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Una giornata qualunque del danzatore Gregorio Samsa

UNA GIORNATA QUALUNQUE DEL DANZATORE GREGORIO SAMSA: di Eugenio Barba e Lorenzo Gleijeses

Una giornata qualunque del danzatore Gregorio Samsa di Lorenzo Gleijeses, in prima italiana al Teatro Astra di Torino, è operacui è difficile affidare una paternità. Potremmo dire semplicemente che ha molti padri, ma non daremmo l’idea del complesso venire al mondo di questo lavoro.

Una giornata qualunque del danzatore Gregorio Samsa è frutto del progetto 58mo Parallelo Nord (quello che passa per Holstebro, la casa dell’Odin Teatret). Insieme alla performance Corcovado, lo spettacolo nasce sotto l’egida di diverse supervisioni artistiche. Il materiale viene sottoposto via via all’occhio di un diverso artista che agisce trasformando a sua volta quanto emerso dagli incontri precedenti. Una sorta di catena di trasfigurazioni fino al raggiungimento di una forma non frutto dell’artista creatore quanto di una galassia teatrale alquanto eterogenea.

In questo progetto sono stati coinvolti oltre ai già citati Eugenio Barba e Julia Varley, anche Luigi De Angelis e Chiara Lagani (Fanny & Alexander), Michele Di Stefano e Biagio Caravano (MK) e lo scenografo Roberto Crea. Uniche presenze costanti sono il corpo scenico di Lorenzo Gleijeses e l’intenso lavoro sul suono e l’illuminotecnica di Mirto Baliani.

Gregorio Samsa è un danzatore che prova un nuovo pezzo prossimo al debutto. Ripete costantemente e ossessivamente i movimenti coreografici non solo sulla scena, ma anche nella sua vita quotidiana, mentre mangia o telefona alla fidanzata, persino quando va in bagno. La sua abitazione non è nient’altro che un’estensione dello spazio scenico. La compulsione alla ricerca di una perfezione irraggiungibile allontana Gregorio da tutto ciò che lo circonda, lo trasforma in una creatura aliena incapace di comunicare. Gregorio vive una solitudine agghiacciante, da lui non avvertita perché il suo pensiero è diretto esclusivamente al debutto e a quell’eccellenza vanamente perseguita. I suoi movimenti extraquotidiani, di insetto che si contorce, non hanno niente in comune con ciò che è consueto alla vita. Il padre/maestro è l’unica presenza/assenza che acquista un significato per Gregorio, rapporto che si esplicita nell’impossibilità di quest’ultimo di soddisfarne le aspettative. Da questi elementi affiora una risonanza con la vicenda narrata da La metamorfosi di Kafka.

Eccellente l’uso della luce sempre segno che disegna spazi e ambienti. La casa di Gregorio, semplice area di tappeto bianco, con la luce diventa creatura viva. I luoghi affiorano dalla superficie e in un attimo scompaiono per nuovamente mutare. Suoni e luci disegnano una partitura che si integra con il movimento dell’attore/danzatore come in un unico complesso linguaggio.

Pochi e semplici oggetti contribuiscono inoltre a esplicitare l’ambiente. Il robot che ossessivo pulisce il pavimento è personaggio anch’esso e non semplice decoro. Come Gregorio attraversa lo spazio con gli stessi movimenti, compiendo le stesse funzioni ancora e ancora. Quasi una seconda voce che amplifica il canto.

Una giornata qualunque del danzatore Gregorio Samsa si sostanzia come una partitura fisica intensa e complessa che coinvolge tutti i materiali a disposizione. All’apparenza dunque questo lavoro a più mani, prodotto dalla Fondazione TPE insieme a Nordisk Teaterlaboratorium, braccio produttivo dell’Odin, è eccellente seppur con qualche difetto emendabile nelle repliche successive, come per esempio il finale che par non concludersi mai in un continuo ribadire il concetto. Vi sono tutti gli elementi per essere un’opera significativa e importante: un’ottima produzione, artisti di fama mondiale vi hanno contribuito, un interprete di grande livello, un apparato tecnico eccellente. Eppure tutto questo non basta.

L’oggetto scenico che si è costruito sembra alieno, incapace di comunicare la sua funzione a chi lo osserva. Come gli oggetti abbandonati nella Zona attraversata dagli stalker, nel romanzo dei fratelli Strugatski, sono semplici testimonianze di una civiltà che ci ha abbandonato senza spiegazioni, o come una vita sintetica creata in laboratorio che non riesce a scaldare il cuore, perché manca di quell’imperfezione che rende calda e viva un’esecuzione. Materiali e tecniche, seppur perfette, non sono nulla senza una funzione. Manca uno scopo e una direzione a questo lavoro. L’eccellenza non crea nessuna fiamma, non fomenta pensieri, non appesta come vorrebbe Artaud.

Una giornata qualunque del danzatore Gregorio Samsa diLorenzo Gleijeses è dunque un esercizio di maniera, lavorato con un team di super esperti e con un interprete con un grande bagaglio tecnico che padroneggia con esperienza ma che alla fine risulta freddo del tutto staccato dai bisogni della comunità pubblico in questo momento storico.

È questo purtroppo un difetto che affligge in teatro sempre più. Con tutto il parlare che si fa di audience engagement ci si dimentica di ripensare alle funzioni del teatro, alla sua possibile utilità. Attirare il pubblico non è semplicemente un affare da strateghi del marketing, ma frutto di una costante comunicazione con lo spettatore, un incontro con le sue esigenze un condividere uno sguardo sul mondo che sia comune e su cui si possa discutere. Purtroppo il lavoro di Lorenzo Gleijeses è un oggetto culturale che non tiene conto di questi aspetti. Cerca la qualità sia tecnica che compositiva che da sola non basta. Sono le imperfezioni ad attirare lo sguardo, sono i difetti che in fondo creano la personalità.

Ph:@ Tommaso Le Pera

Piergiuseppe di Tanno

IN QUESTO UMANO SPECCHIO: Intervista a Piergiuseppe di Tanno

Piergiuseppe di Tanno, classe 1983, rappresenta una nuova generazione di attori/performer con una formazione variegata, non esclusivamente legata al teatro, ma che anzi attraversa curiosa i vari linguaggi della scena, dal teatro alla danza butoh, dalla performance art alla danza contemporanea. Attore moderno e poliedrico ha vinto il Premio Ubu per miglior performer Under 35 ex equo con Marco D’Agostin per la sua interpretazione di Sei. E dunque perché si fa meraviglia di noi? di Roberto Latini. L’abbiamo incontrato in questa intervista per scoprire le ragioni della sua ricerca e cercare di immaginare possibili evoluzioni del linguaggio scenico e dell’arte dell’attore.

Cosa ti ha spinto a scegliere la professione di attore?

Continuo a scegliere una dimensione, una modalità del fare, aldilà di una definizione di ruolo: desidero confermarmi nel Teatro, chiedo cittadinanza all’interno di un panorama poetico senza scegliere una sola modalità di caduta attraverso un nome. O meglio ancora, sarebbe prezioso avere il potere di trasformare la personale “qualifica” ad ogni diverso attraversamento, raccontando in questo modo la rivoluzione continua della propria identità. Accade che quando pensiamo di compiere una scelta, in quello stesso momento, in realtà veniamo scelti: c’è stato un tempo in cui ho riconosciuto semplicemente che era il Teatro a scegliere me. La mia storia professionale nasce da un malinteso di grazia, dunque è stato un qualche demone del Teatro ad aver spinto me e non viceversa. Ho accolto un invito d’oro e mi sono offerto come servitore.

Quale pensi sia la peculiarità del teatro?

Posizionarci vivi di fronte agli altri vivi. E in questo umano specchio, il respiro comune è l’immaginazione. Accade come una purificazione del sangue nostro, in questo starci di fronte. Esporsi con coraggio all’occasione della Verità. Il suo esistere immortale. Mi fermo qui, per pudore e per amore.

Quali idee e modalità di teatro ti hanno appassionato durante la tua formazione?

Questo sentiero chiamato “formazione” è un tracciato che continuiamo a percorrere tutti, dove ogni folgorazione, ogni passo, confluisce nel tratto che incornicia la nostra figura, la forma che siamo. Dunque resisto nella disponibilità costante di appassionarmi e desiderare lo studio di ciò che è a me misterioso. Credo tu sottintenda però il tempo “delle prime mosse”, in cui si inizia a lavorare ardentemente alla costruzione della propria forma, appunto. Allora scelgo un nome che mi ha salvato la vita, e grido Antonin Artaud. Nell’assurda relazione con un uomo del quale non ho avuto il dono di essere contemporaneo, ho trovato negli anni un appuntamento d’Amore. Al fuoco delle sue questioni ho acceso la miccia delle mie ispirazioni, accade un dialogo che vive e in cui resto in ascolto di ciò che da lui continua ad emanare fino a qui. Fortunatamente gli esempi mirabili di chi ha trionfato nel Teatro con amore e devozione sono tanti, e nella mia storia mi dichiaro vittima del fascino di chi ha pericolosamente offerto “tutto Sé stesso”, di chi ha saputo edificare famiglia umana e artistica intorno alla sua pratica teatrale, di chi ha fatto del proprio senso una possibilità di rivoluzione per gli altri. Una volta terminata l’Accademia Nazionale d’Arte Drammatica, ho iniziato a “danzare”, a esplorare fisicamente quella zona che nasce dopo lo spegnimento delle parole, e ho orientato la bussola della mia attenzione verso la performance-Art e chi ha contribuito negli anni a ri-disegnare una costellazione paradossale di “artivisti”. Volevo chiudere questo mio tentativo di risposta con una lunga sfilata di nomi, l’ho scritta ad occhi chiusi, ma poi l’ho bruciata.

Cosa ritieni sia importante nella formazione di un attore?

Fondamentale è cercare la propria unicità, il valore specifico della personale presenza. Capire come farsi strumento di questo linguaggio, ripeto: di come porsi a servizio del Teatro. Esercitare il “lasciarsi guardare”, al posto del “voler mostrare”. Direi anche il “potenziamento del Vuoto”, e con ciò intendo l’affinamento di una pratica personalissima attraverso la quale generare in sé lo spazio perché i fatti possano accadere, al riparo di ostruzioni egoiche e narcisistiche. Ambire alla purezza del proprio percorso, farne stendardo perché si gonfi al vento della propria navigata.

Essere attore oggi non ha più lo stesso significato e funzione che possedeva trent’anni fa o un secolo fa. Drammaturgie condivise, collettivi, attori/performer, impiego dei non attori, innesti di pratiche provenienti da altre arti. È possibile immaginare secondo te la prossima evoluzione? Determinare la/le direzione/i delle trasformazioni del teatro?

Certo che è possibile! Immaginare è determinare la realtà. Attraverso quest’azione rinasciamo creatori di ciò che ci accade e di tutto il mondo. Una volta abbracciata questa consapevolezza, possiamo affinare il potere che le nostre azioni presenti hanno verso le evoluzioni future, avendo cura profonda di tutto quello che poniamo in essere. Si tratta di una semina incessante. Spero che si possa tornare in fretta ad innescare questioni vitali, auguro ad ogni attore futuro di vibrare della sacralità di questa occasione di esistere, e che scompaia la necessità di vendersi o proporsi alla cieca, prostituendo la luce della propria vocazione. Io non parlo di forme future, non disegno con precisione l’immagine di un Teatro dell’avvenire: custodisco il potere di determinare solo gli atti del mio tempo presente, e dunque partecipo ad un rito antico quanto l’uomo, che per quanto possa manifestare declinazioni futuribili, avrà sempre odore di fuoco mai spento dentro un tempio in cui si continua a sacrificare.

Cosa ti hanno dato i maestri che hai incontrato? In che modo le generazioni passate sono state di stimolo al tuo essere creativo sulla scena e in cosa invece sono state di intralcio?

Sono fatto della sostanza di tutti gli incontri che ho avuto in dono, potrei dire che il mio volto è una gigantesca galleria dei loro ritratti. Per ognuno di loro ciò che sento è gratitudine, è questo sentire la gratitudine che mi hanno lasciato. Non distinguo fra ciò che ho ricercato con ardore e ciò che ho inconsapevolmente attratto. Dico grazie a chi col suo esempio mi ha regalato la certezza di chi non voglio diventare e a chi ha saputo risvegliarmi, dileguando le mie oscurità con la sua luce. “Il Maestro” è stato in principio un’idea che mi ha ossessionato, cercavo affannandomi, e insieme misurandone la mancanza, un qualche altro da me che spazzasse via ogni fragilità e m’illuminasse alla luce del proprio segreto. Poi ho realizzato che quell’uomo sono io. Accolgo spalancato ogni occasione di insegnamento, che può manifestarsi ad ogni istante, e provenire da chiunque: da chi sta davanti ai miei occhi e racconta o da chi è morto secoli fa e in qualche modo riesce a tornare a dire. Non do a nessuno il potere d’essermi d’intralcio, l’unico ad esercitare ancora quest’onore è me stesso.

Come è avvenuta la creazione di Sei. E dunque, perché si fa meraviglia di noi? In che modo tu e Roberto Latini avete lavorato alla costruzione della tua interpretazione?

La condizione di partenza è stata l’impossibilità. Da lì, la necessità di un volo, che per essere detto con Pirandello, “accade quando deve accadere”. L’invito è stato e continua ad esistere nel pericolo costante di cadere, e insieme rispondiamo restando sospesi, leggeri, facendoci spiriti. Mentre provo ad essere il testo, ogni parola, ciascun personaggio, tutte le azioni, vedo davanti a me lo spettacolo di un pubblico impegnato a creare la propria visione, nella difficoltà di dover tenere acceso il tempo dell’immaginazione, muovendola viva attraverso ciò che sulla scena accade come un suggerimento che non definisce, ma anzi lascia liberi di poter vedere. L’occasione di questa creazione ha in sé anche una riflessione intima intorno al tema dell’ “attore/performer”, questione che Roberto Latini ed io incarniamo, sangue e sudore. Sono immerso in questo viaggio dentro Pirandello, che insiste col rivelarmi nel tempo profondità che non arrestano il loro schiudersi: ho la sensazione precisa di aver intrapreso un cammino nuovo e lunghissimo. In questo senso è stato abbagliante un fatto vissuto poco tempo fa: ho visto I Giganti della Montagna di Fortebraccio Teatro, del quale non avevo ancora visto la versione “radio edit”. Stare di fronte a Roberto Latini, essere testimone del suo resistere sulla scena e in questo caso dentro Pirandello, è stata comunicazione sottile che travalicava ogni esperienza di prova in teatro. Il nostro procedere nella vita di Sei. E dunque, perché si fa meraviglia di noi? ha la fortuna di essere fatto anche di questi momenti, in cui la potenza dell’esempio che Roberto Latini è in quanto uomo e attrice (“Io sono un’attrice”, cit.) può deflagrare davanti al mio sguardo permettendomi di stabilire una linea di interpretazione personale che nasce nel silenzio e nel mistero del nostro esserci l’uno per l’altro, e insieme, nel Teatro.

Ph: @ Brì di Tanno

La ballata di Johnny e Gill

LA BALLATA DI JOHNNY E GILL di Fausto Paravidino

La ballata di Johnny e Gill in scena in prima nazionale al Teatro Gobetti di Torino, è la nuova creatura di Fausto Paravidino nei cui geni si può osservare alcune linee di evoluzione della scena teatrale commerciale contemporanea.

Lo spettacolo è una coproduzione internazionale i cui partner principali sono distribuiti tra Italia (Teatro Stabile di Torino e Teatro Stabile del Friuli Venezia Giulia) e Francia (Theatre National de Marseille, Scene Nationale de Toulon e Scene Nationale de Chateauvallon) più il Theatre de la ville de Luxembourg. La ballata di Johnny e Gill è quindi un prodotto rivolto non solo al mercato italiano.

Il pubblico pensato per questa operazione è il più vasto possibile, ampio per età (anche se si strizza l’occhio maggiormente ai giovani) per opinioni politiche, per livello di istruzione e per censo. Può decisamente piacere sia all’abbonato anziano, sia allo studente delle scuole superiori, al conservatore di destra come di sinistra, è pop ma con alcuni elementi più colti e sottili, attinge disinvolto a generi teatrali diversi dal musical alla pantomima ma anche a modalità più tipicamente televisive (quiz e reality) o cinematografiche. È un oggetto teatrale decisamente mainstream anche se, proprio per le stesse ragioni, rischia di deludere le aspettative di molti.

Proviamo ad analizzare questi assunti più in dettaglio.

La ballata di Johnny e Gill inizia, come le storie antiche, a partire dalla genesi del mondo. Compare sul fondale la proiezione de La piccola torre di Babele di Brueghel il Vecchio a cui segue la storia di Abramo e del mancato sacrificio di Isacco. Da qui comincia la storia di Johnny e Gill, moderni Abramo e Sara, affiancati da Lucky, sorta di Arlecchino portatore di caos, che lasciano la propria terra diretti verso una nuova, non tanto indicata da Dio quanto dai propri sogni e ambizioni. Inizia un viaggio picaresco attraverso il deserto e il mare, per giungere negli Stati Uniti dove inizia un nuovo cammino verso il raggiungimento del sogno americano durante il quale accadono molte cose: dall’incontro con la mafia russa alla partecipazione a uno show televisivo. E poi i tentativi di mettere al mondo un erede attraverso un utero in affitto, una maternità che infine giunge anche se quel figlio nato, un giorno dovrà essere sacrificato. Difficile riassumere una vicenda che si dipana per circa tre ore di spettacolo e che utilizza tutti gli ingredienti disponibili come in ogni racconto avventuroso.

Tra i toni utilizzati prevale il comico, a volte leggero altre leggermente più impegnato. Non mancano momenti drammatici se non tragici (per esempio il naufragio, dopo la fuga dalla prigione nel deserto, in cui muoiono una donna e il suo bambino neonato). Non difettano anche un poco di sesso e violenza per rendere più pepata la narrazione. Fausto Paravidino è drammaturgo capace che sa dosare i vari elementi, le sorprese e le tecniche al fine di non annoiare il pubblico.

La recitazione utilizza registri grotteschi e caricaturali. I personaggi sono per lo più delle maschere (molte volte nel corso della pièce le indossano). Siamo immersi in un mondo picaresco, iperbolico e parodistico in cui i personaggi sono protagonisti di una sorta di nuova commedia dell’arte costruita su cliché e luoghi comuni (per esempio gli americani sulla spiaggia dove giungono Johnny, Gill e Lucky che mangiano enormi hot dog e sono definiti grassi e sciocchi).

La ballata di Johnny e Gill si conforma come una grande show in cui alcuni temi del nostro contemporaneo (immigrazione e integrazione su tutti) vengono declinati mediante un caleidoscopio di generi e tecniche, per renderli piacevoli senza turbare troppo. Potremmo quasi dire che se fosse cinema sarebbe una sorta di cinepanettone, dove a farla da padrona una comicità grossolana seppur sapientemente utilizzata.

La ballata di Johnny e Gill è come detto un prodotto costruito per essere mainstream, per piacere e divertire a teatro un pubblico che sia più vasto possibile e questo è anche il suo principale difetto. Per piacere a tutti devi dire cose che non urtano nessuno o lo fanno in maniera bonaria e inoffensiva. Con il voler piacere a tutti, finisci per scontentare. Si ha un senso di vuoto di fronte a tutto questo macchinario industriale del divertimento a teatro. Tutte quelle faccine, smorfie, vocine, tutti quei generi, quell’indulgere a un immaginario da serie televisiva, stanca e non soddisfa. Non risulta mai veramente incisivo anche in quei momenti drammatici che pur sono presenti e dovrebbero far pensare.

Si rimane sempre sulla superficie senza mai approfondire niente. Si accumula materiale, si bombarda lo spettatore di temi e situazioni, che scivolano via e poco resta alla fine di questa baraonda. Rispetto ad altri lavori di Paravidino, per esempio Il senso della vita di Emma, si assiste a incremento canceroso di strumenti impiegati e a una perdita di incisività direttamente proporzionale. Benché l’intento dell’opera sia chiara fin dall’inizio con il riferimento alla storia di Abramo, il tema dell’abbandono della terra d’origine e del sacrificio del proprio figlio per fedeltà a Dio si perde nelle macchinerie, nelle trovate a ogni costo, nei cliché che banalizzano, nelle volgarità per far ridere a ogni costo. Sembra che il tema sia solo un pretesto per avviare un percorso comico spettacolare che affascini e intrattenga il pubblico. Resta solo una forma che è guscio vuoto.

Materiali e tecniche sono impiegati per servire a una funzione, e quest’ultima non è altro che portare pubblico a teatro, farlo divertire, svagarlo, e incassare. É nient’altro che un prodotto commerciale finalizzato ai grandi numeri. Esattamente come un cinepanettone o il nuovo colossal con il super eroe di turno, senza cambiare nulla, senza rivoluzionare alcunché, si vuole stupire, affascinare senza interrogare la società sul mondo in cui si vive. Si usano tutti gli strumenti possibili per travestire un prodotto tradizionalmente conservatore, come moderno, divertente, simpatico, culturalmente aggiornato e giovane. Come dice lo sceneggiatore nella serie Boris: “la tradizione con una bella spruzzata di pazzia”. Siamo al polo opposto della drammaturgia di Davide Carnevali, di Jon Fosse o di Matei Visniec, dove la scrittura per il teatro è tesa a scuotere, interrogare, smuovere il pensiero e il pregiudizio.

Con questo non si vuole demonizzare questo tipo di prodotti. Non tutto il pubblico che va a teatro desidera prodotti impegnati e complessi ed è assolutamente comprensibile che i grandi teatri cerchino di produrre lavori che possano garantirgli numeri e incassi visti i costi di personale e di gestione. Quello che è più difficile da comprendere è il perché questo debba essere raggiunto sempre più attraverso banali semplificazioni. E visto che nel costruire questi progetti drammaturgici ci si riferisce sempre più al modello seriale televisivo, perché non prendere come esempio i migliori modelli. In fondo il citato Boris, Big bang theory, Shameless o Mozart in the Jungle, sono prodotti leggeri e divertenti non per forza basati su cliché stantii e, oltre al sano divertimento, non mancano di porre temi di riflessione.

La ballata di Johnny e Gill non risulta dunque convincente, soprattutto rispetto ad altri lavori di Fausto Paravidino. Anche l’impatto con il pubblico non è stato caloroso come nel passato. Forse bisognerebbe ripensare all’efficacia di questo tipo di operazioni. Come ci ricordano i Sotterraneo in Overload è vero che la nostra soglia di attenzione si sta riducendo sempre più, che siamo più disattenti e incapaci di elaborare pensieri complessi, ma non per questo chi si occupa di cultura, anche commerciale e pop, deve per forza cedere alla tentazione alla banalizzazione dei contenuti ad ogni costo, né per forza bisogna sacrificare la complessità sull’altare dell’audience engagement. Forse bisognerebbe avere più fiducia nel pubblico, soprattutto quello giovane. Potremmo rimanere sorpresi.

Parsec Teatro

LA STORIA DEGLI ORSI PANDA DI MATEI VISNIEC E PARSEC TEATRO

Dal 12 al 16 gennaio nell’ambito della rassegna Fertili Terreni va in scena al Cubo Teatro Storia degli orsi panda raccontata da un sassofonista che ha un’amichetta a Francoforte un testo di Matei Visniec prodotto da Parsec Teatro per la regia di Girolamo Lucania.

Un ragazzo si sveglia e scopre una sconosciuta nel suo letto. Non ricorda assolutamente dove e come l’abbia incontrata. Accende una sigaretta e prova a ricostruire quanto accaduto la sera precedente. Non affiora nessun ricordo. Nemmeno se ha fatto l’amore con quella misteriosa ragazza nuda. Quando questa si sveglia prova a chiederle il nome: “Solange, Elisabeth, o come desideri”. Lei ha fretta, ha un appuntamento importante. Prima di uscire gli rivela qualche indizio che non svela ma complica l’enigma: l’ha conquistata suonando il sassofono e recitando Baudelaire. Il ragazzo è ancora più confuso: Baudelaire? Io? Ma sei sicura? E prova a chiederle un altro appuntamento, o almeno il numero di telefono. Lei è impaziente, non può fermarsi ma promette di tornare stringendo con lui un accordo: nove notti per conoscersi meglio. Da ultimo un avvertimento: attento potresti perdere tutto.

Inizia così un viaggio tra il buio e la notte, intervallato da messaggi in segreteria di amici e colleghi di lavoro. Il ragazzo non risponderà mai, né mai uscirà di casa. Ha promesso di restare sempre ad aspettarla. E nel chiuso di quelle quattro mura inizia un cammino verso mete sempre più lontane. Ogni notte la giovane donna rispetta il suo patto, e a ogni suo ritorno lo spazio e il tempo mutano, si allargano, si spalancano verso dimensioni insospettate. Chi sia quella giovane ragazza indecifrabile diventa chiaro con il finale. I suoi molti nomi nascondono un’identità molto più complessa e terrificante di quanto ci sarebbe aspettati. Quel volto giovane, innocente e sorridente è il volto che si vorrebbe non vedere mai ma che aspetta ciascuno alla fine del viaggio.

Matei Visniac, autore rumeno naturalizzato francese, racconta un viaggio che è per tutti destino, quell’incontro fatale che ciascuno cerca di dimenticare. Il linguaggio è semplice, evocativo, quasi di piccola fiaba che disegna il volo di una coscienza verso una nuova vita indefinita, eterea, inspiegabile eppur così reale nella sua ineluttabilità.

La messinscena di Parsec Teatro rispetta l’essenzialità del testo di Visniac, nato radiodramma, ma senza rinunciare al poetico. La stanza del giovane sembra un piccolo bosco, un giardino incantato e un poco disordinato. Una corona di piccoli alberi spogli, le foglie cadute a terra ai bordi del letto e del tavolino. Pochi oggetti d’uso quotidiano, un piatto, una bottiglia, dei bicchieri. Due riquadri a destra e sinistra a metà scena accolgono delle proiezioni, che gradatamente esorbitano dalle cornici riversandosi sul fondale.

La regia di Girolamo Lucania crea uno spazio scenico dove l’immagine completa il testo rafforzando la sua leggera e ironica surrealtà. La recitazione dei due attori Jacopo Crovella e Giulia Mazzarino. ha una naturalezza candida ed essenziale, seppur limitata quasi sempre a un medesimo tactus. Una messinscena trapuntata di piccoli stupori e meraviglie, quasi da storia di bimbi, dove il volto minaccioso della nera signora diventa quello di ingenua e giocosa fanciulla, felice di accompagnarci nell’ultimo viaggio.

Storia degli orsi panda raccontata da un sassofonista che ha un’amichetta a Francoforte è al suo debutto e come ogni opera alla sua prima presenta qualche difetto emendabile nelle repliche successive. Un finale troppo lungo e stirato, che vuol troppo dire, pochi cambi di ritmo nella recitazione così come un quasi costante colore emotivo delle singole scene. Nel complesso questa produzione di Cubo Teatro insieme a Parsec Teatro è gradevole nella sua delicatezza. Con pochi semplici elementi, senza voler strafare, riesce a dar corpo alla poesia evocata dal testo, emozionando con lievi tocchi, accarezzando la nostra inquietudine senza ammansirla, facendoci riflettere sulle ultime cose con sguardo sereno.

Sotterraneo

SUL PROMONTORIO ESTREMO DEI SECOLI: BE NORMAL di SOTTERRANEO

Ogni volta che mi trovo di fronte a uno spettacolo di Sotterraneo resto sempre meravigliato dall’ironica virulenza con cui aggrediscono la contemporaneità. Be normal, visto al Cubo Teatro di Torino il 18 dicembre nell’ambito della rassegna Fertili Terreni, graffia e incide, scuote e percuote domandando con soave leggerezza allo spettatore: è questo il mondo che vuoi?

La questione che vien posta ha uno e mille volti: quel demone che ci spinge verso il nostro destino, il daimon di Socrate risvegliato da Hillman, va ucciso perché non fruttifero ma solamente latore di passioni improduttive e che hanno l’unico scopo di farci sentire centrati e realizzati? Questo assassinio rituale è imposto da chi è venuto prima è ha codificato le leggi della produttività a ogni costo e della monetizzazione dei sogni e dei destini. Tali codici vanno rispettati? O andrebbero abbattuti? Uccidere il demone e vivere una vita normale, dove con tale aggettivo si intende accettata e riconosciuta, oppure schiantarsi seguendo la passione? Un terzo elemento pare non esserci. Nessuna conciliazione degli opposti. Si deve scegliere in quale campo stare. Come nei romanzi di Fenoglio: la neutralità non è un’opzione.

La piccola bara bianca, che avanza sulle note di Sound of Silence, è l’agghiacciante corteo funebre di più generazioni che in questo paese sono state sacrificate alle colpe di chi li ha precedute, ma è anche un monito: il silenzio uccide, così come l’ignavia crea quel corteo immaginario che segue, quello degli «sciaurati, che mai non fur vivi».

Lo spazio scenico è per Sotterraneo il luogo di interrogazione non di rappresentazione. Si gioca con il mondo facendolo a pezzi con le immagini, si cerca di capire come funziona per rimontarlo in altro modo. Ci si affanna su quel palco che si apre oltre le sue possibilità, nel dietro le quinte, nel retropalco, fuori le mura. Dilaga. Ciò che è dentro la scatola fuoriesce. È dappertutto.

Il linguaggio scenico è frenetico montaggio delle attrazioni. Bisogna dimostrare di fare, di lavorare. Bisogna riempire tutti gli spazi di tempo, che non si pensi giammai che l’artista si riposi. Ossessione del pieno in una gara senza vincitori a chi lavora di più, a chi produce di più. Così si crea un raccapricciante giardino delle delizie, dove in un’immaginaria giornata scandita dal procedere delle ore come nella serie 24, si passa da un colloquio presso un cartello mafioso, alla ragazza che nutre lo scheletro della madre bulimica benché defunta, al tirassegno per abbattere i vecchi (tra la regina Elisabetta, Hugh Heffner, Paperon de’ Paperoni, il vero nemico è Mario Rossi, pensionato generico).

Tutto appare falsamente lieve, in accattivanti toni neo-pop, quasi scenette da moderno avanspettacolo, eppure ogni immagine è scudiscio che dovrebbe farci trasalire di dolore. Dopotutto si mette in scena un catastrofico fallimento, quello di tutto e di tutti, senza speranza alcuna. Aleggia un rumore di schianto tra le risate. Si precipita nel buonumore senza accorgersi del suolo che si avvicina a tutta velocità.

Sotterraneo ci bombarda di oggetti e situazioni, quasi una saltar di palo in frasca, non lascia mai tregua, serrata mitraglia di informazioni, persino di grafici e statistiche sull’invecchiamento della popolazione per far emergere un affresco di una gioventù soffocata dal decrepito, dal trapassato che non vuol lasciar quartiere, quel paese di podagra che si vorrebbe morto dai tempi di Marinetti.

Be normal di Sotterraneo è spettacolo del 2013 ma pone domande che restano inevase. In quella bara bianca le generazioni si accumulano e niente si fa per impedirne il seppellimento anzitempo. Siamo una società votata al Götterdämmerung. Si aspira all’apocalisse. Si vuole consumare tutto e subito e del futuro chissenefrega.

Anche quando apparentemente si loda la gioventù, la si insignisce di premi e nomination in verità li si sbeffeggia. Non si creano le condizione ai giovani germogli per diventare pianta solida. Nel teatro per esempio, non sono gli Ubu e nemmeno la pletora di premi e premietti che fertilizzano la crescita, ma lo sarebbero il miglioramento delle condizioni produttive, una distribuzione efficiente in Italia e all’estero, la pluralità di fonti di finanziamento accessibili, la libertà di fare ricerca senza dover produrre ogni sei mesi un lavoro nuovo che diventa vecchio già a metà stagione.

Se si vuole veramente che il daimon dei giovani cresca florido, bisogna dar loro spazio, luce e tempo per svilupparsi. E invece bulimici li si consuma, li si osanna per gettarli nel fuoco appena diventano over 35. Sotterraneo con Be normal ci pongono delle domande urgenti: sarebbe il caso di cominciare a dare delle risposte prima che non ci sia nessuno a trasportar quella bara bianca.

Ph: @Emiliano Pona

Emma Dante

IL GIOCO CRUDELE DEL TEATRO: La scortecata di Emma Dante

Dall’11 al 23 dicembre al Teatro Gobetti di Torino è andata in scena La scortecata di Emma Dante, decima favola della prima giornata de Lo cunto de li cunti, overo lo trattenemiento de peccerille di Giambattista Basile.

Il cunto racconta di due vecchie sorelle, Carolina e Rusinella, che vivono isolate nella loro catapecchia. Un giorno il re sentendo cantare una delle due si innamora della voce credendola appartenere a una bella giovane. Celate dietro la porta e porgendo al regale spasimante solo un dito mignolo dalla serratura, che rendono morbido e vellutato succhiandoselo per ore, riescono a ottenere un incontro con il sovrano purché al buio. Durante la notte d’amore il re accende un lume, si accorge dell’inganno e getta l’orrida amante dalla finestra. Quest’ultima riesce ad aggrapparsi al ramo di un albero e una fata intenerita dalla sua sorte la tramuta in una dolce e giovane fanciulla che il re alla fine sposa. L’altra sorella, rosa dall’invidia, si fa scorticare dal barbiere affinché cresca una pelle giovane una volta rimossa quella vecchia e grinzosa.

Emma Dante mette in scena questo racconto operando alcune semplici scelte: conserva la lingua originale, il napoletano secentesco con qualche modernizzazione; fa impersonare le due megere dai bravissimi Salvatore D’Onofrio e Carmine Maringola, mantenendo la tradizione dell’epoca in cui la recitazione era appannaggio dei soli uomini; utilizza pochi elementi scenici disegnando una scena essenziale seppur altamente evocativa; e infine opera una piccola ma sostanziale modifica al finale che getta sulla favola una luce ancor più fosca.

Sul palcoscenico solo due seggiole, una porta, e un castello in miniatura inquadrati da un ring di luci che dall’alto delimitano il campo d’azione. Sulle sedioline sono assisi i due attori con brutti vestitini e calze di nylon spesse da nonna. Non fingono di essere donne, non vi è mimesi, ma solo l’impiego di alcuni segni che identificano il loro personaggio. La fisicità impiegata è maschile, rude. Non si vuol far credere ma far immaginare e nello stesso tempo significare la violenza nascosta dietro la fiaba: la crudele miseria, l’abbandono, ma soprattutto l’invidia e la cieca vanità che conducono allo scorticamento finale.

I due attori non danno corpo solo alle due tristi sorelle ma anche al re e alla fata. Si trasformano durante la rappresentazione, fanno apparire attraverso dettagli posturali, un cambio di voce, l’emersione di un nuovo personaggio.

La recitazione sfrutta nel racconto tutti gli elementi provenienti dal teatro tradizionale napoletano e dalla commedia dell’arte. Un teatro fisico di sapore mejercholdiano che attinge ai registri del comico popolare e quindi alle smargiassate, alle volgarità, alle allusioni sessuali, ma anche alle iperboli, le esagerazioni e ai trucchi propri di quel teatro che fa apparire interi mondi con la sola potenza della parola e del gesto. La lingua, il napoletano, nobile anche quando parlata da carrettieri, quasi nata per la rappresentazione, evoca un’atmosfera sempre sospesa tra la sconcezza e il sogno, tra un riso che medica e il ghigno che ferisce.

Il finale ci rivela una essenziale modifica che illumina il cunto di Basile con luce inedita: non vi è nessun re e nessuna fata. Tutto era illusione e sogno, una finzione per riempire un vuoto. Resta solo la violenza insita in ogni rappresentazione, quel sangue e quell’orrore evocato dal teatro fin dalle sue origini tragiche negli assolati anfiteatri di Grecia, quel sangue che i katarmoi spargevano sugli spalti prima che gli attori entrassero in scena. Il teatro possiede un’anima violenta, scortica la realtà, solleva il velo che la civiltà cala sul mondo per rendercelo accettabile e meno cruento. Il teatro nascondendosi dietro la maschera della rappresentazione rivela la natura intima della vita, quella violenza dell’essere al mondo che fingiamo non sia ma permea ogni nostra azione. L’unica cosa vera è dunque quel coltello pronto a spillare sangue, oggetto rituale, bisturi terribile ma necessario a guarirci da quella cataratta che ci impedisce di cogliere il vero volto della vita.

Poco importa quale sia la vera morale della favola, quella crudeltà propria del femminile di infliggere crudeli torture al proprio corpo per vanità o come dice la stessa Emma Dante: “il maledetto vizio delle femmine di apparire belle le riduce a li eccessi che, per indorare la cornice della fronte, guastano il quadro della faccia”. La scortecatata parla anche del teatro, della sua natura ormai sempre più nascosta, della sua abilità di far emergere con la finzione la vera anima del mondo.

Rita Frongia

LO SPECCHIO PERICOLOSO: LA TRILOGIA DEL TAVOLINO DI RITA FRONGIA

Domenica16 dicembre al Dialma Ruggiero di La Spezia è andata in scena nella rassegna Fuori Luogo la Trilogia del tavolino di Rita Frongia. Una piccola maratona di tre spettacoli: La vita ha un dente d’oro, La vecchia e Gin Gin, il primo per la regia di Claudio Morganti ,gli altri per la regia della stessa Rita Frongia.

Il vero protagonista è un tavolino intorno al quale si siedono dei buffi personaggi: una coppia di amici, o forse solo due viandanti che si son seduti al medesimo tavolo all’osteria; un improvvisato e truffaldino maestro di vita e un poeta alla ricerca di risposte; due sorelle. In scena pochi altri elementi, oggetti che prendono vita al tocco degli attori e che, animati, a loro volta danno energia inattesa alle parole.

Le luci sono essenziali, solo quanto serve a illuminare il poco spazio nei pressi del tavolino. Tutt’intorno l’abisso nero, minaccioso, poco rassicurante. Non siamo da nessuna parte. Le coppie di personaggi si siedono e iniziano un gioco, come una strana partita a scacchi il cui esito potrebbe essere nefasto. Se ne ha la netta sensazione.

La drammaturgia dei tre spettacoli sembra apparentemente innocua. Si ride parecchio, si rimane avvinti dagli strampalati ragionamenti ,dalle battute caustiche, le assurdità, i nonsense. In questa selva di parole il pericolo striscia come serpe nell’erba alta. Vi è un che di velenoso in ciò che accade e si sente. La morte è in agguato. Ogni testo ha il suo cadavere, una porta oscura, un abisso entro cui sprofondare. I buffi personaggi che ci continuano a strappare delle risate sono pericolosi, posseggono una carica virulenta, ci potrebbero infettare con le loro miserie (o forse siamo noi a contagiare loro?). Si percepisce che tra scena e platea potrebbe verificarsi un illecito contagio.

La lingua soprattutto è veicolo di trasmissione: i gramelot, i dialetti ci rendono familiare e divertente qualcosa da cui ci si dovrebbe guardare. Come una trappola per topi: qualcosa di piacevole ci attira e ci cattura. La telefonata del poeta in La vecchia in dialetto napoletano, quella dove spiega la ricetta per cucinare l’uovo sodo. Ci fa ridere, ma quella meraviglia dell’ovvio, quel magnificare la banalità non è nella nostra vita ogni giorno? E in Gin Gin quel romanesco in cui si descrive la codardia con cui si abbandona il barbone investito non è la nostra quando facciamo di tutto per ignorare la sua presenza nelle strade?

 Sembra anche che non vi sia un senso definito, che ognuno debba cercare per sé la sua conoscenza. I tre spettacoli sono come una sorta di oracolo: sta a noi l’interpretazione del vaticinio. Sarebbe inutile raccontarli, si fornirebbe solo la risposta che ne ha tratto chi scrive. È personale, privata. Qualcuno potrebbe obbiettare che èsempre così. Ognuno vede cose diverse, ma in questo caso vi è una volontà drammaturgica nel rendere misterioso ciò che accade, un arcano intrigante in cui le risposte sono volutamente multiple.

Le tre coppie di attori (Francesco Pennacchia e Gianluca Stetur in La vita ha un dente d’oro, Marco Manchisi e Stefano Vercelli in La vecchia, Angela Antonini e Meri Brancalente in Gin Gin) danno vita a tre universi molto diversi ma che hanno in qualche modo un DNA comune. È come se intorno al tavolino le partite che si possono giocare siano sì infinite ma sottoposte alle stesse regole.

La recitazione è molto fisica, il corpo gioca un ruolo fondamentale benché non ci si trovi certo di fronte a un teatro di movimento. Si sta seduti al tavolino, ma i movimenti, anche quelli minimi del volto o delle mani, forniscono consistenza e fisicità alle parole. In La vita ha un dente d’oro per esempio la semplice richiesta di farsi un bicchierino si trasforma in un concerto di suoni e di ritmi che ricorda gli esperimenti di RogerWaters. Così come all’inizio quel mischiare il mazzo di carte infinite volte in mille varianti per una partita che non inizierà mai è significante quanto un fiume di parole. Non si è dunque di fronte a una semplice messa in scena di un testo quanto un farlo vivere con il linguaggio proprio del teatro, quello del movimento di oggetti e persone nel tempo e nello spazio della scena. Un dire senza proferir parola e dove quest’ultima è elemento a sé stante, indipendente ma che con il linguaggio fisico si accoppia in nozze felicissime.

La recitazione possiede una certa liquidità, come se alcune parti siano mobili, passibili di variazioni improvvisative, come per esempio la lettura delle carte in La vecchia. Pare che il futuro venga letto proprio di fronte a noi, che la profezia valga in quell’istante e in quel momento.

 La trilogia del tavolino costruisce tre mondi in cui si viene catturati come da piante carnivore. Veniamo allettati dal riso per precipitare in un mondo sottosopra che assomiglia alla nostra vita quotidiana. I piccoli peccattucci, omissioni, vanità, codardie che ci accompagnano a ogni passo. Nessun delitto eclatante a tutta prima eppure questo si consuma sempre. Piccole macchioline che alla fine sporcano il quadro d’insieme e ci fanno come Amleto: passabilmente onesti ma colpevoli di tali cose che sarebbe stato meglio non essere stati partoriti.

La trilogia di Rita Frongia è dunque uno specchio molesto e disvelante. Sorride ma è un delinquente perché ci deruba della certezza di essere brave persone. Svela la nostra segreta immagine, ridicola e allo stesso tempo pericolosa.

Ph: @Andrea Luporini

Erika La Ragione

RADICI IN TASCA: di Erika La Ragione

In questi giorni, dal 16 al 18 dicembre, al Sibiriaki di Torino va in scena Radici in Tasca di Erika La Ragione e l’accompagnamento musicale di Rocco Di Bisceglie.

Lo spettacolo racconta l’anima del migrante più che una migrazione, quella sospensione tra ciò che fu e ciò che sarà, tra la terra d’origine e quella che ti accoglie. Oggi quando si parla di un tale argomento si affacciano immediate le immagini degli esodi che dalle zone di guerra e povertà portano masse di fuggitivi alle porte di paesi più fortunati. Non di questo si parla, benché in qualche modo vi si alluda. Erika La Ragione racconta la sua migrazione, da Palermo, dal Sud che poco offre ai suoi figli da decenni costretti a partire verso luoghi che possano far crescere i sogni e le aspirazioni.

Da Palermo a Torino per studiare e dar corpo a un’ambizione. Non una fuga quanto un trapiantarsi, ma la pianta che si sradica soffre, la terra in cui affonda le radici non è la sua, la luce che bagna le sue foglie non è quella in cui è nata. Tutto congiura contro il successo, lei per prima, che guarda sempre al luogo da cui è partita. Quando la malinconia, la solitudine, lo sconforto ti abbracciano è difficile svicolarsi. Solo chi ci riesce rinasce e affonda le radici nel nuovo terreno e torna a crescere più forte.

Non sempre questa storia ha un lieto fine. È come nella parabola del seminatore: il seme può essere rapito dai corvi, o cadere e morire in luogo arido e deserto. Per attecchire c’è bisogno anche di molta fortuna.

Erika La Ragione ci racconta con canti e parole, ironica e candida, la sua migrazione. L’abbandono della Sicilia e l’arrivo a Torino. Il dolore e la solitudine dell’arrivo in un posto sconosciuto e molto distante culturalmente, le incertezze del radicamento, la gioia di veder sorgere le nuove gemme di una vita diversa. Un nuovo che affonda nel vecchio, una mutazione che non rinnega l’origine, una trasformazione che non dimentica la forma originaria. Le radici ricordano sempre la terra che hanno incontrato la prima volta.

Radici in tasca è uno spettacolo che sa far emergere i sapori e i sentimenti, in maniera irruente come polla d’acqua che erompe dalla terra. I racconti che fanno emergere i ricordi, le canzoni che cantano la Sicilia ma non solo, a volte eccedono nel sentimentalismo, vogliono provocare una reazione e ci riescono. Commuovono e smuovono nonostante l’abbondanza. È un eccesso d’amore che non urta perché profondamente sincero. Lo si legge negli occhi di questa giovane attrice.

Erika La Ragione è ancora pietra grezza, i cui luccichii sono ancora offuscati dalle scorie, ma si intuisce un talento e un’energia che fanno emergere uno sguardo sul mondo limpido e fiducioso anche nel raccontare ciò che è doloroso. Il suo canto ci invita a guardare le differenze e le migrazioni senza paura perché il timore e l’incertezza abitano soprattutto il migrante. Chi accoglie vive nella sua terra al sicuro nei suoi affetti e nelle sue abitudini, chi giunge alla porta, come Ulisse non ha nulla se non il ricordo di ciò che ha lasciato.

Radici in tasca è uno spettacolo-concerto che necessita ancora di lavoro di raffinazione. Deve essere levigato, ripulito, ma offre momenti di rara sincerità e commozione. Bastano pochi elementi: asciugare la drammaturgia, piccole azioni che innervino le parole e il canto. Deve trovare la misura nell’eccesso ma conservare la sincera e fresca energia, l’ironia leggera, il calore che avvolge il pubblico. Erika La Ragione è una giovane che si affaccia con amore infinito verso il teatro, non possiamo che augurarle che il seme che porta trovi terreno fertile per crescere.

Improvvisazione

LA BELLEZZA FUGGEVOLE DEI FIORI DI CILIEGIO: L’ARTE DELL’IMPROVVISAZIONE A TEMPI DI REAZIONE

Nel Comunedi Porcari (Lucca) a Spam, sede operativa della Compagnia Aldes guidata da Roberto Castello, si è tenuta dal 5 al 9 dicembre una rassegna dedicata all’arte dell’improvvisazione dal titolo Tempidi reazione. Nell’arco di cinque serate si sono alternati sul palcoscenico filosofi, danzatori, musicisti,attori, pensatori della scena contemporanea al fine di confrontarsi sul significato, la funzione e le pratiche di un’arte trasversale quanto fragile, capace di attraversare tutti i linguaggi e morire nell’istante in cui si compie : senza lasciare quasi traccia del suo passaggio.

EnricoCastellani, Andrea Cosentino, Eugenio Sanna, Julyen Hamilton, Tristan Honsinger, Teri Weigel, Giselda Ranieri, Paola Bianchi, Stefano Questorio, Alessandra Moretti, Mariano Nieddu, John De Leo, Romano Gasparotti, Alessandro Bertinetto, Charlotte Zerbey, Alessandro Certini, Edoardo Ricci si sono avvicendati, offrendo al pubblico i loro differenti approcci alla difficile arte dell’improvvisazione, ciascuno con il suo modo per andar al di là dei modi, condividendo con l’occhio che guarda non solo le loro riflessioni, ma i processi creativi e il rischio a essi connessi.

Improvvisare è termine a cui nel linguaggio corrente si accostano significati con accezioni vagamente negative: raffazzonare, abborracciare, preparare lì per lì. Concetti che rimandano all’imprecisione, alla mancanza di progetto, all’impreparazione. Nel pensiero occidentale come si sostanzia a partire dell’Umanesimo, l’opera d’arte è infatti frutto del genio dell’artista che pensa l’opera e attraverso lo sforzo della propria volontà e manualità rende manifesta l’idea nelle forme. L’opera d’arte è quindi stampo del pensiero che la precede e la determina. L’improvvisazione, al contrario, non ha niente che le preesista, sorge tempestiva nell’attimo in cui si forma e come il fiore di ciliegio scompare in un’istante.

Per questo suo breve batter d’ali è considerata pratica minore, più strumento creativo propedeutico all’opera pensata e concepita, che forma d’arte di rango elevato. Più uno sfizio affine al divertissement. Eppure l’improvvisazione porta con sé questioni di primariaimportanza per le arti dal vivo che nello spazio breve di unariflessione cercheremo solo di delineare.

Innanzituttouna diversa concezione del tempo. Se l’opera è frutto di unprogetto, di un disegno che mano a mano che procede si sostanzia e sistruttura fino a giungere un compimento che dà corpo a uno o più significati previsti, nell’arte dell’improvvisazione si vive nell’istante e in quello che i greci chiamavano Kairos, il tempo dell’opportunità. È un cogliere l’attimo, un adattarsi tempestivo alle circostanze, una modalità che non accetta il ritardo e rifiuta l’esitazione. Un vivere la contingenza del momento con tutta la propria presenza, svincolati dal concatenamento di passato e futuro, dove il primo si risemantizza a ogni istante successivo e il secondo semplicemente non esiste. Kairos prende dunque il posto di Chronos, il tempo dell’opera per eccellenza. Siamo dunque in un altro mondo.

Vi è poi un secondo aspetto da tenere presente: l’improvvisazione è quell’arte che inventa le regole e le norme del suo farsi nell’istante in cui si compie. Non ha canoni a cui ci si possa aggrappare e nessun piano di battaglia può in alcun modo essere atteso. Nessuna forma preventivamente studiata vedrà mai la luce in un’improvvisazione perché suonerebbe falsa come le monete di cioccolata. Nemmeno può essere in qualche modo insegnata. Tutt’al più il maestro può condurci a un atteggiamento propedeutico, uno stato mentale e fisico fecondo che concili l’atto improvviso e imprevisto. Può dunque accompagnarci sulla soglia, ma entrare nel flusso creativo istantaneo è affare del performer, frutto di allenamento personale e di un’attenta coltivazione, risultato di uno specifico contegno differente per ciascuno.

Corollario conseguente: ogni performer vive l’atto di improvvisazione in maniera completamente diversa, sostanzia il momento con uno stile e sapore unico, e questo personalissimo approccio conduce a una totale mancanza di regole cui aggrapparsi, e quelle poche norme che ciascuno a suo modo adotta, posso tranquillamente venire disattese durante l’esecuzione. L’improvvisazione è atto anarchico per eccellenza in cui, per dirla alla Thoreau, il governo che governa meglio è quello che governa meno. L’atto di improvvisare contiene in sé dunque delle istanze politiche ed etiche precise.

Terzo elemento da considerare è che nell’improvvisazione non conta tanto il risultato quanto la qualità del processo esecutivo. L’esser presenti all’istante, il saper vivere il carpe diem che sostanzia questo specifico atto creativo, è l’unica misura che certifica la peculiarità e il pregio di un processo artistico improvvisato. Il risultato inteso come opera coerente esteticamente valida, composizione chiusa nel senso difinita, può non sostanziarsi. L’incompletezza, il fallimento, la caduta persino lo schianto sono delle possibilità accettabili e possibili. Fanno parte della natura stessa dell’improvvisazione. Ci si gioca se stessi completamente, e si può perdere. Nel cadere però si acquista esperienza, un bagaglio da rimettere in gioco altentativo successivo.

Ultima questione da considerare è la non ripetibilità dell’atto performativo improvvisato. Tutto si svolge nel qui e ora. Si tratta di una generazione spontanea che vive in un baleno e poi scompare senza lasciar traccia se non nell’animo di chi c’era. Documentarla è quasi impossibile. Il video e la testimonianza, scritta o orale che sia, sono parziali. Il primo manca del sapore dell’istante della presenza, la seconda è sempre personalissima, frutto di un punto di vista, di un orientamento e di una conoscenza acquisita nel tempo. Lo stesso performer non sempre sa esattamente cosa ha fatto, e manca spesso delle parole per descrivere quanto provato nel flusso creativo istantaneo.

La coscienza del performer è infatti sempre scissa, come divisa tra l’essere teso come filo sull’abisso del momento fuggente e occhio che guarda se stesso. Abbandono e volontà a braccetto, una volontà però scevra di progetto, che nega l’io e le sue voglie, che pronta si adatta alla circostanza e lieta si contraddice per provare strade diverse. Una lotta continua tra il noto e l’inatteso, tra ciò che si sa e ciò che si scopre, tra l’abitudine e la casualità. Non è dunque creazione ex nihilo, ma composizione che si sostanzia con elementi frutto di un bagaglio tecnico che si integrano con naturalezza con ciò che si forma hic et nunc.

Detto questo va ribadito che l’arte dell’improvvisazione non è qualcosa di caotico, frutto di un lasciarsi andare alla deriva, ma un gioco sottile, un affare che non ammette dilettantismi, in cui i pochi elementi scelti alla base vengono sottoposti a variazione, metamorfosi, proteiforme trasformazione, giocosa contraddizione, e questi fattori o piccole norme di base si integrano e ricombinano con ciò che si trova per strada. È come un volo in cui si deve esser pronti a cogliere il vento e i suoi repentini cambi di direzione. Un sottrarsi per fare emergere, cavalcando l’onda accettando il rischio di venir sommersi. Non vi è dunque nessuna emersione dell’io e delle sue miserie, nessuna clinica, ma un togliersi di mezzo per essere tutt’uno con il tempo, lo spazio, l’oggetto, i compagni di viaggio. Non si pensa perché pensando non si fa. Si tratta piuttosto un fare pensante.

Con queste premesse diventa dunque difficile testimoniare quanto avvenuto in scena a Spam nelle serate di Tempi di reazione. L’esuberanza di Eugenio Sanna che si scontra con l’inventività di Andrea Cosentino o con la timida rigidità di Enrico Castellani, la profonda immersione di Paola Bianchi, oppure i dialoghi sottili tra John De Leo, Stefano Questorio e Giselda Ranieri. Non è quasi possibile, per lo meno chi scrive dichiara apertamente la sua incapacità di rendere a parole ciò che è apparso vivo e in un istante svanito. È possibile solo riportare le parole di un antico poeta giapponese nel Kokinshû:   volteggiando i fiori di ciliegio scompaiono e   non c’è uomo che non li rimpiangerà.

ph@Claudio di Paolo

Silvia Battaglio

LA SOLITUDINE DI ASTERIONE: Il mito del Minotauro secondo Silvia Battaglio

Sabato 1 dicembre al Tangram di Torino è andato in scena Studio per Minotauro di Silvia Battaglio nell’ambito della rassegna Maldipalco. Il lavoro ha già attraversato un periodo di residenza presso Officine Caos/Stalker Teatro dove è stata presentata una prima restituzione il 24 novembre.

Silvia Battaglio è artista che impiega sulla scena il corpo come principale strumento di espressione e in cui pochi semplici elementi scenici, precisi nell’essere sempre segno e mai tappezzeria o decoro, costruiscono una narrazione fatta per immagini e suoni, un montaggio delle attrazioni in cui il materiale letterario non è che uno dei materiali con cui si costruisce la drammaturgia. Non vi è dunque dipendenza dalla fonte letteraria ma riscrittura e reinvenzione.

Il Minotauro che appare in scena è un pugile, un ragazzino che si allena ad affrontare il nemico che il fato ha predisposto per lui. Asterione è Toro scatenato che fende l’aria con ganci e jab per scaricare e sfogare il suo desiderio d’amore, la sua solitudine estrema che pur d’essere estinta si accontenta anche di un nemico.

Asterione è figlio delle stelle e di re, non solo frutto mostruoso di illecita passione. Questa sua doppia unicità lo separa dal consesso umano non le porte del labirinto che sono sempre aperte. Egli se vuole può uscire, chi vuole entrare non è impedito, eppure la diversità può ciò che nessun cancello, serratura o chiavistello potrebbe. Il Minotauro non ha che la sorella Arianna con cui parlare ma la signora del labirinto risulta ambigua nel suo essere alleata e strumento di morte. Voce benevola e premurosa, quasi madonnina votiva è anche colei che conduce il nemico. Il suo aiutar Teseo non è forse anche e soprattutto atto d’amore perché conduce al fratello l’unico compagno che mai potrà avere? Quella morte che giunge per mano sua non è atto di pietà nel liberare il Minotauro da una vita ingiusta e agra?

Arianna, come Teseo, è anche strumento nelle mani del volere del fato, degli dei, dei re, in una parola del potere. Arianna non può che aiutare Teseo perché così è stato scritto, e quest’ultimo non può che essere burattino nella mani di chi lo vuole assassino. Il giovane ateniese è un pupo governato da fili, guidato Arianna e dal fato tessuto per lui dalle Moire, senza volontà se non quella di altri, nient’altro che povera marionetta eterodiretta.

Asterione è l’unico personaggio in questo dramma che gode di una certa autonomia, libertà che esercita però nei limiti e nei confini imposti. Il labirinto è la sua casa e il suo mondo l’unico che può vivere. Ciò che è all’esterno del suo palazzo immenso non può accogliere la sua unicità. L’eccezione è infatti un intoppo al fluido scorrere del consueto e va eliminata o esiliata. Al Minotauro non resta che correre tra le pietre del suo palazzo, inventarsi giochi con amici immaginari, guardare la vita degli altri dalla finestra e attendere che il suo destino si compia. Quando il fatidico momento giunge Teseo stupisce: “Lo crederesti Arianna? Il Minotauro non s’è quasi difeso”.

Silvia Battaglio ci racconta un ragazzo-toro molto più umano dei suoi persecutori, adolescente bisognoso d’amore, escluso per peccati altrui e perché gli altri hanno decretato per lui una vita di segregazione. Per narrare la sua figura Silvia Battaglio decide di non riferirsi alla tradizione mitologica ma di affidarsi solamente a materiali letterari novecenteschi: Borges la stanza di Asterione, Cortázar I re, Dürrenmatt Il Minotauro. Come si diceva all’inizio dell’articolo questi stralci testuali si integrano con i pochi e significativi oggetti: il filo rosso che governa e ingabbia il pupo/Teseo, le pietre del labirinto, la finestra volta la platea che guarda il mondo dei giusti e dei sani, quelli che si sentono in diritto di escludere il povero Asterione, figlio di re e delle stelle.

Silvia Battaglio ci restituisce un Minotauro tenero e solo, voglioso d’amore perché privo d’amore, pronto ad accogliere persino il suo assassino pur di udire una voce non sua e toccare un corpo altro da sé.

Uno studio questo su Il Minotauro molto maturo, con elementi drammaturgici precisi e un ottimo utilizzo del corpo per esprimere ciò che le parole non dicono. Risulta fragile e appiattito solo il personaggio Teseo, troppo racchiuso in un’immagine grottesca e marionettistica. Certo è vero che neanche i miti antichi sono stati teneri con la sua figura di giovane eroe più temerario che coraggioso, traditore e inaffidabile, ma renderlo solo un elemento comico lo livella e comprime forse troppo. Se si trovassero delle sfumature che gli conferiscano una profondità il Minotauro di Silvia Battaglio potrebbe assumere una forma ancor più intima e umana.

Ph: @Emanuele Pensavalle