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La voix humaine

LA VOIX HUMAINE E IL SEGRETO DI SUSANNA: gli oggetti della modernità prendono la scena

In questi giorni al Teatro Regio di Torino due piccole opere che, da due opposte balze, il comico e il tragico, inseriscono gli oggetti del contemporaneo nel mondo della lirica. Parlo de Il segreto di Susanna di Ermanno Wolf Ferrari e La voix humaine di Francis Poulenc su testo di Jean Cocteau.

La sigaretta e il telefono. Oggetti comuni, persino banali, ma carichi di un potenziale dirompente che conservano con il passare dei decenni. Pensiamo alla sigaretta, vizio che Susanna cerca di nascondere al geloso marito. Prima simbolo di emancipazione femminile, oggetto da duri, rito di passaggio all’età adulta, poi vizio, malattia, dipendenza da estirpare. E poi il telefono. Comunicazione facile, azzeramento delle distanze, e poi gradualmente anch’esso oggetto di dipendenza, perfino, come detto nel libretto: “un’arma tremenda. Un’arma che non lascia nessuna traccia e che non fa rumore”.

Ne Il segreto di Susanna di Wof Ferrari, l’oggetto è motore del comico. Composta come un Intermezzo settecentesco che andava a intervallare l’opera seria, su modello de La serva padrona di Pergolesi, Il segreto di Susanna introduce “il filo di fumo” nel ménage di coppia. Susanna nasconde al marito il suo vizietto, e lui, Gil, sentendo odor di fumo pensa a un tradimento. E così si scatena la gelosia e i fraintendimenti, fino alla risoluzione finale dove la coppia fuma insieme.

In questa operina di Wolf Ferrari non c’è da ricercare nulla di complicato. È proprio il gusto del comico, il piacere del divertimento e dell’intrattenimento nel recupero di una tradizione senza rinunciare all’introduzione di elementi estremamente moderni nella composizione musicale (Felix Mottl, direttore wagneriano della prima bavarese, definì Il segreto di Susanna “l’opera più wagneriana che io conosca”).

Discorso diverso per La voix Humaine di Francis Poulenc. Il testo di Cocteau introduce l’oggetto telefono come motore tragico. Testo nato per il teatro nel 1931 e banco di prova per le grandi attrici (in Italia la prima a cimentarsi con il testo fu Emma Gramatica e nella versione cinematografica in L’amore di Rossellini l’interprete fu Anna Magnani), approda sulle scene liriche soltanto nel 1957.

Lei, nient’altro che Lei, è in una camera da letto. Sola. Poi il telefono squilla e le porta la voce dell’amante che la abbandona per sposarsi con un’altra. L’oggetto è strumento di tortura, messo di notizie ferali e conclusive.

La voix humaine nella versione operistica di Poulenc vide la luce come detto nel 1957. Il suono del telefono in una partitura contemporanea non fa ormai scalpore più di tanto. Dopo la musique concrète di Pierre Schaeffer, le sirene di Varèse, le molle, gli ammortizzatori e il pianoforte preparato di Cage, non era certo uno squillo che poteva turbare.

Elemento veramente moderno sono invece i silenzi. 4’33” di Cage è del 1952 e Poulenc inserisce questo elemento, ormai portato a vero protagonista del mondo musicale e compositivo, per dare maggiore intensità drammatica all’opera. I silenzi sono a discrezione dell’interprete e del regista e dovranno essere concordati con il direttore d’orchestra. I silenzi sono destinati all’assente, colui che è dall’altra parte del filo del telefono. La musica invece è destinata a Lei, abbandonata in una casa vuota dall’amante di ieri e che domani sposerà un’altra.

La musica è frammentaria e frammentata come la telefonata. I temi sono solamente accennati, mai sviluppati. Raramente ritornano. Caso speciale il tema che sottende il ricordo della gita a Versailles.

La conversazione è spesso interrotta. Si inseriscono le voci delle centraliniste (sempre però destinate al silenzio). La linea cade e quando il telefono squilla di nuovo è uno che ha sbagliato numero. Tutto diventa tortura, stiletto che ferisce l’anima. E Lei è via via sempre più sconfitta dall’ineluttabile che viene da lontano, voce immateriale che provoca dolore fisico e forse anche una morte. Oggi probabilmente tutto avverrebbe per messaggini di What’s up.

L’allestimento delle due opere presentato al Teatro Regio porta per entrambe la firma di Ludovic Lagarde e vede entrambe le vicende ambientate nella stessa casa.

Se ne Il segreto di Susanna, lo spazio scenico è solo interno borghese supporta all’azione, ne La voix Humaine è vuoto all’apparenza confortevole che grava sull’anima di Lei. La casa diviene girevole, si passa dal salotto, alla camera da letto alla sala da bagno. Ogni ambiente è bianco sfavillante come un obitorio. E le stanze sono orribilmente vuote come la vita ormai solitaria di lei. Colorato è solo il telefono. Onnipresente e terribile come una spada di Damocle.

Il segreto di Susanna e La voix humaine sono due piccoli gioiellini di teatro musicale. Un intermezzo comico e una tragedia lirica che dimostrano le ampie possibilità del genere opera anche nel contemporaneo. Peccato che lo spazio per gli esperimenti nei teatri lirici sia schiacciato dall’invadenza del repertorio operistico classico.

Crystal Pite

BETROFFENHEIT: di Crystal Pite e Jonathon Young

Betroffenheit di Crystal Pite e Jonathon Young alle Fonderie Limone di Moncalieri è l’anteprima di TorinoDanza e inaugura la nuova direzione artistica di Anna Cremonini.

Betroffenheit è parola tedesca che indica uno sbigottimento che segue a un trauma. Lo spettacolo di Crystal Pite e Jonathon Young è il lungo cammino che viene percorso per superare tale perturbamento della coscienza per ritornare a vedere il mondo.

Betroffenheit è anche una storia personale, quella di Jonathon Young autore del testo e interprete in scena, che diviene materiale per la creazione artistica.

Lo spettacolo di Crystal Pite è costituito di due parti: una prima, racchiusa in una stanza, un regno di fantasia in cui si rifugia la mente, una trappola da cui è difficile uscire. Un luogo animato da strane presenze, in prima istanza amiche, quasi simpatiche, e via via sempre più inquietanti, invadenti, quasi ostili.

Le voci vengono da un esterno lontano, quasi presenze fisiche che trapelano da una cortina ipnotica, separata dal reale appartenenti a un’altra dimensione. L’azione è ricca di cambi di ritmo, quasi ossessivo montaggio delle attrazioni in uno strano cafè chantant che si anima in questa dilatata scatola cranica.

Questa prima parte di Betroffenheit, se si dovesse trovare un parallelo in musica, pare Spillane di John Zorn, dove stili musicali si avvicendano a ritmo forsennato inanellando immagini di una città oscura da noir d’anni ’30. In Betroffenheit di Crystal Pite avviene proprio questo, si passa dalla salsa, al tip tap, dalla cupezza di una stanza trappola, all’allegria forzata di una festa da carnevale di Rio. Tutto trapassa da una gradazione all’altra, da un caldo deserto a temperature polari.

A questa prima parte, tra teatro, danza e montaggio sonoro, ne segue una seconda più intima, quasi esclusivamente dedicata alla danza. La stanza è sparita, solo per un momento evocata da un fondale incombente. Uno spazio aperto, tagliato da luci chirurgiche e fredde, circondato da un nero impenetrabile. Al centro solo un pilastro, quasi nero monolite, materica presenza di qualcosa conficcato a fondo, difficilmente estirpabile.

Il materiale danzato si fa via via più intimo, personale, vissuto. Finalmente si riesce a superare la tecnica incredibile, il miscuglio di generi, il montaggio serrato verso l’emersione di materiali più semplicemente umani. Affiorano all’ultimo, nel duo e solo finali, le fragilità commoventi, l’instabile riconquista di sé, il superamento parziale dello sbigottimento.

Betroffenheit di Crystal Pite e Jonathon Young è uno spettacolo complesso, di grande abilità tecnica che mischia generi e stili in un percorso che gradualmente toglie gli orpelli per arrivare all’essenza. È, per contro, uno spettacolo freddo, che non riesce, se non alla fine, a toccare delle corde profonde.

Betroffenheit, per quanto molto ben accolto dal pubblico che lo ha lungamente applaudito, possiede un grande difetto: benché sia stato costruito abilmente, con ottimi interpreti e una potente drammaturgia, non riesce mai a diventare incandescente. É come un gigante gassoso che non è riuscito a diventare stella luminosa.

Il materiale umano, che pur era presente nella storia personale di Jonathon Young, non riesce, se non nell’ultima sezione della seconda parte, a divenire toccante, a superare la meraviglia per l’abilità degli interpreti o la sorpresa per la trovata stupefacente.

Betroffenheit è pieno di idee, di immagini ben costruite, con una regia e un montaggio veramente impeccabili, ma quasi mai riesce ad aprirsi una strada verso il cuore di chi lo osserva. È come se fosse anch’esso imprigionato in quella stanza, in quel mondo separato e bellissimo, ma pur sempre trappola che trattiene un volo.

Ph: @wendydphotography

Bestie di Scena

BESTIE DI SCENA: Emma Dante e lo sguardo di Kore

In questi giorni è in scena al Piccolo Teatro Strehler di Milano il tanto discusso Bestie di Scena di Emma Dante. Conoscete la storia del gatto di Schödriger? Quella del gatto che sta in una scatola con una fiala di cianuro? Il gatto ha le medesime possibilità di vivere o morire. Solo aprendo la scatola e osservando il fenomeno si scopre il suo destino. Bestie di scena è quella scatola: solo gettando lo sguardo dentro l’involucro nero della scena è possibile farne esperienza, osservare il fenomeno e trarne, ciascuno per sé, le conseguenze. Anche a livello quantistico “la realtà non esiste finché non la si misura”.

Le Bestie di scena, all’entrata del pubblico in sala, sono già lì. Fanno training, si riscaldano, in pantaloni della tuta e maglietta. Durante tutto il tempo in cui gli spettatori, l’occhio che osserva, si accomoda sulle poltrone, loro continuano il loro training di riscaldamento. In cerchio, passandosi e trasformando i gesti, a ritmo variabile, fino a riunirsi in un gruppo compatto, attraversando la scena a ritmo di corsa.

A poco a poco cominciano a spogliarsi in proscenio, uno a uno, mentre gli altri continuano a correre, fino a restare tutti nudi di fronte al pubblico, coprendosi a malapena le pudenda. Platea e Bestie di scena si osservano a vicenda. Eppure il peso dello sguardo è tutto dalla parte del pubblico. Improvvisamente siamo, noi spettatori, trasformati in tanti signor Palomar che osservano il seno nudo e non sanno cosa fare.

Con questo primo atto Le Bestie di scena ci trasformano e ci consegnano una responsabilità: chi guarda crea la realtà. Sta a noi scegliere quale. Gli antichi greci conoscevano l’assoluto potere dell’occhio che guarda. É lo sguardo di Kore, la fanciulla che di nome fa Pupilla, che concede realtà al ratto di Ade. È nel momento in cui Kore fissa il suo sguardo tagliente nell’occhio del dio dei Morti che tutto succede. Noi pubblico siamo Kore.

Il secondo atto, che segue allo sguardo che prende coscienza di se stesso e del suo potere, ne segue un secondo: la scena è un riflesso della platea. Ciò che gli attori fanno e subiscono sul palcoscenico, non è qualcosa che attiene alla loro professione/vocazione. Lo shakespeariano idiota che si dimena per un’ora sulla scena, non è solo l’attore, è l’umanità tutta, ed è misera, denudata, in azione perché agita da un deus ex machina che non si vede, ma è presente e tirannico.

Gli oggetti giungono da dietro le quinte. Ognuno crea delle conseguenze e delle visioni. Non c’è un percorso verso una meta o un obiettivo. Si passa tra un qualcosa a qualcos’altro. Non c’è progresso né evoluzione. E così fino alla fine quando dalle quinte piombano sulla scena i vestiti che non vengono più indossati. Lo sguardo alla fine si è normalizzato.

Bestie di scena non è solo un’opera che si trasforma nel coltello che taglia l’occhio nel celebre Un chien andalou di Bunuel, è anche un grande quadro dell’umanità indifesa, in balia di ciò che avviene, senza un progetto e un percorso. Un’umanità spesso in fuga che non sa dove andare perché non può sfuggire dal palcoscenico in cui la natura l’ha messa.

Le azioni sono sempre in qualche modo coatte e obbligate. Giunge l’acqua, le Bestie di scena si lavano. Quindi giungono gli stracci, e si pulisce il palco. Giungono le chips, le si mangia; giungono le scope, si ripulisce il palco. Tra l’arrivo dell’oggetto e l’azione c’è sempre una scelta, che è comunque una delle tante possibilità previste. La scena è una scacchiera. Per quante mosse possano fare i pezzi, il numero delle partite giocabili è sempre finito.

Di tutte le immagini che sorgono sulla scena, si potrebbe certamente riscontrare una corrispondenza con alcuni grandi temi che agitano la società: i petardi che scoppiano e mettono in fuga le Bestie di scena possono essere sia il terrorismo che la guerra; la bambola/automa che trasforma una donna in un suo alter ego, può essere vista come una metafora della condizione femminile, così come la ballerina di carillon. Ma questo riferirsi univoco trovo che sminuisca le immagini. Più che questo o quell’argomento specifico, ci troviamo di fronte a un grande affresco della condizione umana.

Bestie di scena, spettacolo del 2017 lo ricordiamo, mi rammenta due altri lavori diversissimi ma che risuonano, come dire, di una stessa aria: Filth di Ene Liis Semper e In girum imus nocte di Roberto Castello. Entrambi queste opere mettono in scena un’umanità senza scopo e senza destino da realizzare. In un caso in una gabbia di vetro e di fango, nell’altro in viaggio continuo tra luce e buio. Al contrario di Bestie di scena di Emma Dante sono totalmente privi di ironia, sono gelidi come strumenti chirurgici, sono implacabili nel dire la loro verità.

Bestie di scena al contrario, benché descriva un’umanità miserevole e senza scampo, possiede una visione in qualche modo mitigata dall’ironia sempre presente e da una forte valenza estetica. Il bello in qualche modo attenua la crudeltà dello sguardo.

Le scene che si susseguono sul palco, a partire dalla fontana d’acqua iniziale, passando per la ballerina, la bambola, il gioco con la palla e lo spadaccino, le scimmie alle prese con le chips, i lavacri nei secchi, persino le pulizie forzate del palco, sono tutte immagini con una forte valenza estetica, quasi rinascimentale.

Non c’è solo un continuo richiamo a La cacciata dal Paradiso di Masaccio, continui sono i riferimenti pittorici per esempio Les damoiselles d’Avignon o le Ballerine di Degas. Le luci poi disegnano in maniera impeccabile la scena. Questa forte patina estetica, questa bellezza delle immagini diffusa e costante, trovo che in qualche modo disinneschi la crudeltà di quanto si vede. La ammorbidisce rendendola come più digeribile. E lo stesso discorso vale per l’ironia: ridendoci sopra si scongiura quel destino ineluttabile, lo si ridicolizza rendendolo piccolo e meno pericoloso.

Il gran discutere che si è fatto su quest’opera da molti trovata scandalosa, lo trovo eccessivo. Guardando Bestie di scena l’ho trovato innanzitutto bellissimo, forse troppo. Non c’è quadro che non sia studiato nei minimi particolari, costruito nei minimi dettagli. La nudità è sempre dosata, per quanto incredibile, non ostentata, mai erotica, persin pudica. La nudità come ricerca di un grado zero al di là della maschera, operazione che in parte fallisce, in quanto anche il nudo alla fine diventa un costume di scena. Come diceva François Tanguy si può solo tentare di uscire dalla rappresentazione.

Quanto avviene sulla scena non è mai aggressivo né polemico. È una riflessione in forma scenica sullo sguardo e l’umanità, ma senza crudeltà, senza aggressività. Uno spettacolo ironico, pacato, bellissimo che non ha nessuna intenzione di scioccare, semplicemente far riflettere. Le polemiche, come al solito, sono nell’occhio che guarda, ma anche questo era previsto.

Talita Kum

TRE SPETTACOLI: TALITA KUM – NOTE SUL SILENZIO – INTIME FREMDE

Talita Kum, Note sul silenzio e Intime Fremde (i primi due in scena al Caffè Muller e l’ultimo all’Unione Culturale Franco Antonicelli) sono tre lavori che ho visionato durante il Torino Fringe Festival (in scena fino al 13 maggio). Benché i lavori siano molto diversi, li tratto insieme perché apparsi in un unico contenitore che li accomuna. Il Torino Fringe Festival è un evento che mi lascia molti dubbi e non amo particolarmente.

Le ragioni sono molte (scarsa comunicazione, trattamento economico riservato agli artisti, programmazione di spettacoli già ampiamente circuitati in città) e meriterebbero un articolo dedicato. Preferisco lasciare spazio alle opere che, benché contenessero ognuna dei difetti, avevano anche punti di grande forza e una certa delicata poesia che va difesa e messa in luce.

Talita Kum della Compagnia Riserva Canini è permeato di inquietudine e di quello che Freud chiamava: perturbante. Dapprima le ombre, dietro un velo; poi una figura nera e incappucciata che emerge; infine questa figura si sdoppia: l’uomo nero e una donna che appare indistinguibile da una bambola.

Le due figure condividono uno stesso corpo. Sono inscindibili. L’uomo in nero e la donna bambola. I doppi e l’automa così simile all’essere umano da non capire se sia vivo oppure no. I due che sono uno partecipano a una danza nella quale la donna perde le gambe e acquisisce un corpo, l’uomo in nero si dissolve rivelando la sua natura inconsistente.

In Talita Kum siamo nel mondo dei sogni e delle visioni. Ma siamo anche in uno dei territori propri del teatro: i doppi e i feticci, miti potenti, che mettono a disagio. Soprattutto le bambole da sempre gioco di bimbi e oggetto culto dei film dell’orrore, o della migliore fantascienza di Philip K. Dick con i suoi robot che non sono distinguibili dagli umani.

In Talita Kum l’atmosfera e la bravura dell’attrice Valeria Sacco sono il valore aggiunto che in quell’inconsistenza onirica, più vicina all’incubo che al sogno, trovano la loro casa naturale. Forse la drammaturgia può essere snellita e migliorata soprattutto nella prima parte in cui non si capisce veramente dove si vuole andare a parare. Per fortuna è solo una sensazione che presto svanisce e ci si lascia affascinare dall’avventura di inquietante attrazione che emana da ciò che accade in scena.

Note sul silenzio di Cirko Vertigo per la regia di Paolo Stratta non è veramente uno spettacolo, quanto più un omaggio al corpo in movimento e al silenzio. Quindici giovani esecutori si avvicendano sulla scena nel più completo silenzio. Solo i loro corpi e gli attrezzi che di volta in volta vengono utilizzati: il cerchio, il trapezio, il palo cinese, le corde e le stoffe.

Il silenzio, come aveva già scoperto Cage, non esiste. Gli scricchiolii delle corde in tensione, i moschettoni agganciati agli anelli, i respiri degli acrobati che si fanno via via più affannati, unico indizio a rivelar quanto sia difficile ciò che appare così semplice e naturale.

Non c’è nulla da capire, niente viene detto e niente appare che faccia riflettere o discutere all’uscita. Solo lo sforzo dei corpi, il loro distendersi e contrarsi in pose che non vorremmo prendere mai, la vertigine dell’altezza e la percezione di pericolo, la fascinazione della meraviglia. Gli elementi base del circo: niente più, che nel silenzio più completo e attento acquisiscono una luce e una consistenza diversa.

Intime Fremde di The Foreigner’s Theatre di Berlino è una performance teatrale prodotta dal Teatro del Lemming con Tatwerk/Performative Forschung. Il collettivo di quattro donne è diretto da Chiara Elisa Rossini.

Intime Fremde è un lavoro aggressivo, che impegna il pubblico fin da subito in maniera muscolare. All’entrata tre figure in tuta bianca e mascherina protettiva impongono di controllare non solo il biglietto ma i documenti. SI viene perquisiti, e divisi tramite un braccialetto di diverso colore. Le istruzioni sono gridate in lingue straniere. Fin da subito è chiaro che, varcando il confine tra la il foyer e il teatro, si entra a far parte di una comune riflessione sul tema della migrazione in tutte le più svariate forme in cui è possibile declinare la parola. Nazionalità, genere sessuale, appartenenza religiosa e via discorrendo. E il tutto in una forma sempre prossima al pubblico, quasi invadente, che mette a disagio perché il confine tra attori/performers e pubblico può venire infranto in ogni momento.

Intime Fremde è una performance che ha momenti di grande forza e immagini notevoli e di ampia efficacia. Pone domande scottanti, di allarmante attualità benché forse in maniera un po’ confusa, accumulandole tutte in un grande e impossibile mucchio. Si viene come mitragliati da questo caleidoscopio di pregiudizi, muri eretti tra simili, scatole in cui contenere identità che non devono mischiarsi, corpi esposti e poi sfregiati.

Questa abbondanza è forse anche la debolezza del lavoro, che laddove raggiunge un’intensità subito trapassa altrove smuovendo dal pantano della palude un altro tema, un altro sopruso. È come se si fosse in uno stadio di studio, dove il materiale è tutto lì in attesa di una definizione e focalizzazione, ma ci si rende conto anche che in realtà è la forma voluta e causata dalle tante domande senza risposta che questa società ci pone ogni giorno.

Ph: @Campagnia Riserva Canini

Chiara Bersani

INTERVISTA A CHIARA BERSANI: Unicorni e lampioni che illuminano il buio

Ho conosciuto Chiara Bersani l’anno scorso a Santarcangelo vedendo il suo Peeping Tom e da allora seguo il suo lavoro con molto interesse. La sua nuova opera si intitola Gentle Unicorn e debutterà, dopo una serie di residenze creative, il 13-14-15 luglio nella prossima edizione di Santarcangelo.

Enrico Pastore: Cosa ti ha spinto a frequentare la scena e a utilizzare questo supporto per manifestare le tue riflessioni?

Chiara Bersani: Credo che all’inizio di tutto ci sia il mio essere stata una bambina fisicamente fragile. Peculiarità del mio handicap è una fragilità ossea che proprio nell’infanzia ha la fase più acuta così io ero una bambina che si muoveva piano, poco, con cautela. Avevo l’energia atomica dell’infanzia in una struttura inadatta a contenerla. Per farla uscire da qualche parte ho iniziato presto a compiere una frenetica attività da “piccola filosofa”: osservavo, memorizzavo, rielaboravo, teorizzavo… avevo nella testa un complesso laboratorio di critica della realtà e a 8 anni ero una di quelle bambine che possedeva una teoria su tutto (ovviamente parliamo di teorie assurde e svincolate dalla razionalità).

Con l’adolescenza, ho fatto una scoperta che mi ha rivoluzionato la vita: il mio corpo adulto era forte. Qualcosa di ormonale che non so spiegare, unito al fatto che sono sempre stata seguita da medici specialistici ovviamente, ha ridotto in pochi anni in maniera significativa la mia fragilità e mi ha spinta, molto lentamente, a desiderare di sperimentare questo nuovo corpo che sembrava finalmente adatto al mondo. Sulla scena ho trovato il terreno fertile su cui coltivare e far esplodere questa meravigliosa fioritura.

Ecco come ci sono arrivata ed ecco perché nei primi anni non ho nemmeno lontanamente considerato l’ipotesi di diventare autrice: ero stanca di essere pensiero, volevo essere carne! Mi sono serviti anni di rivincita fisica prima di fare pace con la mia testa e concedere anche alla componente autoriale di emergere.

Come autrice non sono sicura che la scena sarà sempre il luogo idoneo per le mie creazioni. Fino ad ora è stato quasi sempre così, complice anche la mia profonda fascinazione per il potenziale di intimità tra artista, opera e fruitore che solamente la live art può dare.

Però mi piace ricordare che ogni questione richiede una forma e un linguaggio diverso per essere affrontata e che il mio compito nella creazione è anche quello trovare il canale più idoneo affinché l’opera esploda, anche a rischio di lanciarmi in terreni sconosciuti, anche a rischio di fallire.

Enrico Pastore: Quali funzioni assegni all’agire scenico e quali pensi siano le funzioni delle performing arts nel contesto attuale?

Chiara Bersani: All’agire scenico attribuisco prima di tutto una responsabilità.

Il suo essere radicalmente ancorata al presente come unico tempo possibile impone che lo spazio in cui si compie diventi piazza, con i venti liberi di correre tra le sue fessure. L’azione scenica, proprio perché portatrice d’urgenze, non può essere rigida. Solida, questo sì, ma sempre permeabile ai respiri e agli spostamenti d’aria di chi vi assiste.

Nella ribellione alle categorie, nell’abbracciare il termine performing arts come salvatore da un mondo artistico italiano troppo spesso incasellato in definizioni asfissianti (anche per doveri ministeriali, ma questa è un’altra storia), bisogna ricordare che ogni liberazione porta con sé possibilità e precipizi. È importante che gli artisti della mia generazione rinuncino ai porti sicuri, ai linguaggi consolidati, alle strutture ereditate dalle altre generazioni, alla creazione di “opere facilmente vendibili”, alle pressioni produttive, ai format sicuri e diventino corsari nel battere nuovi sentieri accogliendo il fallimento come una delle varie possibilità performative.

Siamo la generazione della crisi economica e allora possiamo concederci di fare del fallimento il nostro meraviglioso manifesto poetico. In fondo le performing arts ci aprono anche questa possibilità.

Enrico Pastore: In che modo, seppur c’è un modo, costruisci una tua performance?

Chiara Bersani: La mia amica Marta, ricercatrice universitaria, un giorno mi disse che io e lei avevamo la stessa metodologia di lavoro: vediamo un brandello di strada illuminato da un lampione, ci innamoriamo e decidiamo che impiegheremo i prossimi mesi/anni nel tentativo di costruire complessi sistemi di specchi che riflettano la poca luce illuminando quanta più strada possibile. Per scoprire, magari, che non c’era niente di quello che immaginavamo e abbandonarci alla deriva di ciò che troviamo.

Faccio fatica ad identificare un vero e proprio metodo di costruzione di una performance che sia idoneo ad ogni creazione. Mi piace però restare fedele all’ immagine della mia amica: trovare una piccola meraviglia e provare ad amplificarla, accettando che per farlo sono chiamata a muovermi nel buio.

Enrico Pastore: Che ruolo assegni al pubblico nei tuoi processi creativi? Chi è il pubblico per te: uno spettatore? Un componente della performance? Un performer a sua volta?

Chiara Bersani: Il Pubblico è l’amato/a che si presenta al primo appuntamento, con il suo carico di desideri e aspettative da mettere in dialogo con i miei.

Il Pubblico è mosso da una specifica intelligenza perché, fin dal momento in cui sfogliando il giornale o ascoltando la radio decide di prendere parte ad un evento, sta scegliendo. Quella sera il Pubblico cenerà un po’ prima per non fare tardi, si farà la doccia, magari metterà un abito più carino del solito. Oppure arriverà di corsa dal lavoro e non farà nemmeno in tempo a passare a casa per cambiarsi. O magari verrà a teatro ma l’opera a mala pena lo sbircerà perché quello è il primo appuntamento e la persona che ha accanto, forse, dopo gli darà un bacio…qualunque sia il percorso il Pubblico sarà lì per scelta e la possibilità di scegliere fa di noi esseri intelligenti.

Io sono la persona che li accoglie, la signora Dalloway che compra i fiori e sistema la casa. Ma sono anche la persona che avvia la conversazione condividendo le domande che mi fanno battere il cuore. Perché io, i performer e il Pubblico abbiamo accettato questo appuntamento, nessuno lo sta subendo. Affinché riesca bene la serata dobbiamo essere vigili insieme. Dobbiamo ricordare che ciò che avverrà questa sera, in questo teatro, dipenderà da entrambi: da come io condividerò le mie domande e da come ognuno deciderà di relazionarcisi. Sarà infatti una scelta personale se portare le questioni sollevate con sé nella notte o abbandonarle come macerie nel luogo dell’incontro.

Infondo non a tutti gli appuntamenti alla fine ci si innamora.

Enrico Pastore: Quale funzione assume la corporeità del performer nella tua idea di scena?

Chiara Bersani: Poli. Magneti. Presenze che con un movimento possono cambiare l’assetto del sistema solare.

Con i performer lavoriamo sempre alla ricerca di una presenza che catalizzi, accolga e diventi creatrice di senso ma che allo stesso tempo sia reattiva, vigile, pronta ad affrontare una via sconosciuta laddove la situazione lo impone. Se, come dicevamo prima, i corpi in gioco non sono solo quelli di chi abita la scena ma anche quelli di chi la osserva, i performer sono necessariamente chiamati a relazionarsi con le onde d’urto generate da fruitori sconosciuti.

Non è quindi possibile, per me, interrogarsi sui corpi performativi ignorando quelli degli osservatori.

Enrico Pastore: Parliamo della tua nuova creazione, Gentle Unicorn, quali sono le tue intenzioni nel rielaborare questa figura mitica? Quali le sue implicazioni con il nostro presente?

Chiara Bersani: Quando ho iniziato ad interessarmi alle origini di questa figura mi sono resa conto che eravamo davanti ad una creatura dal passato profondamente lacunoso e pertanto dall’identità fragile. Non c’è un momento nella sua storia in cui sia possibile identificarne la matrice. Ecco, sono partita da qui: dalla fragilità delle sue radici che si sposa a quella della mia forma. Più che rielaborare la sua figura ho provato a cercare i meccanismi che ci accomunano facendo dell’inafferrabilità di un’immagine la tensione-scheletro dell’intera creazione.

Il mio Gentle Unicorn è una creatura dall’identità precisa ma indefinibile, con un percorso autodeterminato e portato avanti fino al suo compimento…e sì, certo, sarebbe bellissimo se qualcuno lo seguisse, ma andrà bene anche se dovrà camminare da solo.

Non amo essere troppo esplicita nel suggerire letture o agganci con il presente. Ovviamente questo lavoro è stato fortemente alimentato da una serie di dibattiti del nostro tempo. Potrei azzardare a dire che ogni cosa, dall’utilizzo delle luci alla musica, dall’azione alla comunicazione, sia stata scelta sulla base di riflessioni politiche. Voglio però lasciare il Pubblico libero di trovare un proprio modo di vivere l’opera senza essere troppo informato da quello che è stato il mio percorso nella creazione. In performance come questa, dove si sceglie di rinunciare alla parola in nome della suggestione, credo sia importante per l’autore accettare che ogni fruitore vedrà qualcosa di diverso e alcune scintille che hanno generato il pensiero forse siano andate perdute.

Enrico Pastore: Qual è stato il percorso produttivo di Gentle Unicorn? E quando sarà il suo debutto ufficiale?

Chiara Bersani: Gentle Unicorn è un lavoro prodotto in Italia e tutti sappiamo com’è la situazione per chi si muove al di fuori del circuito dei Teatri Nazionali. Gli artisti, i festival, le piccole realtà produttive, i circuiti di residenze…tutto è fagocitato da un sistema produttivo al collasso in cui è quasi impossibile capire quale sia il miglior tentativo di resistenza. Resistere significa produrre nonostante tutto o fermarsi fino a quando determinate condizioni minime non saranno garantite?

Io, da artista, non lo so.

Insieme a Eleonora Cavallo (organizzatrice di produzione) e Giulia Traversi (curatrice e promoter) abbiamo deciso che per noi, per questa volta, resistere significava portare l’Unicorno al debutto.

Gentle Unicorn, come molte creazioni italiane, è nato itinerante grazie ad una concatenazione di residenze che hanno permesso al lavoro di mettersi alla prova in spazi e realtà diverse. In tutto il suo percorso, questo lavoro, è cresciuto sotto l’occhio attento di curatori estremamente generosi che in questo anno mi hanno accompagnata costantemente, prendendo treni per vedere gli sharing o inviandomi riflessioni, foto e video quando un Unicorno, per caso, gli attraversava la strada.

Gentle Unicorn debutterà al festival di Santarcangelo il 13 – 14 – 15 Luglio, a coronamento di un fitto dialogo sulle implicazioni politiche dei corpi che da due anni porto avanti con le direttrici artistiche Eva Neklyaeva e Lisa Gilardino. Ci sarà però anche un secondo debutto ovvero quello della versione museale con il titolo Seeking Unicorns che si terrà in un’altra realtà alla quale sono molto legata ovvero Operaestate Festival nella sezione di B.MOTION DANZA, Bassano del Grappa, il 22 e 23 Agosto.

Ph: @CentraleFies

Border Tales

BORDER TALES: Di Luca Silvestrini, Protein (UK)

L’8 maggio è andato in scena alle Lavanderie a Vapore di Collegno lo spettacolo Border tales di Luca Silvestrini per la Compagnia Protein.

Border Tales nasce in una prima versione nel 2013 e torna sulle scene, in una seconda versione, nel 2017 al Fringe di Edimburgo ottenendo un grandissimo successo di pubblico e critica.

Sette danzatori di provenienze e origini geografiche diverse si incontrano sul palco e si confrontano su tutti i possibili pregiudizi a cui vanno incontro giorno per giorno. Yuyu è taiwanese, eppure la gente la saluta in giapponese, o pensa che non vuol stringere la mano perché gli orientali rifuggono il contatto. Eryck è di origini pachistane, ha la barba ed è mussulmano e ogni giorno fronteggia le paure di chi lo incontra vedendo in lui un estremista.

Ma le cose funzionano anche a senso inverso: Andrew è inglese per cui il venerdì deve ubriacarsi o andare allo stadio come un hooligans? E tra Andrew, inglese, e Stephen, irlandese, non ci sono gli stessi pregiudizi benché condividano in buona parte la stessa cultura e la stessa lingua? Protestante o cattolico? London Pride o Guiness?

Border tales però non racconta solo episodi sui pregiudizi razziali (e ricordiamo per inciso che le razze non esistono), ma racconta una società che vuole integrare per livellare, non abbraccia le differenze ma desidera appiattirle. Come racconta Kenny, originario di Hong Kong: “mi sono trovato a scuola con la divisa che era per tutti uguale, ma in questa uguaglianza risaltavano le differenze”.

Border tales racconta il fallimento di una politica che non è solo inglese. L’integrazione è rendere uguale ciò che è diverso. Si cerca di far diventare europei chi non lo è, per far diventare gli stranieri come noi, riassorbendoli nella nostra identità, benché sia quest’ultima a essere debole e fragile.

Border tales racconta con ironia e leggerezza della Gran Bretagna pre- e post-Brexit, ma quello che accade in scena lo possiamo ritrovare ogni giorno scendendo nelle nostre strade, prendendo l’autobus o un caffè al bar, non solo in Gran Bretagna. Gli italiani non sono più tolleranti o meno razzisti degli inglesi. Tutti siamo pregni di pregiudizi, vogliamo appiattire l’altro che non conosciamo a misura della nostra pochezza. Si ha paura di ciò che non si conosce perché pensiamo che tale differenza mini la nostra identità. E così, nonostante si condivida una medesima umanità, continuiamo a vedere nell’altro uomo un nemico e non una possibilità.

I confini evocati all’inizio e alla fine dello spettacolo, in quella linea discontinua che divide arbitrariamente la scena come i confini nelle ex-colonie, non sono solo tra nazioni e continenti, ma tra generi sessuali, professioni, età della vita, colore della pelle.

In Border tales interessante è la presenza di stereotipi nella danza, con elementi e gesti orientali, mediorientali, latini, afro, con abilmente si mischiano con quelli raccontati a parole. Il gesto del corpo e la parola si intrecciano in un contrappunto di narrazioni che sviluppano, con l’arma dell’ironia, la vacuità dei pregiudizi sullo straniero.

Border Tales mi ricorda molto The blind poet di Jan Leuwers, e non perché i due spettacoli siano simili, ma in quanto raccontano, da due opposte balze e con tonalità differenti, l’impossibilità di essere in qualche modo puri e esenti dall’incomprensione che il pregiudizio porta con sé. Come alla lontana tutti noi siamo stati invasori e invasi, come ognuno di noi ha antenati che hanno lasciato le proprie terre per andare altrove, così nessuno può dirsi privo di un alterità.

L’ironia è poi l’arma in più perché disinnesca la minaccia con una risata. Di fronte al riso tutto crolla come per effetto delle trombe di Gerico. La leggerezza ironica è dunque l’elemento che rende questo spettacolo così godibile pur restando profondo.

L’operazione delle jesino Luca Silvestrini e della Compagnia Protein è dunque interessante e riuscita. L’arte si occupa del reale, lo discute e lo disseziona insieme al pubblico mettendo in discussione le nostre posizioni in una forma forse troppo confortevole (il razzismo e l’intolleranza sono una piaga che continua ad ammorbare le nostre società). Border tales resta uno spettacolo intelligente, fruibile e che non rinuncia a scandagliare le crepe che intaccano il nostro tempo e le nostre società. Farlo con il sorriso sulle labbra è certo un valore aggiunto.

Ph: @Jane Hobson

Birds Flocking

BIRDS FLOCKING: duo di Daniele Albanese e Eva Karczag

May days, Incontri con la danza d’autore, organizzati dal 1 al 6 maggio da Europa Teatri e Teatro delle Briciole a Parma, si concludono con Birds Flocking, il primo studio del nuovo lavoro firmato da Daniele Albanese in duo con Eva Karczag.

Il titolo è quanto mai evocativo: Birds Flocking. Richiama alla mente i volteggi degli stormi d’uccelli nei periodi di migrazione, il costruire e distruggere geometrie frutto di un continuo tiramolla tra casualità e organizzazione.

Un titolo, a volte, è anche una trappola. Costringe a cercare una corrispondenza immediata, oserei dire scontata, invece di lanciarsi in quel gioco delle perle di vetro per connettere cose e pensieri tra loro lontani che in qualche modo risuonano.

Un gioco delle corrispondenze che si concreta nel richiamo del volo e della migrazione, nella libertà di cambiare inaspettatamente direzione. Due corpi che condividono uno stesso spazio e, nell’essere punti in movimento, lo duplicano in un altrove sterminato che sta al di là, e in un tra loro che si contrae e distende come un elastico. Ma vi è anche lo spazio del pubblico, che sta di fronte e osserva, ma potrebbe essere ovunque. L’occhio che osserva, apprende e comprende, e infine modifica con la sua osservazione quanto avviene.

I corpi abitano una connessione, stanno insieme senza essere uguali, senza condividere una stessa modalità, velocità, direzione; ed è proprio in quella coesistente diversità, non mai sincrona ma semplice compresenza, che si sostanzia la possibilità di migrazione delle conoscenze corporee.

Birds flocking intreccia la fissità della forma con la fluidità dell’improvvisazione, causalità e casualità; e si sostanzia nei percorsi di due stelle binarie di velocità e massa diverse che gravitano una sull’altra, attraendosi e respingendosi, ruotando liberi in uno spazio infinito e indefinito, rispettando e infrangendo le regole da loro stesse di volta in volta stabilite.

Una compresenza di movimenti che genera scambio di energie, modalità, desideri e pulsazioni. Una serie di stazioni, in un percorso che culmina nel contatto, breve e significativo, dove il migrare si concreta e in un battito d’ali si svapora. Eppur tutto è cambiato, perché quel tocco ha mutato lo stato dei corpi, la loro reciproca interazione, la capacità di coabitare.

Birds flocking canta l’esistenza: due corpi che vengono dal buio alla luce, convivono, si scambiano esperienze, si toccano e poi svaniscono, dalla luce al buio, così come son venuti. Pensiero profondo di una fisica del movimento.

Dunque Birds flocking non è tanto un volare di stormi, quanto un gesto artistico e politico che con gli strumenti propri della danza parla e riflette sulla natura dell’esistere e del con-vivere. Ulteriore indizio è la musica, di Luca Nasciuti, piena di voci di mercati e stazioni, di voci straniere compresenti nei luoghi di scambio.

Suggestivo e pregnante il disegno luci di Fabio Sajiz, che scolpisce continui cambi di prospettiva e punti di vista, modellando le profondità e la plasticità dei corpi, donando consistenza e fisicità agli spazi che si dilatano e contraggono per effetto del movimento.

Birds Flocking è ancora in fase di primo studio (il lavoro prevede nei desideri di Daniele Albanese ancora un lungo percorso di raffinazione per un debutto previsto nel 2019), ma possiede già una notevole e solida consistenza che attrae senza possibilità di fuga lo sguardo dell’osservatore. Un primo stadio che possiede robuste fondamenta e ottimi interpreti e ci rende trepidanti e curiosi di vederne i successivi sviluppi.

Ph: @AndreaMacchia

Angelo Mai

SULLA CHIUSURA DELL’ANGELO MAI

A Roma si chiude l’Angelo Mai, luogo di cultura e di socialità. Lo chiude il Comune di Roma e la Polizia Municipale per l’Assessorato al Patrimonio. Ovviamente l’Assesorato alla Cultura nulla sapeva. Ovvia disputa fra assessorati  e ora tutto è sospeso per venti giorni per cercare una soluzione che bypassi l’ordinanza di sgombero del 2016.

È un fatto grave che si ripete. E non solo nei confronti di questo spazio in particolare. È una consuetudine anche perché molti spazi vengono restituiti alla comunità dei cittadini tramite riappropriazioni e occupazioni più o meno legali. Sono restituzioni al pubblico di ciò che il Pubblico dissipa. Ma in questo piccolo scritto non voglio tanto e non solo essere solidale o analizzare il fatto particolare, quanto provare ad ampliare lo sguardo.

Negli ultimi anni sono continue e preoccupanti le notizie riguardanti occupazioni e sgomberi, o conflitti tra Comuni e Associazioni che gestiscono spazi pubblici di cultura che sono in primo luogo della cittadinanza (e penso al Teatro dell’Orologio, sempre a Roma, al Dialma Ruggero a La Spezia, ma la lista potrebbe farsi infinita).

Se sommiamo queste notizie al continuo e inarrestabile contrarsi del sostegno economico pubblico e il relativo ritardo nel pagamento (a volte si arriva a 24 o 36 mesi), alle barriere burocratiche messe in atto per accedere ai bandi di finanziamento delle fondazioni bancarie, è lampante come risulti sempre più difficile il rapporto con le istituzioni.

Potremmo piangere, disperarci, indignarci per quanto accade oggi all’Angelo Mai ma sarebbe anche ora che tutti questi fatti, e non solo quello di oggi, ci portassero a una seria riflessione su quale sia oggi il ruolo della cultura nella visione della politica e cosa possa fare la cultura (intendo operativamente, proponendo delle soluzioni alternative) per sopravvivere in questa temperie.

Il rapporto tra cultura e potere è da sempre problematico. Come dice Bauman l’uno tende a conservare lo status quo, l’altra a metterlo in crisi. I due termini, sempre per citare Bauman: “perseguono finalità opposte e sono in grado di coabitare solamente in modo conflittuale, combattivo e sempre pronto allo scontro”. La parola stessa “cultura” intrattiene in sé stessa l’idea di controllo di ciò che nasce spontaneo.

Ora il problema non è solamente che si chiede a chi fa cultura di presentare dei prodotti che rispondano alle esigenze della burocrazia e del management bancario, ma risiede nella completa soggiacenza della cultura all’accoglimento delle domande di sostentamento. La ribellione è stata disinnescata.

Se guardiamo oltre confine, per esempio in Francia dove le serrate dei teatri sono state compatte e furiose, nel nostro paese vediamo cumuli di lamenti ma poche azioni condivise che siano di efficace contrasto ai soprusi della politica. Si cancellano festival, si negano pagamenti per anni, si chiudono spazi riconosciuti per la loro attività culturale di pregio, si cancellano spazi storici di azione culturale eppure, a parte le proteste del momento, tutti si torna a riverire l’assessore di turno.

Nessuno osa ribellarsi veramente. Si urlicchia un po’, si occupa per qualche tempo, ma poi l’iter torna a essere per tutti uguale. Per quanto la vicenda della serrata dell’Angelo Mai sia grave, essa non è che un sintomo. Il limitare l’incremento dei finanziamenti ministeriale al 5% è qualcosa di molto più grave, perché impedisce la crescita e l’investimento.

Se una compagnia o un festival ha preso in prima istanza quindicimila euro non potrà sperare in nessun salto di qualità. O dovrà cercare soluzioni alternative. Per quanto il suo progetto sia meritevole, non verrà premiato. Congelamento della crescita. Il che porta come conseguenza che alle prime istanze o si ottiene un congruo sostegno o si è praticamente impediti sul nascere.

L’Angelo Mai chiude, ma a avvolgersi intorno al collo degli operatori di cultura è una serpe che ha molte teste. Già Carmelo Bene profetizzava questa situazione negli anni ’90. Diceva CB che lo Stato pensa ai mediocri se no chi ci pensa? Quello che interessa allo Stato è un’aurea mediocritas non l’eccellenza. Gli si fa guerra all’eccellenza e urgono risposte condivise, azioni comuni e dialogo, tanto dialogo per costruire strategie efficaci di contrasto.

Ballo 1945 Grande adagio popolare

BALLO 1945 GRANDE ADAGIO POPOLARE: Il primo maggio di Virgilio Sieni

Ieri nella grande fabbrica di Fiat Mirafiori non più destinata alla produzione, ha preso vita il progetto Ballo 1945 Grande adagio popolare di Virgilio Sieni con più di cento performers di tutte le estrazioni. Il progetto segue quello di Altissima Povertà e rinnova l’alleanza tra il grande coreografo fiorentino e l’Associazione Didee.

Ballo 1945 Grande adagio popolare prende avvio da alcune suggestioni: il luogo, innanzitutto, la fabbrica nel giorno della festa del lavoro. Uno stabilimento dismesso, non più produttivo che viene riqualificato dall’azione performativa di una comunità che crea insieme un oggetto immateriale, non merce né prodotto, ma esperienza di popolo, non calata dall’alto ma condivisa.

Un’immagine: Il Quarto Stato di Pellizza da Volpedo presentato proprio a Torino per la prima volta nel 1902. Un pretesto quegli uomini in marcia. Un punto di partenza per sviluppare un percorso.

Una geografia: politica e sociale che si sviluppa a partire da mappe e percorsi di corpi in movimento in uno spazio ormai privo di funzione, vivo solo di un passato, privo di un presente alla cittadinanza, per non dire di un futuro. Una riappropriazione della comunità di uno spazio, non più incognitus, ma riqualificato dall’agire insieme, dall’esperire insieme.

Ballo 1945 Grande adagio popolare è un cammino di una massa che prende possesso di un luogo. Un gruppo che si muove compatto riunendo e accogliendo le differenze che lo animano. Nel cammino seminano le azioni di singoli e di piccoli gruppi che presto vengono riassorbiti da quell’incedere irrefrenabile.

Una madre con figlia, un gruppo di immigrati, delle donne, semplici gruppi di persone di tutte le età, sesso e condizioni. Cellule di un corpo in movimento perenne, che come uno squalo muove perché la stasi è morte. Non stiamo parlando di progresso, di un incedere verso una meta prefigurata, ma di una manovra verso nuove configurazioni, allineamenti, assestamenti.

È il ritorno del tempo antico della metamorfosi, dove tutto partecipava alla natura del tutto. Quel tempo forse irripetibile, utopico, prima dell’impero della tecnica dove le parti sono specializzate e hanno uno scopo. Qui il gruppo si muove e genera nuove fisionomie che sono frutto di un agire senza progetto, generazioni spontanee ed equivoche, perché non finalizzate. E il tutto nel luogo della tecnica, la fabbrica, dove ogni pezzo assume un ruolo e una funzione secondo specifiche immodificabili, del lavoro in linea dove ciò che precede anticipa ciò che seguirà.

Ballo 1945 Grande adagio popolare è anche un mosaico dedicato all’accoglienza, alla condivisione, alla partecipazione. Il suo gesto da antico umanista, fiducioso nell’umanità, restituisce l’idea di un gruppo sociale che procede insieme sostenendo tutti, accogliendo tutti (e nelle figure ritornano i motivi delle deposizioni, delle pietà, del sostegno). Parrebbe un gesto politico e artistico ingenuo ai cinici, eppure nella sua manifestazione risulta commovente come pochi altri. È un gesto politico e artistico fuor dai termini della ragione giudicante. È un atto di fede e di fiducia illimitato e perciò potente perché ingiustificato.

Vedendo Ballo 1945 Grande adagio popolare mi tornava in mente un piccolo grande racconto di Kafka dal titolo Di notte. Non per assonanza, quanto più per contrappunto. Una grande massa di uomini in un deserto sterminato sdraiati dove prima erano in piedi. Un uomo solo con un lume perché uno deve vegliare, uno deve esserci, qualcuno deve pur aver fiducia.

Di Ballo 1945 Grande adagio popolare ho avuto il privilegio di vedere anche la prova generale e vedere una volta di più la grande umanità di Virgilio Sieni nel lavoro di coreografia. Non impone una visione, suscita piuttosto un atteggiamento di concentrata presenza. É il suo un mettersi a disposizione che invita a seguirlo in un percorso che si costruisce. Non è Sieni un capriccioso dio della danza che impone i suoi voleri, ma più un artigiano umanista animato da profondo amore e compassione per ciò che fa e verso coloro con cui lo fa. È il suo un mettersi a disposizione, un donarsi che si nutre dello scambio di doni vicendevoli con la folla che partecipa con lui alla costruzione di questa marcia.

Ph: @Giorgio Sottile

Oyes

VANIA di Oyes: tra immobilismo e rimpianto di una vita che non c’è.

Ieri sera per la rassegna Schegge di Cubo Teatro è andato in scena al Cecchi Point Vania della Compagnia Oyes, recentemente insignita del Premio Hystrio Iceberg.

Vania è ispirato al dramma di Cechov Zio Vania attraverso una riscrittura comune che aggiorna i temi del grande maestro russo a un paesino di provincia italiano. Quattro i personaggi in scena più il Professore, presente in assenza. Di lui solo un suono di respiratore che lo fa né vivo né morto.

La moglie Elena, la figlia Sonia, il fratello Ivan e il Dottore, non stanno meglio di lui. Certo si muovono, sono coscienti, ma sono anch’essi appartenenti a un mondo in cui la vita non è presente se non in un altrove dislocato nel tempo o nello spazio geografico lontano. Questi mondi immaginari sono per tutti il paese dei balocchi, laddove tutto è possibile, dove è realizzabile una qualche felicità.

I quarantenni volgono lo sguardo al passato, la giovane nipote a Londra, la bella Elena guarda ad altri uomini: tutti impossibilitati a trovare quel che cercano nel loro qui ed ora. I personaggi sono bloccati verso una qualsiasi azione efficace, incapaci di contrastare la forza d’inerzia che li trascina a un tetro immobilismo.

In questa riscrittura di Cechov, Oyes mantiene la forza espressiva che promana dai suoi testi sempre rivolti all’emersione del dramma dal piccolo noioso quotidiano. Dolori intensi e struggenti, speranze infrante, illusioni irrealizzabili, amori spenti e disillusi: tutto nel lento chiacchiericcio domestico, nell’agire d’ogni giorno tra una tisana e la spesa, tra un cambio di lenzuola e una sbornia al bar.

I personaggi intorno all’infermo sono anch’essi tutti malati, appestati dal male di vivere senza entusiasmo, illuminati da lampadine che non sono altro che aste da flebo. A turno visitano il Professore, e dalla stanza dedicata al dolore si immergono nel flusso dell’anonimo e scialbo vivere d’ogni giorno.

Non ci sarà evoluzione. Il blocco rimane tra l’aspettare Godot e la rassegnata certezza che mai arriverà.

Quella di Oyes per Cechov è un vero esercizio di ammirazione, frutto di uno studio attento e di una passione costante (altri due i lavori della compagni dedicati alla sua drammaturgia: Io sono il Gabbiano e Anton).

Convincenti gli interpreti: naturali, sebbene forse un po’ raggelati all’inizio, intensi, misurati. Piccola sbavatura solo l’inutile nudo mezzo busto della moglie Elena nel finale.

La riscrittura dosa ironia e dolore, rendendo sopportabile quel cumulo di dolore e immobilismo. Certo non siamo di fronte a un teatro di reale innovazione, soprattutto nella regia e nell’interpretazione.

La regia è appiattita su movimenti orizzontali, con scene chiuse. La recitazione è classica seppur non ammorbata da una dizione falsa come le monete di cioccolato. Benché si sia svecchiato il linguaggio siamo nell’alveo del teatro di tradizione e della rappresentazione.

Vania di Oyes è un lavoro ben costruito dunque, e ben recitato, che tocca l’animo e il cuore del pubblico con una storia che ci appartiene e che ci fa riflettere sulla nostra vita e su quanto siamo in grado di viverla pienamente. Tutto questo con un linguaggio scenico conosciuto, senza ansie avanguardistiche, ma forse un po’ datato e impolverato. Non basta aggiornare un testo per trovarsi di fronte a un teatro contemporaneo.

Benché sia sempre refrattario agli stilemi della rappresentazione classica, di fronte a lavori ben fatti come questo, ne riconosco l’efficacia ma mi domando: non è possibile raggiungere lo stesso effetto sfruttando le conquiste della migliore tradizione del Novecento senza per forza ancorarsi a stilemi funzionali ma stantii? Non sarebbe più auspicabile il coraggio di affrontare modalità più moderne per raccontare a teatro? E ancora: non si commette lo stesso peccato dei personaggi di Cechov nel conformarsi agli stilemi tradizionali, seppur aggiornati, invece di lanciarsi all’adozione di nuove tecniche anche se non conferiscono la certezza del risultato?

Sono domande che mi pongo sempre più spesso e mi piacerebbe vedere più coraggio nei giovani artisti, non tanto nella ricerca del nuovo per il nuovo, quanto nell’emersione di un vero linguaggio scenico moderno, che sfrutti le potenzialità del teatro invece di adagiarsi sul conosciuto sfruttamento di un testo letterario.

Queste sono ovviamente solo mie piccole paturnie. Vania di Oyes è uno spettacolo che funziona e fa pensare e forse questo è già abbastanza.