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Ersilia Lombardo

CONCENTRICA: INCUBO di Ersilia Lombardo

Raccontare questo Incubo di Ersilia Lombardo diventa difficile senza macchiarsi di un dei più gravi peccati di questi giorni: lo spoileraggio! Quindi non resta che giocare a Tabù e, senza nominare le parole proibite, cercare di fare qualche riflessione.

Quentin Tarantino dice che raccontare una storia è innanzitutto spiazzare lo spettatore, far sì che non si aspetti mai il passo successivo del racconto. Quando dopo dieci o quindici minuti capisci già dove si va a parare significa che non l’hai raccontata bene. Incubo di Ersilia Lombardo non possiede questo difetto. L’intreccio è abbastanza ben costruito da avvincere lo spettatore e costringerlo a chiedersi come andrà a finire.

Chi è questa donna che farnetica numeri a casaccio? Perché è finita in questa stanza dove sono presenti solo quaderni e un telefono? Chi è la signora Ende? Il mistero, se in un primo tempo si infittisce, piano piano finisce per diradarsi e la protagonista si domanda: non era meglio non sapere?

Una sola attrice – la brava Chiara Muscato -, e pochi elementi scenici per tessere la trama che si svolge davanti all’occhio dello spettatore. Una semplicità francescana che demanda il compito di tenere in piedi l’edificio narrativo tutto all’antica arte dell’attore, missione che Chiara Muscato assolve pienamente.

Troppe volte si vedono sulle scene attori impreparati, carenti di tecnica di base, oppure intrisi di una recitazione affettata e tradizionale. In Incubo di Ersilia Lombardo grazie alla recitazione viva e brillante di Chiara Muscato si scongiura questo pericolo.

Il ritmo della narrazione ogni tanto si addormenta, rallenta fino a quasi fermarsi, ma immediatamente si riprende conducendo senza troppa fatica la nave in porto. L’uso delle luci è puntuale, segno nella narrazione e non semplice corredo d’atmosfera.

Nessun difetto particolarmente evidente nella confezione di questo spettacolo gradevole e di una giusta pezzatura temporale, eppure nonostante questo mi nasce spontanea una riflessione. Quale la finzione di questa piéce? Mi verrebbe da rispondere semplice intrattenimento. Nessuna particolare urgenza da condividere con il pubblico, nessuna questione politica o sociale, solo il gusto di raccontare una storia.

Questo almeno è quello che sembra a me.

Guardate che non è un cercare un difetto ad ogni costo. Raccontare, condividere storie è una delle funzioni che il teatro ha esplicitato nella sua millenaria storia, per cui niente da dire. Il soggetto se l’avessimo visto in un film americano non ci saremmo mica stupiti. Saw inizia proprio allo stesso modo. La modalità di apparizione degli indizi che lentamente acquisiscono senso in un disegno, la vediamo agire in molte delle serie che più appassionano, e nonostante qualche calo di ritmo in Incubo la tensione rimane alta fino alla conclusione.

Rimane la sensazione che manchi qualcosa, che lo spettacolo dal vivo necessiti di una visione del mondo a corredo. Trovarsi in un qui e ora, in un luogo deputato e condividere un evento è qualcosa di più che raccontare una semplice storia: è costruire pensiero in immagine, e questa immagine ognuno se la porta a casa e la adatta a sé, alla sua vita, alla sua personale visione della realtà. Ma ripeto è una mia sensazione che svolgo in forma di riflessione aperta, quasi una domanda che ultimamente mi trovo a pormi sempre più spesso: quali sono le funzioni delle performing arts o live arts nel contesto socio-culturale in cui ci troviamo ad agire? Raccontare storie può avere ancora quel ruolo che aveva in passato? Cinema e serie TV non lo fanno meglio e in maniera più completa?

Non ho una risposta a queste domande, benché per la mia storia personale sia portato a credere che se una funzione il teatro la debba proprio avere dovrebbe essere quella contenuta nell’etimo delle origini: il luogo da cui si guarda il mondo. In Incubo di Ersilia Lombardo, benché lo abbia gustato e apprezzato, mi manca il mondo, l’apertura verso un orizzonte di pensiero sulla realtà.

Falstaff

TEATRO REGIO: FALSTAFF di Giuseppe Verdi

Falstaff è la prima parola del libretto. Il protagonista è da subito presente e immediatamente evocato come una divinità. Assiso sul suo scranno da osteria come re Lear sul trono, Falstaff e il suo pancione signoreggiano sulla scena.

Come accade spesso nelle opere di Verdi si è precipitati nell’azione e vi si rimane avvinti fino all’ultima nota. Nell’ultimo suo capolavoro operistico Verdi, insieme a Boito, concepisce un vero gioiello di teatro musicale: azione serratissima colma di colpi di scena, agnizioni, scene madri, inganni, trappole e tradimenti; ma anche sapiente miscuglio di toni drammatici se non tragici che danno profondità e consistenza all’intreccio.

Falstaff è il motore, lo spirito della vita che irrompe con tutte le sue arguzie e appetiti, un moderno Dioniso che scuote e rapisce. Circondato da due satiri traditori come Pistola e Bardolfo, il cavaliere panciuto giudica e mette in moto gli eventi: due lettere identiche se non per il nome della destinataria, per un identico amore per la vita e le sue gioie.

Da questo moto arbitrario come la richiesta assurda di Re Lear si scatena l’azione a cui tutti i personaggi devono prendere parte, dimostrando il meglio e il peggio di se stessi, mascherandosi e rivelandosi continuamente. Alla fine quando Falstaff gabbato e giocato, viene giudicato e costretto a pentirsi, si comprende il suo ruolo dalle sue stesse parole: Ogni sorta di gente dozzinale/mi beffa e se ne gloria;/pur, senza me costor con tanta boria/non avrebbero un bricciolo di sale./ Son io, son io, son io, che vi fa scaltri,/ L’arguzia mia crea l’arguzia degli altri.

Non dunque un vecchio crapulone e burlone, ma il nume tutelare che presiede alla vita che ribolle e che combatte le forze che vogliono a tutti i costi irregimentarla, costringerla, educarla. I veri gabbati sono infatti Mr. Ford e il Dottor Cajus, il geloso che non comprende la grandezza della donna che ha sposato e il vecchio barboso e rigidone che vorrebbe sposarsi la bella figlia di Ford innamorata di Fenton. Ed è quindi di Falstaff l’ultima risata, quando vede Ford che sposa suo malgrado Fenton e Nannetta travestiti, e il Dottor Cajus che si trova a essere sposato con Bardolfo.

Nel Falstaff di Verdi/Boito cosi come nel modello shakespiriano de Le allegre comari di Windsor, la parte del leone la fanno senza dubbio le donne capeggiate da Alice. Sono non solo più sveglie e intraprendenti, ma mettono in campo la natura migliore e più forte. Se gli uomini sono traditori, deboli, gelosi, vendicativi le donne si ingegnano per punirli e gabbarli, rivendicando il loro diritto alla felicità e libertà.

In Falstaff sono toccanti anche i toni oscuri, presenti in tutto l’intreccio. La violenza nei rapporti umani, l’incombere di decisioni che possono bloccare gli afflati più vividi della propria natura, la vecchiaia e il declino, i rintocchi di campana della morte. Soffia un’aria di precarietà e di sogno. Tutto può sfumare da un momento all’altro per lasciare la scena vuota priva di movimento e di vita. Falstaff e il suo pancione sono lì per rinnovare il fuoco, per attizzarlo affinché non perda il moto.

Teatro musicale si diceva in esordio, di cui Verdi è un maestro indiscusso. L’azione, l’intreccio e il ritmo sono tutto nell’impresa di far rivivere le sue opere sulla scena. Aldilà di ogni scelta interpretativa, oltre i gusti personali e i pensieri di ogni regista quella che deve esser valorizzata è l’incredibile capacità verdiana di abitare la battaglia, per dirla alla Carmelo Bene. Non se ne può uscire, bisogna risponder colpo su colpo, tenere il ritmo fino alla fine a costo di perdere il fiato.

Le scelte registiche di fermare l’opera per esigenze scenografiche falliscono in questo. Laddove Verdi si precipita incalzando lo spettatore, si blocca l’incedere fallendo il passo, sospendendo il pathos. Apprezzabile l’idea di Daniele Abbado, in questo allestimento in scena al Teatro Regio di Torino fino al 26 novembre, di recuperare gli strumenti spettacolari del teatro: le botole, le sorprese, i macchinari ma avrebbe dovuto metterle al servizio dell’azione più che della visione.

Purtroppo accade spesso che l’azione scenica sia sacrificata sull’altare della musica e delle esigenze liriche, e si dimentica che il teatro d’opera è prima di tutto teatro. Le due cose vanno di pari passo.

Come insegnava Mejerchol’d nelle sue lezioni del 1918, se per montare le scene l’opera ne risente abbiamo sbagliato qualcosa. E allora anziché ricreare ambienti basterebbe qualcosa di più semplice ma al servizio del ritmo. E fatalità il grande regista russo proprio a Shakespeare si riferiva criticando l’azione dei Meininger che per ricostruire minuziosamente una scena tagliuzzavano i testi e rallentavano l’azione per dar tempo ai macchinisti di montare la scena. Mejerchol’d ricordava che il Bardo concepì i suoi capolavori conoscendo perfettamente le modalità espressive del teatro nelle O di legno, e che alla semplicità apparente di quel teatro si deve tanta meraviglia.

Con Verdi potremmo dir la stessa cosa. Il ritmo, l’azione, i tempi ce li detta già la musica, a noi non resta che abitare la battaglia e dargli spazio e luce.

Con questo non voglio certo dire di aver assistito a un allestimento fallace, quanto esprimere una riflessione e un invito. L’idea era buona ma si poteva fare di più, lasciar esprimere il teatro nella sua potenza, mettersi al suo servizio più che imporre un ambiente macchinoso che ne blocchi il suo naturale sviluppo. E non parlo di aderenza al testo, e nemmeno di scelte di rappresentazione e interpretazione, quanto di composizione del movimento sulla scena. Avrei detto la stessa cosa se questo Falstaff fosse stato ambientato in un’odierna Windsor oppure su Marte con tutte spaziali se questo avesse inficiato il magistrale ritmo battagliero di Verdi e del suo teatro.

Gli Omini

GLI OMINI: CI SCUSIAMO PER IL DISAGIO. Riflessioni a volo di piccione sul PROGETTO T

La recensione che non si poteva scrivere. Quando ho lasciato il Teatro delle Moline dopo aver visto lo spettacolo Il controllore della compagnia toscana Gli Omini – in programmazione per il VIE Festival emiliano, terminato ormai da un mese – il pensiero è stato: no, su Il controllore non voglio dire nulla. Né formulare pareri né elaborare sinossi soprattutto perché in quel particolare momento mi sarebbe sembrato un esercizio più retorico che di osservazione e restituzione scritta.

Può accadere che uno spettacolo piaccia, giri bene ma non si riesca a intuire esattamente perché. È un meccanismo che ha a che fare non solo con le sensazioni, ma col lasciar sedimentare, lasciarsi tempo. In questi casi una qualsiasi ricerca di aggettivi e commenti – e questo l’archetipo dello spettatore appagato lo sa di default – stanno sicuramente più larghi e comodi in forma orale, rilassata. Nel secondo caso invece, perché la sinossi c’è già. Dunque evitare pedanti ridondanze, quando possibile.

Ma l’archetipo dello spettatore appagato (eccolo che torna) tiene comunque le orecchie ben aperte: evitando di aggrapparcisi quanto di ignorarli, piuttosto gustandoseli tutti (è pur sempre una forma di di osservazione), sente i commenti a cui si lascia andare il resto del pubblico attorno a sé, e considera in maniera approfondita quanto confermato dalla compagnia stessa al termine dello spettacolo. Dicono de Gli Omini: drammaturgia autentica, personaggi autentici, ricerca autentica. Tre anni per tre spettacoli sulla linea Pistoia-Bologna. Il controllore è l’ultimo e, ascolto bene, in qualche modo “il più amaro”, il termine del Progetto T. Non ho visto i precedenti, ma qualcosa gira dentro. È un paradosso, mi ritrovo come un passeggero del treno che sa dove sta scendendo ma non da dove è iniziato il suo viaggio. Pur essendoselo goduto tutto.

A fornire il biglietto per partire è l’Unione Reno Galliera, che con la sua interessante programmazione Agorà ha portato al Teatro La Casa del Popolo di Castello d’Argile il primo spettacolo del Progetto T de Gli Omini: Ci scusiamo per il disagio. E finalmente faccio opera di sintesi. Finalmente mi vien fatto di pensare che Irvine Welsh avrebbe dovuto farsi un giro alla stazione di Pistoia.

Basta poco: una panchina, sei “lampadoni” ai lati, una luce rossa sulla sinistra, l’altoparlante a stelo sulla destra, l’anima di Sergio Leone che aleggia. Che se la Porrettana fosse il vecchio west, i suoi cowboy restano comunque l’orgoglio dei manicomi cantati da Battiato.

I tre componenti de Gli Omini Francesco Rotelli, Francesca Sarteanesi e Luca Zacchini (cui aggiungere in regia il “quarto-omino e donna-piccione”, come verrà presentata, Giulia Zacchini) dimostrano una incredibile naturalezza, una onesta semplicità che convince, ed è di sicuro una delle carte vincenti della compagnia: impersonando quadro dopo quadro le strambe personalità che si succedono nella stazione di provincia, facilmente riconoscibili però in qualsiasi contesto provinciale, Gli Omini coprono una fetta di umanità ben estesa e visibile, fra il disadattato e il borderline, e la traducono sulla scena attraverso variazioni leggere, nel tono e nell’impostazione fisica; il filippino, la vecchia milanese dall’avventurosa vita amorosa, il sessuomane modenese, il gruppo dei drogati, la coppia affetta da mille disturbi diffidata dalla patria potestà e tutti gli altri personaggi, ci vengono presentati semplicemente nel loro occupare uno spazio dove più che transitare treni, transitano racconti, storie, vite. Ascoltiamo ciò che la compagnia ha raccolto nel primo dei tre anni di ricerca di campo compiuta sulla linea Porrettana, facciamo gli stessi incontri, facciamo esperienza di una vera operazione di antropologia teatrale resa visibile. Ma soprattutto ci godiamo uno spettacolo che ha dell’ironia sottile e agrodolce.

La ricerca infatti si vede, ma non travalica affatto l’andamento dello spettacolo, che segue una linearità voluta. Gli affezionati della climax e del momento di massimo apice drammaturgico dovranno accontentarsi: quell’apice sono i personaggi stessi. Del resto, cosa si poteva aggiungere? In Ci scusiamo per il disagio quello che non manca è precisamente l’incontro, e un incontrarsi, del tutto convincente nel suo essere vero. La rielaborazione del materiale drammaturgico è brillante, le tinte sono leggere e scanzonate, ironiche sì, ma sempre perfettamente credibili. Un ulteriore punto forte è quello che, per fortuna, manca: tanto la gravità drammatica quanto il macchiettismo. Così facendo resta la narrazione, per sua natura umile atto di salvataggio. Ridiamo tranquilli, siamo noi.

Se si va avanti così a uno viene voglia d’ammazzarsi. Spazio per le risate. La gente, non c’è niente che la salvi.

Se Gli Omini si dimostrano eccellenti nel non calcare troppo la mano, neanche si negano il gusto della tragicommedia surreale che vuole ridersi un po’ addosso: non si nega insomma lo spazio per il cicaleccio di situazione, per gli annunci “modello-Trenitalia” che si contraddicono e aboliscono la prima classe (in questo va detto che l’arredo della stazione, così come i piccioni frequentemente evocati, sono a tutti gli effetti personaggi in carne e ossa), per un rave a luci fredde con tanto di Shock in my town di Franco Battiato in sottofondo; gli espedienti comici funzionano tutti benissimo, compreso il leggerissimo momento dell’intervallo, con gli omini Rotelli e Zacchini che offrono caffè alla platea. La ripetitività delle situazioni e il ricomparire di alcuni personaggi crea puro ritmo: e Gli Omini puntano alla semplicità della struttura. Che funziona e conquista. Il finale è un piccolo capolavoro fumoso di spaghetti western di provincia.

Solo dopo questa partenza posso tornare a riflettere da pura spettatrice neutra anche su Il controllore, sull’evoluzione di questa ricerca fra le ferrovie che è il Progetto T, e chiedermi: cosa ho visto, cosa ho sentito, cosa è rimasto. La variazione della scenografia a incentivare il trasformismo, i personaggi che virano verso un grottesco ancora maggiore ma trattati forse anche con una distanza maggiore, e un ritmo più rallentato. Un elemento che mi aveva sorpreso ne Il controllore e ritrovo in Ci scusiamo per il disagio, la leggera sensazione che compare a volte di una eccessiva lunghezza, di uno stiracchiamento di tempi non so in che misura necessario. Della necessità di dare un termine, di fermarsi prima, anche di poco. E l’interrogativo finale, sul perché lo si stia pensando. E sul paradosso di pensarlo a riguardo di un ciclo di spettacoli che trova il suo centro nell’immagine di una stazione affollata solo di bestie, di un treno che non partirà mai, o che resterà fermo in mezzo alla Porrettana, ostacolato dagli “uomini gialli”, o da sacchetti della spazzatura abbandonati sul binario.

Ritrovarsi a predicare fra le tante possibilità della scena quella di poter arrivare alla potenza di una lente d’ingrandimento sul mondo, e parallelamente sentire di averne esperito abbastanza. Un paradosso, chissà. E nel frattempo, sentire anche che qualcosa si è sedimentato, e qualcosa continua a circolare. L’intelligenza artistica della compagnia Gli Omini forse emerge anche da questa inaspettata capacità: quella di lasciare che le storie e le situazioni si attacchino addosso, e non si possa fare a meno di ripensarci, riconsiderarle in ogni caso. E restano, infine, le stesse parole del controllore: “che anche se noi escludiamo il mondo, il mondo viene poi a visitarci sotto forma di mosche”.

Di Maria D’Ugo

Ritratto di

Differenti sensazioni: RITRATTO DI di TIDA/Elena Pisu

Ritratto di. Manca l’oggetto. Cosa si ritrae? Una massa informe all’inizio. Un bozzolo che il pittore inizia a ritrarre nella sua immobilità. Poi quell’impossibile mucchio inizia a muoversi, si dimena e quando ne emerge una mano e poi un piede si prova a supporre che sia un uovo.

Il movimento però genera un cambio di prospettiva che chi dipinge prova a seguire, modificando la pennellata e il disegno. Ciò che viene ritratto non è più l’oggetto ma il suo movimento nello spazio, la forma sfugge nel dislocarsi e diventa traccia, percorso, sentiero.

Ritratto di. Non più il bozzolo ora ma il corpo nudo della danzatrice. E il dipinto diventa un nudo di ragazza ma non come è come la vede il pittore. E ancora il movimento che modifica il risultato. Il confronto è quindi con l’occhio che vede. Una miriade di occhi dipinti, umani e animali circonda quel corpo che si muove e l’osserva, ma non è più il corpo è lo sguardo che lo vede il protagonista. E infine ancora il ritratto, l’occhio che restituisce ciò che vede.

Nel mito greco del rapimento di Persefone l’atto di Ade non si compie fino a che la pupilla di Persefone non incontra quella di Ade e lì si riflette. L’occhio che vede rende possibile ciò che accade. E Persefone è appunto anche nel nome La Pupilla. Il problema, si fa così per dire, e quando l’occhio restituisce ciò che vede, se ne appropria, lo muta, genera significati altri. Questa non è una pipa. È l’immagine di una pipa non l’oggetto. È un’altra cosa ancora. Così come quando Kossuth pone nello stesso spazio una sedia, la sua immagine fotografica e la sua definizione. La sedia cos’è? E quindi il corpo nudo davanti a noi che vediamo muoversi cos’è e cosa ci dice?

In Ritratto di Elena Pisu propone una riflessione interessante non solo sul corpo in movimento ma anche sullo sguardo che lo osserva. È un interrogativo interessante anche per la critica: cosa vediamo quando vediamo? Il già visto quanto influenza quanto vediamo nell’attimo fuggente dello spettacolo? Quanto la nostra visione modifica quello che realmente è in scena? La visione è una forma di tradimento dell’essere? Non c’è risposta o, per lo meno, ce n’è una per ciascuno. L’importante è averla posta.

Un buon lavoro Ritratto di, ben strutturato nel suo incedere e nella sua drammaturgia che risulta sempre chiara in ogni suo passo. Forse l’unico suo difetto è di essere un po’ algido e glaciale. Si genera una domanda quasi tecnica che non sviluppa emozione ma solo riflessione. Non è detto che sia un male. È semplicemente una modalità. Solo guardandolo a me personalmente sembra mancare qualcosa. Ma è una mia personale impressione.

Ph: @Daniela Bramanti

WS Tempest

Differenti sensazioni: WS TEMPEST Teatro del Lemming

WS Tempest del Teatro del Lemming, andato il scena alle Officine Caos per Differenti sensazioni, è il terzo anello della catena della Trilogia dell’acqua dedicata al Bardo e i cui precedenti capitoli erano Amleto e Romeo e Giulietta.

Come consuetudine l’esperienza per lo spettatore è intima e, mi si passi il termine, violenta. In pochi e totalmente immersi nella scena, partecipanti e non spettatori, si condivide uno spazio, i movimenti, l’atmosfera, la scena; e nello stesso tempo si è in balia di qualcosa che accade nonostante la nostra presenza, un evento di cui non conosciamo, come pubblico, le regole del gioco e non resta che abbandonarsi fiduciosi e timorosi a ciò che avviene intorno a noi.

Si entra in uno spazio che ci circonda. Gli attori sono seduti a terra in cerchio con dei fogli e delle candele che illuminano fiocamente lo spazio che circoscrivono. E subito si è sull’isola di Prospero. E le voci degli spiriti/attori ci chiamano a iscriverci sulle pagine dei libri del mago. Come alla dogana ci chiedono di declinare le generalità: una volta iscritti siamo parte della storia.

Ma chi è Prospero se non Shakespeare stesso? E tutti quegli spiriti non sono forse i suoi personaggi? Amleto, Macbeth e la sua tremenda sposa, il geloso Otello, e poi Cordelia e l’infelice Ofelia. Ecco le voci che sussurrano sull’isola dove siamo approdati. L’isola è la mente che partorisce i suoi mostri e i suoi spiriti.

WS Tempest non è quindi un confronto con il Bardo sul piano del testo e della rappresentazione, quanto più con la modalità di pensiero. Come Otello è parte della mente di Shakespeare così egli è dentro di noi, nel nostro quotidiano agire/patire.

WS Tempest è un’esperienza nel labirinto, un percorso alla cieca tra le stanze di questo palazzo sconosciuto in cui ci aggiriamo cercando un’uscita. Suoni e immagini ci appaiono, parole che appartengono alle grandi tragedie e commedie ci ricordano la fragilità e l’evanescenza di una vita che è sogno e fatta di sogni. Si passa senza lasciare segni duraturi, come il teatro impermanenti e volatili. Finita la rappresentazione non resta che la scena vuota e spoglia.

Molto riuscita la scena finale dove una donna nuda immersa nell’acqua come una ninfa, viene coperta di pagine bagnare che diventano vestito e maschera. Gli attori la circondano ma nell’accendersi e spegnersi della luce fioca che illumina la scena, piano piano le figure svaniscono, finché non resta che un povero mucchio di carta straccia e bagnata.

Meno riuscita la scena in cui un tribuno su un palco munito di megafono affronta temi di politica teatrale che andrebbero invece indagati con più profondità piuttosto che lanciati sulla folla come sampietrini. Quale il ruolo dello spettatore? E la ricerca non si è allontanata da lui? Non protegge una torre d’avorio incomprensibile? E lo spettatore cosa vuole? Divertirsi e non pensare? Dormire? Forse sognare?

WS Tempest è spettacolo che, come consuetudine del Teatro del Lemming, propone una relazione con lo spettatore molto diretta, quasi aggressiva. Fin dagli ormai lontani anni ’90 quando vidi un loro lavoro per la prima volta (era Edipo), fui colto da un certo disagio per questo confronto pugnace con gli attori. Si è quasi dei pugili impegnati in una lotta. Il mio disagio è comune a tutti quelli che assistono ai loro lavori e non può essere altrimenti. Vi è sempre qualcosa di illecito quando l’attore ti tocca, perché in quel momento non è uomo, è posseduto da forze altre e misteriose, è privo di identità nota perché in lui appaiono anche spettri di un altrove. L’attore quando fa il suo mestiere come si deve è prima di tutto sciamano.

Essere nella zona di azione degli attori, è essere clandestini in una terra pericolosa di cui non si conoscono usi e costumi. Il pubblico è materiale di scena, attore inconsapevole, parte di un gioco di cui non comprende pienamente le regole, e per quanto più attivo che quando semplicemente seduto al suo posto, resta passivo e inerme.

Certo queste cose sulle modalità del Lemming sono già state dette e quindi queste mie parole non aggiungono né tolgono niente, eppure nonostante ormai si sappia quale sia la modalità e quindi la si accetti di buon grado e non sia più una sorpresa, il disagio resta e mi obbliga a ripormi il problema come nel lontano passato. E penso anche che laddove WS Tempest funziona di più è proprio quando abbandona quella modalità aggressiva, e torna a essere immagine distante che appare come un miraggio, più che presenza fisica che contatta e contagia lo spettatore.

WS Tempest è un’esperienza teatrale complessa e impegnativa, che non lascia indifferenti e colpisce per la forza delle sue immagini. Una modalità altra di partecipare a un evento scenico nonostante tutte le perplessità che propone.

Delusionist

NATALINO BALASSO – MARTA DALLA VIA: Delusionist

Sabato 4 novembre al Teatro Goldoni di Venezia è andato in scena in prima nazionale Delusionist di Natalino Balasso e Marta Dalla Via.

Delusionist, ultima “fatica” (si fa per dire) di Balasso, affronta il palco principe del Teatro Stabile del Veneto e il pubblico della città lagunare (per l’occasione composto in gran parte da addetti ai lavori) ufficializzando un sodalizio nato e cresciuto durante le prove della Trilogia La Cativìssima (di cui sono stati realizzati i primi due episodi), quello con la brava regista e attrice Marta Dalla Via.

Autrice e interprete di spettacoli che non sono passati inosservati (Veneti Fair, Piccolo mondo alpino, La cinghiala di Jesolo, Mio figlio era come un padre per me hanno ottenuto anche importanti riconoscimenti), da alcuni anni Marta Dalla Via ci racconta con le armi che le sono proprie le tante contraddizioni di una regione come il Veneto considerata modello dell’economia italiana, dando vita a una satira sociale che non si ferma ai luoghi comuni, scavando oltre l’immagine patinata (e anche oltre la facile risata da cabaret alla Zelig e consimili). La sua capacità di creare maschere clownesche, di passare da un personaggio all’altro, caratterizzando ogni trasformazione con una mimica intensa che non si ferma alla superficie, è una dote che Balasso ha saputo cogliere e sfruttare con intelligenza.

Da Veneti Fair alla carrellata di audizioni per la campagna promozionale dell’incredibile farmaco che non fa dormire, che l’imprenditore veneto Vito Cosmaj e la sua iperefficiente segretaria Gioia Maina (leggi Mai-‘na Gioia) stanno lanciando sul mercato, il passo è breve (dal punto di vista della caricatura umana). Ed è breve anche a partire dalle boutade di Telebalasso (il canale video di Balasso sulla piattaforma youtube) e dall’irriverente epopea in stile Ubu Roi di Toni Sartana, sindaco di indole mafiosa di un piccolo paese della campagna veneta capace di ogni efferatezza nella sua personale scalata al potere politico ed economico per diventare, nel primo capitolo di Cativìssima, “assessore ai schei” (soldi, per i non veneti) ed entrare, nel secondo, nel Gotha mondiale dei “Magnaschei”.

Natalino Balasso e Marta Dalla Via si sono incontrati a metà strada. In comune hanno molto: sono due mattatori di prima scelta; condividono la lingua (una delle tante lingue che compongono l’italiano, come ama dire Balasso citando Pasolini) ed entrambi sottopongono il dialetto veneto a un lavoro di sfumatura, che senza smarrirne la veracità lo rende comprensibile a tutti gli italiani; il loro è un teatro innanzitutto popolare, “perché sono dell’idea che se vogliamo che a teatro ci vadano tutti dobbiamo anche riuscire a parlare a tutti, pur cercando di non essere mai scontati” (Natalino Balasso).

Marta Dalla Via attinge certamente alla popolarità del comico polesano (conquistata sul palcoscenico, prima che al cinema, alla tv e sul web), ma Natalino Balasso ha trovato pane per i suoi denti in questa “no stand-up comedy”, una commedia con attori in piedi come la definisce lui stesso. Delusionist va evidentemente molto più verso il teatro di quanto preveda il format dello spettacolo di cabaret made in Italy che riempie i teatri nazionali grazie ai comici della televisione.

Se i personaggi in campo possono suonare già visti nell’universo mondo di Balasso (l’imprenditore del nord-est di scarsa cultura e senza scrupoli che cerca in tutti i modi di tagliare i costi di produzione, sperimentando addirittura su se stesso il prodigioso farmaco, e la bella segretaria che gli dà man forte suggerendo escamotage al risparmio), se il tema dei medicinali e degli effetti collaterali che ne chiosano i bugiardini non sono certo una novità, la storia che ci viene raccontata è solo un pretesto e non un pretesto per far ridere e basta.

Delusionist è innanzitutto una grottesca rappresentazione del presente sottoposto alle leggi del mercato globale, che pretendono livelli di produttività e standard performativi sempre più elevati. In un contesto sociale ed economico come quello che stiamo vivendo, ogni pausa diventa inevitabilmente una perdita di tempo. La pillola salvavita (che avrebbe dovuto chiamarsi “the illusionist”, ma che per un errore dovuto all’ignoranza dell’inglese ha preso il nome di “delusionist”) intercetta proprio il bisogno di essere sempre presenti, privando l’uomo del sonno e condannandolo a un continuo stato di veglia. Ma il sonno è parte integrante del ritmo naturale della vita e togliendogli ogni funzione la vita reale cede il posto alla vita rappresentata, alla pura performance. La delusione, richiamata dal titolo, sta nel non poter umanamente sostenere questo stile di vita: è la stessa delusione di Achille “pié veloce” che non potrà mai raggiungere la tartaruga del famoso paradosso di Zenone, perché il movimento, come diceva Parmenide, è in fondo solo un’illusione.

La circolarità della piéce, che finisce esattamente là dov’è iniziata, ci racconta proprio l’impossibilità e l’inconsistenza di questo falso movimento. Ciò che prende vita davanti a noi è un carosello di maschere, una giostra che continua a girare su se stessa imprigionando nel movimento perpetuo gli stessi attori, chiamati in causa dai loro personaggi allo scopo di lanciare con successo la promozione del prodotto. Tre insegne luminose azionate all’occorrenza a scandire i diversi momenti dello spettacolo, come sottotitoli per non udenti, richiamano specifici processi di marketing: naming, brainstorming e storytelling. Sono tre fasi determinanti nella costruzione di una campagna pubblicitaria, ma lo sono anche nella costruzione di un’opera teatrale. Il cortocircuito è inevitabile.

Delusionist di Natalino Balasso e Marta Dalla Via è un appello al risveglio e allo stesso tempo un invito a sognare. Questo è in ultima analisi il discorso del bugiardino umano offerto all’inizio e alla fine dello spettacolo. Il palco è vuoto e ciò che non c’è diventa presente grazie anche al contributo dello spettatore, un contributo di sensibilità e immaginazione che nel teatro, ma anche nella vita, è e resta imprescindibile.

Nicola Candreva

Maria Muñoz

BACH di Maria Muñoz compagnia Mal Pelo

Bach e Maria Muñoz hanno intrecciato per una sera, alle Lavanderie a Vapore per Torino Danza, le loro composizioni in un quasi perfetto contrappunto. Le linee di movimento della brava Federica Porello si sono abbracciate con le note di alcuni passaggi del Clavicenbalo ben temperato del grande Johann Sebastian.

Un lavoro quello di Maria Muñoz pieno di grazia e amore per la danza e per la musica. Un’opera che potremmo definire “classica” per il rapporto armonico tra suono e movimento, in cui le due arti non sono semplicemente giustapposte per essere sostegno una all’altra, ma dialogano, si rispondono, si confrontano nel loro specifico senza alcuna sudditanza.

Mi ricordo un giorno da giovane teatrante in erba in residenza con la mia compagnia a La Fonderie del Theatre du Radeau a Les Mans, in cui chiesi a François Tanguy di spiegarmi cosa intendeva per composizione. La risposta fu di quelle assolutamente inaspettate. Ci portò tutti in teatro e ci fece ascoltare per tre giorni e quasi ininterrottamente tutte le Cantate di Bach. Ci si interrompeva a mala pena per il pranzo che veniva in fretta portato in teatro per non perdere tempo. Quando quella maratona finì ci disse semplicemente: “questa è la composizione”. Non ho mai dimenticato quella lezione, la sapiente e inarrivabile capacità del compositore tedesco di unire le differenti voci dell’orchestra e del coro, in veri e propri movimenti di massa. Potevi figurarti con gli occhi della mente le linee sonore danzanti nel contrappunto che attraversavano lo spazio, creavano figure sovrapposte e intrecciate, animavano fisicamente il luogo in cui si spandevano.

Maria Muñoz conosce questa fine arte della composizione e crea una coreografia che come una terza mano si aggiunge a quelle di Glenn Gould nell’esecuzione delle partiture del Clavicembalo ben temperato.

Una gestualità semplice nella sua complessità, che non disdegna l’inserimento di espressioni quotidiane e riconoscibili nell’arabesco astratto del movimento. Ottima, precisa ed estremamente aggraziata l’interprete Federica Porello. Ho apprezzato enormemente l’atteggiamento rispettoso con cui entrava in scena in ogni nuovo pezzo, quasi a non voler disturbare con la sua presenza lo spazio vuoto del palco. Un contegno che si trova sempre più raramente negli interpreti che irrompono nello spazio come rinoceronti in carica, quasi fosse loro diritto essere lì solo perché artisti.

La scena si rispetta e come il funambolo si inchina al filo che lo sostiene così Federica Porello entra in scena con un inchino, in punta di piedi, perfettamente concentrata, presente all’istante, in perfetto accordo con ritmo e tempo.

Non c’è molto altro da aggiungere in questo Bach di Maria Muñoz. Un lavoro dedicato alla bellezza della danza e della musica, all’armonia della composizione che non disdegna affiancare l’uso del video e un sapiente uso delle luci. Rispetto al lavoro di Annamaria Ajmone in scena sullo stesso palco pochi giorni prima, siamo su un altro pianeta. Se in quel caso la composizione era totalmente assente, dove i singoli elementi se pur validi non stavano insieme e venivano solo semplicemente giustapposti quasi oggetti caduti per caso a terra e lì rimasti in disordine, nel caso di Maria Muñoz ogni singolo elemento della scena è segno e voce e si intreccia in un abilissimo contrappunto alle altre.

Se proprio bisogna fare un appunto, l’unico che mi viene in mente, e non so nemmeno se sia un difetto, è il costante permanere di questo lavoro nell’ambito dell’estetica. In un mondo artistico che da tempo ha ormai abbandonato questa dimensione e funzione, si ha come l’impressione di essere di fronte a qualcosa di demodé o vintage. Ma questo, ripeto, non è detto che sia una colpa.

Trattato di economia

TRATTATO DI ECONOMIA di Roberto Castello e Andrea Cosentino

Trattato di economia. Un titolo che mi fa tremare i precordi. Lo ammetto: di economia non ho mai capito nulla di nulla. Mai afferrato il perché se il presidente cinese ha il mal di testa o la Juve pareggia con il Benevento i mercati crollano. Mai capito perché se su un prodotto c’è una mela smozzicata deve costare due volte di più né perché se era così ovvio che i mutui subprime fossero una porcata non si è fatto niente o quasi per evitare una crisi che ci attanaglia tutt’oggi, e ancora più misterioso è il perché siano tornati sotto falso nome. Figurarsi poi lo spread, il pil e via dicendo.

L’economia è un oggetto misterioso. Sembra una scienza ma in fondo non c’è cosa che sia maggiormente legata a valori volatili quali l’emozione, la paura, l’azzardo, il caso. Affacciarsi al mondo azionario è un po’ come andare a giocare ai cavalli.

La mia speranza nel vedere Trattato di economia di Roberto Castello e Andrea Cosentino, ieri in scena alle Officine Caos di Stalker Teatro per il festival Differenti Sensazioni, era un poco di chiarezza che nemmeno amici laureati in materia hanno mai saputo darmi. E invece subito la confusione aumenta.

Perché un pene di silicone e una paperella sempre di silicone, entrambi fatti in Cina e di pari peso (43g precisi) costano uno quattro volte più dell’altro? Ogni tentativo di rispondere alla questione aumenta il disagio anche se incrementa il divertimento. Poi ecco validissime strategie per posizionare un nuovo oggetto sul mercato italiano: una pietra. Ed è un affarone! A Km0, prodotta in Italia, unica in ogni pezzo, senza glutammati né olio di palma, indistruttibile o quasi, multiuso, e per produrla non sono stati sfruttati animali né minorenni. Sembra uno scherzo ma alla fine c’è chi vende acqua di mare a 5€ per curar la sinusite.

Insomma in questo guazzabuglio l’unica cosa chiara è che l’economia, questo oggetto misterioso, quantifica le nostre vite, le pervade, e che ognuno di noi va in giro con un codice a barre sulla fronte. È possibile un altrove? Questa come altre domande viene posta e non risposta. Ma in fondo non è il teatro che deve fornirle. È già importante porsele. E magari rifletterci sopra ognun per sé.

E il teatro e la danza come si pongono in questo quadro? Trattato di economia si pone anche questa questione. L’ironia è l’arma tagliente che incide come un bisturi anche le domande più scomode. E così ci si chiede: come avrebbero risposto Jan Fabre, William Forsythe, Pina Baush a questa domanda? Dissacrando i maestri e i loro stili si prova a scherzarci sopra, ma la domanda vera sottesa resta: come si può parlare di economia essendo tutti compresi nel prezzo? Come può l’autore parlare di certi argomenti senza prendere posizione e nello stesso tempo evitando di sembrare ipocrita? Sì, perché lo spettacolo in fondo è mica escluso dal modello economico. Tocca fare e fornire indagini di mercato, individuare un target, incrementare il public engagement.

E così sfilano sulla scrivania come su un nastro della cassa di un supermercato le merci, i pezzi di scenografia, busti di Marx, Che Guevara, JFK e del maestro Yoda insieme ad altre innumerevoli futilità mentre si spiega la strategia adottata per piacere agli amanti del sacro, a quelli colti, a quelli che a teatro non ci vanno nemmeno se li minacci di morte certa, ai bambini, ai nonni, ai radical chic e agli amanti del kitsch.

Ma il pubblico è mica escluso. Perché paga per venire a teatro? Forse per sentirsi migliori di quelli che stanno a casa a guardare la TV? Per sembrare gente che ha conquistato un certo livello sociale e culturale? E la critica? Anche lei pagata per indirizzare il consenso. Anch’essa a servizio dell’economia dello spettacolo entra in scena con un video dove appare il critico Attilio Scarpellini che con candore ci fa una recensione senza aver visto lo spettacolo solo perché ha ricevuto duecentocinquanta euro di compenso, che si deve pur magnà a ‘sto monno. Certo è un gioco a cui Scarpellini si presta volentieri, uno scherzo, ma illumina un problema che pure esiste.

Trattato di economia con ironia sempre garbata, intelligente e raffinata ci pone un grosso problema e lo pone non solo al pubblico ma all’intero mondo culturale: siamo quanto valiamo in valuta corrente? Pochi soldi nessun valore? E quindi la cultura che di tutti i settori è quello che ha meno soldi vale niente di niente? Può la cultura resistere e aiutare a resistere se in fondo è compromessa con il sistema? Ci sono altri valori oltre quello quantificato dal denaro? E se ci sono sfuggono al suo superpotere?

Trattato di economia di Roberto Castello e Andrea Cosentino, come detto, non risponde alla domanda. La mette sul tappeto. Tocca a noi rispondere. Nel gran teatro del mondo siamo solo spettatori paganti e pagati o vogliamo e possiamo essere altro?

Ph: @Ilaria Scarpa

Gli Omini

GLI OMINI: Petì Glassè ovvero la commedia umana 2.0

Sulla compagnia Gli Omini di Pistoia si è scritto molto e i consensi sono stati pressoché unanimi per una volta assolutamente meritati. Petì Glassè presentato al Teatro della Caduta è il loro ultimo lavoro, una sorta di varietà che raccoglie alcuni dei migliori personaggi incontrati nelle loro peregrinazioni anarco-sociologiche come amano chiamarle. Un best of o potremmo anche dire un catalogo o bestiario umano, una commedia umana all’inizio del terzo millennio. Personaggi soli, coppie, filosofi in erba alla bocciofila, amanti delusi: Gli Omini presentano un florilegio di figure umane che sfilano sul palco, un caleidoscopio che riporta alla vista il gran teatro del mondo di barocca memoria. E tra quei personaggi potremmo esserci pure noi. Non siamo per niente esclusi, anzi. Forse non siamo lì solo perché Gli Omini non ci hanno incontrato e intervistato.

Un mondo di picari che sopravvive alla vita, un’umanità non tanto grande miracolo quanto folle branco di pazzi che solo con l’illusione della civiltà può credersi essere superiore. Un’immagine divertente, tenera, ma anche molto triste dell’essere umano.

In Petì Glassè Gli Omini rispolverano lo splendore del teatro comico popolare che si è sempre ispirato alla gente comune per creare i suoi personaggi migliori. Pensiamo ad Aldo Fabrizi quando faceva il vetturino, o il Mario Cioni di Roberto Benigni, e infine Troisi che in molti dei suoi personaggi respirava la vita popolare dei vicoli di Napoli. L’azione de Gli Omini è certo più scientifica. Le loro indagini cercano con bramosia le storie di cui poi i loro spettacoli si nutrono, un’azione di ricerca quasi sociologica. Una raccolta sul campo di frasi, discorsi che vengono annotati e poi diventano dramma, ma il fondo del loro agire scenico è il gran teatro popolare che del mondo ha fatto sempre luogo elettivo per cogliere i propri personaggi.

Ottima anche la qualità della recitazione de Gli Omini (che sono lo ricordiamo Francesco rotelli, Francesca Santeanesi, Luca Zacchini e Giulia Zacchini). Fresca, non libresca, né muffita oralità da teatro stabile. La lingua vera e popolare, la cadenza, l’accento, il vernacolo, il dialetto. Certo ogni tanto in questo navigar tra le lingue qualche volta si cade, come l’accento cremasco che diventa quasi veneto, ma in fondo non è questo che conta, è il colore della vita vera, delle persone che ci circondano e con noi fanno parte di questa tragicommedia infinita che è la vita.

Alter

DIFFERENTI SENSAZIONI: ALTER di Stalker Teatro

Venerdì 27 presso Officine Caos a Torino ha preso il via la trentesima edizione di Differenti sensazioni, festival ormai più che consolidato nella tradizione piemontese. A inaugurare la rassegna i padroni di casa con Alter di Stalker Teatro.

Alter è un vivido esempio di un tema poetico caro a Gabriele Boccaccini e a Stalker Teatro: processi di creazione di immagine che prevedono la partecipazione del pubblico in un momento di condivisione creativa. Il pubblico che va a vedere Alter partecipa a tutti gli effetti alla costruzione delle immagini, condivide con gli attori (e oggi potremmo chiamarli performer anche se preferirei usare la parola esecutori, più neutra e rispettosa di una modalità di operazione) la creazione di architetture, paesaggi, territori. Una modalità non nuova certo, ma quando usata con oculatezza e tatto, risulta sempre interessante e poetica.

Si viene accolti in uno spazio già occupato da persone che leggono il giornale su dei larghi sedili bianchi di plastica. Ci si può sedere accanto, leggere insieme come su una panchina al parco. E subito ci si accorge che le notizie vengono rimescolate, i titoli prima sussurrati e poi urlati diventano sempre più improbabili e surreali. Notizie che divengono subito carta straccia. Pagine di giornale vengono lanciate nello spazio fino a diventare un mucchio, un impossibile mucchio.

Questo il punto di partenza di Alter da cui si sviluppa una teoria di immagini. I sedili diventano mattoni che modellano architetture; poi entrano dei grandi cavalletti e innumerevoli camere d’aria. Inizia un gioco da fiera cercando di far incastrare le ruote sui pali. E poi palle di carta colorate e uomini con dei bastoni. Insieme al pubblico si associano parole ai colori e si aggiungono cerchietti colorati ai bastoni a similitudine di quello sciamanico di Kadere. E così via verso il finale.

Gli oggetti, una volta usati, prendono posto ordinati verso un fondo rialzato, su cui rimangono con la loro presenza, come i manichini di Schulz pieni di mille significati possibili. Un’ultima scena: con delle graffette metalliche si costruisce tutti insieme delle catene, che disegnano percorsi, mappe stradali, topografie possibili, sentieri possibili.

Le immagini che attraversano lo spettacolo oscillano tra grande riuscita e ingenua serenità, ma dimostrano tutte una potente azione politica: il teatro si fa con il pubblico, si costruisce con una comunità, fattore che si tende sempre più a dimenticare. Come in un grande ristorante non si cucina per se stessi ma per far provare agli ospiti un viaggio nel gusto e nella sensazione, così il teatro non è un atto solipsistico che rende prigionieri del labirinto della propria mente. Questo non significa soggiacere alla tirannia delle plebi, ma attuare un’alleanza positiva e utile con la comunità a cui ci si riferisce. Troppo spesso si assiste a spettacoli vuoti di senso, ricerca per la ricerca, sempre che vi sia e non si utilizzi il termine per arraffare un piccolo bando. A volte non serve sbandierare grandi temi, bastano le piccole azioni sincere e un lavoro certosino su un territorio insieme a una comunità.

La perdita di senso e di presa del teatro e della scena tutta, inizia nel momento in cui l’artista rinuncia ad instaurare un dialogo con un pubblico, a costruirne uno con cui confrontarsi e condividere il pensiero che si fa azione. Stalker teatro proponendo spettacoli come Alter ha questo merito: di provare a creare un dialogo costruttivo con una comunità. Ed è un grande obbiettivo che va aldilà dell’estetica.

Questo il primo atto di Differenti sensazioni, festival con un programma ricco e interessante (i curiosi lo possono trovare qui www.officinecaos.net/festival/ ). Mi permetto di segnalare alcuni appuntamenti secondo la mia opinione imperdibili. Il 4 novembre Trattato di economia con Roberto Castello e Andrea Cosentino, a cui seguirà Delirio di una trans populista di Teatri di vita; il 9 novembre WS Tempest di Teatro dei Lemming a cui seguirà Ritratto Di di TIDA; l’11 novembre Mad in Europe di Angela Dematté premio scenario 2015.