fino a metà dell’opera, cioè fino a quando il coro dei bambini fa il suo ingresso in scena, la seconda parte tende a essere niente altro che un profluvio di numeri d’insieme in cui tutti hanno la loro piccola parte. La crescita debordante del materiale travalica la sua necessità.

E quindi rispetto a questo tema ora molto pressante di recupero di affezione da parte del pubblico se non addirittura la creazione di uno nuovo e mai avvicinato, le tecniche e i metodi legati alla creazione si prospettano come armi a doppio taglio. Se da una parte coinvolgere il tessuto della comunità in cui si opera diviene necessario resta il rischio di farsi prendere la mano e soggiacere ai meccanismi di engagement.

Il caso de Lo Schiaccianoci di Tommaso Monza, è indubbiamente interessante anche se necessita di una revisione delle priorità. Nella seconda parte dell’opera si è rasentato fin troppo spesso la versione di un saggio di fine anno in cui tutti partecipano al di là della reale necessità di questa presenza.

L’opera e le sue esigenze restano l’ago della bussola attraverso cui orientare il lavoro di creazione in cui possono indubbiamente rientrare le tecniche e le modalità di engagement ma nel rispetto del lavoro artistico che non deve esserne fagocitato.

Esperimento dunque interessante, che si affianca ad altri consimili come quello messo in atto dal progetto Teatro Agorà promosso da Elena Di Gioia nel bolognese, così come analoghi del festival di Vignale Monferrato promosso sempre dalla Fondazione Piemonte Dal Vivo.

Occorre proseguire negli esperimenti, riorientarli e ricalibrarli in modo da trovare un giusto equilibrio in cui l’opera, le funzioni della scena, le sue tecniche e i suoi materiali possano coagularsi con i bisogni e le necessità della comunità che la ospita.

Silvia Battaglio

SILVIA BATTAGLIO: Lolita

Silvia Battaglio è una Lolita adulta e bambina. È lo sguardo di oggi a quello di ieri e, come due immagini trasparenti, il tempo passato e quello presente si sfocano, travalicano, si sovraincidono.

Quanto della donna di oggi è la bambina di ieri? E quanto della bambina passata era già donna anzitempo, controvoglia, forzatamente costretta a indossare i panni dell’adulta? L’innocenza strappata porta a galla una vittima che sa trasformarsi in carnefice, la debolezza violata cangia in dispotica capacità di sedurre e il signor Humbert, lupo cattivo pronto a mangiare Cappuccetto Rosso è a sua volta intrappolato nelle malie di quella sensualità scatenata e prematura.

Ma chi è Humbert? A chi si rivolge la Lolita sulla scena? Humbert è nascosto tra il pubblico, nell’occhio di chi guarda e brama e rinnova il mito di Ade e Persefone, il vecchio dio dei morti che rapisce la fanciulla Kore per farne la sua sposa. Kore diventa essere ibrido, tra la vita e la morte, perpetuamente divisa a segnare il tempo delle stagioni.

Ma Kore è anche la pupilla che in sé riflette l’occhio del rapitore, come la scena riflette l’occhio del pubblico convenuto e nascosto nell’ombra della platea.

Silvia Battaglio è Lolita, in un giardino ricoperto di mele cadute, il frutto proibito del peccato, il frutto avvelenato di ogni favola. Violata e violenta, infantile e crudelmente adulta, vittima e carnefice, Cappuccetto Rosso che sbrana il lupo cattivo dopo esser stata a sua volta mangiata. L’azione perversa e imperdonabile del male sta nella corruzione dell’innocenza incapace di conservare se stessa. Come in Addiction di Abel Ferrara se il male entra in noi ci corrode e rende complici: per sempre vampiri, complici e vittime insieme.

Silvia Battaglio, in questa sua Lolita, primo capitolo della Trilogia dell’identità, intaglia nella carne e nel sangue una figura di donna/bambina in perenne ricerca di un sé che sfugge alla presa dopo l’azione di Humbert, ma disegna anche un carnefice incapace di vivere il proprio tempo e la propria età, invidioso di una gioventù e una purezza che non sarà più mai e la insozza con le proprie brame perverse.

Silvia Battaglio costruisce una drammaturgia intensa, fondendo le fonti letterarie (Nabokov, Pia Pera e Perrault) in una riscrittura agile, intensa e perversamente potente che si fonde con un’azione scenica in cui la corporeità è predominante. Coreografia di gesti che rende superflua al questione attore danzatore o performer. Il corpo scenico è tutto e niente. Utilizza i mezzi che abbisogna per essere efficace.

Questa Lolita di Silvia Battaglio, opera che apre il sipario su temi che vogliamo seppellire sotto il tappeto della civiltà, additando il mostro nel peccatore scoperto in flagrante dimenticando che l’orrore si annida nell’animo di tutti, ricorda qualora ce ne fossimo dimenticati che la funzione della scena è parlare al mondo del mondo, sollevare i veli, scuotere l’artificiale sicurezza del vivere civile. Il teatro quando si esprime con la sua vera forza non rassicura per niente: è uno sguardo lucido sulla durezza del vivere, sulla vita bella e crudele.

Lolita di Silvia Battaglio è in scena nel bellissimo spazio del Caffé Müller ancora stasera 3 febbraio.

Antonio Latella

Attore e/o Performer: Riflessione in forma scenica nella Biennale di Antonio Latella

Antonio Latella ha presentato il programma della Biennale Teatro 2018. Dopo aver dedicato il primo atto della sua direzione alla regia declinata al femminile, in questo secondo le luci della ribalta sono concentrate sull’attore e il performer.

Lo stesso Antonio Latella afferma che i confini delle arti si fanno sempre più labili tanto da risultare confusi, annebbiati, sbiaditi. Molti già adottano il termine onnicomprensivo Live Arts, soluzione che tendenzialmente mi trova favorevole.

Eppure se sulla convergenza dei linguaggi delle arti dal vivo pochi hanno da obiettare, molto più dibattito accende la questione dell’attore performer.

Cosa è uno e cosa è l’altro? Possono travalicare i rispettivi ambiti? L’attore è performer e viceversa? Domande queste che possono non solo moltiplicarsi ma che per molti versi non hanno risposta univoca, sempre che ne abbiano una.

All’origine le cose erano chiare: rappresentazione da un lato, pensiero non rappresentativo in azione dall’altro. Ma anche qui le cose si sono confuse. Spesso assisto a eventi denominati performance che potrebbero essere tranquillamente altro, così come l’azione degli artisti coinvolti potrebbe benissimo essere l’azione di un danzatore o di un attore.

Il Leone d’oro dato alla coppia Rezza/Mastrella va proprio in questo senso: quello di Rezza è teatro? E lui è un attore? Onestamente la tensione a definire mi è abbastanza estranea. Ritengo che l’artista usi quello che necessita in base a quello che vuole dire. Se un coreografo per un lavoro necessita anche di attori e performer: buon per lui, soprattutto se il risultato del lavoro gli da ragione.

In una recente conversazione con Roberto Castello (Cfr. http://www.enricopastore.com/2017/10/20/intervista-roberto-castello/ ) si parlava proprio di questo e della possibilità, per necessità espressive, che l’artista usi qualsiasi strumento e qualsiasi registro possibile.

Il problema infatti, a mio modo di vedere, non è tanto nella questione attore e/o performer quanto piuttosto nell’interazione tra arte dal vivo e comunità/pubblico e nella funzione che le Live arts assumono nel contesto in cui operano.

La relazione tra la scena, nel senso più ampio del termine, e la comunità che assiste (pubblico è parola che mi repelle) si sta deteriorando, in quanto molto spesso si suppone che il transito di senso sia dato come acquisito anche quanto non lo è. E come diceva Artaud :”Se per esempio la folla contemporanea non capisce più Edipo Re, oserei dire che è di Edipo Re la colpa, non della folla”,

Quello che non è per nulla chiaro non è tanto se abbiamo di fronte un attore o un performer, cosa che interessa più che altro gli addetti ai lavori, ma quale sia la funzione della scena, qualsiasi declinazione essa abbia, rispetto alla comunità che si convoca e quale relazione debba sussistere tra i due ambiti. Qui le cose si fanno veramente confuse.

Certo da studioso di teatro mi interessa alquanto scoprire le diverse manifestazioni, le tecniche e i materiali che distinguono o accomunano l’attore e il performer, ma per il pubblico queste sono questioni di lana caprina. A quest’ultimo interessa che la scena lo tocchi, gli dica qualcosa, scuota il suo mondo o lo rafforzi, cerca risposta alle sue domande e alle sue ansie o per lo meno ricerca un rispecchiamento tra la propria vita e quanto avviene di fronte a sé. Cerca, in ultima istanza, una relazione. Se manca tale connessione, se tra azione scenica e comunità/pubblico non c’è dialogo, importa poco che ad agire sia un attore o un performer.

Per esempio: rispetto a Educazione sentimentale di Kronoteatro presente in una delle mini personali in programma e visto l’anno scorso al Festival delle Colline Torinesi, poco mi importa che in scena ci siano semidilettanti, importa che in lavoro non funzioni e si dibatta, senza risolversi, in bieche banalità. Ora questo lo dico non perché mi voglia scagliare contro Kronoteatro che è un gruppo che agisce nel panorama italiano con intensa onestà, ma solo perché, secondo la mia opinione di studioso di teatro, il lavoro, quel lavoro. non funziona per niente. Non sono i performer ma la concezione e composizione del lavoro, così come il registro e il linguaggio usato.

Lo stesso si potrebbe dire di molte performance viste a Santarcangelo nella scorsa edizione. Certi lavori mancano di struttura, di funzione e, peggio di tutto, non cercano di instaurare una relazione con la comunità /pubblico che si raccoglie intorno al lavoro.

Ci si pone sempre più spesso il problema del pubblico e di come riportarlo a teatro e ci si interroga molto meno intensamente sul perché questi si disaffezioni dalla scena cosa che forse dovrebbe essere al centro del dibattito. E così magari si risolverebbe rebus tanto in voga in questi ultimi anni dell’audience engagement.

Ma forse questo sarà argomento del terzo atto della direzione artistica di Antonio Latella e stiamo solo anticipando i tempi.

Dopo questa premessa, a mio modo di vedere necessaria e prima di concludere, diamo una scorsa al programma che appare interessante e di alto livello, come nella scorsa edizione della Biennale Teatro.

Innanzitutto tornano le mini-personali, piccoli trittici che attraversano trasversalmente alcuni autori invitati (Oltre a Rezza/Mastella, Vincent Thomasset, Clement Leyes, Giselle Vienne, Thom Luz, Jakop Ahlbom e i già citati Kronoteatro); in seconda battuta si può notare una panoramica trasversale nelle più diverse branche delle Live Arts: circo, burattini, giocoleria, performance art, teatro e danza. Così come un occhieggiare al genere soprattutto noir e crime.

Si segnalano i lavori dello svizzero Thom Luz che a suo modo sperimenta nuovi percorsi nel teatro musicale, così come quelli del francese Clement Layes che naviga sui confini tra circo e coreografia. L’olandese Devy Pieters invece esplora l’interazione tra scena e video in una crime story in cui coinvolge esperti forensi della polizia; Giselle Vienne intesse la storia del serial killer americano Dean Corll con i suoi inquietanti burattini. E poi ovviamente i Leoni d’argento Anagoor con la loro versione dell’Orestea. Questo solo per accennare alcuni degli artisti che animeranno il programma del festival. Per il programma completo rimando al sito della Biennale http://www.labiennale.org/it/teatro/2018 ).

Questa edizione della Biennale Teatro in scena a Venezia dal 20 luglio al 5 agosto sotto la direzione di Antonio Latella si prospetta dunque curiosa e di alto livello e porta all’attenzione del pubblico italiano artisti poco conosciuti sulle scene nazionali. Allargare i confini dello sguardo e ampliare un confronto con la scena europea è un merito indubbio di un grande festival. Ora tocca ai lavori parlare e scoprire in che modo sapranno relazionarsi con il pubblico, ma per questo non resta che attendere la prossima estate.

Un quaderno per l’inverno

MASSIMILIANO CIVICA: Un quaderno per l’inverno

MASSIMILIANO CIVICA: Un quaderno per l’inverno

Nessun buio preventivo. Tutto “alla luce del sole”, o circa. Speciale allusività del gioco linguistico: quella accesa sul palco è una luce fredda, artificiale. Immobile, non subirà nessuna variazione nel corso dello spettacolo. Resterà luce statica, un rimbalzo sulle pareti di quelle stanze che rimangono avvolte dal buio, in inverno.

Luca Zacchini e Alberto Astorri (volti già noti, l’uno membro della compagnia pistoiese gli OMINI, l’altro istrionico bluesman del duo Astorri/Tintinelli) si guadagnano quasi a tradimento l’attenzione della sala, sorpresa ancora in chiara e piena luce. Un professore di letteratura torna a casa, dietro alla porta ad aspettarlo c’è un ladro. Non ho intenzione di fare niente: curioso enunciato per un ladro armato di coltello. Che fortuna, allora è il mio momento d’oro: ossuta replica di un letterato armato di lucido disincanto. In apparenza non c’è movente dietro l’irruzione: non c’entrano soldi, né il computer, né c’entra nulla di ciò che fisicamente immaginiamo contenere una piccola tiepida cucina, scenografia del vuoto che si aggancia al tavolo bianco e alle sedie rosse – soli elementi essenziali di una scenografia che non è altro che l’attore – sulle quali di lì a poco Nino e il Professore si accomoderanno; e neanche è un tentativo di omicidio, per quanto una minaccia di morte, quella la si sente aleggiare, comunque. Quel quadernetto è mio. Al che Nino: le hai scritte tu quelle poesie? Sono belle.

Un quaderno per l’inverno, premio Ubu per la miglior drammaturgia originale ad Armando Pirozzi, deposita la spettacolarità in camerino e ci lascia di fronte a un palcoscenico che rifiuta il “più” in favore della nuda semplicità di un incrocio fintamente fortuito, col poveraccio a bussare alla porta dello studioso: relazione che prova a raccontare se stessa a se stessa con la perseveranza e la ferma volontà di credere cui solo l’esperienza surreale di eventi lontani dalla quotidianità di routine può portare. Con parole, visto che non se ne può fare a meno. Tanto più quando sono una condanna, come lo scrivere poesie. Ma le poesie non si buttano mai.

E per me, Professore? La scriveresti una poesia per me?

Un quaderno per l’inverno è un incontro magistrale per essenzialità, che corre per tre atti e otto anni. Dramma che procede per sottrazione ed eliminazione di elementi, come spesso si accenna parlando delle messe in scena affidate a Civica: l’assenza di cambi luce e di cesure nette fra le scene, al massimo suggerite dalla viva voce degli attori, raccontano un sorreggersi con onestà sullo scheletro vivo di un teatro fatto di attori e parole, senza per questo scomodarsi a chiamare in causa il caro fantasma del teatro povero, né rischiando, parallelamente, l’arroganza del simbolo. Fa sua, piuttosto, la semplicità della parola che produce eco e si propaga nel vuoto.

Qualsiasi vocazione alla scrittura è del resto una precisa necessità di uscita. Si modifica il tempo scavando il solco di un dialogo in assenza; è in fondo dialogo privilegiato con la morte. È soprattutto affrontando questo livello che la drammaturgia di Pirozzi per voce di Zacchini-Astorri si mantiene ironicamente distaccata, agrodolce, e troppo sottile per rischiare il patetismo. Con ritmo in diminuendo si arriva invece a qualcos’altro. Come nella scena centrale, nel piccolo gesto di tagliare un’arancia dopo l’altra: alla bellezza fatta di strazio, al riconoscersi, in un’azione, compagni.

Bisognerebbe dar ragione al regista nel dire che, piuttosto, il tentativo di questa semplicità è quello di tornare al rituale. Ma è anche vero che è lo stesso Civica a divertirsi molto a sfatare qualsiasi possibile ingenuità sovra-interpretativa, mettendo in crisi sia critico (qui nei panni di Massimo Marino) che pubblico. Per il resto, agli affezionati del lirismo-aggiunto, restano la pioggia e la neve che ticchettano sul soffitto del Teatro Biagi D’Antona, tappeto sonoro e riempire il vuoto dell’inverno. Bellino.

Di Maria D’Ugo

foto@ MLaura Antonelli

Francesco Gabrielli

BIG GIRLS DON’T CRY: di Alessandra Dell’Atti e Francesco Gabrielli

Nuovi spazi crescono nella città di Torino. Nella casa di quartiere PiùSpazioQuattro dii via Saccarelli in Circoscrizione 4 si sta allestendo una sala dedicata alle arti performative grazie agli sforzi di Francesco Gabrielli e Alessandra Dell’Atti promotori della rassegna Corpi Celesti all’interno della quale ieri sera 24 febbraio ho potuto assistere a Big girls don’t cry, piccolo studio in cui gli autori e interpreti sono proprio i due organizzatori.

Big girls dont’ cry è una storia d’amore che mette in scena il suo fallimento alla ricerca di una ricostruzione. E un nuovo fallimento è in vista alla fine del percorso. La scena rimanda all’origine e riflette l’immagine che si voleva cancellare. E l’amore ripiomba nell’abisso da cui voleva fuggire.

Un uomo e una donna (Francesco Gabrielli e Alessandra Dell’Atti) si incontrano sulla scena. Lui porge un mazzo di fiori e la coppia inizia a danzare. Si scambiano gli anelli, e la danza si fa più complicata dove lei diventa una sorta di marionetta nelle mani di lui. In sottofondo la musica eseguita dal vivo da Gianluca Pizzino.

La coppia infine si rompe, lei in abito bianco sale su una sorta di piedistallo che si capisce essere una torta nuziale in cui manca la figura maschile. Lei è abbandonata sola, imbrigliata in un ruolo. Alle sue spalle un video da filmino da pranzo di nozze.

Lei alla fine riesce e liberarsi a scendere dalla torta e se ne va. Lui resta solo a danzare mentre la voce di lei in sottofondo svela ironicamente l’arcano: la scena era una messinscena di un amore finito con lo scopo di ricucirlo ma appunto il teatro non riflette che la verità e rimanda l’immagine orribile che si voleva cancellare. Il fallimento è compiuto e tombale.

Big girls don’t cry di Alessandra Dell’Atti e Francesco Gabrielli è uno spettacolo ancora in fase di lavorazione, presentato al pubblico in una sorta di condivisione del percorso di creazione. I difetti sono ancora presenti, la forma non pienamente smussata e raffinata (nuove residenze creative sono già fissate nell’immediato futuro), ma lo scopo non è tanto quello di mostrare un lavoro quanto quello di animare uno spazio che sta nascendo proponendo contenuti che possano incontrare un pubblico che è da formarsi.

All’interno di Corpi Celesti Francesco Gabrielli e Alessandra Dell’Atti propongono alcuni titoli interessanti tra cui il 17 marzo prossimo Faustbuch di Enrico Casale con attori con disabilità prodotto dalla Compagnia Scarti di La Spezia finalista nell’ultima edizione del Premio Scenario.

Corpi Celesti è un’iniziativa che speriamo possa avere continuità e a cui possa essere data una possibilità di crescita. Questo è l’augurio che di cuore faccio ai due artisti organizzatori Francesco Gabrielli e Alessandra Dell’Atti.

Zelda

VITE E PENSIERI D’ARTISTA: Zelda di Piccola Compagnia della Magnolia e Zona Tarkovskij di Versiliadanza

Continua la stagione di Officine Caos/Stalker Teatro con due lavori intensi e forti come Zelda di Piccola Compagnia della Magnolia e Zona Tarkovskij di Versiliadanza. Due lavori accomunati dall’esplorazione della vita e del pensiero di due artisti a loro modo unici ed eccezionali.

Entrati in sala veniamo precipitati in piena Zona Tarkovskij, accolti dalle immagini di Stalker proiettate sullo schermo. Quel tubo infinito, la pioggia cadente, una vaga luce a illuminare la parete del condotto più avanti, appena dopo la curva. E poi le parole e i pensieri del grande regista, la sua fede che l’arte potesse portare grazia in questo vasto mondo che respira.

Una danza minima, fatta di piccoli gesti, tensioni muscolari che si distendono piano, senza fretta, come fiori che sbocciano con fatica e pazienza. Equilibri sul punto di rottura, gesti semplici e fragili a ricordare la grazia di Tarkovskij nel raccontare la struggente bellezza del mondo nell’inquadrare piccoli resti abbandonati in una putrida pozza d’acqua.

La Zona Tarkovskij è in fondo tutta lì, in questi detriti abbandonati, come d’alieni dopo un picnic, come nel romanzo dei Fratelli Strugavskij che hanno dato origine alla leggenda degli Stalker. Le crepe nel muro bianco, la luce che illumina quel povero specchio nel bagno, l’erba scossa dal vento, la polvere vorticante nell’aria assolata.

La musica di un violoncello dal vivo accompagna le immagini, la danza e le parole del grande regista. Tutto scivola lento, come nei suoi film, tutto trova una sua dimensione fragile, impermanente e perciò irripetibile e magnifica. Da tutto traspare l’amore dei giapponesi per la bellezza di un fiore di ciliegio assediata dall’istante successivo che gli darà morte e putrescenza.

Attraversata la Zona Tarkovskij ci troviamo invece in una sala da ospedale. Un letto inclinato verso di noi, la malata tenuemente illuminata da una luce fioca che non le offende gli occhi, e ci rimanda l’immagine di Munch nella sua Bambina malata.

La donna in quella vestaglietta rosa come la copertina e come i fiori abbandonati sotto il suo letto è Zelda, la moglie di Francis Scott Fitzgerald, l’autore de Il grande Gatsby e Tenera è la notte. Zelda è scrittrice anche lei, abbandonata schizofrenica in un letto di un oscuro ospedale, e ricorda, a sprazzi, a frammenti, a rigurgiti, l’età del jazz, la New York sfavillante prima della crisi del ’29, quella delle paillettes e del foxtrot.

I racconti di Zelda sono come pezzi di uno specchio rotto. Non si percepisce l’immagine intera, solo alcune sensazioni, amori barcollanti tra la gioia e l’incomprensione, viaggi in prima classe per un’Europa pronta a essere sacrificata nel mattatoio della guerra mondiale, l’Alabama e New York.

Tutto si affolla nella mente malata di Zelda ma in qualche modo ci fornisce un’immagine di un’epoca e di una vita cucita come il manto di Arlecchino. Dalle lenzuola rosa fuoriescono i ricordi in forma d’oggetti: un anello, una lettera, un articolo di giornale, uno specchietto per signora, le scarpette da ballerina. Una sorta di Vanitas vanitatum di barocca memoria.

Brava Giorgia Cerruti nella sua prova d’attrice. Il suo volto e le sue mani sole a disegnare mille immagini e sentimenti di questa donna unica nella sua ininquadrabile eccezionalità svanita dal mondo nelle fiamme d’incendio dell’ospedale che la recludeva, ricongiunta a Francis nel gelo del sarcofago.

Zona Tarkovskij e Zelda sono due lavori diversi ma accomunati da una grazia più intellettuale che emotiva, eseguiti con tecnica ineccepibile e padronanza di mezzi espressivi che non sempre si incontra. Ma sono anche due lavori freddi, che concedono poco alla commozione, che illuminano più il piacere dell’intelletto che le vampe ruggenti e affamate dell’emozione.

Una grazia che rispetta più la temperatura esterna che dimostrarsi un preavviso di un’estate. Seppur bella la regina d’inverno cattura l’occhio vorace ma non ci scalda il cuore.