Giuseppe Provinzano

LO STATO DELLE COSE: INTERVISTA A GIUSEPPE PROVINZANO

Per la ventiquattresima intervista de Lo Stato delle cose incontriamo nella stupenda Palermo Giuseppe Provinzano. Lo stato delle cose è, lo ricordiamo, un’indagine volta a comprendere il pensiero di artisti e operatori, sia della danza che del teatro, su alcuni aspetti fondamentali della ricerca scenica. Questa riflessione e ricerca partita lo scorso dicembre crediamo sia ancor più necessaria in questo momento di grave emergenza per prepararsi al momento in cui questa sarà finita e dovremo tutti insieme ricostruire.

Giuseppe Provinzano è Attore, regista e autore. Diplomatosi alla Scuola di Recitazione del Teatro Biondo di Palermo, studia inoltre all’Ecole des Maitres e all’ Heiner Muller Geselshaft. Inizia la carriera nel 2001 nel Candelaio di Ronconi. Dirige lo Spazio Franco a Palermo.

D: Qual è per te la peculiarità della creazione scenica? E cosa necessita per essere efficace?

Credo sia difficile per chiunque si muova all’interno di un percorso di ricerca definire nettamente la peculiarità della propria creazione scenica: essa é composta da diversi elementi la cui composizione va a definire il proprio lavoro. Questa “composizione”, se parliamo di un percorso di ricerca, è sempre in continua mutazione laddove, se cosí non dovesse essere, potremmo parlare piuttosto di un percorso assimilabile alla definizione di bestie da stile di pasoliniana memoria ( una “cosa” funziona, piace e la ripeto stilisticamente quante più volte, finché funziona). Per quanto mi riguarda credo che la peculiarità della creazione scenica stia proprio in questa continua ricerca di una “nuova ricetta” tra i vari elementi che la compongono, nella definizione di una nuova “formula”: che sia una nuova storia da scrivere su un tema di cui sento necessario lo studio, la stesura di nuove strutture drammaturgiche che definiscono nuove relazioni tra nuovi personaggi, nuove parole e nuovi linguaggi, nuove interpretazioni di un testo così come nuove traduzioni (che contemplino l’etimologico significato di tradere), nuove modalità di approccio nel lavoro registico, attoriale e scenico, nuovi percorsi per interpretarli. In ogni pratica del lavoro teatrale, ritengo peculiare la capacità del processo creativo (e in qualche modo anche della singola creazione) di essere sempre diversi da se stessi, o meglio ancora, di percorrere un processo in continua evoluzione (da un lavoro a un altro ma anche da una recita a un’altra): in riferimento agli spazi sempre diversi che si attraversano, al tempo che scorre, ai luoghi e i suoi contesti sociali, ai temi affrontati e alla loro contemporaneità mutevole.

Io personalmente amo gli artisti che rischiano (nel teatro, nella danza, nel cinema, nella musica ecc ecc), quelli di cui percepisco il rischio che si prendono nel cercare sempre qualcosa di diverso e/o in evoluzione, disattendendo (e fregandosene) le aspettative stilistiche da parte di pubblico e operatori, mentre, sebbene ne riconosca e ne apprezzi le qualità, sono meno curioso nei confronti dei “bei confezionamenti” anche quando questi risultano splendidi. L’assunzione e la consapevolezza di un rischio li considero elementi peculiari in una creazione scenica.

Inoltre peculiare é per me la coltivazione di un continuo dubbio da dirimere, da vivere e interpretare ogni singola replica e da restituire al pubblico, coltivare le domande che fanno necessaria la creazione come materia viva. Tenere vivo il processo e l’atto creativo in un continuum che va oltre la rappresentazione in sé. Questo si collega in qualche modo con la necessità di un’efficacia o a che cosa sia necessario perché lo sia: credo che il teatro sia sempre un atto politico, un atto sociale che si rivolge a un pubblico vivo e di cui avere sempre grande rispetto: credo molto alla funzione sociale, politica e culturale dell’atto teatrale. Ogni volta che mi trovo in difficoltà ho la fortuna, a Palermo, di passare davanti al Teatro Massimo e leggere sul frontone la seguente frase che in merito scioglie spesso i miei dubbi. L’ARTE RINNOVA I POPOLI E NE RIVELA LA VITA, VANO DELLE SCENE IL DILETTO OVE NON MIRI A PREPARAR L’AVVENIRE.

Giuseppe Provinzano Munnizza

D: Oggi gli strumenti produttivi nel teatro e nella danza si sono molto evoluti rispetto solo a un paio di decenni fa, – aumento delle residenze creative, bandi specifici messi a disposizione da fondazioni bancarie, festival, istituzioni -, eppure tale evoluzione sembra essere insufficiente rispetto alle esigenze effettive e deboli nei confronti di un contesto europeo più agile ed efficiente. Cosa sarebbe possibile fare per migliorare la situazione esistente?

Rispondere a questa domanda proprio in questi giorni di emergenza nazionale, le cui misure restrittive stanno mettendo a dura prova tutti i settori produttivi, dando però la netta sensazione di quanto fragile sia lo spettacolo dal vivo, sposta di molto la sostanza della mia risposta. Siamo in attesa delle contro-misure ma mi sembra oggettivo che questo stia ricevendo una mazzata dalla quale risollevarsi sarà ben più complesso che in altri settori se non prevedendo degli interventi Pubblici concreti e massicci e probabilmente, lo spero davvero, ci troviamo di fronte a un punto di non ritorno.

Partendo dalla tua sollecitazione, laddove mi citi a confronto (e giustamente) “un contesto europeo più agile ed efficiente”, qualche settimana fa ti avrei forse parlato della necessità di migliorare i modelli di produzione e renderli capaci di una sostenibilità di medio-lungo termine, sviluppando quei modelli capaci di dirigersi verso quella che all’estero viene definita creazione produttiva sovvertendo il focus semantico rispetto alla comune produzione creativa; ti avrei detto, senza troppi giri di parole, di non poter nemmeno paragonare i modelli europei se non partendo dalla condizione necessaria di investimenti maggiori sulla cultura da parte dello Stato pari almeno alla media europea; ti avrei parlato della necessità di una più adeguata professionalizzazione dei mestieri dello spettacolo a tutela dei lavoratori stessi, avrei accennato alla mobilità internazionale, insomma avrei forse risposto elencando tutte quelle tendenze, di mia conoscenza, del comparto dello spettacolo verso la cui direzione si muove il resto d’Europa e che si possono sintetizzare nella necessità di andare oltre al concetto pseudo-capitalistico che sta ammantando il nostro settore del produci-debutta-crepa-produci di nuovo, puntando piuttosto al percorso di crescita, di sostegno e consolidamento del lavoro e delle pratiche degli artisti e degli operatori e del loro impatto sul mercato… ecc ecc . Beh tutti ragionamenti che, in questi giorni in cui abbiamo visto emergere la fragilità del nostro sistema lasciano il tempo che trovano: ci siamo scoperti di colpo inconsistenti, pur sapendolo già, abbiamo scoperto quanto é vano ed etereo il nostro lavoro, non certo da un punto di vista artistico o culturale, ma sicuramente da un punto di vista, chiamiamolo per intenderci, “sindacale”. Spero che, superata l’emergenza, un punto dal quale ripartire sia quello di andare a consolidare alla base il nostro lavoro con maggiori investimenti pubblici, come servizio essenziale successivo solo a Sanità e Istruzione. Per entrare nel dettaglio delle nostre pratiche vorrei si ragionasse una volta per tutte su una nuova, agognata da tempo, considerazione della dinamica del nostro lavoro e aver riconosciuto anche in Italia il concetto di lavoro intermittente quale naturale riconoscimento dello stato delle cose dei mestieri dello spettacolo. E se il primo di questi aspetti può sembrare un’utopia, il secondo sarebbe anche di facile attuazione laddove si riesca, una volta per tutte, a essere coesi e richiedere come comparto una svolta epocale ma, alla luce di quanto disastrosamente in atto, fondamentale. 


D: La distribuzione di un lavoro sembra essere nel nostro paese il punto debole di tutta la filiera creativa. Spesso i circuiti esistenti sono impermeabili tra loro, i festival per quanto tentino di agevolare la visione di nuovi artisti non hanno la forza economica di creare un vero canale distributivo, mancano reti, network e strumenti veramente solidi per interfacciarsi con il mercato internazionale, il dialogo tra gli indipendenti e i teatri stabili è decisamente scarso, e prevalgono i metodi fai da te. Quali interventi, azioni o professionalità sarebbero necessari per creare efficienti canali di distribuzione?

Nel nostro ultimo spettacolo “To play or to die” affrontiamo la crisi culturale in cui verte il nostro paese attraverso lo specchio deformante della crisi dello spettacolo dal vivo, una crisi rappresentata, vista e vissuta attraverso la metaforica situazione di 2 attori che avrebbero dovuto interpretare i personaggi di Amleto e di Ofelia, rimasti soli nella difficile condizione di scegliere se fermarsi o continuare con tutti i mezzi che il teatro (ci) permette. In un passaggio dello spettacolo c’é una battuta che può dare il là a un ragionamento: “ (..) per ogni spettacolo che va in scena ce ne sono 2 che restano nella sala prove (..)” . E’ bene partire dai freddi numeri per innescare un meccanismo: in Italia la richiesta é 3 volte inferiore all’offerta. Il numero delle programmazioni sono 3 volte inferiori al numero di spettacoli prodotti ogni anno in Italia: questo crea, senza ombra di dubbio, una disfunzione alla base di qualsiasi ragionamento o strategia che può starci attorno alla distribuzione di qualsiasi spettacolo a ogni livello. Inoltre questo squilibrio tra domanda e offerta soffre di sbalzi notevoli tra Nord, Centro e Sud dell’Italia laddove, e parlo da teatrante del Sud, la forbice si ampia spaventosamente raggiungendo in certi territori percentuali ben più preoccupanti (al Sud parliamo di un numero di programmazioni 5/6 volte inferiore alle produzioni) Quindi tra le prime misure da prendere direi che bisognerebbe partire da questo: o si producono meno spettacoli ( e sto provocando) o si aumenta il numero di programmazioni ( e sto invocando). Non é un caso che negli ultimi 10/15 anni é del tutto scomparsa quella che é ormai a tutti gli effetti una figura mitologica: IL DISTRIBUTORE. Non esiste per svariati motivi: perché i numeri di cui sopra non permettono e non prevedono delle figure dedicate in un mercato saturo e in un costante over-booking; perché la distribuzione oramai é diventata solamente una pratica del management e dell’organizzazione il che prevederebbe maggiore applicazione e professionalizzazione ma troppo spesso è soggetta all’improvvisazione; perché il nostro sistema dove non é clientelare, è amicale e dove non è amicale e modaiolo. Se poi vogliamo confrontarci con i meccanismi di distribuzione internazionale allora ritorniamo alla risposta precedente: gli altri paesi Europei investono cifre ben più sostanziose sulla mobilità dei propri artisti oltre i propri confini, esistono dei programmi strutturati e dei specifici dipartimenti in alcuni paesi che fanno promozione a più livelli dei propri artisti: portano in giro per l’Europa sia gli artisti di livello assoluto ma anche tanti altri artisti che in Italia sarebbero definiti “compagnia giovane” (pur avendo tutti figli a carico e tanti anni di palcoscenico sulle spalle). L’ultimo decreto ministeriale che regolamenta il teatro italiano guarda a suo modo all’Europa, richiedendo piuttosto una maggiore stanzialità nei territori (senza interventi strutturali nei territori), non stimolando più di tanto la natura girovaga del teatro italiano e ispirandosi in qualche modo a quello che avviene, lo si dice spesso e grossolanamente, a quello che avviene in paesi come la Germania. C’è bisogno che specifichi quali e quante differenze ci siano tra le due realtà in termini di strutture, modalità di produzione, investimenti sulla cultura, welfare, finanziamenti ecc ecc ? Ti dico solo che in Germania, nel fronteggiare il Covid-19 e assumere le misure restrittive, il Ministro della Cultura ha chiesto che la Cultura fosse considerato tra i beni prioritari da tutelare in questo momento in termini di sostegno. Franceschini che ha detto? Fate più streaming possibile.

Spazio Franco a Palermo

D: La società contemporanea si caratterizza sempre più in un inestricabile sviluppo tra reale e virtuale, tanto che è sempre più difficile distinguere tra online e offline. In questo contesto quali sono oggi, secondo la tua opinione, le funzioni della creazione scenica che si caratterizza come un evento da viversi in maniera analogica, dal vivo, nel momento del suo compiersi, in un istante difficilmente condivisibile attraverso i nuovi media, e dove l’esperienza si certifica come unica e irripetibile ad ogni replica?

Anche questa risposta subisce in qualche modo riflessioni differenti relativamente ai giorni che stiamo passando. Il blocco delle programmazioni ha spinto molti a reagire provando a trasportare il teatro in video, cercando di trasporsi dal vettore analogico allo streaming. Detto che il web ha altri vettori, una differente e nettamente piú veloce tempistica di assorbimento e dissolvimento dell’atto creativo, tempi emotivi e relazionali ben diversi da quelli del teatro o in generale dello spettacolo dal vivo, a mio modesto avviso, nel pieno rispetto di chiunque si sta adoperando in questa direzione, io vedo questa come la morte del teatro stesso, laddove conveniamo tutti ( chi si sta adoperando e chi no) che questa non si puó definire nemmeno un’alternativa ma piuttosto un surrogato. Il Teatro é un atto sociale che necessita di relazioni, un processo vivo e vivente che presuppone un’azione e una reazione tra creazione scenica e pubblico. In assenza di questo rapporto non possiamo piú parlare di teatro. Il Teatro non si può misurare con gli ascolti come invece può avvenire per chi produce musica ( vd. Il rapporto tra musicisti e piattaforme quali Spotify) o con le visualizzazioni di un video … perché, sebbene anche queste abbiano bisogno di una qualche reazione da parte del fruitore, il rapporto con il Live é qualcosa che rende magnificente qualsiasi opera d’arte. Lo é per la musica lo é soprattutto con il teatro. Quando si dice, frase che sembra scontata ma non lo é, che “uno spettacolo non é mai uguale” .. ecco, l’essenza semantica di questa frase credo che sia proprio nelle relazioni ( visive, cognitive, intellettuali, sonore, ematiche ed emotive ecc) che mette in moto uno spettacolo dal vivo: per uno spettacolo essere uguale ogni giorno dovrebbe esserci ogni giorno lo stesso pubblico che reagisce allo stesso modo ( di fatto impossibile quando vedi una cosa per la seconda volta) a una creazione scenica che viene recitata allo stesso modo (cosa che accade ma che spesso evidenzia tutti i suoi limiti). In conclusione, a rendere unico e irripetibile ogni replica non é la replica in sé ma ciò che questa scatena e di cui si nutre.

D.: Con la proliferazione dei piani di realtà, spesso virtuali e artificiali grazie ai nuovi media, e dopo essere entrati in un’epoca che potremmo definire della post-verità, sembra definitivamente tramontata l’idea di imitazione della natura, così come la classica opposizione tra arte (come artificio e rappresentazione) e vita (la realtà intesa come naturale). Nonostante questo sembra che la scena contemporanea non abbia per nulla abbandonato l’idea di dare conto e interrogarsi sulla realtà in cui siamo immersi. Qual è il rapporto possibile con il reale? E quali sono secondo te gli strumenti efficaci per confrontarsi con esso?

Ho sempre detto agli attori che lavorano con me che a mio avviso non é piu tempo per un teatro naturalistico/riproduttivo, che non mi interessa imitare la realtà ma piuttosto rappresentarla, che non basta rappresentarla ma interpretarla per attraversarla e/o porla davanti a uno specchio deformante. Faccio questo ragionamento: il secolo scorso ci ha regalato la Fotografia prima e il Cinema poi (e tutto quanto ne è conseguito) e credo che a queste due Arti spetti, perché meglio capaci, la funzione di riprodurre la realtà. Il confronto con la realtà, per un teatro che, come suddetto, considero come atto politico e sociale, è conditio sine qua non ma il rapporto possibile con la realtà tocca gli strumenti del linguaggio scenico e credo che il teatro contemporaneo risulti efficace solo se capace di andare oltre a qualsiasi processo di semplice riproduzione.

Vedo nei ragazzi più giovani che frequentano lo Spazio Franco e/o il Progetto Amuni (il percorso di formazione ai mestieri dello spettacolo rivolto a ragazzi stranieri e italiani di seconda generazione) un maggiore interesse per il teatro quando non é reale: quando vogliono vedere la realtà si rivolgono al web, ai video, ai film … mentre si innamorano del teatro quando vedono la trasformazione della realtà seppure in un processo vivo vero e reale come la creazione scenica. Vedono qualcosa di vero tangibile e sudato che non é reale nel riprodurre ma lo è nelle emozioni.

Ti racconto questa: durante le prove di “To play or to die” l’attrice che lavorava con me (Chiara Muscato), durante una pausa, si trovò a discutere con un giovane studente del Centro Sperimentale di Cinematografia a cui chiese che senso avesse il teatro per uno che studiava cinema. La risposta fu spiazzante e ci ha fatto discutere a lungo: “ (..) che senso ha continuare ad usare la zappa quando hanno inventato l’aratro (..)”. Ecco, il ragazzo non aveva torto se consideriamo il solo processo riproduttivo e naturalistico della realtà: il cinema é nettamente superiore al teatro, come la realtà virtuale lo sarà del cinema, dissi istintivamente io. Però giungemmo a un’altra considerazione dopo qualche giorno per potergli rispondere: “ (.. fare teatro ..) ha lo stesso senso per cui preferiamo fare sesso dal vivo piuttosto che guardare materiale pornografico o fare sesso virtuale”. Annuì. Venne a vederci qualche settimana dopo.

Simone Derai

LO STATO DELLE COSE: INTERVISTA A SIMONE DERAI

Per la ventitreesima intervista de Lo Stato delle cose incontriamo Simone Derai di Anagoor. Lo stato delle cose è, lo ricordiamo, un’indagine volta a comprendere il pensiero di artisti e operatori, sia della danza che del teatro, su alcuni aspetti fondamentali della ricerca scenica. Questa riflessione e ricerca partita lo scorso dicembre crediamo sia ancor più necessaria in questo momento di grave emergenza per prepararsi al momento in cui questa sarà finita e dovremo tutti insieme ricostruire.

Simone Derai insieme a Paola Dallan fondano Anagoor nel 2000 a Castelfranco Veneto. Da allora il gruppo si è rivelato come uno dei più interessanti nel panorama della ricerca artistica. Numerosi i premi e riconoscimenti ultimo dei quali il Leone d’argento alla Biennale di Venezia. Tra i numerosi lavori ricordiamo: Tempesta (2009), L.I. Lingua Imperii (2012), Il palazzo di Atlante (2013), Virgilio brucia (2014), Socrate il sopravvisuto/ come le foglie (2017), Orestea (2018),

D: Qual è per te la peculiarità della creazione scenica? E cosa necessita per essere efficace?

Mi fai una domanda alla quale non so rispondere. Io non ho una formazione teatrale accademica. Ho perfezionato la mia educazione teatrale attraverso laboratori per attori e creatori della scena mentre studiavo Storia dell’Architettura e mentre lavoravo già in teatro come attore e assistente regista e scenografo. L’idea, spuria, che mi sono costruito della creazione scenica è frutto di mille informazioni, ed è sempre instabile. Ho la sensazione ogni volta di dovermi inventare o quanto meno cercare un modo di fare teatro in mancanza di una conoscenza precisa. Da questo punto di vista è una battaglia difficile da vincere e la forma ricercata deve essere, comunque, costantemente verificata. Ed è un procedere più artigianale, quasi sartoriale che altro. L’efficacia si misura in base alla corrispondenza tra forma e necessità del progetto. Senza questa corrispondenza di necessità non esistono né efficacia né utilità.

Anagoor Orestea ph. @Andrea Macchia

D: Oggi gli strumenti produttivi nel teatro e nella danza si sono molto evoluti rispetto solo a un paio di decenni fa, – aumento delle residenze creative, bandi specifici messi a disposizione da fondazioni bancarie, festival, istituzioni -, eppure tale evoluzione sembra essere insufficiente rispetto alle esigenze effettive e deboli nei confronti di un contesto europeo più agile ed efficiente. Cosa sarebbe possibile fare per migliorare la situazione esistente?

Anagoor è un’esperienza di teatro indipendente perfettamente corrispondente allo scenario che disegni. Siamo cresciuti esattamente nell’ultimo ventennio: originariamente c’era stato un impulso straordinario di vitalità della scena italiana supportato da una serie di programmi di sostegno per le nuove creazioni. Quell’impulso si è spento, complice la scure (o forse dovremmo dire l’occasione) della crisi. La mancanza di risorse, senza le quali è impossibile pianificare alcunché, ma anche soprattutto una mancanza totale di lungimiranza hanno falcidiato come una mietitrice una pletora di importanti esperienze che stavano crescendo e che possedevano la freschezza, la forza ma anche la fragilità di quanto stava sorgendo. Dopodiché è stato impossibile immaginare reti o un procedere diverso da quello dell’ “ognuno per sé” alla ricerca del bando, della residenza, del virtuosismo e della resistenza. Ricordo che Anagoor non riceve contributi pubblici né ministeriali, né regionali o locali e mantiene con le sue stesse forze uno spazio, La Conigliera, senza il quale non sarebbe possibile il 90% della sua propulsione creativa e della sua capacità (inusuale nel panorama italiano delle giovani compagnie) di mantenere vivo un repertorio. Centrale Fies, da cui la compagnia è seguita per gli aspetti amministrativi e organizzativi dal 2010, non ha costantemente prodotto i lavori di Anagoor, quindi il rapporto con il Festival non si è tradotto in un’egida produttiva continua e de facto, ma è indubbio che essere accostati da una struttura che per lungimiranza costitutiva guardava in avanti ci ha consentito di pianificare una crescita organica, farci le spalle forti, imparare essendo guidati. Molte sono le forme produttive sperimentate da Anagoor negli anni: coproduzioni di festival, produzioni di teatri stabili, produzioni private, forme miste di sostegno. Ogni volta il castello di partecipazioni è stato ricostruito dalle fondamenta con uno sforzo immane. Tuttavia nel tempo questo ci ha consentito di mantenere una riconosciuta indipendenza. Il tentativo inedito di intrecciare l’esperienza con Centrale Fies e la partecipazione di teatri pubblici italiani e stranieri confluito nella creazione di Orestea è un grande risultato di cui andiamo particolarmente fieri: è certo un esperimento che ha incontrato anche qualche difficoltà e sicuramente perfettibile, ma che è stato possibile proprio grazie alle forze messe in campo dall’indipendenza della compagnia. La relazione stabilita da un paio di anni con il Theater an der Ruhr in Germania ci ha consentito di essere testimoni di un sistema nettamente diverso. La situazione in Italia ha certi pregi, se vogliamo essere romantici, se vogliamo parlare di libertà e di sconfinamento, di fuga dalla fissità degli schemi, di creatività per la sopravvivenza, ma non c’è creazione possibile senza stabilità e senza tutela del lavoratore. E il sistema italiano è carente proprio da questo punto di vista. La prima cosa da fare sarebbe per l’appunto consentire alle esperienze qualitativamente consolidate di poter difendere i propri lavoratori. Tornando alla nostra situazione specifica Anagoor ha sede in Veneto, una regione che solo l’anno scorso si è dotata di una legge in materia di spettacolo, prima totalmente assente e ora non ancora in funzione per la mancanza di un regolamento attuativo. E la legge ministeriale sembra disegnata apposta per impedire alle formazioni come Anagoor di fare domanda, essenzialmente per questioni numeriche, a cui va aggiunta l’ostinata volontà della compagnia di non falsificare detti numeri. Questo ci impedisce ogni forma di appello al contributo pubblico. Quanto ai giovani, vedo un rinnovato fermento, soprattutto attorno a certi percorsi accademici, ultimo strenuo baluardo, frontiera resistente e insieme (spero di non sbagliarmi) rischiosa riserva.

Simone Derai
Anagoor Orestea Schiavi Ph@ Giulio Favotto

D: La distribuzione di un lavoro sembra essere nel nostro paese il punto debole di tutta la filiera creativa. Spesso i circuiti esistenti sono impermeabili tra loro, i festival per quanto tentino di agevolare la visione di nuovi artisti non hanno la forza economica di creare un vero canale distributivo, mancano reti, network e strumenti veramente solidi per interfacciarsi con il mercato internazionale, il dialogo tra gli indipendenti e i teatri stabili è decisamente scarso, e prevalgono i metodi fai da te. Quali interventi, azioni o professionalità sarebbero necessari per creare efficienti canali di distribuzione?

Uscire dal feudalesimo sarebbe già un passo importante per l’intero Paese. Abbiamo sperimentato sulla nostra pelle atteggiamenti non neutrali, l’essere considerati di questa o di quella scuderia, il sospetto e persino l’inimicizia. Un campanilismo e un protezionismo esasperati trattengono il sistema culturale del Paese, e forse il sistema Paese stesso, in una palude che soffoca quanto di buono la varietà del sottobosco produce. Spesso questo protezionismo è addirittura spinto a tali vertici di parossismo che si converte in paradosso: nel nostro caso abbiamo una relazione maggiore con i circuiti teatrali delle Marche, della Puglia e della Toscana che con il Veneto. In quindici anni ArteVen ha programmato Anagoor solo tre volte, di cui due a Castelfranco e mai a Treviso, capoluogo della provincia in cui risiediamo. Socrate il sopravvissuto debuttato a Torino nel 2016 giungerà a Castelfranco solo il mese prossimo (13 e 14 febbraio 2020) nonostante il cast di allievi attori provenienti dal liceo cittadino. A fronte di queste anomalie, il coraggio e l’intraprendenza di molte direzioni artistiche hanno permesso, grazie al sapiente supporto di Michele Mele che affianca me e Marco Menegoni nella curatela del progetto, di immaginare strategie intelligenti di presentazione del lavoro della compagnia al pubblico: percorsi particolari di presentazione di buona parte del repertorio, alternanza degli spettacoli di grosse dimensioni e di quelli di dimensioni più agili, incontri con il pubblico e con i ragazzi, laboratori, collaborazioni con le scuole e le università. Questo è il caso di relazioni feconde con il Piccolo, con il Metastasio, con l’Amat a Pesaro, con Teatro Gioco Vita di Piacenza, con il Teatro Astra di Vicenza, con il Festival Cento Scale a Potenza, con Centorizzonti ad Asolo. Parlo per aver osservato la nostra esperienza personale. Ma, ecco, quello che servirebbe è, dunque, una politica di lungimiranza, più luminosa, più rivolta al futuro, meno medievale, meno sulla difensiva. Serve che direzioni dei teatri e circuiti riconoscano il nuovo e lo facciano circuitare con progetti di scontro e non di avvicinamento e conoscenza e poi continuando e continuando e continuando. Serve che abbandoniamo l’idea di controllare il giudizio del pubblico. Serve che abbandoniamo l’arroganza del credere cosa siano o non siano in grado di recepire i nostri concittadini, l’arroganza di sapere cosa sia giusto o non giusto per loro, e fare proposte, fare proposte, fare proposte. Serve che si stimolino i bambini ad uscire dalla protezione in cui vivono e non si trattino i ragazzi come mandrie di bestie bolse quando sono affamati di esperire nuovi linguaggi. Serve sovvertire il rapporto tra teatro e università: aprirlo. Serve tanta più danza e canto. Non solo musica da ascolto, ma proprio pratica del canto corale polifonico. Serve che i cittadini si uniscano in coro a cantare, enormi cori cittadini. Serve che abbandoniamo l’abitudine delle sale utilizzate in modo convenzionale, serve che il teatro (edificio) si spalanchi e smetta di chiudersi in una forma: il teatro è l’arte più aperta di tutte, quella più elastica, ad essa non possono corrispondere strutture architettoniche e organizzative eccessivamente rigide. Le programmazioni dovrebbero mescolare le carte, sorprendere i cittadini, farsi festa e soprattutto farsi attendere, essere straordinarie. Per vincere lo spettacolificio serve paradossalmente più pratica laboratoriale teatrale e meno teatro. Il teatro deve giungere atteso e contemporaneamente inaspettato o non è.

D: La società contemporanea si caratterizza sempre più in un inestricabile viluppo tra reale e virtuale, tanto che è sempre più difficile distinguere tra online e offline. In questo contesto quali sono oggi, secondo la tua opinione, le funzioni della creazione scenica che si caratterizza come un evento da viversi in maniera analogica, dal vivo, nel momento del suo compiersi, in un istante difficilmente condivisibile attraverso i nuovi media, e dove l’esperienza si certifica come unica e irripetibile ad ogni replica?

Esattamente quello che stavo dicendo. La natura di evento è irrinunciabile per il teatro come arte pena lo spegnimento della sua stessa apparizione. Per questo deve restare instabile, effimero, raro, mutevole, inafferrabile, prezioso.

D: Con la proliferazione dei piani di realtà, spesso virtuali e artificiali grazie ai nuovi media, e dopo essere entrati in un’epoca che potremmo definire della post-verità, sembra definitivamente tramontata l’idea di imitazione della natura, così come la classica opposizione tra arte (come artificio e rappresentazione) e vita (la realtà intesa come naturale). Nonostante questo sembra che la scena contemporanea non abbia per nulla abbandonato l’idea di dare conto e interrogarsi sulla realtà in cui siamo immersi. Qual è il rapporto possibile con il reale? E quali sono secondo te gli strumenti efficaci per confrontarsi con esso?

Il teatro è il regno della menzogna che svela la verità del reale e anche le sue illusioni, le nostre miopie. E continua a mescolare mimesis e vita ingannandoci e fregandosene delle categorie. Da millenni scoperchia i falsi annunci di verità. Il teatro quando è tale e non sottostà alle mode continua ad essere spazio di allenamento, di affinamento dello sguardo e dell’ascolto, di pietà ed empatia. Qui impariamo a ribaltare le retoriche, a provare quello che provano gli altri, a rivedere il nostro concetto di giudizio che è sviluppo della nostra capacità critica, a reimmaginare le forme, inventarle.

Favaro

LO STATO DELLE COSE: INTERVISTA A FAVARO E BANDINI

La ventiduesima intervista per Lo Stato delle cose è dedicata a due giovani talenti Riccardo Favaro e Alessandro Bandini che insieme hanno vinto l’ultima edizione del Premio Scenario con Una vera tragedia.

Lo stato delle cose è, lo ricordiamo, un’indagine volta a comprendere il pensiero di artisti e operatori, sia della danza che del teatro, su alcuni aspetti fondamentali della ricerca scenica. Questa riflessione e ricerca partita lo scorso dicembre crediamo sia ancor più necessaria in questo momento di grave emergenza per prepararsi al momento in cui questa sarà finita e dovremo tutti insieme ricostruire.

Qual è per te la peculiarità della creazione scenica? E cosa necessita per essere efficace?

Riccardo Favaro: Io parto sempre dalla scrittura e, nonostante tutto, credo di approdare continuamente alla scrittura. É un tipo di lavoro che posso compiere nel pieno della mia libertà creativa o secondo i sentieri che traccia il regista con cui lavoro, ma resta comunque il momento fondante della teatralità che mi interessa esplorare. Tutto quello che segue, il lavoro in sala con gli attori e il dialogo che tento di rendere possibile tra ogni parte creativa dello spettacolo, è secondo la mia prospettiva una condivisione e una concretizzazione del senso di pericolo che esiste già nelle parole. Quando scrivo cerco di costruire un processo formale e sostanziale che somiglia per molti aspetti a quello del giallo o del noir, con la consapevolezza però di lasciare aperti, in molti snodi fondamentali della drammaturgia, due o tre possibilità, due o tre modi e mondi co-esistenti. Così facendo la “trama” mi appare come un sentiero che non va seguito per principi di necessità ma piuttosto come una moltitudine di sentieri che andrebbero percorsi contemporaneamente. Credo sia la modalità a me più familiare per tentare di orientarmi nella complessità.

Il valore dell’approdo scenico è allora interpretare teatralmente questi crocicchi senza mai risolverli (come, non a caso, i continui sovratitoli che scorrono durante Una Vera Tragedia). Così, nel vuoto di senso che solo apparentemente si crea, cerco di trovare dei varchi, dei tagli, degli squarci, delle radure bagnate dal sole nel mezzo di foreste fitte e buie. Cerco di restituire al pubblico quel vitale senso di precarietà dei sistemi narrativi che è per me il momento della riflessione.

Alessandro Bandini: Per me la peculiarità della creazione scenica è la sua relazione viva e diretta con il pubblico. È un rapporto osmotico quello tra il rito teatrale e il pubblico che vi partecipa. E’ un rito partecipato.

Parlo così insistentemente di rito perché per me è importante che lo spettatore si trovi ad assumere una funzione non passiva di fronte all’atto creativo, bensì una funziona attiva di testimone, di soggetto partecipe. Il rito abbrevia la distanza e di conseguenza pone lo spettatore in una situazione di pericolo, di bilico: quest’ultimo è chiamato infatti a mettersi in discussione, ad accedere alle zone più misteriose della propria anima, ad avere tra le mani la responsabilità di scegliere come guardare, a compiere un percorso che miri alla conoscenza ed a un più ricca consapevolezza.

Per questo motivo trovo sempre più forte parlare di complessità della creazione scenica: ciò rappresenta per me l’unico argine ad uno scenario teatrale indifferente e indifferenziato. La complessità lotta con l’idea che il palcoscenico sia un luogo innocuo, semplicistico e soprattutto pacificante; anzi rende impervio, accidentato e violento il terreno teatrale. La complessità permette e arricchisce il dialogo tra le diverse necessità che animano il teatro.

La creazione poi, per definirsi in quanto tale, necessita di corpi che si facciano mediatori o meglio sacerdoti di questo rito.

Io intendo l’attore o il performer necessariamente come autore di un fatto teatrale, quindi in condizione di appropriarsi di un proprio spazio, di un proprio respiro, di un proprio sguardo, ma soprattutto di un proprio tempo: secondo me esso è la variabile massima di modifica per l’attore. Quando ho lavorato con gli attori di Una Vera Tragedia ho chiesto loro che si rendessero conto di quanto il tempo fosse imprevedibile, quindi pericoloso.

Quello che ho fatto istintivamente poi, già dalle prime letture, è stato metterli fuori equilibrio. Ho cercato di spostare il loro asse: secondo me è nella caduta che si scoprono le proprie zone più ruvide e profonde. Ho chiesto loro che si compromettessero, che stessero nella difficoltà, in quella parte non liscia, dove c’è attrito.

Riccardo Favaro

D: Oggi gli strumenti produttivi nel teatro e nella danza si sono molto evoluti rispetto solo a un paio di decenni fa, – aumento delle residenze creative, bandi specifici messi a disposizione da fondazioni bancarie, festival, istituzioni -, eppure tale evoluzione sembra essere insufficiente rispetto alle esigenze effettive e deboli nei confronti di un contesto europeo più agile ed efficiente. Cosa sarebbe possibile fare per migliorare la situazione esistente?

Riccardo Favaro: Quelle che ho sono solamente delle impressioni, perché per molte ragioni faccio i conti con sistemi produttivi e condizioni lavorative troppo alterne tra loro. Adottando però solamente un principio di autonomia creativa, spesso sento necessario colmare il vuoto che si è creato tra la ricerca e i suoi interlocutori. Mi sembra che, oltre al bisogno strutturale di fondi maggiori, si debba troppo spesso dialogare con apparati burocratici che si sono lentamente sostituiti agli artisti, lasciando conseguentemente navigare a vista ogni istanza che abbia a che fare con la propria poetica e non solamente con opportunità di mercato. Questo disagio lo leggo soprattutto nel tempo a disposizione di giovani registi, autori o compagnie, un tempo che viene spesso misurato sulla base di logiche che molto hanno a che fare con la chiusura di programmazioni o percorsi di residenza e poco coinvolgono attivamente quel diritto, che orgogliosamente rivendico, alla perfettibilità.

Alessandro Bandini: Se faccio riferimento alla mia poca e piccola esperienza, solo ultimamente mi sono trovato a confrontarmi direttamente con questi strumenti produttivi di cui domandi.

Il concetto di produttività per me si lega subito a quello di efficienza, di consumo e di risultato. Tutti termini che rimandano ad un immaginario economico e che penso vadano contro quella che è la mia idea di progetto e creazione, in particolare modo perché sono parole che nascondono un concetto di tempo molto diverso da quello che io ritengo opportuno e necessario per la maturazione di un percorso artistico.

La smania per l’efficienza infatti annienta il tentativo. L’ossessione per il prodotto porta l’artista ad accontentarsi e a risolvere, invece che a ricercare. La paura di perdere l’occasione non concede un confronto profondo, ma impone soluzioni facili e mai rischiose.

Sicuramente però è solo grazie al sostegno e all’aiuto di festival e residenze (in primis il Premio Scenario, poi L’arboreto-Teatro Dimora di Mondaino e il bando IntercettAzioni insieme ad Industria Scenica di Vimodrone) che Una Vera Tragedia ha potuto trovare luce e vita. Ora, grazie al Lac di Lugano e a Teatro i, sono sicuro che troverà piena maturazione.

Quello che credo è che sarebbe importante rendere più fluido e fruibile il dialogo tra il giovane artista, le sue necessità e i diversi enti ed istituzioni. Allo stesso tempo però, perché questo possa accadere, è fondamentale che il giovane artista stesso si informi con cura, studi e si crei una vera e propria cultura rispetto a questo argomento che, in modo innegabile, sta diventando sempre più centrale ed importante.

D: La distribuzione di un lavoro sembra essere nel nostro paese il punto debole di tutta la filiera creativa. Spesso i circuiti esistenti sono impermeabili tra loro, i festival per quanto tentino di agevolare la visione di nuovi artisti non hanno la forza economica di creare un vero canale distributivo, mancano reti, network e strumenti veramente solidi per interfacciarsi con il mercato internazionale, il dialogo tra gli indipendenti e i teatri stabili è decisamente scarso, e prevalgono i metodi fai da te. Quali interventi, azioni o professionalità sarebbero necessari per creare efficienti canali di distribuzione?

Riccardo Favaro: Non so davvero gestire questa domanda. Colgo la complessità del problema che espone e colgo con un po’ di timore la sua stretta connessione ad argomenti potenzialmente più ampi che hanno a che fare con la composizione del pubblico e le sue diversità. Se da un lato mi affatica profondamente vedere nascere e morire dopo poco produzioni che restano vincolate ad un unico spazio, dall’altro sento intimamente un’esigenza di stabilità, di connessione con un luogo, di pensiero su quel luogo e su ciò che rappresenta, di programmazione artistica a stretto contatto con uno spazio fisico adatto e forse non replicabile. D’altra parte il pressante e stancante modello centralista propagandato dalle derive più autoritarie (e ahimè di moda) del nostro agone politico suggerisce tutt’altro, ma io credo che non si possa fino in fondo pensare ad una rimodulazione sistemica della produzione teatrale senza un cambio di passo altrettanto sistemico a livello politico nazionale.

Alessandro Bandini: E’ difficile per me rispondere a questa domanda. L’unica cosa che posso dire è che quando mi confronto con alcuni colleghi che sono agli inizi, proprio come me, quello che intravedo nei loro occhi e nelle loro parole è un alone di solitudine e di smarrimento.

Come i bambino che hanno paura di essere abbandonati, i giovani artisti mi sembra non possano fare altro che vagare alla ricerca di un nido, di una protezione, di qualcuno a cui legarsi.

Qualcuno che tra le altre cose si prenda carico di gestire proprio questo ingorgo che è il sistema di mercato.

Chi non ha la fortuna di trovare un appoggio, è costretto, per farsi conoscere o per fare conoscere il proprio lavoro, ad accettare condizioni quasi inammissibili e si trova spesso obbligato a scendere a compromessi, prevalentemente artistici.

Non ho una soluzione concreta a tutto questo, ma idealmente sarebbe già un traguardo che i diversi circuiti, indipendenti o istituzionali che siano, tentassero di avere un dialogo, guardassero con più curiosità alle diverse realtà artistiche ed evitassero di chiudersi a proteggere il loro territorio.

Alessandro Bandini
Alessandro Bandini

D: La società contemporanea si caratterizza sempre più in un inestricabile viluppo tra reale e virtuale, tanto che è sempre più difficile distinguere tra online e offline. In questo contesto quali sono oggi, secondo la tua opinione, le funzioni della creazione scenica che si caratterizza come un evento da viversi in maniera analogica, dal vivo, nel momento del suo compiersi, in un istante difficilmente condivisibile attraverso i nuovi media, e dove l’esperienza si certifica come unica e irripetibile ad ogni replica?

Riccardo Favaro: Vorrei citare un passo della biografia di Luis Bunuel, scritta assieme a Jean-Claude Carriére:

Mi si dice: e la scienza? Non sta forse cercando, per altre vie, di ridurre il mistero che ci circonda?

Può darsi. Ma la scienza non m’interessa. Mi sembra pretenziosa, analitica e superficiale. Ignora il sogno, il caso, la risata, il sentimento e la contraddizione, tutte cose che mi sono preziose. Un personaggio della “Via lattea” diceva: “Il mio odio per la scienza e il mio disprezzo per la tecnologia mi porteranno, alla fine, verso quell’assurda credenza in Dio”. Vero niente. Per quello che mi riguarda, assolutamente impossibile anzi. Ho scelto il mio posto, è nel mistero. Devo solo rispettarlo.”

Quello che fatico ad accettare non è la contaminazione del virtuale, per carità. Fatico ad accettare la tendenza dilagante ad appaltare al virtuale il sano privilegio di mettere in crisi le nostre certezze. Dubitare e, in ultima istanza, avere paura. Mi pare così desolante questo sistema nuovo di valutazione degli apparati tecnici, come se fossero contemporaneamente soggetto e oggetto di creazione. Quel mistero, tanto caro a Bunuel, è per me l’atto teatrale nella sua totale singolarità. Un conflitto su cose umane tra cose umane, un crimine che corpi vivi compiono consapevoli di avere di fronte a sé molti testimoni. Questo non può essere sostituito, può solo essere denigrato, censurato, eliminato.

Alessandro Bandini: Penso possa aiutarmi a rispondere il concetto polimorfo di contaminazione. Il teatro nel tempo ha cercato un dialogo ed è stato contaminato dalle diverse arti visive, dalla musica e dalla danza. Sicuramente i nuovi media sono qualcosa su cui l’artista contemporaneo deve interrogarsi e deve porre la propria attenzione. Si tratta di una contaminazione sana e necessaria.

Sarebbe per me strano il contrario: gli apparati tecnologici da un lato hanno sì messo in luce come il rapporto che l’essere umano sta via via instaurando con i mezzi di comunicazione sia sempre più allarmante, ma allo stesso tempo hanno anche fornito un terreno di ricerca antropologica molto fertile e articolato, ampliando le possibilità di riflessione. Riconosciuto un certo valore ai nuovi media, mi chiedo come e se questi possano contaminare, formalmente e/o sostanzialmente, la creazione scenica.

Prendo ad esempio proprio Una Vera Tragedia: in fondo alla scena uno schermo proietta i sovratitoli per la quasi totalità dello spettacolo.

Dal punto di vista formale, il video ha vita propria e il testo scorre e viaggia, incurante di ciò che sta avvenendo in scena tra gli attori. Dal punto di vista sostanziale, l’unica vera ricerca verteva su quale fosse il modo migliore per creare uno slittamento pericoloso e un cortocircuito tra i fatti narrati e l’identità dei personaggi, su come il dispositivo drammaturgico potesse dichiarare una verità e allo stesso tempo negarla. Da qui è nata l’idea e l’uso del video.

Aggiungerei però che, esattamente in antitesi rispetto a quella che penso sia una delle peculiarità della creazione scenica, la relazione tra l’uomo e il suo schermo (sia esso il cellulare o il televisore) allarga la distanza e rende il pensiero pigro e poco complesso. Ma sopratutto restringe lo sguardo. Lo annienta, lo rende inerme e immobile. Quello che si vede sul telefono infatti è lontano, non sta accadendo davanti a me spettatore. Il tempo è rapido e non concede una riflessione.

Il teatro invece penso necessiti di un altro sguardo e di un altro tempo: grazie alla mia ultima esperienza con Carmelo Rifici ne Macbeth, le cose nascoste, posso dire a gran voce che mi è apparso ben chiaro che la profondità, la tridimensionalità, il rischio e la responsabilità che l’attore deve assumersi pronunciando una parola resti il baluardo più potente, più fantasioso, più creativo e libero che ci sia.

D: Con la proliferazione dei piani di realtà, spesso virtuali e artificiali grazie ai nuovi media, e dopo essere entrati in un’epoca che potremmo definire della post-verità, sembra definitivamente tramontata l’idea di imitazione della natura, così come la classica opposizione tra arte (come artificio e rappresentazione) e vita (la realtà intesa come naturale). Nonostante questo sembra che la scena contemporanea non abbia per nulla abbandonato l’idea di dare conto e interrogarsi sulla realtà in cui siamo immersi. Qual è il rapporto possibile con il reale? E quali sono secondo te gli strumenti efficaci per confrontarsi con esso?

Riccardo Favaro: Forse è strettamente connesso con la risposta che ho dato prima. Mi sento personalmente in continuo debito con i dati di realtà. Ancor più, direi, con l’abitudine. Per me è sempre il punto di partenza, direi per ogni lavoro, per ogni scrittura. La prima domanda che mi pongo è “come dovrebbe andare avanti (questa o quella cosa) nel mondo di fuori?”. Tutto il resto viene fuori da sé, lentamente e a fatica, ma in modo pressoché fisiologico. In questo senso potrei quasi dire che sono ossessionato dal rapporto con “il mondo per come dovrebbe essere”. Non in senso utopistico, anzi. In senso banalmente empirico. Io partirei da questo, da un’osservazione onesta non dei fatti ma di come i gruppi sociali rispondono ai fatti, dal nucleo familiare alla più astratta delle relazioni. Per scrivere Una Vera Tragedia mi sono esattamente mosso in questa direzione, fin dal principio, e l’allestimento ne è la prova: c’è una storia che scorre alle spalle della scena, come fosse il copione di una vicenda che “nel mondo di fuori” può accadere. E poi ci sono dei fatti, gli umani fatti, che in scena accadono. Che relazione esiste tra queste due cose? Quale è reale? Quale, invece, deve esserlo?

Alessandro Bandini: Penso che il compito di un artista, o comunque la sua tensione massima, debba essere quella di riflettere, interrogarsi e creare a partire dalla realtà in cui vive: quindi come sarebbe possibile abbandonare il confronto con il reale?

Molte personalità sembrano chiedersi cosa possa essere oggi la rappresentazione teatrale, tenendo conto che la violenta dose di realtà, che quotidianamente ci bombarda e nella quale navighiamo, è come un mare impetuoso che ha provocato un abbattimento della distinzione tra attore e persona.

Quello che abbiamo cercato di fare in Una Vera Tragedia è stato mettere proprio al centro del discorso lo spettatore, manipolando il suo sguardo e il suo rapporto con l’autofinzione e autorappresentazione.

Nell’estate 2019 al Centro Teatrale di Santacristina ho avuto la fortuna di poter partecipare a due giornate di incontri dal titolo Il filo del presente: il teatro tra memoria e realtà.

Sono rimasto estremamente affascinato dall’intervento di Carmelo Rifici, secondo il quale più che di rappresentazione oggi dovremmo parlare di simulazione, e cioè di una forte bascule tra realtà e finzione. Rifici ha citato anche una teoria secondo la quale l’ottica sarebbe cambiata all’inizio del nuovo millennio, dopo l’attacco alle Torri Gemelle. Aver visto la realtà frantumarsi avrebbe segnato un discrimine tra il passato e l’oggi, tra il prima e il dopo: la realtà non è dunque più rappresentabile, la si può al massimo simulare.

Mi sono trovato a discutere recentemente con alcuni ragazzi dei licei milanesi e non: ero curioso di sapere, da attore, quale fosse la loro posizione e con che occhi si ponessero di fronte ad uno spettacolo teatrale. Quello che è emerso dai loro discorsi, senza dare su questi alcun tipo giudizio o merito, mette in luce come sia impossibile da credere o comunque difficile da gestire per gli adolescenti il concetto di artificio teatrale: abituati sempre di più alle serie e a nuovi tipi di linguaggi, il loro sguardo chiede e pretende un certo grado di credibilità. Questo non significa assolutamente che la creazione scenica debba abbassarsi o farsi semplice, anzi, proprio perché i ragazzi conservano l’istinto e il bisogno di vedere un lavoro che imponga loro un tempo e uno sguardo rituale, sarebbe bello dare loro gli strumenti per comprendere il presente attraverso il passato, la memoria e instillare in loro un desiderio di complessità.

E’ importante che l’artista prenda consapevolezza e accetti questa trasformazione e mutazione sul concetto di reale.

Carlo Gallo

LO STATO DELLE COSE: INTERVISTA A CARLO GALLO

Per la ventunesima intervista de Lo stato delle cose incontriamo Carlo Gallo, un giovane autore, attore e regista che opera nella città di Crotone.

Lo stato delle cose è, lo ricordiamo, un’indagine volta a comprendere il pensiero di artisti e operatori, sia della danza che del teatro, su alcuni aspetti fondamentali della ricerca scenica. Questa riflessione e ricerca partita lo scorso dicembre crediamo sia ancor più necessaria in questo momento di grave emergenza per prepararsi al momento in cui questa sarà finita e dovremo tutti insieme ricostruire.

Carlo Gallo è un attore ed è uno dei fondatori della Compagnia Teatro della Maruca e dell’omonimo spazio OFF, il primo, della città di Crotone. È diplomato alla Civica Accademia d’Arte Drammatica Nico Pepe di Udine. Da diversi anni recupera e trascrive memorie orali per strade, porti, mercati, fabbriche e campagne.

Qual è per te la peculiarità della creazione scenica? E cosa necessita per essere efficace?

Deve incendiare l’anima, pervadere lo spettatore di bellezza, avere il bagliore dell’incanto. È importante che l’opera abbia la consistenza dell’ acqua, che possa arrivare ovunque, anche in spazi non convenzionali, fruibile da una fascia di pubblico ampia che includa tutti. Per essere efficace deve inseguire questa utopia: bruciarsi tutta e subito nel qui e ora dell’esperienza e durare in eterno.

L’architettura della drammaturgia, lo stile e la scelta dei linguaggi per me sono centrali nella creazione scenica. Per scrivere ho bisogno di guardare le cose con gli occhi di un primo giorno e questo è quello che accade quando ascolto un anziano raccontare una storia, la sua presenza, le sue pupille che indagano nel ricordo. Il modo in cui rimango incollato alle sue labbra e al racconto, l’ipnosi di quei gesti, l’intreccio musicale delle parole, delle pause, la commozione, la rabbia o la gioia che provo con lui passo dopo passo.

Questo racchiude il senso profondo della creazione scenica e la sua efficacia. Chi crea è sempre alla ricerca della sua strada nel solco del sentiero già intrapreso, l’opera è un dono condiviso con gli spettatori alla fine di un processo o all’interno di un processo in evoluzione.

Ogni artista ha la sua pozione magica o la inventa ogni sera col pubblico, io ho bisogno di sentire la spiaggia dello Jonio tra le dita dei piedi, ascoltare quegli sguardi, quelle barbe, i visi e le mani di uomini che hanno vissuto, per Bollari è stato così, il pubblico assiste a 50 minuti di spettacolo che sono la sintesi di almeno 4 ore di materiale trascritto su carta. Che il pubblico sappia o meno di ciò che è rimasto fuori dalla creazione scenica poco importa, c’è qualcosa di magico però che rende l’opera un abisso sempre più profondo quando salgo sul palco batto il pugno sul petto e canto il rema-rema.

Discorso diverso per mio fratello Angelo, lui è burattinaio e scenografo, lui il mondo ha bisogno di costruirselo con le proprie mani, di plasmare la materia. Nel suo caso, spesso, nascono prima personaggi e marchingegni e poi per ultimo arriva il testo.

La filosofia è però universale: la creazione deve incidere rotture profonde, dolorose se necessarie, aprire spazi di riflessione, versare conoscenza, ispirarci ad essere migliori di noi stessi sempre.

Sulla destra Carlo Gallo

D: Oggi gli strumenti produttivi nel teatro e nella danza si sono molto evoluti rispetto solo a un paio di decenni fa, – aumento delle residenze creative, bandi specifici messi a disposizione da fondazioni bancarie, festival, istituzioni -, eppure tale evoluzione sembra essere insufficiente rispetto alle esigenze effettive e deboli nei confronti di un contesto europeo più agile ed efficiente. Cosa sarebbe possibile fare per migliorare la situazione esistente?

Dobbiamo innanzitutto prendere in considerazione il modo in cui il teatro è diffuso sul territorio italiano, la ricchezza data dalla peculiarità di artisti e compagnie eterogenee. Sono dell’idea che bisognerebbe investire sulla decentralizzazione del sistema teatrale piuttosto che il contrario. Oltre ai Festival, alle residenze, ai teatri che in questi anni hanno consolidato la propria posizione, proporrei di inserire dei fondi che permettano ad organizzatori e compagnie di giungere nelle periferie e nei piccoli paesi. Fare teatro e vivere di teatro significa fare repliche, creare tappe, arrivare in paesi e piccole frazioni con i propri spettacoli.

Sono molte le associazioni e compagnie che lavorano in questa direzione sul proprio territorio, ma spesso si tratta di situazioni isolate senza alcun tipo di connessione con un circuito più ampio, nazionale. Il valore dell’operazione sarebbe molto alto: riportare l’evento teatrale dal vivo in paesini di 5-600 persone. Si potrebbe pensare per esempio a delle proposte per attori giovani, neo diplomati o compagnie/artisti meritevoli che per motivi diversi non hanno ancora ottenuto riconoscimenti o visibilità. D’altra parte, anche nelle periferie più lontane, esistono auditorium, sale teatro, vecchi cinema, edifici d’epoca e se non ci fosse questo magma teatrale “occulto” che si muove in silenzio, i luoghi rimarrebbero vuoti a lungo. Insomma una tipicità tutta italiana che potrebbe essere ufficializzata attraverso un sistema, delle azioni di bando precise.

Crediamo che la scena italiana teatrale sia ancora in pieno fermento, in ogni piccolo angolo dello stivale. Uno degli obiettivi dei bandi o dei fondi destinati al nostro settore dovrebbe essere quello di fare arrivare il teatro nei luoghi in cui non arriverebbe mai. Si pensa sempre alla centralità tralasciando il resto del territorio che ha desiderio e bisogno di essere attraversato.

(Bisogna riconoscere che il fermento c’è ed è vivo, e le volte in cui si esce da teatro soddisfatti sono di gran lunga maggiori a quando avviene il contrario).

Un’ altra riflessione ha a che vedere con la dimensione del “tuttofare”. In questo momento sto rispondendo da autore? Attore? Regista? Distributore? Organizzatore? Scenografo? Sogniamo spesso di avere tempo da occupare solo per la creazione artistica, letture di libri, interviste, raccolta di materiale, costruzione di pupazzi e burattini, prove e poi recitare almeno 11 volte alla settimana come diceva Eduardo De Filippo.

A mio avviso una soluzione potrebbe essere quella di affiancare alle compagnie, attraverso i bandi stessi, delle figure che si occupino della parte burocratica e distributiva, liberando i creativi e gli interpreti da ogni altro impegno: restituire tempo.

Dunque creare, pensare a un sistema che permetta ad ogni figura di svolgere il proprio lavoro a fondo.

Teatro della Maruca – Crotone

D: La società contemporanea si caratterizza sempre più in un inestricabile viluppo tra reale e virtuale, tanto che è sempre più difficile distinguere tra online e offline. In questo contesto quali sono oggi, secondo la tua opinione, le funzioni della creazione scenica che si caratterizza come un evento da viversi in maniera analogica, dal vivo, nel momento del suo compiersi, in un istante difficilmente condivisibile attraverso i nuovi media, e dove l’esperienza si certifica come unica e irripetibile ad ogni replica?

Ciò che rende il Teatro primordiale, antico e allo stesso tempo sempre attuale è la sua capacità di creare, con un solo racconto, immagini diverse nella testa di ogni singolo spettatore. Mentre milioni di persone ricevono la stessa immagine su Whatsapp, guardano un video su YouTube, a Teatro ognuno di loro avrà la possibilità di immaginare quel personaggio, quella barca, quel mare blu-verde macchiato di scogli in maniera specifica ed unica. L’esperienza si brucia nell’atto di compiersi, e il viaggio sensoriale emotivo si rinnova ogni volta, anche assistendo allo stesso spettacolo più volte.

Il virtuale è ormai parte integrante della vita quotidiana, è con noi prima di dormire, mentre ceniamo, quando parliamo con altre persone. Il teatro come espressione del sociale viene contaminato da ciò che nel sociale si muove.

Allora penso che nella creazione scenica tutte le scelte sono possibili, a seconda del proprio percorso, del proprio stile, del proprio gusto, ma credo che il teatro in ogni tempo e luogo permetta un’ esperienza di condivisione tra il corpo di chi è in scena e di chi sta assistendo all’evento: un’esperienza insostituibile della quale avremo sempre bisogno.

D: Con la proliferazione dei piani di realtà, spesso virtuali e artificiali grazie ai nuovi media, e dopo essere entrati in un’epoca che potremmo definire della post-verità, sembra definitivamente tramontata l’idea di imitazione della natura, così come la classica opposizione tra arte (come artificio e rappresentazione) e vita (la realtà intesa come naturale). Nonostante questo sembra che la scena contemporanea non abbia per nulla abbandonato l’idea di dare conto e interrogarsi sulla realtà in cui siamo immersi. Qual è il rapporto possibile con il reale? E quali sono secondo te gli strumenti efficaci per confrontarsi con esso?

Intanto c’è da domandarsi che cosa veramente interessi l’artista, cosa vuole raccontare, come e perché. Detto questo, spesso sento dire, proprio da chi il teatro lo fa, che gli strumenti sono aumentati ma aleggia una certa ansia da prestazione creativa che suona come un “già detto, già visto e già fatto”, un atteggiamento che ci porta fuori strada se pensiamo ad un rapporto possibile col reale.

Dunque mi domando: quali narrazioni ci caratterizzano? Quali scegliamo? Cosa nutre veramente chi crea? Cosa e come guardare? Come e cosa far vedere? In questa prospettiva il Teatro continua ad offrire strumenti, ad avere un rapporto profondo, possibile con il reale, diventa spazio di conoscenza condiviso con il pubblico che abbiamo il dovere di andarci a cercare, che non possiamo aspettare soltanto e comodamente in sala.

La risposta, per me, sta nel tornare alle persone, ai luoghi. Il mio rapporto col reale avviene attraverso infusioni di memoria, di ripetizioni sottovoce del materiale “raccolto” senza l’ausilio di mezzi di registrazione: è un ascolto profondo. Ciò che ricordo lo trascrivo e se dimentico qualcosa tornerà in superficie nella mente a distanza di qualche giorno o nel bel mezzo della notte. Questo esercizio “pitagorico” è il mio modo di confrontarmi con il reale.

Un’inversione di tendenza rispetto a un’ epoca in cui tutto può essere impresso, registrato su dispositivi elettronici e porsi come specchio fedele della realtà. Ma è davvero così? Quale porzione di realtà restituiamo e quale escludiamo? Alla fine, come vedi, sono più le domande che le risposte su questo tema, ma forse è proprio questo interrogarsi costantemente il senso profondo dell’arte.

Per chi volesse confrontare le altre interviste:

Lo stato delle cose: uno studio sulla ricerca teatrale italiana

Elena Cotugno

LO STATO DELLE COSE: INTERVISTA A ELENA COTUGNO

Per la ventesima intervista per Lo stato delle cose incontriamo Elena Cotugno. Lo stato delle cose è, lo ricordiamo, un’indagine volta a comprendere il pensiero di artisti e operatori, sia della danza che del teatro, su alcuni aspetti fondamentali della ricerca scenica. Questa riflessione e ricerca partita lo scorso dicembre crediamo sia ancor più necessaria in questo momento di grave emergenza per prepararsi al momento in cui questa sarà finita e dovremo tutti insieme ricostruire.

Elena Cotugno e Giampiero Borgia danno vita nel 2013 a Il Teatro dei Borgia. Nel 2019 Elena Cotugno è stata candidata al Premio Ubu come Miglior attrice under 35 per l’interpretazione di Medea per strada.

Qual è per te la peculiarità della creazione scenica? E cosa necessita per essere efficace?

La creazione scenica è l’obiettivo di ogni artista. L’atto di creazione è qualcosa di estremamente intimo e personale, un atto d’amore puro e complicatissimo, che va rispettato in ogni sua fase e in ogni sua incertezza. Soprattutto, creare, comporta commettere numerosi errori ed errare è umano. Per questo l’attore, o l’artista, devono essere considerati esseri umani prima di qualunque altra cosa. Dunque se creare è errare, potremmo dire allo stesso tempo che creare è umano. Ecco qual è per me la peculiarità della creazione scenica: l’errore umano e chi lo compie cioè l’attore. Io e Gianpiero Borgia, con il quale da anni portiamo avanti un percorso di ricerca artistica personale, crediamo nel lavoro dell’essere umano attore come centro della creazione artistica.

Una distinzione che spesso marchiamo è quella tra creazione scenica e materiali preesistenti o collegati ad essa (testo, tema, musica..). Ci piace considerare il lavoro dell’attore e la sua performance come elemento principe ma allo stesso tempo un lavoro che non discende da questi elementi preesistenti, ma che si serve di essi.

Per cui crediamo che la creazione scenica si concentri essenzialmente sulla gestione del tempo/esperienza che l’attore passa con gli spettatori e sull’attore come creatore, domatore , gestore di questo tempo relazionale. Teatro come tempo gestito ed esperienza condotta dall’attore con gli spettatori.

Elena Cotugno
Elena Cotugno Medea per strada

Oggi gli strumenti produttivi nel teatro e nella danza si sono molto evoluti rispetto solo a un paio di decenni fa, – aumento delle residenze creative, bandi specifici messi a disposizione da fondazioni bancarie, festival, istituzioni -, eppure tale evoluzione sembra essere insufficiente rispetto alle esigenze effettive e deboli nei confronti di un contesto europeo più agile ed efficiente. Cosa sarebbe possibile fare per migliorare la situazione esistente?

Non so cosa sarebbe possibile fare, immagino però cosa si dovrebbe fare e forse non si farà mai. Il problema è un ribaltamento di paradigma; la creazione artistica dovrebbe essere una frontiera del sapere umano e la parte essenziale del lavoro artistico dovrebbe essere quella che banalmente in ogni contesto aziendale serio viene chiamata fase di R&D (Research and Development). Paradossalmente in Italia, nella fase di creazione artistica, questo argomento è residuale: la ricerca si fa con gli avanzi invece di essere la struttura della creazione. Come si possa cambiare questo paradigma culturale rispetto a contesti europei dove invece questo aspetto è acquisito, francamente non lo so. Bisognerebbe pensare che se si dedicassero il debito tempo e le debite risorse strutturali e finanziarie alla ricerca e all’innovazione, succederebbe che la produzione artistica al posto di essere retroguardia di una comunità, diventerebbe avanguardia. È a questo che noi artisti e operatori dovremmo lavorare: a un ribaltamento dei pesi.

La distribuzione di un lavoro sembra essere nel nostro paese il punto debole di tutta la filiera creativa. Spesso i circuiti esistenti sono impermeabili tra loro, i festival per quanto tentino di agevolare la visione di nuovi artisti non hanno la forza economica di creare un vero canale distributivo, mancano reti, network e strumenti veramente solidi per interfacciarsi con il mercato internazionale, il dialogo tra gli indipendenti e i teatri stabili è decisamente scarso, e prevalgono i metodi fai da te. Quali interventi, azioni o professionalità sarebbero necessari per creare efficienti canali di distribuzione?

Anche qui la ricetta è complicata. Credo che il problema della distribuzione sia anch’esso legato a un problema di sistema. Mi pongo spesso domande come “perché si distribuisce poco?”, oppure “dove vanno le risorse?”

I circuiti distributivi e tutta la sfera del teatro pubblico sono finanziati da risorse pubbliche ministeriali e territoriali per promuovere la cultura teatrale. Dovremmo chiederci se le risorse vengono effettivamente impiegate per la distribuzione o se invece vengono impiegate per confermare dati di botteghino attraverso per esempio l’arruolamento di artisti della televisione e quindi la colonizzazione di uno spazio di consumo culturale che dovrebbe essere dedicato al teatro e che invece diventa, anche dal punto di vista del linguaggio e dell’espressione artistica, di tipo televisivo, con codici della televisione traslati a teatro. Oppure se per caso le risorse vengono utilizzate per salvaguardare l’apparato del teatro, cioè la parte più burocratica e amministrativa e non quella di creazione artistica. L’impiego dei finanziamenti pubblici e i motivi per cui lo stato finanzia la cultura andrebbero riconsiderati senza prendere scorciatoie che ci portano alla situazione illustrata nella domanda.

Un altro aspetto riguarda il fatto che le realtà di cui faccio parte anche io rappresentano delle nicchie del settore. Forse adesso, da quello che posso osservare della mia generazione di artisti, le cose stanno un po’ cambiando: spero che un’ondata di nuovi artisti riesca a dar vita a un sistema di vasi comunicanti più facilmente di come non abbiano fatto le generazioni precedenti che invece si sono un po’ chiuse in segmenti e settori. Basterebbe forse una maggiore laicità.

Nei mercati esteri è più semplice fare un discorso di travaso da un settore all’altro perché si ha una visione più industriale del sistema, per cui un buon prodotto off può diventare un prodotto mainstream, e questo rende i luoghi deputati allo scouting più interessanti ed efficaci per l’industria. Penso, per esempio, ai Fringe festival dell’estero, nei quali l’industria del business va a cercare prodotti off da acquisire per l’industria mainstream. In Italia si potrebbe cominciare con eliminare un po’ di pregiudizi che rendono impossibile il travaso tra una nicchia e l’altra.

Elena Cotugno
Elena Cotugno Medea per strada

La società contemporanea si caratterizza sempre più in un inestricabile viluppo tra reale e virtuale, tanto che è sempre più difficile distinguere tra online e offline. In questo contesto quali sono oggi, secondo la tua opinione, le funzioni della creazione scenica che si caratterizza come un evento da viversi in maniera analogica, dal vivo, nel momento del suo compiersi, in un istante difficilmente condivisibile attraverso i nuovi media, e dove l’esperienza si certifica come unica e irripetibile ad ogni replica?

La risposta è nella tradizione del teatro. Non è la prima volta che il teatro deve affrontare una rivoluzione in termini di diffusione e comunicazione. Il teatro ha già affrontato l’avvento della stampa, della fotografia, della radio, della televisione, del cinema e affronterà anche il confronto con i social media e internet. Come può farlo? Più che mai oggi ciò su cui il teatro deve lavorare è il suo peculiare, cioè la costruzione di un’esperienza unica e irripetibile che valorizzi la dimensione dell’esperienza teatrale come un’esperienza non trasferibile sul piano social, come è successo in passato con altri media. Ragionare quindi sul rituale di condivisione momentaneo ed effimero che si consuma nel rito teatrale. Noi teatranti dobbiamo lavorare sull’esperienza condivisa e momentanea con il pubblico senza vivere con complesso d’inferiorità il confronto con nuovi strumenti di comunicazione, che possono essere inglobati nel teatro diventando pezzi di scenografia o strumenti linguistici a servizio della poetica teatrale, e non suoi sostituti.

Con la proliferazione dei piani di realtà, spesso virtuali e artificiali grazie ai nuovi media, e dopo essere entrati in un’epoca che potremmo definire della post-verità, sembra definitivamente tramontata l’idea di imitazione della natura, così come la classica opposizione tra arte (come artificio e rappresentazione) e vita (la realtà intesa come naturale). Nonostante questo sembra che la scena contemporanea non abbia per nulla abbandonato l’idea di dare conto e interrogarsi sulla realtà in cui siamo immersi. Qual è il rapporto possibile con il reale? E quali sono secondo te gli strumenti efficaci per confrontarsi con esso?

Il momento ci sta lanciando una sfida bella e accattivante.

Purtroppo tanti degli strumenti che erano propri del teatro (fiction, mistificazione, artificio retorico, spettacolarizzazione) sono diventati strumenti del vivere comune. Per esempio molti politici italiani hanno acquisito know how tipici del teatro e li hanno utilizzati nel proprio operare quotidiano. La sfida bella di questo momento è che finalmente il teatro può avere un rapporto paritario e frontale con la realtà. Io credo che il teatro non debba imitare la realtà, che non sia subalterno ad essa e che non debba precederla o conseguirne. Teatro e realtà possono dialogare tra loro.

Si possono utilizzare abbondanti pezzi di vita quotidiana in questa nostra ricerca e in questa nostra sfida; l’obiettivo che i teatranti devono avere è quello di incidere con il proprio operato sulla realtà, mettendo a confronto le due cose senza un rapporto di subalternità o di confronto. Non è la vita che imita l’arte né l’arte che imita la vita, il fatto è che l’arte ha i suoi diritti e altrettanto la vita. Dobbiamo tener conto di una e utilizzare pezzi dell’altra come sintagmi delle nostre creazioni, sia da un punto di vista stilistico, che di immagine, che di linguaggio.

Ambendo a incidere con le nostre azioni sulla realtà dobbiamo costruire spettacoli che abbiano delle conseguenze su di essa e quindi sulla coscienza delle persone che vi assistono e sulla loro vita.

E infine dobbiamo nutrirci di realtà, cioè smettere di parlare di noi stessi attraverso il teatro ma saper leggere la vita attorno a noi per trovare gli argomenti cogenti e utilizzare il teatro per approfondirli e discuterli con il pubblico; cogliere argomenti che sono già universali e dai quali ci distraiamo quando non siamo abbastanza attenti a quello che sta succedendo attorno a noi. Parlare dell’universo, senza imitarlo.

Per chi volesse confrontare tutte le interviste pubblicate finora:
https://www.enricopastore.com/lo-stato-delle-cose/

Chiara Bersani

LO STATO DELLE COSE: INTERVISTA A CHIARA BERSANI

Per la diciannovesima intervista per Lo stato delle cose incontriamo Chiara Bersani. Lo stato delle cose è, lo ricordiamo, un’indagine volta a comprendere il pensiero di artisti e operatori, sia della danza che del teatro, su alcuni aspetti fondamentali della ricerca scenica. Questa riflessione e ricerca partita lo scorso dicembre crediamo sia ancor più necessaria in questo momento di grave emergenza per prepararsi al momento in cui questa sarà finita e dovremo tutti insieme ricostruire.

Chiara Bersani è un’artista poliedrica che travalica la consueta distinzione dei generi. Molte sono le sue collaborazioni con i danzatori da Alessandro Sciarroni, Marco D’Agostin e Marta Ciappina. Tra i suoi lavori ricordiamo Goodnight Peeping Tom, The Olympic Game, Family Tree, Miracle Blade, Tell me more, oltre all’ultimo Gentle Unicorn. Nel 2019 vince il Premio Ubu come migliore attrice Under 35.

D: Qual è per te la peculiarità della creazione scenica? E cosa necessita per essere efficace?

Alla base di ogni creazione artistica c’è per me l’identificazione del principio di realtà che la supporta. La messa a fuoco di tale principio avviene nelle primissime fasi di lavoro, quando si identificano i pilastri ai quali ogni pratica attraversata verrà ancorata. Durante l’intero processo di ricerca il principio di realtà avrà il doppio ruolo di sorgente e faro: da qui si innesca la scintilla che appicca il fuoco e di nuovo qui bisogna tornare a confrontarsi e rigenerarsi.

Si tratta di un principio che garantisce e tutela la coerenza interna dell’opera consentendo all’artista di affrontare ardite deviazioni, sperimentare l’incoerenza, scoprire forme di coesione opposte a quelle previste.

Una creazione necessita di strategie di orientamento, specifici punti cardinali e apposite bussole affinché l’artista possa perdersi senza smarrirsi, ricercare senza naufragare.

E qui arriviamo al cuore della domanda: di cosa necessita la creazione artistica? Tempo.

Come si ottiene il tempo? Con i finanziamenti.

Vorrei poter rispondere a questa domanda passando direttamente ad un ipotetico e ben più poetico secondo step, che sicuramente eleverebbe la qualità del nostro dialogo, ma sarebbe ipocrita parlare d’altro quando lo scoglio economico persiste (se non peggiora) di anno in anno. Senza le economie i tempi di sperimentazione si accorciano, gli spazi dedicati ad accogliere imprevisti si annullano. La ricerca, che per sua natura dovrebbe basarsi sul diritto all’errore, al cambio di rotta, al ripensamento e al balbettio, è costretta a barattare questi elementi in nome di schedule di lavoro che sembrano ideate all’insegna del “one shot one kill”.

Ne deriva che l’artista e l’intera equipe creativa investono un’enorme quantità di energie, con conseguente assunzione di rischio, nel tentativo di ritagliare tempi cuscinetto che consentano un minimo di flessibilità senza mettere troppo a rischio l’opera. Per essere concreta: investire 2 giornate nella sperimentazione di un’intuizione per poi scoprire che non rispetta il principio di realtà rendendo necessaria una variazione di rotta, pone l’equipe davanti al bivio “coerenza vs tempi” ammantando l’intero processo creativo di un sottile e costante senso di ansia e frustrazione.

La posizione che vari artisti (tra cui anche io) stanno assumendo davanti a questa griglia è quella di risignificare il termine debutto: da momento in cui l’opera, confezionata e capace di brillare, viene presentata al mondo a step collocato all’interno di un processo di ricerca che sconfina nello spazio dedicato alle prime repliche. Sia chiaro però che questa strategia non deve essere accolta come la soluzione al problema visto che per l’artista non è a costo zero. Infatti quel mondo che cerca l’artista proprio per il rigore della sua ricerca è lo stesso che, nel momento della presentazione dell’opera, troppo spesso ne scorda le condizioni di produzione accogliendo la creazione come un risultato chiuso da leggere con la medesima griglia utilizzata per opere nate in condizioni completamente differenti.

Chiara Bersani
Chiara Bersani Ph: Armunia Castiglioncello

D: Oggi gli strumenti produttivi nel teatro e nella danza si sono molto evoluti rispetto solo a un paio di decenni fa, – aumento delle residenze creative, bandi specifici messi a disposizione da fondazioni bancarie, festival, istituzioni -, eppure tale evoluzione sembra essere insufficiente rispetto alle esigenze effettive e deboli nei confronti di un contesto europeo più agile ed efficiente. Cosa sarebbe possibile fare per migliorare la situazione esistente?

Per ridiscutere la situazione esistente credo sia fondamentale tornare ad osservare il quadro generale e da lì avviare una riflessione sistemica basata sul riconoscimento dell’artista come professionista con potere contrattuale. Partendo da questa base si dovrebbero iniziare a discutere quelle che sono, a mio avviso, tre questioni fondamentali:

Finanziamenti più solidi e continuativi. Pochissime realtà, specialmente nel circuito indipendente, possono contare su partner produttivi che investano economicamente su di loro in maniera trasversale, ovvero non per una singola produzione ma con una progettualità articolata nel futuro. Nella maggior parte dei casi l’artista deve necessariamente ripartire da 0 ad ogni nuova produzione, specialmente se lavora in sospensione tra diversi linguaggi o se, durante la sua carriera, sfora in territori differenti da quelli d’origine.

Solamente chi diventa Artista Associato di un festival o un centro di ricerca, oppure entra nei circuiti produttivi dei teatri stabili (ma qui per la danza o i linguaggi più fluidi l’impresa rasenta l’impossibile) può beneficiare di un sostegno di questo tipo. Va segnalato però che in entrambi questi casi le opportunità presenti nel nostro paese sono numericamente sensibilmente inferiori rispetto alla quantità di autrici e autori professionisti di cui sono richieste le opere ma non supportate le creazioni.

Più rischio d’impresa da parte dei produttori. La maggior parte degli enti che dispongono di significative risorse economiche tendono a supportare realtà autoriali già emerse e affidabili delegando ad altri spazi la scoperta e il supporto di autrici e autori dai linguaggi meno afferrabili.

Le curatrici e i curatori che svolgono in maniera sistematica e puntuale un lavoro di scouting e di sostegno ai nuovi linguaggi e alla sperimentazione, appartengono prevalentemente a realtà poco finanziate, considerate marginali e poeticamente etichettate spesso come preziose o resistenti senza che a questa stima corrisponda un supporto o una rete di sostegno da parte di strutture economicamente più potenti. La conseguenza è che sono numerose le realtà autoriali (non solo emergenti) che arrivano a produrre intere opere basandosi esclusivamente su una rete di residenze senza portafoglio o, nel migliore dei casi, con le giornate di lavoro pagate alla minima.

È importante ricordare che lo spazio in sala è solamente uno degli elementi fondamentali della creazione. Considerare come secondario tutto il resto (disegno luci, tempo di prove tecniche, collaborazione con musicisti per chi desidera suono inedito, possibilità di avvalersi di collaboratori esterni come drammaturghi e consulenti, tempo di studio teorico…) è profondamente sbagliato e pericoloso. Si alimentano così intere generazioni di artiste e artisti invitate/i dai produttori stessi a considerare come secondari tutti questi elementi facendo dell’arte povera una retorica imposta e non più un’eventuale scelta estetica.

Riconoscimento della necessità di un’equipe per l’artista. Se accettiamo un sistema che delega allo spazio Indipendente tutto il mondo della danza contemporanea e degli infiniti linguaggi non inscrivibili in una categoria specifica, allora lo stesso sistema deve riconoscerci la necessità di un equipe che lavori con noi nella creazione costante di nuove strategie produttive e distributive. Perché intercettare bandi è un lavoro. Compilarli è un lavoro. Identificare produttori è un lavoro. Stendere budget è un lavoro. Organizzare una produzione articolata in 10 mini residenze sparse su tutto il territorio nazionale e senza portafoglio o con quote limitate di rimborsi spesa, è un lavoro. Inventare strategie di narrazione per permettere a un opera di circuitare, è un lavoro. All’artista non deve essere chiesto di adempire a tutti questi ruoli ed è profondamente sbagliato il sottile pensiero per cui chi non accoglie tutte queste mansioni sia fondamentalmente snob. Quelle sopra elencate sono competenze specifiche che necessitano di professionisti per essere svolte al meglio. Non riconoscerlo, oltre a sminuire il ruolo fondamentale di Manger, Promoter, Producer ecc aumenta il divario di potere tra il produttore e l’artista in quanto il primo si avvale sempre di tutte le figure sopra elencate pretendendo che il secondo sappia puntualmente interfacciarsi con ognuna di queste.

Se riconosciamo che creare arte è un lavoro allora dobbiamo riconoscere anche che ogni produzione è il risultato di una trattativa tra due soggetti, il produttore e l’artista, i quali devono essere in grado di gestire e trattare ognuno la propria parte di potere contrattuale. Un sistema che esige precisione, burocrazia ed efficienza deve mettere l’artista nelle condizioni di poterlo affrontare. La trattativa produttiva deve svolgersi tra due realtà professionali, non tra un padre generoso e un allievo in costante ansia da prestazione

D: La distribuzione di un lavoro sembra essere nel nostro paese il punto debole di tutta la filiera creativa. Spesso i circuiti esistenti sono impermeabili tra loro, i festival per quanto tentino di agevolare la visione di nuovi artisti non hanno la forza economica di creare un vero canale distributivo, mancano reti, network e strumenti veramente solidi per interfacciarsi con il mercato internazionale, il dialogo tra gli indipendenti e i teatri stabili è decisamente scarso, e prevalgono i metodi fai da te. Quali interventi, azioni o professionalità sarebbero necessari per creare efficienti canali di distribuzione?

Rimando alla risposta fornita per la domanda precedente.

Chiara Bersani
Chiara Bersani al BIg Bari Gender film festival Ph: Pierpaolo Pepe

D: La società contemporanea si caratterizza sempre più in un inestricabile viluppo tra reale e virtuale, tanto che è sempre più difficile distinguere tra online e offline. In questo contesto quali sono oggi, secondo la tua opinione, le funzioni della creazione scenica che si caratterizza come un evento da viversi in maniera analogica, dal vivo, nel momento del suo compiersi, in un istante difficilmente condivisibile attraverso i nuovi media, e dove l’esperienza si certifica come unica e irripetibile ad ogni replica?

Oggi è il 17 Marzo del 2020 e credo sia ovvio, data la situazione internazionale in cui siamo, che rispondere a questa domanda con onestà sarebbe impossibile. Nessuno di noi ha idea di quando potrà tornare a vivere la scena né delle modalità con cui questo accadrà.

Quanto tempo passerà prima che ci sia permesso performare? Chi incontreremo in quel tempo futuro? Cosa porterà il pubblico nei teatri? Con quali aspettative? Quali ricordi? Chi sarà diventato? Cosa significherà per tutti la parola folla quel giorno? Come verrà vissuto il foyer?

E noi? Chi saremo diventati? Cosa vorrà dire per noi assumerci la responsabilità di riportare le persone nei tanto temuti luoghi chiusi? Per quanto tempo la parola “assembramento” farà paura?

E io che appartengo a quella fascia fragile attualmente privata di personalità, io che, a detta di molti, sono tra quelle persone “per cui tutti fanno il grande sforzo di stare in casa”. Io che appartengo a quel gruppo di persone che anche senza pandemia conosceva il significato di essere costretta a casa o perdere un lavoro per motivi di salute…

Io, come vivrò il momento in cui torneremo ad incontrarci?

D: Con la proliferazione dei piani di realtà, spesso virtuali e artificiali grazie ai nuovi media, e dopo essere entrati in un’epoca che potremmo definire della post-verità, sembra definitivamente tramontata l’idea di imitazione della natura, così come la classica opposizione tra arte (come artificio e rappresentazione) e vita (la realtà intesa come naturale). Nonostante questo sembra che la scena contemporanea non abbia per nulla abbandonato l’idea di dare conto e interrogarsi sulla realtà in cui siamo immersi. Qual è il rapporto possibile con il reale? E quali sono secondo te gli strumenti efficaci per confrontarsi con esso?

Siamo veramente sicuri di essere davanti ad una dicotomia?

Personalmente sono sempre stata piuttosto dubbiosa sul considerare il virtuale come opposto al reale. Sono numerose le artiste e gli artisti che proprio per parlare del contemporaneo scelgono i mezzi virtuali, così come spesso l’attivismo grazie al virtuale ha la possibilità di creare reti e moti ondosi finalizzati ad agire sul reale….ma anche restando nel nostro ambito, o ancor più nello specifico nei miei lavori, che pure sono sempre profondamente analogici, nessuna mia opera avrebbe la sua attuale forma senza le possibilità di ricerca / studio / comunicazione / scoperta che il virtuale mi concede.

Prendiamo Gentle Unicorn: parte della sua drammaturgia è la creazione di un rapporto con il pubblico basata sulla graduale costruzione di una reciproca prossimità tra i nostri corpi e sulla silenziosa tessitura di una rete di sguardi. Questo significa che l’intera opera esplora elementi profondamente culturali alla cui variabilità è fondamentale che io sia preparata. Nella vicina Austria, per esempio, le bambine e i bambini con disabilità frequentano scuole speciali e raramente da adulti vengono inseriti nella società. Fare Gentle Unicorn in una piccola città austriaca voleva dire incontrare persone che non avevano familiarità con corpi eccentrici come il mio e infatti le reazioni sono state particolarmente forti sia nell’entusiasmo che nel terrore (è stata l’unica data in cui le due bambine presenti erano terrorizzate da me).

L’unico motivo per cui questa ondata emotiva così complessa da gestire non mi ha travolta è stato che, grazie ad una collaborazione virtuale avviata 2 anni fa con un gruppo di artiste e artisti attiviste/i con disabilità austriaci, ero già stata informata del contesto culturale in cui andavo a lavorare. Il virtuale, in questo esempio, ha informato il mio reale indirizzandolo verso riflessioni che non avrei avuto la possibilità di aprire altrimenti.

Nell’ambito del mondo delle persone con disabilità il virtuale è spesso una via di accesso alla realtà irrinunciabile. Consente a chi non può partecipare fisicamente ad esperienze comunitarie, di aderirvi per una via diversa.

A costo di essere retorica, visto che scrivo dalla quarantena, invito tutte e tutti a fare un esercizio di memorizzazione sulle strategie messe in atto ORA per non perdere il contatto con il mondo grazie al virtuale. Chiedo di memorizzarla perché questa strada, che a molte e molti di noi risulta eccezionale e temporanea, la percorrono ogni giorno moltissime persone che, per differenti motivi, non possono uscire di casa o dal paese / città in cui vivono.

Quello che per tante e tanti è un temporaneo sentiero inconsueto, per numerosissime altre persone è un’irrinunciabile strada maestra.

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Per saperne di più su Chiara Bersani: www.chiarabersani.it

Il Mulino di Amleto

LO STATO DELLE COSE: INTERVISTA A IL MULINO DI AMLETO

Per la diciottesima intervista de Lo stato delle cose incontriamo Barbara Mazzi e Marco Lorenzi, fondatori della compagnia torinese Il Mulino di Amleto e rispettivamente attrice e regista. Lo stato delle cose è, lo ricordiamo, un’indagine volta a comprendere il pensiero di artisti e operatori sia della danza che del teatro su alcuni aspetti fondamentali della ricerca scenica. Il Mulino di Amleto nasce nel 2009 e ha già al suo attivo numerosi spettacoli. Tra questi ricordiamo: Platonov, Senza Famiglia, Ruy Blas, Il misantropo, Susannah. Inoltre nel corso della stagione 2019/2020 la compagnia ha avviato Cantiere Ibsen #artneedstime un laboratorio aperto alla ricerca sul linguaggio teatrale senza fini di produzione. Nel 2019 Il Mulino di Amleto è stato finalista al Premio Rete Critica.

D: Qual è per te la peculiarità della creazione scenica? E cosa necessita per essere efficace?

Marco Lorenzi: Penso che sia importante non dimenticare che la creazione scenica ha a che vedere con la comunicazione e non con l’espressione personale. La pura espressione di un stato d’animo, di una impressione, di un’immagine, di un fatto di cronaca, di una storia, di una statistica, di un desiderio puro e semplice di occupare lo spazio scenico non sono comunicazione, sono bisogno di espressione, cioè non presuppongono la trasmissione e la condivisione con l’Altro attraverso il filtro di una visione poetica, estetica ed etica del mondo. L’Altro in quanto spettatore è previsto solo come soddisfacimento di un mio bisogno narcisistico di approvazione. E questo – per me – non è sufficiente. Quando uso il termine “comunicazione”, invece, penso che una creazione artistica debba porsi il “problema dell’Altro” in quanto elemento inscindibile dell’opera poetica che si svolge nello spazio scenico, non come un puro voyeur, o un “consumatore”, ma come un impulso inscindibile alle domande che muovono la creazione artistica, come occhio umano che svela le nostre finzioni, che ci ricorda che è solo Teatro, che condivide con noi artisti il desiderio di chiedersi “chi sono?” . Senza comunicazione non esiste teatro come fatto artistico, secondo me. Esiste in quanto attività amatoriale; il che non è sbagliato, ma è semplicemente un’ altra cosa. A quanto detto sulla “comunicazione” va aggiunto uno scarto fondamentale: a noi Artisti va chiesta la responsabilità di un punto di vista sul mondo, ovvero di una messa in crisi di un ordine di valore assodato. Ci viene chiesto di mettere in dubbio continuamente se “viviamo nel migliore dei mondi possibili”. Non possiamo essere consolatori o “buoni” in accezione culinaria – come direbbe Brecht – , ma dobbiamo usare il teatro per essere nel nostro tempo in relazione con quanto ci ha preceduto nel passato e in allerta con quanto potrà accadere nel futuro. Per questo parlo di “un punto di vista su mondo”. Senza di questo, la creazione scenica è pura espressione pittorica, decorativa. Non arriverei neanche a parlare di estetica, perché secondo me non esiste estetica senza etica. La forma che precede o sostituisce un contenuto, la forma fine a se stessa o che non arriva alla comunicazione per me è solo vuoto. Per finire, è necessaria la ricerca costante e instancabile di una poetica personale e sincera. Di una ricerca di connessione con il proprio mondo simbolico e metaforico più profondo. Non basta la riconsegna di un evento, di un testo, di un processo di ricerca. È necessario rielaborare il tutto con un sistema di segni, di simboli onesti e sinceri che determinano il mio essere artista. Ovviamente non è necessariamente un lavoro individualistico: nel caso del mio percorso con la mia compagnia Il Mulino di Amleto, è sempre la ricerca delicata e profonda di un immaginario collettivo. Mi piace lavorare in gruppo e con il gruppo, personalmente mi sento più povero quando creo da solo, solitamente arrivo pieno di idee e progetti che abbandono il primo giorno di prove, scopro con le persone che ho davanti cosa creare di nuovo e per cui vogliamo “lottare” entrambi. Il percorso di prove è per questo unico e diverso con ogni singolo artista, questo lo è in generale, ma nel nostro caso specifico, in particolare, vi posso solo invitare, con piacere a vedere le prove. Ecco, per provare a fare una sintesi delle peculiarità che hai richiesto nella tua domanda, direi che 1) la creazione scenica è “comunicazione” e non è “espressione”, 2) la creazione scenica deve esprimere un punto di vista sul mondo, 3) la creazione scenica richiede la ricerca di una poetica, 4) è inscindibile dal concetto di rischio.

Barbara Mazzi: La peculiarità della creazione scenica… forse non c’è una sola peculiarità, ma diverse. Cosa è una “creazione scenica”? Ormai questa definizione è ampia. Intanto devo capire cosa intendo per “creazione scenica”. Se ripeto più volte questa espressione “creazione scenica”, la mia mente ha dei riferimenti che ovviamente sono parziali perché filtrati dal mio gusto, dal mio pensiero e dalla mia esperienza. Associo a “creazione” la parola artistico, quindi probabilmente deve avere qualcosa di artistico in sé e per essere artistico forse deve essere espressione di un pensiero, di un’idea, di un talento da comunicare fuori di sé, quindi ad un pubblico, quindi avere uno spazio pubblico nel quale essere presentato, quindi una scena sulla quale muoversi e il termine scenico mi rimanda al teatro o a spazi performativi, che ormai possono essere ovunque. Poco per volta “delimito” il raggio di azione del termine “creazione scenica”, ecco che mi rimangono le seguenti associazioni come ipotetiche peculiarità: artistica, comunicativa, in movimento dal dentro di sé al fuori, realizzata in luoghi predisposti per accogliere un pubblico, ancora in qualche modo associata al teatro, alla performance, alla danza, quindi allo spettacolo dal vivo. Ad es. un quadro o un film non sono una creazione scenica, possono essere una creazione o una creazione artistica, ma non scenica. Cosa necessita per essere efficace? per me… sono molto naif io, mi deve interessare, affascinare, essere esteticamente curata, non spiegarmi le cose, non “rappresentare”, farmi vedere qualcosa che non so o qualcosa di nuovo, ma non in modo pretestuoso o forzoso o dimostrativo, attivarmi, possibilmente non irritarmi, comunicare con me, “non essere perfetta”, non essere “comme il faut”, perché a me personalmente annoia, non essere quello che mi aspetto, sorprendermi, non essere solo un’idea “che risolve tutto”, avere più livelli, affrontare argomenti e temi che mi riguardano e molte molte altre cose. Riflettendo ancora, per fare tutto ciò, come artista, devo pensare a chi voglio parlare, con chi voglio comunicare, chi è il mio pubblico, come faccio a “smuovere” il mio pubblico (a volte basta uno sguardo in più o uno in meno, non c’è per forza sempre bisogno di qualcosa di gigantesco), infine aggiungo l’onestà. Le volte che ho amato di più le creazioni sceniche è stato quando aderivano al proprio artista, in connessione profonda con il proprio sé, senza lasciarsi incrinare dall’inseguire il gusto del pubblico, o degli operatori o della critica, o del successo, ecco lì ho trovato l’efficacia per me, qualcosa che andava oltre, magari non era il mio gusto, ma riconosco in quei casi una forza, una necessità di comunicazione artistica.

Il Mulino di Amleto – Platonov

D: Oggi gli strumenti produttivi nel teatro e nella danza si sono molto evoluti rispetto solo a un paio di decenni fa, – aumento delle residenze creative, bandi specifici messi a disposizione da fondazioni bancarie, festival, istituzioni -, eppure tale evoluzione sembra essere insufficiente rispetto alle esigenze effettive e deboli nei confronti di un contesto europeo più agile ed efficiente. Cosa sarebbe possibile fare per migliorare la situazione esistente?

Marco Lorenzi – Barbara Mazzi: E’ una situazione davvero complessa, a nostro avviso. Servono più soldi, serve gestirli meglio, serve più onestà, più coraggio, più dinamismo. Serve distanziarsi da alcuni atteggiamenti lobbistici, essere onesti intellettualmente, credere negli artisti. C’è troppa domanda rispetto all’offerta e questo richiede un’ assunzione di responsabilità importante da parte delle istituzioni, soprattutto politiche che sono chiamate a prendersi cura della “società teatrale”.

Semplicemente quello che c’è non è sufficiente, sarebbe una bella insufficienza a scuola e poi una bocciatura, ma non ci abbattiamo, rimbocchiamoci le maniche. Ci sono degli esempi virtuosi e quelli per noi sono forza.

Siamo una compagnia, come altre, come altri artisti, che cerca di essere attenta allo stato dell’Arte e del sistema nella sua totalità, ma questo crediamo sia necessario, in generale quando sei un artista, in particolare quando hai un gruppo, hai delle responsabilità, di conseguenza sei impegnato su più fronti. Creiamo i nostri spettacoli, cerchiamo sempre produttori e collaboratori che si fidino di noi e che ci stimino, creiamo progetti extra teatrali, collaboriamo con scuole, con altre compagnie, siamo attivi, siamo impegnati ecco e questo impegno costante ti porta a vedere anche le mancanze, ad avere una visione ampia della situazione. Ci sono situazioni anche positive, assolutamente sì, quelle, come detto, danno forza per continuare ad interrogarsi, ad agire e migliorare.

Ad esempio questo anno ci siamo interrogati su cosa ci mancasse, certo che la risposta è “sempre i soldi”, ma non sempre è quello il punto. Perché in questo caso ci siamo accorti che in un sistema sempre più sclerotizzato su una corsa ai numeri, alla produzione – una produzione ossessiva che sembra essere l’unico valore di un panorama teatrale che sta diventando un “mercato” – quello di cui veramente avevamo bisogno era il Tempo per la ricerca, per approfondire, per scoprire punti di vista nuovi, slegandoci da ogni incombenza produttiva e performativa. Guardandoci intorno e parlando con altri artisti e colleghi, ci siamo accorti di non essere soli, ecco che la nostra risposta, spontanea e auto-sostenuta, è stata #ArtNeedsTime #Cantiere Ibsen, crediamo che un bel po’ di buono ne sia uscito.

D: La distribuzione di un lavoro sembra essere nel nostro paese il punto debole di tutta la filiera creativa. Spesso i circuiti esistenti sono impermeabili tra loro, i festival per quanto tentino di agevolare la visione di nuovi artisti non hanno la forza economica di creare un vero canale distributivo, mancano reti, network e strumenti veramente solidi per interfacciarsi con il mercato internazionale, il dialogo tra gli indipendenti e i teatri stabili è decisamente scarso, e prevalgono i metodi fai da te. Quali interventi, azioni o professionalità sarebbero necessari per creare efficienti canali di distribuzione?

Marco Lorenzi – Barbara Mazzi: L’Italia è un sistema che ha ancora molto viva la tradizione delle compagnie di giro, è ricca di compagnie indipendenti che vivono di produzione, progetti e tournée e questo non si può ignorare. Il sistema delle compagnie che producono e girano sono la spina dorsale di una società teatrale come quella italiana. E in questo è quasi un “unicum“ rispetto a quello che accade all’estero. L’attività e il dinamismo della creatività delle piccole e medie compagnie in Italia è importante, eppure si sta cercando di tagliarle sempre più fuori. La fotografia che è stata prodotta dal decreto ministeriale per il Fus è evidentemente una fotografia falsata del reale. Punta a marginalizzare l’attività d distribuzione nazionale di compagnie che fanno di questa attività il loro “core business”. In questi ultimi anni ci sembra ci siano stati dei tentativi di europeizzazione, senza però investire coraggiosamente le risorse necessarie creando degli ibridi dannosissimi. Le compagnie indipendenti in Italia sono importanti, molto più che all’estero, perché all’estero gli ensembles sono dei teatri stabili, invece in Italia gli ensembles, tranne in rarissime eccezioni, sono delle compagnie indipendenti e questo valore aggiunto non è considerato. Invece bisogna considerare la  nostra storia e la nostra natura o indole. Per quanto riguarda l’europeizzazione, invece, il ritardo rispetto al resto del continente è abissale. Viviamo di un provincialismo preoccupante. Non giochiamo ad armi pari con i nostri colleghi e poi rimaniamo stupiti dalle produzioni estere che arrivano, anche noi esportiamo eccellenze, ma poche troppo poche rispetto ai nostri talenti, ci sono fidatevi! Le poche esperienze, Festival in particolare, che cercano di costruire un dialogo sensato tra artisti italiani e realtà europee, lo fanno con pochissimi soldi e senza veri e propri programmi istituzionali alle spalle. Continuare a lamentarci che all’estero gli artisti fanno cose meravigliose e in Italia no, è ovviamente demenziale. È una questione di circostanze. Ci sono delle responsabilità di una politica e di istituzioni che hanno un ruolo ben preciso per questo vuoto che si è venuto a creare.

Il Mulino di Amleto – Ruy Blas

D: La società contemporanea si caratterizza sempre più in un inestricabile viluppo tra reale e virtuale, tanto che è sempre più difficile distinguere tra online e offline. In questo contesto quali sonooggi, secondo la tua opinione, le funzioni della creazione scenica che si caratterizza come un evento da viversi in maniera analogica, dal vivo, nel momento del suo compiersi, in un istante difficilmente condivisibile attraverso i nuovi media, e dove l’esperienza si certifica come unica e irripetibile ad ogni replica?

Barbara Mazzi: Crediamo nell’analogico, nel concreto, nell’esperienza condivisa, nell’umanità delle persone e pensiamo che ce ne sia sempre più voglia e necessità. Crediamo che la creazione scenica possa creare condivisone ed essere necessaria per togliere paura. Se mi accorgo di non essere solo, ma altri in “platea” con me stanno piangendo, soffrendo, scalpitando, arrabbiando, condividono con me un ‘esperienza allora forse ho meno paura, allora forse sono più accogliente allora, forse, parlo, mi apro…Noi ci ripetiamo spesso he il Teatro, per noi, è “esseri umani che si interrogano con altri esseri umani di che cosa vuol dire essere umani”.

Marco Lorenzi: Aggiungo ancora che l’esperienza performativa, la creazione artistica per il palcoscenico- sia essa prosa, danza, ecc… è una delle poche esperienze non riproducibili con un’ applicazione. Puoi scrivere un romanzo, girare un film, scattare fotografie, creare arte visiva con una o più applicazioni, ma non puoi realizzare il buon “vecchio” “fare teatro”. È un evento comunitario – e non di “community” – è offline per principio, presuppone il “live” per sua stessa natura, la partecipazione concreta e non virtuale. E questo ci fa pensare che il teatro ha ancora un futuro e se serve l’online per andare offline questa è l’epoca con cui giocare. E’ necessario il teatro per continue a ricordarci cosa vuol dire essere uomini. Hai ragione nel dire che il teatro vive in un istante che è difficilmente condivisibile sui nuovi media. Bene! Questa è una buona notizia. Vuol dire che abbiamo una speranza contro l’omologazione spaventosa a cui stiamo andando incontro e questo è proprio il ruolo del teatro.

D: Con la proliferazione dei piani di realtà, spesso virtuali e artificiali grazie ai nuovi media, e dopo essere entrati in un’epoca che potremmo definire della post-verità, sembra definitivamente tramontata l’idea di imitazione della natura, così come la classica opposizione tra arte (come artificio e rappresentazione) e vita (la realtà intesa come naturale). Nonostante questo sembra che la scena contemporanea non abbia per nulla abbandonato l’idea di dare conto e interrogarsi sulla realtà in cui siamo immersi. Qual è il rapporto possibile con il reale? E quali sono secondo te gli strumenti efficaci per confrontarsi con esso?

Marco Lorenzi – Barbara Mazzi: Possiamo dire che è andato a cadere il vincolo di attenersi ad una concezione naturalistica del teatro come “specchio della natura”. Questo in realtà ci permette di poter giocare con la rottura o per meglio dire l’ibridazione dei codici con molta più libertà e curiosità. Come se il linguaggio contemporaneo che è meticcio, pieno di codici che si scambiano, di crossing, avesse fatto la sua irruzione nel teatro cambiando le regole del gioco. Questo non vuol dire che il naturalismo non può più essere usato a teatro, ma che lo possiamo accompagnare – ad esempio – da una fertile interpolazione con altri linguaggi non costituendo un ordine gerarchico tra codici, ma concorrendo tutti a costruire il racconto dello spettacolo con la stessa importanza. Quello che davvero conta è che non importa il codice o la tecnologia che decido di usare in una creazione teatrale, ma quello che è importante è che non possiamo non parlare di noi, di cosa succede oggi, di quello che siamo, dove stiamo andando, della nostra realtà. Per noi questa è la priorità, la forma è solo una conseguenza, modificata e continuamente modificabile a seconda di ciò di cui stiamo parlando e di come decidiamo di comunicarlo nel contesto storico- sociale che ci circonda. Il contenuto per noi è prioritario e il contenuto “siamo noi”, qui, oggi. E gli attori, le persone, tutte, anche gli uffici, che lavorano alla creazione sono anelli imprescindibili in questa catena. Se non c’è amore da parte di tutti questi “anelli”, compresi gli uffici, non ci può essere amore in sala prove, perché l’artista non si sente amato e creduto. Allora non ci può essere amore in scena, non ci può essere amore tra attore e spettatore, non c’è una comunione e una condivisione che fa scattare l’eros, l’energia, la forza vitale che fa uscire dal “teatro” cambiati e pronti a cambiare qualcosa di sé e intorno a sé. Per me, per noi il “teatro”, la “creazione scenica” , ecco ora torniamo alla prima domanda, è azione, è politica, è pericolosa, è pensante, è pensata, è in comunione, è in condivisione, è forte e ha bisogno di amore, di coraggio, di fiducia.

Babilonia Teatri

LO STATO DELLE COSE: INTERVISTA A BABILONIA TEATRI

Per la diciassettesima intervista incontriamo Valeria Raimondi ed Enrico Castellani, fondatori di Babilonia Teatri. Ricordiamo che Lo stato delle cose è un’indagine volta a conoscere il pensiero di artisti e operatori su alcuni temi fondamentali quali: condizioni basilari per la creazione, produzione, distribuzione, rapporto con il reale e funzioni della scena.

Di base nel veronese Babilonia Teatri, vincitori di due Premi Ubu e di un Leone d’Argento, rappresenta una delle formazioni di ricerca più interessanti e dirompenti nell’unire una drammaturgia tagliente con forti sfumature politiche con un teatro per lo più istallativo. Tra i lavori più importanti ricordiamo Made in Italy (vincitore Premio Scenario 2007), Jesus, Pedigree, Paradiso, Calcinculo e Padre Nostro.

D: Qual è per te la peculiarità della creazione scenica? E cosa necessita per essere efficace?

Credo che la peculiarità della creazione scenica, come ogni forma d’arte, sia la tabula rasa di partenza che ad ogni spettacolo abbiamo davanti a noi, le infinite possibilità che ci impongono di dover continuamente scegliere, decidere, declinare. Ogni spettacolo deve trovare la sua forma scenica in grado di veicolare i contenuti e le emozioni che stanno a monte delle creazione. La creazione per essere efficace non deve mai dimenticare quale sia stato il grumo emotivo e di pensiero da cui si è partiti. Ogni volta che la creazione si incaglia, che il lavoro sembra perdere forza e senso è necessario alzare lo sguardo e fare un passo indietro. E’ necessario recuperare e non dimenticare il perché di partenza.

Babilonia teatri Pedigree

D: Oggi gli strumenti produttivi nel teatro e nella danza si sono molto evoluti rispetto solo a un paio di decenni fa, – aumento delle residenze creative, bandi specifici messi a disposizione da fondazioni bancarie, festival, istituzioni -, eppure tale evoluzione sembra essere insufficiente rispetto alle esigenze effettive e deboli nei confronti di un contesto europeo più agile ed efficiente. Cosa sarebbe possibile fare per migliorare la situazione esistente?

Credo che ogni compagnia ed ogni artista abbia necessità diverse, oggi forse più di ieri. Il passo da compiere sarebbe mettersi maggiormente in ascolto, provare a non ragionare e a non procedere secondo logiche standard più o meno consolidate, ma aprirsi ed adeguarsi ad esigenze creative e produttive non sempre omogenee e lineari. Esigenze che non sempre sono in grado di restare coerenti a se stesse, che non sono univoche, che reclamano la possibilità di contraddirsi, di cambiare strada lungo il tragitto, di uscire da binari che sono maggiormente certi e maggiormente in grado di rispondere a valutazioni di tipo numerico eteroimposte, ma che finiscono per non rispondere alle esigenze della creazione. Tutto questo in parte sta già accadendo, ma credo sia necessario il coraggio di andare fino in fondo. Credo sia necessario, a volte, rinunciare ad alcune certezze, in nome delle quali il percorso creativo deve piegarsi ai dettami dei numeri, per poter seguire un percorso creativo libero; o quantomeno non compiere le proprie scelte artistiche per rispondere a parametri dati, ma affidarsi a chi è in grado di far rientrare un percorso artistico personale nella nomenclatura esistente.

D: La distribuzione di un lavoro sembra essere nel nostro paese il punto debole di tutta la filiera creativa. Spesso i circuiti esistenti sono impermeabili tra loro, i festival per quanto tentino di agevolare la visione di nuovi artisti non hanno la forza economica di creare un vero canale distributivo, mancano reti, network e strumenti veramente solidi per interfacciarsi con il mercato internazionale, il dialogo tra gli indipendenti e i teatri stabili è decisamente scarso, e prevalgono i metodi fai da te. Quali interventi, azioni o professionalità sarebbero necessari per creare efficienti canali di distribuzione?

E’ vero che spesso i diversi circuiti diventano dei cerchi concentrici che non si toccano mai. E’ vero anche che alcune aperture sono sempre più presenti. Altrettanto vero è che il teatro italiano è molto poco conosciuto fuori dal nostro paese. Credo che le azioni da compire sarebbero molteplici, sia a livello istituzionale, che da parte dei teatri, dei festival e delle compagnie. Non penso sia individuabile un responsabile unico. La mia opinione è che ognuno deve individuare le sue priorità e sulla base di queste decidere il tipo di lavoro che vuole svolgere da un punto di vista distributivo.

Jesus
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D: La società contemporanea si caratterizza sempre più in un inestricabile viluppo tra reale e virtuale, tanto che è sempre più difficile distinguere tra online e offline. In questo contesto quali sono oggi, secondo la tua opinione, le funzioni della creazione scenica che si caratterizza come un evento da viversi in maniera analogica, dal vivo, nel momento del suo compiersi, in un istante difficilmente condivisibile attraverso i nuovi media, e dove l’esperienza si certifica come unica e irripetibile ad ogni replica?

Credo che il qui ed ora del teatro sia oggi come un tempo una dimensione dotata di una vera e propria unicità. Il teatro è una comunità. E’ un luogo di incontro e di scambio. Un luogo dove alcuni corpi si incontrano, si annusano, si sfiorano e si toccano, sul palcoscenico e in platea. Il teatro è un luogo dove la fruizione dello spettacolo è condizionata dal nostro corpo, dalle condizioni psico fisiche di cui godiamo durante la visione. Anche i corpi attorno al nostro, le loro reazioni e il loro umore, finiscono per essere parte dello spettacolo. Credo che oggi non siano molti i luoghi in cui comunità di questo tipo si creano e si sciolgono, per poi magari tornare ad incontrarsi. Il teatro oggi può essere ancora un luogo di incontro e di scambio. Di confronto e di dialettica.

La creazione scenica per noi è sempre stata occasione per confrontarsi e occuparsi del reale, per esserne specchio. Crediamo che il teatro possa ancora essere lente di ingrandimento e di scandaglio di quello che ci circonda e che spesso ci scivola addosso per assuefazione, noia, distrazione disinteresse. Il teatro è in grado di condensare, di coagulare senso e parole, di rendere evidente e se possibile dirompente la materia e le notizie che nel quotidiano ci attraversano senza lasciare traccia. Credo che il teatro non debba abdicare a questo compito. Lo ha sempre svolto e fino quando esisterà resterà una sua prerogativa.

D: Con la proliferazione dei piani di realtà, spesso virtuali e artificiali grazie ai nuovi media, e dopo essere entrati in un’epoca che potremmo definire della post-verità, sembra definitivamente tramontata l’idea di imitazione della natura, così come la classica opposizione tra arte (come artificio e rappresentazione) e vita (la realtà intesa come naturale). Nonostante questo sembra che la scena contemporanea non abbia per nulla abbandonato l’idea di dare conto e interrogarsi sulla realtà in cui siamo immersi. Qual è il rapporto possibile con il reale? E quali sono secondo te gli strumenti efficaci per confrontarsi con esso?


Credo che oggi il teatro abbia più mezzi che mai per confrontarsi col reale. Il teatro non è più luogo di esclusiva rappresentazione. I piani di intersezione tra verità e finzione, tra autobiografico e letterario, tra reale e virtuale dialogano spesso sul palco declinati secondo le diverse sensibilità. E’ un tempo in cui i linguaggi si contaminano, si sporcano, cercano relazioni inesplorate per approdare continuamente a scoperte e sconfitte.
Il teatro oggi è un luogo in cui il reale irrompe in infinite forme. Ogni artista cerca la sua mediazione, la sua lingua, la sua via per portare il reale sul palco. Quello che vediamo non è mai il reale, altrimenti ci troveremmo davanti ad un’opera di tipo installativo. Molto spesso ciò a cui assistiamo è un factotum del reale, una sua riproduzione che, nei modi più svariati, ha il compito di rendere teatrale ciò che, seconda l’idea tradizionale di rappresentazione, teatrale non è.

Il teatro da sempre è specchio del suo tempo e siamo convinti debba continuare ad esserlo, le forme da utilizzare perché questa funzione sia svolta in modo efficace, vanno ricercate di continuo.

Il reale è davanti ai nostri occhi ogni istante, ma spesso fatichiamo a vederlo, a decifrarlo, a relazionarci con esso e ad immaginarne il futuro. Il teatro può venirci in aiuto attraverso la sua funzione di lente d’ingrandimento, la sua funzione maieutica, la sua capacità di accostare i pezzi. Non credo che il teatro abbia né la capacità né la funzione di creare un quadro unitario di ciò che ci circonda, ma di certo può sollevare dei veli, risvegliare dei fuochi e instillare dei dubbi.

Michele Mele

LO STATO DELLE COSE: INTERVISTA A MICHELE MELE

Per la sedicesima intervista per Lo stato delle cose incontriamo Michele Mele. Anche con lui affrontiamo le questioni che concernono creazione scenica, produzione, distribuzione, rapporto con il reale e funzioni della scena. Il viaggio che ci siamo proposti all’inizio di questo ciclo di interviste era scoprire la ricchezza di pensiero degli artisti che oggi lavorano e creano in un contesto estremamente complesso, e volevamo anche provare a ragionare con loro alla ricerca di soluzioni possibili.

Michele Mele si occupa di organizzazione teatrale e collabora con la Compagnia Stabilemobile di Antonio Latella, cura la promozione di Anagoor nell’abito del progetto Fies Factory e dal 2018 cura il managing del progetto Ultra con Gruppo Nanou e Masako Matsushita. È stato candidato al Premio Ubu 2019 nella categoria miglior organizzatore.

D: Qual è per te la peculiarità della creazione scenica? E cosa necessita per essere efficace?

La peculiarità del mio lavoro riguarda l’accompagnamento: conoscere e affiancare gli artisti e seguire la loro progettualità fin dall’inizio. A me interessa capire che cosa una creazione rappresenta all’interno di un percorso, quale direzione indica.
Hai presente quando esci da teatro e vuoi sapere tutto del lavoro dell’artista che hai visto, degli attori, vuoi leggere la letteratura completa dell’autore/autrice?
Ne devi volere ancora…

D: Oggigli strumenti produttivi nel teatro e nella danza si sono molto evoluti rispetto solo a un paio di decenni fa, – aumento delle residenze creative, bandi specifici messi a disposizione da fondazioni bancarie, festival, istituzioni -, eppure tale evoluzione sembra essere insufficiente rispetto alle esigenze effettive e deboli nei confronti di un contesto europeo più agile ed efficiente. Cosa sarebbe possibile fare per migliorare la situazione esistente?

Oggi ci sono più strumenti e meno soldi, budget inferiori rispetto a 10 anni fa per progetti che coinvolgono molti più soggetti, nel migliore dei casi anche molto diversi tra loro.

I teatri, più che gli artisti o i festival, possono mettere in campo azioni concrete inserite in logiche strutturali: proporre ad esempio lo stesso numero di repliche per teatro, danza e musica (contemporanei) nelle stagioni ‘classiche’, uscendo dalle logiche perimetrali delle sezioni, delle rassegne, delle architetture comunicative e cercare di mettersi in relazione con gli artisti e con i territori. I teatri vinceranno la sfida se sapranno rendersi veramente attraversabili, prima di tutto come spazi: lasciarsi abitare dagli artisti e dai loro progetti, creare le condizioni per una relazione di prossimità con il pubblico, fare in modo che le varie comunità vi transitino concretamente.

D: La distribuzione di un lavoro sembra essere nel nostro paese il punto debole di tutta la filiera creativa. Spesso i circuiti esistenti sono impermeabili tra loro, i festival per quanto tentino di agevolare la visione di nuovi artisti non hanno la forza economica di creare un vero canale distributivo, mancano reti, network e strumenti veramente solidi per interfacciarsi con il mercato internazionale, il dialogo tra gli indipendenti e i teatri stabili è decisamente scarso, e prevalgono i metodi fai da te. Quali interventi, azioni o professionalità sarebbero necessari per creare efficienti canali di distribuzione?


Teatri, festival, artisti, compagnie potrebbero interagire di più e meglio, limitando le collaborazioni episodiche e privilegiando progettualità a medio e a lungo termine; il lavoro promozionale va esteso dallo spettacolo all’artista e al suo percorso nel suo complesso. A livello ministeriale si potrebbe fare di più e meglio in termini di servizi alle imprese e ai teatri dato che vengono richiesti numeri così importanti, mettere ad esempio in campo azioni e professionalità che rendano più semplice produrre determinati numeri. Perché non è il Ministero a fornire ad artisti e compagnie le figure professionali necessarie alla produzione, alla promozione e alla distribuzione dei lavori?

D: La società contemporanea si caratterizza sempre più in un inestricabile viluppo tra reale e virtuale, tanto che è sempre più difficile distinguere tra online e offline. In questo contesto quali sono oggi, secondo la tua opinione, le funzioni della creazione scenica che si caratterizza come un evento da viversi in maniera analogica, dal vivo, nel momento del suo compiersi, in un istante difficilmente condivisibile attraverso i nuovi media, e dove l’esperienza si certifica come unica e irripetibile ad ogni replica?

Le funzioni della creazione scenica mi auguro siano ancora le stesse, pur mutando epoche e contesti. Credo abbiano a che fare con l’incontro, la diversità, il conflitto, la trascendenza, insomma con la dimensione comunitaria. Il carattere rituale della creazione, il suo esprimersi come condivisione, acquisisce un senso ulteriore in questo contesto digitale. E’ evidente che sta mutando la soglia dell’attenzione, che la curiosità scarseggia, che si approfondisce poco e male, che a volte bisognerebbe isolare i teatri da linee di telefonia mobile e wifi, che spesso abbiamo la percezione che la gente non sappia stare più insieme, ma ci sono ancora migliaia di persone che decidono di passare anche 3/4 ore in un teatro per una tragedia greca, seduti e in silenzio (le ho viste).

D: Con la proliferazione dei piani di realtà, spesso virtuali e artificiali grazie ai nuovi media, e dopo essere entrati in un’epoca che potremmo definire della post-verità, sembra definitivamente tramontata l’idea di imitazione della natura, così come la classica opposizione tra arte (come artificio e rappresentazione) e vita (la realtà intesa come naturale). Nonostante questo sembra che la scena contemporanea non abbia per nulla abbandonato l’idea di dare conto e interrogarsi sulla realtà in cui siamo immersi. Qual è il rapporto possibile con il reale? E quali sono secondo te gli strumenti efficaci per confrontarsi con esso?

Dobbiamo salvare il pianeta, combattere i cambiamenti climatici, ripulire i mari, ridurre le emissioni, curare le montagne e le campagne, non inquinare, essere più rispettosi verso ciò che abbiamo intorno. Il Teatro e la Danza possono essere strumenti straordinari di confronto con il reale ma dovranno prima rendersi ancora più accessibili e soprattutto sostenibili.

Cantiere Ibsen

Il CANTIERE IBSEN DE IL MULINO DI AMLETO

Abitiamo un momento in cui sembra apparentemente scomparso il dibattito intorno al senso e alla sostanza della ricerca teatrale. Anzi sembra sia diventato snob oltreché un po’ vintage portare l’accento su una parola che richiama, chissà perché, un certo tecnicismo elitario. Eppure in qualsiasi altro settore delle umane attività la ricerca è il fulcro di ogni avanzamento e miglioramento dello status quo. Data questa contraddizione pare giusto e doveroso raccontare il progetto proposto da Il Mulino di Amleto avviato a partire da un bisogno impellente: ritagliare del tempo da dedicare proprio alla pratica di riflessione sull’arte del teatro, la sue funzioni e i suoi obiettivi.

Cantiere Ibsen #artneedstime è il nome di quella che potremmo chiamare una bottega teatrale richiamando fin da subito alla mente del lettore un’idea di artigianato specializzato in cui non solo si lavora alla ricerca di una pratica sempre più rispondente ai bisogni e alle necessità di chi agisce e di chi osserva, ma si combatte altresì per ritagliare un tempo non volto all’utile produttivo dell’immediato, ma piuttosto un tempo espanso che volge il suo sguardo a un futuro da immaginare e costruire.

Il Cantiere si sostanzia in cinque sessioni (di cui quattro svolte e la quinta in programma dal 30 marzo al 9 aprile) il cui scopo è avviare un percorso di ricerca, di studio, pratica e riflessione, svincolato da necessità di messa in scena. Il pensiero a sostegno del progetto possiede per questo una forte valenza politica laddove il mondo teatrale italiano, per le avverse condizioni economiche in cui versa, negli ultimi tempi a causa dell’emergenza sanitaria ulteriormente peggiorato, dedica sempre meno tempo allo sviluppo di idee rischiose, azzardate, coraggiose, idee che necessiterebbero di un periodo di lavorazione più lungo e accidentato, con la conseguenza di abbracciare percorsi dal sicuro risultato. Riconquistare una zona franca di semplice studio, senza l’angoscia impellente di mettere in opera un nuovo lavoro rispondente più alle attuali circostanze distributive e produttive del sistema che a quelle dell’artista e del suo bisogno di interrogarsi su una realtà sempre più sfuggente, diventa dunque un atto di resistenza, un contrapporsi alla marea insorgente che spinge a confezionare a tutti costi un prodotto volto alla mera sopravvivenza senza troppo domandarsi se quest’ultimo sia una vera necessità per chi lo fa e per chi lo fruisce.

Cantiere Ibsen

Prendersi del tempo, sospendere l’affanno da catena di montaggio è un atto semplice, lieve, quasi ingenuo ma con una forte carica di dolce ribellione alla costringente modalità economica in cui l’arte è null’altro che l’ennesima merce da inserire in un mercato peraltro asfittico. Quella che Mark Fischer chiama ontologia imprenditoriale, per la quale “è semplicemente ovvio che tutto, dalla salute all’educazione andrebbe gestito come un’azienda”, uno “stalinismo di mercato” che non prevede in alcun modo il fallimento può portare solo al reiterarsi del già visto, di ciò che sicuro incontra il gradimento e “agisce come una specie di barriera invisibile che limita tanto il pensiero quanto l’azione” tanto da far sorgere spontanea la domanda: “senza il nuovo quanto può durare una cultura?”. Il Cantiere prova a porsi in un campo laterale, fuori dal percorso di mercato, mappando un’isola dove sperimentare nuovi sentieri senza preoccuparsi di giungere immediatamente a un risultato positivo.

Certo si potrebbe sospettare che tutto questo sia un richiudersi nella torre eburnea della ricerca per se stessa, un esempio di edonismo elitista. Benché il pericolo sia reale viene evitato dalla partecipazione di osservatori che rendono in qualche modo pubblico il laboratorio. Non parlo solo di critici, benché essi siano la maggior parte, ma anche spettatori affezionati e artisti. Inoltre Il Mulino di Amleto ha anche inaugurato un blog con video ed interventi al fine di dischiudere un dialogo, un confronto su quanto si sta facendo. Quello a cui si partecipa è dunque un campo aperto di discussione, di rimappatura degli spazi e dei modi, di riappropriazione del pensiero in azione.

Alla parola Cantiere si affianca il nome di Henrik Ibsen a indicare una base, un terreno su cui dissodare e coltivare per evitare la dispersione in uno spazio di vuoto siderale. Ci si applica a Ibsen, lo si smonta e rimonta, lo si rivolta come un calzino esercitandosi a sperimentare tecniche e pensieri creativi nei confronti di una materia ricca e potente. Per sottrarsi al rischio sempre presente di riprodurre il già visto, Il Mulino di Amleto propone ai partecipanti di mettere in relazione i testi proposti (Gli spettri nella terza sessione e Un nemico del popolo nell’ultima di febbraio peraltro bruscamente interrotta dalle ordinanze di salute pubblica) con le pratiche proposte da due manifesti: quello di Dogma95 del circolo di registi cinematografici legati a Lars Von Trier, e il Manifesto di Gent di Milo Rau. Il confronto con Ibsen diventa dunque un’interrogazione e un confronto con il canone, con il passato. Come ci si relaziona con il repertorio? Con quali tecniche lo si rapporta con il contemporaneo? Attraverso queste modalità di approccio Ibsen viene analizzato, smontato, ricomposto, riscritto e sempre trasversalmente con tali materiali si prova a creare dei dispositivi di racconto e di rapporto con un pubblico.

A ciascun partecipante (gli attori in questa sessione erano una ventina più, come detto, alcuni osservatori particolari), oltre alla lettura dei manifesti, è stato consegnato un vademecum di compiti da eseguire prima dell’inizio del periodo laboratoriale: visionare alcuni film proposti dal critico Mario Bianchi (Scarpette rosse di Michael Powell e Emeric Pressburger e Giovanna D’Arco di Carl Theodor Dreyer) in qualche modo relativi al testo ibseniano, preparare una playlist personale di brani, selezionare una favola che in qualche modo potesse risuonare con la drammaturgia in oggetto. Le favole, così come i manifesti, rappresentano una modalità di approccio al tema ibseniano. Per esempio, tra le varie proposte, spiccano I vestiti nuovi dell’imperatore di Andersen, dove il rapporto tra verità e gerarchia è centrale quanto ciò che avviene ne Il nemico del popolo, e Il pifferaio magico dei fratelli Grimm, dove il protagonista opera per il bene della città, ma quando non viene pagato dal borgomastro, si ribella e rapisce i giovani della città, trama che ben si adatta all’atteggiamento del dottor Stockmann rispetto al fratello sindaco. Tutti i materiali proposti sono dunque strumenti con cui sezionare, analizzare e osservare il testo di Ibsen da molteplici e insoliti punti di vista.

Veniamo ora a un’analisi delle pratiche e tecniche di lavoro, compito quanto mai arduo per il rischio di limitarsi a enumerare esercizi e prassi che nella semplice enumerazione diventano aridi come deserti. Manca la vita e lo spirito che li abita, la gioia di dimorarvi, la fatica di attraversarli. Eppure in qualche modo bisogna tradurli in parole affinché diventino un documento di un agire scenico. Proviamoci.

Cantiere Ibsen
Cantiere Ibsen

La giornata inizia solitamente con un training fisico molto serrato volto a ridefinire e rimodellare il rapporto tra movimento, spazio e ritmo da una parte, e ad aumentare le possibilità espressive e di movimento del corpo dell’attore dall’altra. In genere, a partire dalla seconda giornata, questo lavoro fisico preparatorio viene preceduto da un tempo di studio in cui i vari gruppi preparano diverse proposte sceniche da mostrare.

Il pomeriggio prende avvio da una serie di giochi dai molteplici scopi: acquisire un ritmo e un respiro di gruppo, sperimentare dinamiche di cooperazione, di invenzione e risposta alla sollecitazione imprevista, sviluppare un ascolto attivo incentrato sull’altro fuori da sé, stimolare il piacere e il divertimento nel lavoro attorico.

Questo serissimo ma piacevolissimo momento ludico precedeva un lavoro più propriamente scenico costituito da diversi percorsi: improvvisazioni a quattro in cui si sperimentava la manifestazione di gerarchie segrete e prestabilite all’interno di situazioni date; un’analisi di alcune scene proposte sia attraverso una tradizionale lettura e discussione, sia attraverso il metodo degli etudes sperimentati da Vasiliev e Korsunovas seppur con varianti studiate ad hoc. Questi ultimi potremmo definirli dei metodi per far sì che il verbo diventi carne. Una pratica che a partire dall’individuazione di uno snodo centrale e dalla comprensione delle circostanze precedenti, produce, attraverso delle improvvisazioni, delle vere e proprie analisi corporee delle scene. A concludere la giornata si procedeva alla presentazione di piccoli pezzi sia riferiti alle favole preparatorie, sia a singoli dialoghi a due estrapolati dal testo, sia degli studi di possibili realizzazioni del quarto atto in cui avviene il discorso del dottor Stockmann davanti all’assemblea generale.

Un elemento importante da sottolineare è il clima di tensione rilassata con cui avveniva tutto il processo di lavoro. Senza il pungolo assillante del risultato a tutti i costi, tutti i partecipanti si sono permessi di rischiare ibridazioni impreviste tra il materiale ibseniano, gli stimoli provenienti dai manifesti e le favole. Durante le giornate di laboratorio si sono viste nascere generazioni equivoche, forme instabili frutto di amori a prima vista illeciti. Si sono percorsi sentieri impervi a cavallo tra reale e immaginario dove si poteva giocare con il testo innestandolo di sollecitazioni dal contesto socio-politico-economico attuale. E tutto questo fa pensare che se si restituisse al teatro una creazione con una dimensione temporale di lavoro più ampia, si aprirebbero molte più possibilità di ammirare sui nostri palcoscenici delle opere più vive e impreviste, pronte a stimolare in noi la ricerca verso ciò che non abbiamo e ci manca, piuttosto che ritrovare ciò che già ha soddisfatto il nostro palato in passato.

Restituire dinamiche creative di più ampio respiro è una necessità. Senza la possibilità di rischiare si implode necessariamente verso il rimasticamento di forme già viste. Per riprendere il già citato Mark Fisher: “le forme più potenti di desiderio sono proprio quelle che bramano lo strano, l’inaspettato e il bizzarro. E questo può arrivare solo da artisti preparati a dare alle persone qualcosa di diverso da quanto già le soddisfa; insomma, da quelli che son pronti ad assumersi un certo rischio”.

Per questo occorre quanto prima creare le condizioni. È necessario uscire dalla logica in cui ci si limita a sbandierare rassegne stampa e dati di affluenza senza riflettere sulla concretezza dei risultati effettivamente raggiunti. Bisogna tornare a respirare il senso del rischio proprio di ogni impresa incerta. Il Mulino di Amleto ha provato e prova nel suo piccolo a dare un segnale in questo senso. Si è assunto l’onere della responsabilità. Ora tocca a tutti noi far sì che questo spazio e questo tempo riconquistati all’immaginazione libera non inaridiscano.

Indirizzo del blog dedicato al Cantiere Ibsen