Leonardo Lidi

LO STATO DELLE COSE: INTERVISTA A LEONARDO LIDI

Con questa a Leonardo Lidi iniziamo un ciclo di interviste volte a indagare lo stato della ricerca teatrale italiana in questo ultimo torno di tempo. Cinque domande su temi importanti quali creazione, produzione, distribuzione, funzioni della scena e rapporto con il reale poste a registi, coreografi, operatori, direttori di festival tra i venticinque e i quarantacinque anni. Lo scopo è di raccogliere le idee e i pensieri di chi oggi è protagonista della giovane ricerca scenica e cogliere dalle risposte alcune linee guida sugli strumenti necessari per un vero rinnovamento e le possibili coordinate verso la scoperta di nuovi paradigmi e funzioni per il teatro inteso nel suo senso più ampio del termine.

Leonardo Lidi è un giovane regista che nonostante la sua giovane età ha già dato prova di maturità espressiva in produzioni importanti come Gli spettri di Ibsen alla Biennale Teatro 2018 e il recente Lo zoo di vetro di Tennessee Williams al Lac di Lugano,

D: Qual è per te la peculiarità della creazione scenica? E cosa necessita per essere efficace?

Non partire dall’efficacia di una scena per crearne una. Le conseguenze le tengo in fondo, non me ne occupo prima del tempo e chiedo all’attore di fare altrettanto. Ciò nonostante tengo sempre a mente, in ogni fase del lavoro, l’incontro con l’occhio esterno. Dalla riscrittura alla scelta del cast lo spettatore è sempre presente – il desiderio di farlo partecipare la considero una priorità. Ogni incontro interpersonale può essere faticoso, ogni relazione può essere fallimentare, allo stesso tempo se entri in una sala affollata dove nessuno ti presta attenzione e chiedi a gran voce un attimo di silenzio (e di spegnere i cellulari) nell’istante in cui tutti si voltano per ascoltarti non puoi permetterti di fare scena muta, o ancora peggio, di dire delle banalità. Quindi devi prepararti. Studiare meticolosamente la dedica di un pensiero. Nel mio caso scelgo di farlo tramite i grandi autori del passato, non avendo una capacità di scrittura abbastanza alta mi affido a testi pre-esistenti. La peculiarità è far guidare la macchina all’autore; io cerco di essere un buon copilota, mi informo sulle caratteristiche di chi ha in mano il volante e consulto la mappa metodicamente per studiare la nuova viabilità e come sono state lavorate le strade per arrivare a destinazione senza cappottarci.

D: Oggi gli strumenti produttivi nel teatro e nella danza si sono molto evoluti rispetto solo a un paio di decenni fa, – aumento delle residenze creative, bandi specifici messi a disposizione da fondazioni bancarie, festival, istituzioni -, eppure tale evoluzione sembra essere insufficiente rispetto alle esigenze effettive e deboli nei confronti di un contesto europeo più agile ed efficiente. Cosa sarebbe possibile fare per migliorare la situazione esistente?

Mi dispiace ma non mi sono mai occupato di produzione, mi sono formato come attore e ho troppo rispetto per le figure professionali per dare una risposta a questo quesito. Formare delle figure professionali all’altezza del contesto europeo, dunque, può essere il primo passaggio. Qualcuno da ascoltare. Se devo riportare la mia esperienza rispetto alle produzioni io non posso che essere grato al sistema teatrale italiano: senza nessun tipo di conoscenza nel settore, dopo un diploma stiracchiato in agraria, sono entrato nella scuola del Teatro Stabile di Torino e dopo tre anni di alta formazione mi hanno dato l’opportunità di testare le mie capacità registiche in due produzioni all’età di ventisei e ventisette anni. La Biennale di Venezia diretta da Antonio Latella è stata un’altra grossa possibilità, e non solo per i vincitori. Altre produzioni importanti mi hanno notato e mi hanno chiesto una collaborazione (ultimo Carmelo Rifici con il Lac di Lugano coprodotto da TPE e Carcano) quindi se guardo al mio percorso posso dire che le cose possono funzionare. Non per questo voglio bendarmi gli occhi, so che la strada non è sempre fortunata. Bisogna stare attenti alle ambiguità produttive. A chi ti chiede tanto in cambio di niente. Io non ho mai chiesto ad un attore professionista di lavorare gratuitamente ad un mio progetto e non ho mai accettato di lavorare gratuitamente con la speranza di una visibilità. Ho preso una fregatura una volta a Piacenza, e decisi di non ripetere l’esperienza per rispetto alla mia persona.

D: La distribuzione di un lavoro sembra essere nel nostro paese il punto debole di tutta la filiera creativa. Spesso i circuiti esistenti sono impermeabili tra loro, i festival per quanto tentino di agevolare la visione di nuovi artisti non hanno la forza economica di creare un vero canale distributivo, mancano reti, network e strumenti veramente solidi per interfacciarsi con il mercato internazionale, il dialogo tra gli indipendenti e i teatri stabili è decisamente scarso, e prevalgono i metodi fai da te. Quali interventi, azioni o professionalità sarebbero necessari per creare efficienti canali di distribuzione?

La distribuzione spesso non esiste e i primi a farne le spese sono gli attori che provano tanto e replicano poco, questo è un dato di fatto da non pochi anni, un dato che va preso in considerazione in sede di contrattazione e ringrazio le associazioni che lavorano per i diritti del lavoratore con forza e determinazione. Anche qui io non ho soluzioni felici da poter donare. Per quanto riguarda la mancanza di dialogo non è un problema solamente teatrale, il dialogo – purtroppo – è una cosa che spesso va conquistata. Ma anche in questa direzione mi pare ci sia movimento, non è tutto immobile, ci sono situazioni che il dialogo lo creano e bisogna riconoscerle a discapito dei cialtroni. Una priorità, che si può indirettamente legare alla distribuzione, è quella di prendersi cura degli attori. Il primo punto da discutere è il bilancio studenti/attori professionisti. Non si può continuamente fomentare una macchina di disoccupazione a cuor leggero. La carta d’identità non può essere una condanna e chi si affaccia al mestiere deve avere un periodo di palcoscenico per poter sperimentare la propria nuova professione. Se posso prendermi cura di dieci persone devo formare dieci persone, e la crescita individuale deve tornare ad essere considerata come un potenziale e non come un problema da gestire. Ma la domanda è troppa, alle scuole di teatro bussano oceani di ragazzi e anche qui non c’è un sistema brutto e cattivo che vuole il male di qualcuno, ci sono solo tanti interrogativi che spesso vengono posticipati per troppo tempo. Ma io ho fiducia. Ho fiducia soprattutto perché negli ultimi anni una squadra di “nuovi” Direttori Artistici si è palesata e lavorano duramente e costantemente con passione. Ho un dialogo fitto con molti di loro e non posso che riconoscerne il valore. Chi prende decisioni è sempre in una situazione delicata, si è facilmente attaccabili, ma ho la percezione che si sta formando una squadra all’altezza delle aspettative.

D: La società contemporanea si caratterizza sempre più in un inestricabile viluppo tra reale e virtuale, tanto che è sempre più difficile distinguere tra online e offline. In questo contesto quali sono oggi, secondo la tua opinione, le funzioni della creazione scenica che si caratterizza come un evento da viversi in maniera analogica, dal vivo, nel momento del suo compiersi, in un istante difficilmente condivisibile attraverso i nuovi media, e dove l’esperienza si certifica come unica e irripetibile ad ogni replica?

Questo è il punto. L’opportunità che abbiamo. Ci si guarda in faccia praticamente solo a teatro ormai, anche a tavola o per strada si preferisce lo smartphone. Nel tempo che ci è concesso sarebbe un peccato perdersi e non considerare quel tempo prezioso, dobbiamo lavorare pensando all’esterno, dobbiamo integrare lo spettatore, oggi più di ieri. Ogni volta che lo spettatore entra in teatro, che sia la prima o la millesima volta, la nostra ambizione deve essere quella di stare assieme a lui. Anche nel litigio. Ma nella costruzione e non nella distruzione E parlo di ambizione perché è difficilissimo. Il tempo di attenzione e concentrazione si riduce ogni giorno, siamo intorno al minuto e mezzo, e allora come si può coinvolgere una persona per più di quaranta minuti e chiedergli anche di pagare per questo sequestro di persona autoinflitto? Non proponendogli un aperitivo in platea e non con una copia di quello che può comodamente vedersi dal divano di casa sua ma confidando nella persona. Proponendo, con coraggio, una qualità alternativa a quella dettata dalla consuetudine. L’altra verità, quell’artificio sincero che solo l’arte permette.

D: Con la proliferazione dei piani di realtà, spesso virtuali e artificiali grazie ai nuovi media, e dopo essere entrati in un’epoca che potremmo definire della post-verità, sembra definitivamente tramontata l’idea di imitazione della natura, così come la classica opposizione tra arte (come artificio e rappresentazione) e vita (la realtà intesa come naturale). Nonostante questo sembra che la scena contemporanea non abbia per nulla abbandonato l’idea di dare conto e interrogarsi sulla realtà in cui siamo immersi. Qual è il rapporto possibile con il reale? E quali sono secondo te gli strumenti efficaci per confrontarsi con esso?

La scena contemporanea non ha una direzione unica e questo è un bene, si passa nel marasma dei testi scritti per necessità alle esperienze personali raccontate in prima persona. A me piace questa non linearità. Mi piace essere sorpreso dalle modalità differenti di consegna. Senza troppe distinzioni. In un teatro competitivo c’è Shakespeare e c’è Bogosian, devono coesistere per potermi intercettare nei vari momenti della mia vita. Io mi sono avvicinato al teatro con Horovitz e Mamet ma adesso se posso scegliere cerco Euripide. Perché ho attuato un processo di crescita e ho il palato più preparato, ma se non fosse stato per le letture più immediate sarei rimasto fuori dalla sala. Mi piace che il teatro sia contaminato da tutto ciò che sta attorno ad esso ma non mi piace quando la contaminazione sostituisce il teatro. Quello che non accade nel tempo presente non lo considero d’interesse  teatrale, se piazzo il video di due attori che parlavano al bar la settimana scorsa e lo metto sul palcoscenico sto alzando bandiera bianca. Non capisco la fascinazione che ultimamente abbiamo intorno a questa ricerca. O meglio, la capisco ma non la condivido. Cerchiamo disperatamente qualcuno che ci suggerisca un’idea geniale per trovare il modo di comunicare, dimenticandoci che quell’idea è già in noi e che ci distingue dal resto degli esseri. La parola.

pastorale Daniele Ninarello

UNO SPONTANEO SBOCCIARE: Pastorale DI DANIELE NINARELLO

Lo scorso 16 novembre ha debuttato alla Lavanderia a Vapore di Collegno Pastorale di Daniele Ninarello presentato in forma di studio nella recente scorsa edizione della NID Platform di Reggio Emilia.

È possibile descrivere quest’ultima creazione di Ninarello solo per approssimazione. Potremmo partire da un’immagine. Pensiamo alla superficie di un piccolo stagno in un uggioso giorno d’autunno. Una prima goccia increspa la superficie, le onde piccine perfettamente rotonde e concentriche si allontanano fino a scemare. Alla prima se ne aggiungono altre. Piove e lo stagno è ora crespo di onde che si rifrangono, partecipando ognuna del moto delle altre, disegnando mosaici e labirinti inestricabili sull’acqua sempre più mossa. Poi la pioggia scema, la calma ritorna, la superficie torna a essere uno specchio immobile, come se nulla fosse successo.

Di ogni goccia noi possiamo misurare tutto: il peso, la forza, la traiettoria, l’azione della forza di gravità, ma non dove cadrà la prossima. Ogni stilla caduta dal cielo ha un volo suo particolare, uno schianto nell’acqua che sarà suo e suo solamente, così come il modo in cui le onde generate si mescolano con le infinite altre. Ogni precipitare dall’alto genera un moto e un desiderio di fondersi e sciogliersi per far parte di quell’unico lago dal moto unisono con piccole onde a lambire la terra.

Pastorale di Daniele Ninarello è questa danza delle gocce, un intrecciarsi di semplice e complesso, un intimo abbraccio di prevedibilità e casualità. I quattro danzatori esplorano lo spazio con piccoli e semplici movimenti, ruotano come costellazione intorno a un asse generato dalla rotazione e rivoluzione dei singoli astri in un universo in continua espansione ed evoluzione.

Ogni corpo risponde agli altri, modifica il suo moto al mutare delle leggi di attrazione universale. Non c’è legge eppur c’è una regola. Ogni frase è frutto di ascolto, di rispetto, di reazione istantanea, alla ricerca di un’armonia perduta verso quella che lo stesso Daniele Ninarello definisce “nostalgia dell’unisono”.

Pastorale è come una grande tela di Rothko in cui far naufragare lo sguardo per perdersi oltre il suo orizzonte. È anche un rito, primitivo seppur modernissimo, a scoprire ed esperire la natura di ogni evoluzione, come di ogni convivenza possibile. Ogni moto generato ha il suo spazio e il suo tempo, si miscela con gli altri rimanendo se stesso, si modifica accogliendo gli stimoli, e pur rimane se stesso, resta individuo nel flusso delle miriadi.

John Cage diceva, seguendo i dettami del filosofo indiano Ananda Coomaraswamy, che il compito dell’arte è “imitare la natura nel suo modo di operare”. Daniele Ninarello in questa sua Pastorale, opera matura e specchio di un autore che ha ormai raggiunto la consapevolezza delle sue potenzialità e degli obiettivi cui tendere, riflette splendidamente questo principio. Ciò che stupisce è infatti la mancanza di artificio nell’artificio, ogni istante sembra frutto di un’imprevedibile fiorir di natura, un evolversi spontaneo di ogni gesto nel successivo. Ci dimentichiamo nel perdersi in questa danza che ciò che nasce sotto i nostri occhi è pur frutto di un lavoro artistico. Una costruzione minuziosa come un giardino orientale dove l’abilità dell’architetto sembra essere quella genuina e originaria di madre natura.

Visto alla Lavanderia a Vapore in prova generale il 15 novembre 2019

Settanta volte sette

CONTRO LA LEGGE DELL’ODIO: SETTANTA VOLTE SETTE

Per la settima edizione di Concentrica – Spettacoli in orbita organizzato dal Teatro Della Caduta va in scena a Torino Settanta volte sette di Collettivo Controcanto, spettacolo vincitore di Teatri del Sacro 2019. Lo spettacolo si inserisce nella nuova sezione Concentrica a scuola, costruita, pensata e organizzata insieme agli studenti del Convitto Nazionale Umberto I e l’IIS Avogadro, due storici istituti torinesi eccezionalmente aperti la sera. Il pubblico cittadino viene accolto dai ragazzi, guide accoglienti pronti a svelare la storia e le curiosità degli edifici scolastici da loro abitati e vissuti e per una sera trasformati in sale teatrali. Proprio all’IIS Avogadro, scuola inaugurata a Torino nel lontano 1805 durante il regno di Vittorio Emanuele I, ha fatto il suo debutto regionale il delicato lavoro dedicato al perdono di Collettivo Controcanto.

Benché Settanta volte sette si ponga la stessa domanda dell’Orestea, ossia come superare la vendetta e ovviare l’ineluttabilità dell’odio e della legge del sangue, non siamo di fronte a una tragedia. Non c’è nessun fato scritto, non sono Ananke e le Moire a filare il destino. Non ci sono neppure gli eroi. Tutto è anzi molto comune e ordinario. Assassino e vittima sono come sradicatati, non inseriti nel flusso della Storia, quella dei grandi eventi e a cui partecipano coloro che sanno cosa vogliono dalla vita e hanno una missione. Colpevoli e innocenti, – ma sono queste categorie veramente utili in grado di fotografare un delitto? – si trovano uno di fronte all’altro in un momento di disattenzione.

Sono assenti anche le omissioni che caratterizzano una cronaca di una morte annunciata, così come le cause di quei vortici gaddiani messaggeri di pasticciacci brutti. Gli eventi sembrano accadere senza ragione alcuna, in un momento fatale in cui chi è coinvolto perde il controllo e si trova catapultato improvvisamente nel mondo inesorabile governato dalle conseguenze degli atti di sangue. Quanto avviene sulla scena potrebbe avvenire a noi litigando al semaforo, al bar, in coda alla posta. Non vi è nulla di eccezionale: si esce per una festa tra amici e ci si ritrova vittime e assassini.

Le cause non vengono indagate. Restano in penombra e in disparte come i magi nei quadri del Tiepolo. Si intuiscono senza approfondirli. In fondo non serve. Potremmo essere noi e tali ragioni cerchiamole nella nostra coscienza. Quello invece evidente è il dolore, il pentimento, il rimorso e la rabbia, il lento e travagliato percorso che porta al perdono. Tutti i personaggi coinvolti, vittime e colpevoli, vengono investiti dall’onda di piena di un evento assente dalla scena e fulmineo. Le conseguenze invece agiscono lentamente, sottovoce, a fatica. Il seme dell’odio è duro a morire prima di dar frutto nel perdono.

É lo spirito femminile il primo ad accogliere la possibilità di uscire dalla spirale inflessibile. Il maschile è troppo preso dall’orgoglio, ma soprattutto dalla parte assunta dalla storia come portatore di vendetta. Deve essere guidato, condotto, dal cedere, dall’accogliere, dal ritirarsi. Senza opposizione e contrasto il maschile si trova sbilanciato, cade su se stesso, perde il vento nelle vele e così scopre la possibilità difficile, quella esclusa a priori. Assassino e vittima si trovano al cospetto uno dell’altro, senza molte parole da dirsi. Il perdono sta nei silenzi e nelle attese, in un ricordo scambiato, ceduto e accolto per infine smuovere i piatti della bilancia di una giustizia troppo spesso sommaria.

Settanta volte sette, così il Cristo invitava Pietro a perdonare. Un infinito doloroso eppure vitale per sconfiggere la legge del sangue. Settanta volte sette di Collettivo Controcanto esorta, con grazia gentile, a riflettere sul perdono in un’epoca in cui tutto sembra spingere all’odio, alla divisione e al contrasto.

La domanda su come si possa uscire dalla catena di azione e reazione, di causa ed effetto sembra centrale nel teatro odierno. Lo testimoniano l’Orestea di Anagoor, come quella di Milo Rau ambientata a Mosul. Se però queste ultime si rifanno al mito e alla grande Storia, Settanta volte sette, si concentra sul quotidiano anonimo, su quello che troviamo ogni giorno sul giornale e che potrebbe accadere ovunque e in ogni momento. Sebbene con un pizzico di retorica che forse si poteva abbandonare, Collettivo Controcanto ha il merito di fissare l’occhio non sulla grandiosità dell’evento delittuoso, sulla sua magnificenza, quanto appunto sul trascurabile e comunissimo, ma è il granello di polvere a creare la valanga. Una briciola pesante come una montagna per rimuovere la quale serve tutto il coraggio del mondo.

Visto a Torino il 14 novembre 2019

Leonardo Lidi

ANTIREALISMO E VERITÀ NE LO ZOO DI VETRO DI LEONARDO LIDI

Lo Zoo di Vetro che il giovane e talentuoso Leonardo Lidi porta in scena al LAC di Lugano pone sin dalla prima battuta alcune interessanti e scottanti questioni sul teatro contemporaneo. Prima fra tutte il rapporto tra la scena e la verità. Ecco le parole iniziali di Tom Wingfield: “Mi chiamo Tommaso e sono un pagliaccio. Sono qui per raccontarvi la mia verità. Per farlo ho bisogno di finzione, io vi darò verità sotto il piacevole travestimento dell’illusione. C’è molto trucco e c’è molto inganno. Il dramma è memoria, è sentimentale non realistico”. Sembra dunque che in questo momento storico, che potremmo chiamare, seguendo l’orma di Noah Harari, della post-verità, il teatro riassuma in sé la primigenia funzione di velo disvelante. Fingendo si dice la verità o, meglio, si pone una verità possibile sul terreno di discussione comune con lo spettatore.

Leonardo Lidi, nuovamente alle prese con un universo familiare dopo Gli spettri di Ibsen alla Biennale di Venezia 2018, decide di affrontare la verità portata dal testo di Tennessee Williams attraverso un meccanismo rappresentativo antirealistico. La casa rosa e stilizzata come in un disegno di bambino circondata da un mare di palline di polistirolo azzurro sono due mondi diversi: la famiglia nel tempo del racconto, e l’età del ricordo, in un altrove futuro, lontano ma ancora imbrigliato in quella dimora. Entrambi sono artificiali ma non simbolici. Sono rappresentazione di un costrutto mentale dei personaggi e di Tom Wingfield, narratore ed evocatore. La regia dunque si discosta dalla maniera consueta ligia a un realismo borghese, per sfruttare la forza di un immaginario capace di smuovere sentimenti e sensazioni.

Ultimo elemento: la maschera clownesca, quello schermo, strumento rituale e antico, capace di far parlare le voci e le forze che stanno oltre l’interprete. Tutto è dunque finzione e artificio, ciò dunque che è più lontano possibile da una supposta realtà. Essa però è oggi sfuggente, relativa, essa stessa virtuale. Eccoci dunque alla domanda fondamentale: non resta che abbandonarsi a una spudorata finzione per giungere a una verità? In poco più di cento anni il “Non ci credo” di Stanislavkij è diventato non solo inutile ma anacronistico? La proliferazione di mondi possibili, più o meno virtuali, che la vita contemporanea ci costringe ad attraversare, ci ha condotto, volenti o nolenti, alle origini del teatro, dispositivo di menzogna portatore di riflessione sulla realtà del mondo. Di certo tutto questo ci ha anche costretto a porsi la questione fondamentale delle funzioni della scena che per troppi anni è stata data per scontata.

Una dichiarazione di intenti ambiziosissima da parte di Leonardo Lidi, regista di soli trentuno anni, ma condotta e sviluppata con abilità. Forse dobbiamo finalmente abbandonare l’idea che la giovinezza di un autore sia anche sintomo di immaturità compositiva. Thomas Mann pubblicò i Buddenbrook a ventisei anni, John Cage sperimentò il pianoforte preparato a ventotto, Filippo Tommaso Marinetti lanciò il futurismo a trentatré. Ossessionati dalla questione Under 35 ci stiamo dimenticando che a trent’anni si è adulti, solidi e maturi, pronti ad affrontare prove difficili e Leonardo Lidi ha già dimostrato ampiamente di essere in grado di aggredire anche i classici più ostici e dirigere attori di grande personalità e abilità.

La scelta antirealistica di Leonardo Lidi si sviluppa anche è soprattutto nel corpo degli attori, nella loro fisicità astratta, quasi di automi meccanici, costretti a protocolli operativi di cui si sia perso il senso. Si mimano gli oggetti mancanti: la tavola, il candelabro, la tovaglia stesa, i piatti lavati e, soprattutto, gli animaletti di vetro di Laura Wingfield, la cui assenza rende ancora più evidente il loro ruolo di rifugio nell’illusione. I costumi e le abnormi scarpe tipiche dei clown costringono a movimenti innaturali e goffi. L’unico personaggio che partecipa in qualche modo al nostro mondo è Jim O’Connor, ponte verso una normalità aggressiva, volta a impoverire l’unicità degli altri personaggi, e per questo più libero e sciolto nel corpo aderente a una quotidianità assente dalla scena.

Indovinato l’inserimento de “la casa stregata” di Topolino proiettato sulla parete schermo della casa rosa dei Wingfield. Non solo simbolo dell’ossessione per il cinema di Tom e suo personale luogo di evasione dal reale ma anche icona della fuga impossibile dai fantasmi del passato con cui termina Lo Zoo di vetro e di cui non ci si libera mai. Si è sempre in qualche modo presi dalla loro ragnatela polverosa e questa verità ancora una volta viene proferita da uno strumento di finzione, il cartone animato, inserito come scatola cinese nella rappresentazione.

Una prova matura e colma di interessanti spunti quella di Leonardo Lidi, abile soprattutto nel saper mescolare ritmi e sentimenti e nel modulare i toni del dramma oscillando tra gli estremi senza mai abusare.

Unica leggera perplessità la scelta della maschera clownesca. Essa è evocatrice di mondi oscuri, demonici, di forze irruenti collegate a un universo infero, più legata al grottesco, – pensiamo alla forza prepotente del recente Joker di Todd Phillips, splendidamente interpretato da Joachin Phoenix – piuttosto che non al delicato e fragile mondo da casa di bambola disegnato dalla regia. I clown che abitano questo Zoo di vetro sono invece più legati al cliché della tristezza e malinconia del pagliaccio dunque più costume che maschera, più immagine e ambiente che segno. Ma questo è forse un cercare il pelo nell’uovo in uno spettacolo che riesce a toccare il cuore e la mente dello spettatore.

Visto al LAC di Lugano il 4 novembre 2019

Boris Nikitin

BORIS NIKITIN: l’elogio della vulnerabilità

Boris Nikitin, artista svizzero che da anni si occupa nei suoi lavori di investigare la linea sottile tra realtà e illusione, tra i fatti e la loro rappresentazione, porta al Festival Internazionale del Teatro e della Scena Contemporanea (FIT) di Lugano il suo Attempt on Dying, opera che pone l’accento sul concetto di vulnerabilità dichiarata come atto dalla forte valenza rivoluzionaria.

La performance di fatto non è nient’altro che una semplice lettura. Una sedia sul palco, una piccola risma di fogli e Boris Nikitin in jeans e maglietta bianca. Un reading che sottrae ogni possibile tentazione di rappresentazione: la voce neutra e chiara, lo sguardo molto più spesso rivolto ai fogli che al pubblico, quasi nessun gesto. Restano le parole dette come in una conferenza stampa, senza pathos e senza alcun coinvolgimento personale, quasi un bollettino medico.

Ciò che viene detto è un fatto biografico legato alla vita dell’autore e a quella di suo padre. Il racconto mette in relazione il coming out come affermazione di identità sessuale dell’autore con quello del padre affetto da SLA nel dichiarare la propria volontà di eseguire il suicidio assistito. In entrambi i casi si tratta di mostrare pubblicamente una fragilità che immediatamente si trasforma in un atto di coraggio, di forza, di azione politica. Essere pubblicamente deboli, di fronte all’intera comunità di appartenenza, non solo solleva delle questioni fondamentali sui diritti dell’individuo relativi alla sfera d’azione privata e pubblica, ma ribalta il tradizionale concetto di forza. Per Boris Nikitin vi è quasi l’affermazione del principio taoista per cui per essere forti bisogna essere deboli. Non vi è niente di più fragile di una goccia d’acqua ma essa ha il potere di spaccare la roccia più solida.

Il testo presentato ha una forte carica politica e parte dalla propria biografia, dal caso personale, per interrogare la società civile sui temi scottanti che la attraversano. Tale funzione viene delegata alla sola parola credendo forse che ogni altro elemento di rappresentazione avrebbe contaminato le questioni fondamentali poste nel testo.

Questo tipo di performance che riducono all’osso l’evento performativo dal vivo, una scarnificazione pronta ad arrivare fino alla diniego come in questo caso dove il performer per lunghi tratti nega persino lo sguardo allo spettatore, fa sorgere la domanda sul motivo di tale scelta, sul perché si utilizzi la forma scenica e non altri media forse più adeguati a questa forma. Inoltre se si vuole raggiungere un grado di freddezza scientifica, oggettiva, perché scegliere la narrazione autobiografica che inevitabilmente crea una relazione empatica tra ascoltatore e performer?

Sembra in un certo qual modo che sussista anche negli artisti dediti forma scenica nel più ampio significato del termine, il pregiudizio che il teatro abbia a che fare con la finzione mentre la realtà sia la sola depositaria di una verità. Se questo poteva essere realistico fino alla seconda metà del secolo scorso, e pur con molte eccezioni, oggi non più, con l’invasione del virtuale e con i progressi scientifici soprattutto nella fisica e nelle neuroscienze che pongono serie questioni sull’individuazione di una realtà oggettiva chiaramente identificabile. Inoltre l’azione scenica quando non sia una simulazione ma una semplice attività eseguita qui e ora davanti a un pubblico risulta reale quanto ciò che avviene in platea. Oggi è faticoso, se non impossibile e quando non addirittura inutile, distinguere gli ambiti di realtà e affibbiare al teatro il marchio di finzione.

Alzare un muro tra platea e performer, un limite invalicabile composto da fogli di carta che impediscono lo scorrere dello sguardo tra platea e performer pare una negazione di quell’incontro fondante le arti dal vivo. Se quello che conta è solo l’ascolto e non ciò che vedo costituente un linguaggio composito, cambiano i confini e le funzioni della performance? E perché leggere e non semplicemente dire, atto che non presuppone una interpretazione ma resta nel limite della mera enunciazione e presuppone una circolazione di sguardi tra scena e pubblico?

Al netto di queste domande e considerazioni, necessariamente incomplete, data la brevità della forma articolo, pare che Attempt on Dying di Boris Nikitin possegga aspetti interessanti non solo nel contenuto ma anche nella forma scelta: un testo potente che pone questioni fondamentali al vivere civile e, nello stesso tempo, mette in discussione la funzione stessa di rappresentazione. Per essere efficace oggi deve in qualche modo essere negata? Nell’epoca dell’impero delle immagini solo la parola ha veramente il potere di scuotere? E infine: l’unico mezzo per poter raccontare efficacemente la realtà è l’autobiografia? Non è qui importante rispondere a tali questioni, piuttosto diventa fondamentale che tanti artisti di ricerca e molta critica stiano tornando a porle cercando di ridefinire la funzione del teatro nel nostro cntesto storico.

A Family Trilogy

PEEPING TOM: A FAMILY TRILOGY

Peeping Tom, l’acclamata compagnia belga fondata da Gabriela Carrizo e Frank Chartier, si è esibita a TorinoDanza, per la prima volta riunita per tre sere di seguito con l’intera A Family Trilogy. Nel 2014 Vater (padre) ha inaugurato un processo proseguito con Moeder (madre) del 2016 e conclusosi ora nel 2019 con Kind (Figlio). Una ricerca lunga quasi un decennio in cui Peeping Tom, tra le formazioni artistiche più importanti nel panorama della danza mondiale, ha esplorato i più inquietanti recessi insiti nel nucleo familiare. L’occasione di aver visto i tre lavori riuniti ci permette di fare alcune riflessioni generali, seppur solamente accennate, sul complesso lavoro creativo e cogliere nelle singole opere elementi fondanti e ricorrenti.

Il termine forse più appropriato per descrivere gli ambienti in ci si dipana questa intricata matassa familiare è Perturbante nel senso in cui lo intendeva Freud. Das Unheimliche, parola composta da Un (non) e Heimliche (familiare, di casa) nella lingua tedesca descrive infatti tutto ciò che risulta nello stesso tempo estraneo e consueto. Heimliche inoltre contiene nel suo etimo anche due tensioni contrapposte: da una parte descrivere qualcosa di noto legato alla casa e alla patria, e dall’altra si riferisce a un nascosto che avrebbe dovuto rimanere celato e nostro malgrado affiora.

In tutti gli spettacoli che compongono A Family Trilogy questo perturbante, portatore di una certa angoscia, non solo è presente ma costituisce gli elementi, situazioni e ambienti che appaiono a prima vista consueti, ma anche fuori di sesto per tutta una serie di particolari e circostanze. Lo strano bosco in Kind, la sala parto che nello stesso tempo è camera mortuaria in Moeder, la casa di riposo in Vater. Questi habitat, a cui potremmo aggiungere il museo in Moeder, ambiente onirico e allucinatorio come il Museo-Bordello sognato da Baudelaire e con il quale vi sono effettivamente delle analogie, sono noti ma nello stesso tempo contengono elementi mitici, ctonii, primitivi, evocanti forze oscure, legati all’animalità primigenia, e che la civiltà ci ha portato a ignorare ma in qualche modo sgusciano fuori appena abbassiamo le difese.

Non è un caso neppure il continuo riferirsi a elementi mitici (Kronos è continuamente evocato in Vater, come i mondi acquatici e liquidi legati al femminile in Moeder), o della fiaba classica intesa come rito di iniziazione (il bosco in cui si trova la bambina/adulta in Kind), o dell’inconscio come elemento appunto agente nel far affiorare il rimosso (il museo in Moeder). Peeping Tom attinge a tutti questi serbatoi, appunto, per far affiorare ciò che agita le acque oscure e profonde ad affrontarlo con un certo imbarazzo in quanto appartenente a un mondo spaventoso, disagevole, scomodo. La presenza della morte contigua o sovrapposta al luogo deputato alla nascita, la violenza sia subita che esercitata dall’infanzia, la perdita dell’innocenza, il contrasto generazionale che porta a una rituale uccisione del padre, sono elementi presenti nella vita di tutti, agenti in maniera più o meno conscia, ma nello stesso tempo nascosti come polvere sotto il tappeto. Il loro riemergere in maniera prepotente sul palco mette lo spettatore sempre in una situazione non propriamente di comfort.

Anche la profonda ironia insita nelle singole scene e di cui si potrebbero fare numerosi esempi, tra cui il clownesco e ripetuto omicidio nel bosco della turista giapponese in Kind, o la scena di sesso con la macchina del caffè in Moeder, o le continue scope presenti in Vater, non sono motrici di una risata aperta, liberatoria, quanto piuttosto di un riso strozzato da un senso di colpa e da domande a cui forse non vogliamo rispondere.

Come nel mondo classico dei clown o delle maschere della commedia dell’arte affiora in maniera sottile seppur perentoria un mondo demonico, sotterraneo, ínfero, ma nello stesso tempo ricco e liberatorio. I funerali, oppure le morti e le violenze, sono quasi apotropaici, degli scongiuri rituali atti da un lato a esorcizzare le forze oscure, dall’altro a renderci coscienti della loro presenza al fine di legare e imbrigliare le pulsioni più disturbanti.

L’inizio di Kind è esemplare da questo punto di vista: in una strana selva montuosa degli uomini con maschere e tute da scienziati tengono sollevato un enorme masso. Dopo una lunga incertezza il macigno piomba a terra. In seguito viene risollevato e posto in alto su delle rocce ma sempre in maniera precaria e instabile. Infine la selva viene scossa da un terremoto che genera una frana devastante. L’elemento di pericolo resta dunque presente in scena per tutta la performance. Non lascia scampo alcuno e non ce ne si può assolutamente liberare. Si è sempre minacciati e la morte cammina al nostro fianco, ci sfiora in ogni istante. Come diceva Artaud il teatro ci ricorda che il cielo può caderci in testa in ogni momento.

L’intera trilogia è costellata di riferimenti iconici legati non solo al mondo della fiaba o della mitologia, ma anche a una certo pensiero superflat intrecciante elementi pop e classici, cultura alta e bassa. Questa prassi si ripropone anche nella selezione musicale dove Joan Baez coesiste con arie operistiche e musiche elettroniche. I generi si mischiano creando accostamenti imprevisti non solo ironici ma volti a perpetuare quel senso di perturbante precarietà che caratterizza la scrittura scenica di Peeping Tom.

Il mondo familiare evocato in A Family Trilogy appare dunque affetto da profonde venature tragiche esaltate da un forte humor noir fortemente presente nella cultura nordica. Non è un caso l’affiorare più o meno nascosto di atmosfere alla Roy Anderson, soprattutto in Moeder (per esempio nella scena del funerale iniziale che si intravede dietro la finestra come in una ripresa a camera fissa tipica del regista svedese).

Un ultima nota sulla danza particolarissima proposta da Gabriela Carrizo e Franck Chartier. I corpi sono sempre fluidi, quasi scomposti, alla ricerca di pose innaturali e precarie, dove l’equilibrio e la stabilità sono sempre messe in discussione. Corpi quasi di contorsionisti si agitano sulla scena, mai conformi a un canone e pronti a divenire animali, oggetti, mostri. In perenne mutazione essi assumono valenze multiple, ibride, equivoche.

Peeping Tom ci offre un teatro danza, – o forse meglio un semplice teatro pronto a utilizzare diversi linguaggi a seconda delle necessità compositive ed espressive -, sempre a cavallo tra surrealismo e iperrealismo, volto a raccontare il mondo della famiglia come tutt’altro che rassicurante. Un ambiente costellato di pericoli mortali, di violenze, di nevrosi, di desideri non sempre leciti e paure, raccontato da personaggi sempre sull’orlo di un abisso, tra realtà e fantasia, tra concreto e astratto. Un teatro efficace, di straordinaria e raffinata scrittura scenica e solidità compositiva, che possiede una chiara e personale visione della funzione della scena: uno specchio mai gentile, strumento volto a misurare gli aspetti più fragile del nostro vivere e a scoperchiare i vasi di Pandora sepolti sotto la coltre rassicurante della civiltà.

KIND visto a TorinoDanza l’1 ottobre 2019

MOEDER visto a Torino Danza il 3 ottobre 2019

VATER visto a La Batie a Ginevra agosto 2014

Xenos

Xenos: Akram Khan a TorinoDanza racconta l’orrore della Grande Guerra

Xenos in greco antico indicava, con una certa ambiguità, lo straniero, l’ospite o l’amico lontano. Forse più semplicemente designava un individuo che non faceva parte della comunità. Akram Khan utilizza questa parola antica come titolo della sua ultima opera coreografica dedicata ai soldati coloniali indiani dell’esercito inglese che hanno combattuto nella Prima Guerra Mondiale. Xenos, commissionato da 14-18 NOW, l’associazione che ha promosso le attività legate alla commemorazione del centenario della Grande Guerra, ha dunque un significato politico riferendosi al contributo dimenticato dei Sipahi, costretti a combattere e morire sui campi di battaglia in Occidente.

La danza espressa da Akram Khan per raccontare la vicenda di un danzatore indiano trasformato in strumento di guerra è un’abile e fine commistione di Kathak, lo stile tradizionale indiano originario dell’Uttar Pradesh, e un linguaggio coreografico contemporaneo. Katha in sanscrito significa “colui che racconta una storia” e indica probabilmente l’origine del genere legata all’attività dei cantastorie che sostenevano il racconto con il movimento delle mani e dei piedi e con le espressioni del volto. Xenos è infatti una narrazione costruita per lo più con immagini che generano un forte stato d’animo d’empatia con il personaggio sulla scena gettato a forza in un contesto che lo angoscia e spaventa, una situazione che non riesce né a capire né a controllare e in cui la sua vita è fragile come un fiocco di neve nel deserto.

L’inizio dello spettacolo però è decisamente rassicurante e accogliente. All’entrata del pubblico in sala si vedono il cantore e il percussionista (figure classiche nell’accompagnamento del Kathak). Al centro della scena essi sono seduti su dei tondi cuscini, illuminati di un nastro di lampadine come in uno dei tanti cortili di Benares, mentre eseguono musiche tradizionali. Talvolta la loro esecuzione è interrotta come da un boato di cannone, che fa tremolare le luci e nasconde il canto soave. Il rombo del tuono che preannuncia la tempesta imminente.

L’ingresso del danzatore, quasi catapultato in scena, non muta questa immagine volutamente pregna di esotica serenità. Vengono immessi solo alcuni particolari inquietanti, come il tavolino che si rompe al minimo tocco, le sedie vuote a lato della scena, i numerosi canapi che attraversano la scena. Akram Khan inizia in suo racconto sempre in piena atmosfera di una vera performance di Kathak in cui alla pura danza seguono le tre parti ritmiche in cui spiccano il parhant, dove il danzatore esegue movimenti scanditi da sillabe, e il taktar, in cui i movimenti delle gambe e dei piedi producono il suono dei campanelli di cui sono fasciate le caviglie. Questa atmosfera è minata come dall’incombere di un uragano che presto si scatena. La calda luce iniziale lascia il posto a controluce freddi e tagli come di lame. Le corde che infestavano come serpi tutta le scena cominciano a risucchiare tutti gli elementi facendoli sparire dietro la piccola collina che ingombra il palcoscenico. Il danzatore rimasto solo in scena viene anch’esso trascinato dal franare delle cose: i campanelli alle caviglie si trasformano in bandoliere di pallottole, il cortile diventa trincea, la musica da armoniosa diventa dissonante, angosciante, terribilmente incalzante.

Tutto richiama un conflitto totale che non lascia scampo alcuno. L’uomo al centro della scena è in totale balia degli eventi. Una voce dice: questa non è una guerra. È la fine del mondo”. La terra è l’elemento più straziante del racconto. Non madre, non accogliente abbraccio, ma tentacolo che stritola, scavo di trincea, oggetto d’offesa in seguito a deflagrare delle granate, tomba fetida e fangosa. Il corpo ne è oltraggiato, sporcato, sommerso.

Il grammofono in alto sulla collina è altro oggetto perturbante, fuori contesto, rinnovato in una funzione colorata di morte e non più di gioia conviviale. Esso diventa megafono da cui sgusciano gracchianti nomi dei caduti, faro che illumina il campo di battaglia, bocca di cannone.

Il finale è struggente. L’uomo ormai annichilito e schioccato da tanta violenza viene sommerso da una frana di pigne dove, ancora una volta, l’elemento naturale non richiama alla vita ma alla morte e all’offesa. Una voce ci interroga con le parole di Jordan Tannahill, autore dei brevi testi che costellano la narrazione coreografica: “Ho ucciso. Sono stato ucciso. Non è abbastanza?”

Sublime la musica composta da Vincenzo Lamagna nella sua capacità di evocare un’atmosfera di perenne conflitto. Stridii, ritmi ossessivi, dissonanze non mai risolte, tutto concorre a disegnare un’apocalisse.

Xenos è opera di cruda potenza evocativa in cui appare in tutta la sua agghiacciante violenza l’orrore di tutte le guerre. Inoltre è stata forse l’ultima occasione di poter ammirare Akram Khan in scena in seguito alla sua decisione di abbandonare l’esecuzione delle sue coreografie. Un lavoro commovente e intenso, un’interrogazione senza appelli a render conto non solo della brutalità scatenata ma soprattutto volta a chiedere conto di una rimozione: il destino tragico di un milione e mezzo di soldati indiani venuti a combattere nelle trincee di una guerra d’Occidente.

Visto a TorinoDanza il 26 settembre 2019

Orestes in Mosul

Orestes in Mosul: il realismo globale di Milo Rau

A Romaeuropa Festival è andato in scena in prima italiana Orestes in Mosul di Milo Rau. L’incontro tra il regista svizzero e la tragedia classica era da tempo atteso e, in un certo senso, inevitabile. L‘Orestea in particolare è stata più volte evocata, se non direttamente citata, nei suoi lavori. Pensiamo ai vari processi (The Moskow Trails, The Zurich Trials, The Congo Tribunal) dove il tribunale diventa la forma teatro necessaria per ricostruire l’agorà, o alla citazione diretta in Empire. Il legame con il teatro tragico greco in realtà risiede soprattutto nel recupero della sua funzione: riunire la comunità per affrontare una crisi e attraverso la rappresentazione tentare di risolverla o semplicemente prenderne coscienza. In un’intervista concessa nel 2014 Milo Rau affermava: “Cerco di ritornare alle radici del teatro: un processo sulla scena davanti a un pubblico, un giudizio su un fatto di importanza morale capitale”. (leggi l’intervista completa su www.psychodreamtheater.org/rivista-passparnous-ndeg-22—teatro—intervista-a-milo-rau—a-cura-di-enrico-pastore.html ).

Questo è decisamente il presupposto a Orestes in Mosul.

Anche il conflitto siriano era da tempo nei suoi interessi fin dal 2016 quando ha compiuto il primo viaggio nell’area durante la creazione di Empire. Non poteva essere altrimenti visto l’impegno di Milo Rau nell’affrontare gli effetti e le conseguenze delle politiche postcolonialiste dell’Occidente di cui la guerra civile in Siria è uno dei più eclatanti esiti. Come riassume all’inizio di questa Orestea l’attrice Susana Abdulmajid, la lotta intorno al controllo di Mosul ha inizio con l’Impero Britannico e giunge fino ai nostri giorni sempre per lo stesso motivo scatenante: il controllo delle risorse petrolifere che abbondano nella regione.

In quest’opera dunque si intrecciano la Storia, le singole biografie degli attori e il mito di Eschilo, e tale viluppo abbraccia passato, presente e futuro non solo di quella martoriata regione del Medio Oriente ma dell’intero Occidente e con esso le sue scelte politiche ed economiche. Il gioco di rimandi tra il vissuto personale, gli eventi di cui si è stati testimoni in prima persona o tramite i mass media, e la sanguinosa vicenda della famiglia di Agamennone è costante, indissolubile, straziante nell’evidenza in cui il ciclo del sangue, della violenza e della vendetta non si sia mai fermato nel corso dei secoli. Gli attori in scena e in video sono dunque triplici specchi nell’essere sia personaggi (Agamennone, Clitennestra, Ifigenia o Cassandra), sia portatori di un vissuto personale e nello stesso tempo pedine sul grande scacchiere della storia. Ciò è soprattutto evidente in Kitham Idris Gamil: è Atena in scena, la dea risolutrice della tragedia nel processo finale, mentre nella realtà della sua vita è una sopravvissuta al conflitto, vedova di un marito ucciso dai miliziani di Al Qaeda, all’inizio sostenitrice del califfato e in seguito profuga in Turchia per proteggere le proprie figlie e ora volontaria della Croce Rossa nei campi profughi nel tentativo di pacificare e aiutare le famiglie dei reduci dell’ISIS. Altro esempio: La Sentinella, colui che attende l’arrivo di Agamennone che segna la fine della guerra, personaggio impersonato da un fotografo che a rischio della propria vita ha continuato, nella speranza di una pace futura, a documentare la vita e le atrocità durante il periodo in cui Mosul era capitale del Daesh o Stato Islamico.

Orestes in Mosul crea anche una tensione dialettica tra il qui e ora sui palcoscenici occidentali, e laggiù tra le rovine dell’antica Ninive. Questo avviene soprattutto a causa del fatto che i governi europei hanno negato il visto di ingresso alla troupe di Mosul. Così in scena abbiamo un legame tra quanto avviene ora davanti ai nostri occhi e ciò che appare in video girato nella città divenuta tristemente famosa come sede del califfato. Occidente e Oriente legati da uno stesso destino tragico, entrambi attori di una vicenda che sembra non avere termine. Il legame però non traspare solo da questa scelta frutto delle contingenze: la storia dell’Atride reggitore di popoli è anche la vicenda di un re greco reduce da un conflitto in Asia dove la città di Troia è stata rasa al suolo. Il suo ritorno riaccende una spirale di sangue iniziata prima della partenza degli eserciti greci con il sacrificio della figlia Ifigenia. Ancora una volta mito e presente storico si intrecciano indissolubilmente: la guerra è oggi come allora l’origine dell’omicidio e della violenza e non sembra esservi rimedio.

In questo contesto si rivela anche la funzione dell’arte teatrale nel pensiero di Milo Rau: l’arte come azione di svelamento attraverso la rappresentazione e il concetto di realismo. Su quest’ultimo aspetto è necessario sgombrare il campo da un fraintendimento comune rispetto ai re-enactment: essi non sono la ricostruzione meiningeriana di ciò che è già avvenuto nella realtà. Non si richiede all’osservatore di credere a un meccanismo di finzione anche perché in un’epoca di deepfakes in cui nulla appare essere autentico e vero, tale pretesa sarebbe quanto meno risibile. Ciò che si ricostruisce in scena e attraverso la scena è invece un’esperienza disvelante. Attraverso una ricostruzione fittizia si comprendono i meccanismi agenti nel fatto storico realmente avvenuto. Come in Hate Radio non ci si trova di fronte a una vera trasmissione di Radio Milles Collines, così alcune scene in questa Orestea non sono identiche a un fatto reale documentato.

Come ha spiegato lo stesso Milo Rau si sperimenta da una parte la meccanica della violenza, ossia si esperisce cosa siano in realtà i sei minuti che necessitano per uno strangolamento, e dall’altra si prova ciò che il regista svizzero chiama “sadismo dell’osservatore” di fronte a un fatto di violenza. Ciò è particolarmente evidente proprio per quanto riguarda le esecuzioni: sia quelle per strangolamento, sia quelle colpo di pistola alla base del collo, sono infatti raccontate da Johan Leysen insieme al fascino e al disgusto provato nel vederne decine in video. Quando avviene la ricostruzione noi già sappiamo quello che sta avvenendo, notiamo i particolari che corrispondono alla descrizione, e immancabilmente cadiamo nella trappola, proviamo anche noi spettatori il medesimo disgusto e fascino, e nello stesso tempo ci chiediamo perché questo avvenga, perché sia necessario. Questa domanda è fondamentale, essa è il pungolo, quell’interpellation di cui parla Milo Rau posta alla base di tutto il suo teatro.

Per concludere rileviamo un altro tratto caratterizzante e distintivo di questo tipo di messa in scena: l’essere “concretamente utopistico”. In Orestes in Mosul, così come in The Congo Tribunal, il tribunale finale, – dove tramite l’intervento di Atena, si stabilisce il ritorno a una pace fittizia tramite l’intervento della legge e dello stato come unico soggetto abilitato a giudicare le colpe -, a Mosul, come a Bukavu, non è ancora una realtà ma qualcosa di nebuloso in un futuro speriamo non lontano ma di certo di là da venire. La guerra è per il momento solo sopita. Sotto le ceneri di una città che cerca di ricostruirsi ardono ancora le braci della violenza, non solo a causa delle centinaia di jihahisti dormienti appartenenti all’ISIS, ma soprattutto nel tragico destino delle loro famiglie imprigionate nei campi profughi di cui nessuno sembra volersi occupare. Nonostante tutto questo il perdono o una pacificazione è non solo evocata ma cercata. Benché gli appartenenti alla giuria siano tutt’ora incapaci sia di perdonare che di condannare senza appello, sorge il desiderio di cambiare la realtà rappresentata. Milo Rau cerca in qualche modo di forzare la realtà, di costringerla a prendere una decisione riguardo a se stessa, e questo proprio tramite un realismo solo superficialmente accostabile a una semplice imitatio naturae. Il regista svizzero sembra dirci con forza che per creare i presupposti di un cambiamento bisogna essere ferocemente crudeli con se stessi, osservare le cause di tanta barbarie e solo allora, dopo questo onesto e disincantato vedere senza veli, operare per ottenerlo.

Visto al festival Romaeuropa il 23 settembre 2019

Ph:@Piero Tauro

Leggi anche: http://www.enricopastore.com/2018/03/09/intervista-milo-rau-la-scena-sguardo-critico-sul-mondo/

Sutra Sidi Labi Cherkaoui

SUTRA DI SIDI LABI CHERKAOUI E ANATOMIA DI SIMONA BERTOZZI APRONO IL FESTIVAL TORINODANZA

L’edizione 2019 di TorinoDanza è stata inaugurata al Teatro Regio con Sutra, acclamata opera che riunisce in sé la danza poetica e suggestiva del maestro coreografo belga di origine magrebina con la disciplina delle arti marziali dei monaci Shaolin.

Sidi Labi Cherkaoui non è il primo artista occidentale conquistato dall’incontro con le filosofie e le pratiche corporee orientali. La fascinazione di Mejerchol’d per il teatro Nō, la folgorazione di Artaud per il teatro balinese, così come l’innamoramento di Rodin per le danzatrici cambogiane, sono solo alcuni incroci, peraltro notevoli, che hanno segnato il progressivo incontro tra Asia e Europa nell’arte solo nell’ultimo secolo. In questi confronti, spesso segnati da fraintendimenti peraltro fruttuosi, si è quasi sempre cercato una dimensione spirituale che si fatica a trovare nella nostra cultura, ma anche una sorta di mistero insondabile, una profondità abissale attraente come un potente magnete. Nell’Oriente, dal tempo degli antichi Greci, ci si perde e qualche volta ci si ritrova.

È il caso di Sidi Labi Cherkaoui da quando nel 2007, per sfuggire dalla routine in cui si sentiva ormai costretto, va in visita del Tempio Shaolin sulle montagne del Songshan (nella provincia di Henan in Cina), ritenuto dalla tradizione la culla del buddhismo Chan (zen in giapponese) per avervi ospitato il fondatore Bodhidharma. Da questo viaggio e in seguito all’incontro con la pratica nasce quest’opera che si avvale del suggestivo design scenico di Antony Gormley (già collaboratore in Icon e Noetic presenti nella passata edizione del festival) e della composizione musicale di Szymon Brzóska.

Sutra appare come un’esplorazione del corpo animato nel movimento da una mente in quiete, pacificata nel rapporto tra sé, gli altri e la natura. Un percorso rigoroso fatto di geometrie essenziali e compiuto mediante l’utilizzo di semplici moduli scenografici, delle scatole rettangolari di legno grezzo via via ricombinate a creare spazi d’azione per il corpo e la coscienza. Una meditazione in movimento in cui le casse diventano via via bare, porte, passaggi, case, letti. Semplici mattoni con cui il danzatore e il monaco-bambino modulano e cambiano lo spazio scenico, come fossero mandala continuamente disegnati e distrutti. Come in molte danze sacre del buddismo mahayana, la profondità e serietà del processo viene minata continuamente da momenti comici, quasi dissacranti, a sancire la necessità del non attaccamento al proprio pensiero, un non prendersi sul serio che relativizza gli assoluti. Il rigore della geometria delle linee viene inoltre ammorbidito dalla fluidità del movimento delle tecniche delle arti marziali dei monaci ispirate in buona parte dal movimento animale. Sutra è dunque un’opera coreografica che sa unire la profondità di un’esigenza di ricerca spirituale con una forte componente pop molto apprezzata dal pubblico in sala e dalle platee di tutto il mondo.

Di tutt’altro tenore Anatomia di Simona Bertozzi, opera che si situa quasi al polo opposto rispetto a questa visione di corpo spirituale. L’esplorazione operata dalla coreografa insieme alla giovanissima danzatrice Matilde Stefanini, si nutre e si avvale della composizione sonora live di Francesco Giomi, e attraversa sondandole le possibilità anatomiche del corpo. Il corpo-strumento valuta distanze, velocità, ritmi, equilibri e disequilibri, distensioni e contrazioni, tutte le possibilità del corpo-macchina al variare dei parametri. Un flusso di scambio continuo tra il movimento e il suono in rapporto a uno spazio-laboratorio per le esplorazioni anatomiche. In ogni movimento, in ciascuna frase coreografica possiamo come ammirare i vettori di velocità, i pesi che si equilibrano, la lotta strenua contro la gravità e le forze della fisica così come le infinite possibilità del corpo umano di estendersi e contrarsi, espandersi e implodere, allungarsi e restringersi. Un rigore scientifico in cui il suono rimanda al corpo che restituisce lo stimolo per lanciarsi verso una nuova variazione o una nuova espansione del processo .

In apertura TorinoDanzapropone quindi due modi in cui il corpo diventa strumento di conoscenza: da una parte in Sutra verso una dimensione spirituale, volta a una maggiore consapevolezza del proprio sé interiore, in Anatomia verso una meccanica di relazioni e possibilità che si instaurano tra il corpo, il suono e lo spazio. In entrambi i lavori emerge il rigore della ricerca, lo studio profondo e l’urgenza intensa dei processi di ricerca.

Il programma del festival prosegue fino al 26 ottobre con alcuni appuntamenti imperdibili per incontrare alcuni tra i più grandi maestri della danza contemporanea. Xenos di Akram Khan il 25 e 26 settembre alle Fonderie Limone di Moncalieri, l’intera Trilogia sulla famiglia (KindMoederVader) di Peeping Tom l’1, 3 e 5 ottobre prossimi alle Fonderie Limone per la prima volta riunita in trittico e, in chiusura Kamuyot di Ohad Naharin con la Batsheva Dance Company.

Sutra visto al Teatro Regio di Torino il 12 settembre 2019 con l’interpretazione di Ali Thabet

Anatomia visto al Teatro Gobetti di Torino il 13 settembre 2019

dare forma al caos

DARE FORMA AL CAOS: ESPERIMENTI PERFORMATIVI E NUOVE DRAMMATURGIE

Il senso del mio operare è che io immagini come un poeta e ricomponga in uno ciò che è frammento e enigma e orrida casualità. E come potrei sopportare di essere uomo, se l’uomo non fosse anche poeta e solutore di enigmi e redentore della casualità!

Nietzsche, Della redenzione in Così parlò Zarathustra

In questo ultimo torno di tempo si sta certificando una crescente attenzione verso una nuova drammaturgia teatrale, sia da parte degli operatori teatrali che da parte di giovani autori nel tentare questa difficile strada. Si scrive molto per il teatro e insieme a questa prolifica e abbondante nuova produzione, si riscontra altresì un ritorno del repertorio della tradizione classica (Shakespeare, Moliere, Goldoni, Ibsen,) quanto della più recente produzione del ‘900: da Cechov a Jon Fosse. In molti casi queste scelte di rivalutazioni hanno condotto, da una parte a nuove forme di regia collettiva o condivisa, dall’altra a un recupero del teatro di regia come è stato conosciuto fino all’inizio di questo nuovo secolo. Spesso non si può che constare il ritorno della semplice messa in scena di testi drammaturgici, e questo è invero più sorprendente in quanto lega ancor più strettamente il linguaggio scenico alla parola scritta, quasi un ritorno a un passato che si credeva abbandonato. Anche dalle nuove generazioni che tradizionalmente dovrebbero essere più rivolte alla ricerca di un nuovo tutto da scoprire.

A cosa si deve questo ritorno prepotente dello scritto teatrale, laddove quasi tutta la migliore tradizione rinnovatrice del teatro del Novecento si è affannata a sancire un’indipendenza di linguaggio del teatro rispetto alla letteratura, soprattutto in un periodo dove tutto spinge alla commistione dei linguaggi e alla sperimentazione verso un decisa multimedialità? Cosa è cambiato in questi ultimi anni che ha condotto alla necessità di riscoprire il bisogno di una nuova affermazione della parola letteraria sulla scena?

Per comprendere appieno questo fenomeno bisognerebbe in realtà affiancargli, come una cartina tornasole, un altrettanto proficuo e dirompente, seppur minoritario, filone di ricerca basato su strategie mutuate dall’agire performativo nelle arti visive che conduce alla creazione di eventi scenici condivisi e concreati con il pubblico partecipante dove la parola è quasi, se non del tutto, assente e ha una semplice funzione tecnica e procedurale, quindi mai poetica o assertiva.

Da una parte dunque abbiamo una concezione classica dell’evento teatrale, dove la parola è centrale e si configura come oggetto a cui assistere, mentre dall’altra si propone un’esperienza performativa a cui partecipare dagli esiti incerti e con la parola spesso niente più di una semplice regola del gioco. Sono due macrocategorie con concezioni molto distanti ma che si originano da una stessa esigenza: avere ragione della caoticità di un mondo frammentario con l’intento di trovare un linguaggio o una modalità che possa in qualche modo avere ragione della pluralità contraddittoria del reale. Tra questi due estremi utili per a focalizzare la questione vi sono ovviamente infiniti gradi mediani che commistionano le due tendenze tra alleanza e conflitto.

Con la caduta delle grande ideologie viviamo un mondo in cui il relativismo dei valori è dispiegato come mai accadeva prima. Sono venuti definitivamente a mancare dei sistemi di pensiero in grado di racchiudere in una qualsiasi teoria la complessità della realtà e, anche se ci fossero, tali sistemi sarebbero esposti su uno scaffale di supermercato virtuale; con eguale importanza a un consumo utilitario a seconda delle esigenze mancando comunque alla loro finalità di spiegare in maniera definitiva il mondo che stiamo vivendo. La contemporaneità ci espone a una terribile quanto insostenibile precarietà e nulla di più, dall’arte alla filosofia, dai credi religiosi alla stessa scienza, è pronto a offrirci una ricetta per dominarla, spiegarla o al limite renderla accettabile.

Il fenomeno a cui si faceva accenno all’inizio è dunque forse da ascrivere a questo spaesamento, di fronte a una realtà complessa e fluida al punto da non essere più spiegabile e tale sguardo abissale ha condotto la ricerca teatrale, per opposti motivi, a cercare di dare ragione di questo spiazzamento.

Il ritorno alla tradizione, a mio avviso, si può vedere come una reazione al caos ipersperimentale riuscendo ad attraversare il Novecento, dalle avanguardie storiche alla postdrammaturgia, una sperimentazione volta soprattutto a svincolarsi dai canoni naturalistici e descrittivi; al fine di condurre l’arte scenica a una sorta di filosofia in azione o di atto filosofico, quindi prodotti per lo più opachi, complessi, nati da un bisogno volto a costruire un linguaggio tra i linguaggi con una propria dignità, autonomia e funzione. Il recupero del teatro di parola, secondo canoni più o meno tradizionali, è sintomo di una necessità di riappropriarsi di nuove storie che diano invece ragione del mondo sfuggente di oggi; raccontandolo e fornendo delle chiavi di lettura con il potere di dar luce a un abisso che si fa sempre più minaccioso. Inoltre è come se, in questo tempo di crisi del teatro e dei suoi valori, non trovando delle nuove soluzioni realmente efficaci, alla temperie in cui si vive, constatando il fallimento a fornire risposte di quella circostanza sperimentale, ci si volesse ancorare, provando a reinventarla, a una tradizione possente, comunque capace di dar ragione della turbolenza del mondo benché in tutt’altre condizioni storiche, sociali ed economiche.

Il ritorno alla drammaturgia o al repertorio tradizionale è dunque una risposta in grado di puntare sul recupero del potere della parola e dimostrare di avere ragione del precario e dell’abissale. Una fiducia umanistica e classica nel verbo capace di poter dominare il caos sotto la rassicurante coperta della civiltà, di creare ancora un luogo in cui l’uomo ha ancora la capacità di governare l’indicibile e l’insondabile.

L’opera di Milo Rau si situa tra i vertici di questo filone di ricerca, uno dei punti più alti di questa fiducia nella parola come chiarificatrice dei conflitti e del teatro inteso, in senso classico, come agorà, luogo privilegiato dalla comunità per la composizione della crisi tramite la pratica de l’iterpellation, ossia di una questione stringente posta con forza al pubblico; e su cui quest’ultimo deve prendere posizione al fine di sanare la crisi in atto almeno prenderne coscienza al fine di cercare delle soluzioni possibili.

Quando però anche la parola vacilla, l’artista si rifugia nell’io e nella propria esperienza personale, come l’ultima frontiera di certezza attraverso cui si cerca di dare ragione della fragilità e dell’inspiegabile: l’io come misura di tutte le cose, ultima propaggine del tentativo del cogito cartesiano di affermare una qualche certezza nell’oceano sterminato e infinito del possibile. Infatti dove tutto sembra venire a cadere non resta che aggrapparsi al proprio io per cercare di affermare una seppur fragile concretezza. Laddove il presente nega all’artista la possibilità di farsi compositore della crisi o per lo meno interprete della stessa, anziché abbracciare questo infinito permutare delle cose si cerca di governare la frammentazione affermando il sé della propria esperienza. Tra gli esempi migliori di opere nel tentare di affrontare il problema con questo taglio si possono citare Cock, Cock, who’ s there?di Samira Elagoz, in cui l’artista cerca di cogliere gli effetti su sé e sugli altri dello stupro subito, e nello stesso tempo di analizzare le origini di un atteggiamento maschile dominante e aggressivo. Come in Between me and P di Filippo Michelangelo Ceredi, in cui l’artista attraverso i lasciti documentari ritrovati tra gli effetti abbandonati dal fratello scomparso negli anni ’80, cerca di scoprire le ragioni del suo gesto e di affrontare il trauma dell’abbandono.

Attraverso questi esperimenti in realtà non si fa che acclarare l’incapacità dell’io di controllare le cose della vita. È il naufragio dell’uomo come dominatore del mondo e degli eventi. Il tentativo di guarigione dal caos della sperimentazione, ossia l’ancorarsi a una modalità che nel passato aveva dato ottime risposte, con il mutare dei tempi e delle condizioni finisce per essere nient’altro che la manifestazione dell’impossibilità di tale guarigione.

D’altra parte la modalità performativa aperta e non preordinata rinuncia a dar ragione degli interrogativi e delle incertezze del presente, anzi ne abbraccia totalmente la caoticità e la propone come esperienza da vivere insieme al pubblico al fine di prenderne coscienza ed elaborare insieme delle modalità di sopravvivenza.

Questi processi prendono le mosse anch’essi dallo sperimentalismo novecentesco soprattutto dalla performance nata nel campo delle arti visive. Il primo a proporre un evento performativo in cui l’intento primario fosse l’esperire il mondo nella sua complessità è senz’altro The Untitled Event, atto di nascita dell’happening costruito da John Cage al Black Mountain College nel 1952. Per il grande compositore americano lo scopo vitale dell’arte, mutuando il pensiero del filosofo indiano Ananda Coomaraswami, era quello di imitare la natura nel suo modo di operare. Per giungere a questo risultato si doveva sottrarre l’ego dell’artista. Una rinuncia totale non solo a farsi portavoce di uno o più punti di vista da comunicare allo spettatore, ma anche e soprattutto dell’idea classica dell’autore creatore e demiurgo. L’opera d’arte doveva diventare un processo di scoperta del reale e non la comunicazione di un pensiero preesistente che l’oggetto artistico incarnava. Per Cage l’artista doveva essere niente di più che l’artefice di un contesto in cui le cose potessero accadere liberamente, un luogo in cui fare delle scoperte e fare esperienze impreviste di ciò che ci circonda.

Il suo pensiero influenzò, non senza polemiche, l’azione dei performers dagli anni Cinquanta, dal prima caotica corrente dell’happening, passando per il movimento Fluxus, giungendo fino ai giorni nostri. Non è un caso che tutti i performers oggi si affannino a dichiarare che il loro agire nulla ha a che fare con la rappresentazione teatrale, che nulla di quanto avviene è provato o preordinato, e scopo del loro operare è condividere con il pubblico un’esperienza. In queste continue e costanti dichiarazioni non solo si cerca di prendere le distanze dal teatro, posizioni oggi spesso pregiudiziali in quanto non tengono conto del mutare delle pratiche nel corso del tempo, ma soprattutto un prendere le distanze dall’idea di opera chiusa semplicemente posta di fronte all’occhio dello spettatore. Quello che si cerca nella performance è innanzitutto la condivisione e il proporre un’esperienza in grado di illuminare una questione critica sebbene non fornisca chiavi di lettura capaci di esorcizzarla.

D’altra parte il teatro ha mutuato proprio da queste pratiche alcuni concetti base (uscita dalla rappresentazione, processo invece di un progetto, azione anziché interpretazione o rappresentazione) provandole in campo teatrale.

Contrariamente alla tradizionale messa in scena di un testo, dove tutto è più o meno preordinato, lo sviluppo previsto (anche quando vi sono grandi margini di improvvisazione dell’attore), e allo spettatore non resta che scoprire lo svolgimento e decidere da che parte stare, una volta scoperto il finale, nel processo performativo partecipato vengono semplicemente poste le condizioni per lo sviluppo di una procedura; i cui effetti sono imprevedibili e in base alle premesse enunciate tutto può accadere persino il proprio sabotaggio e fallimento. La caoticità e contraddittorietà del mondo vengono accettate divenendo i mattoni su cui costruire l’esperienza. Le condizioni incerte sono condivise tra performer e pubblico e insieme se ne fa esperienza. Nell’evento nulla è scritto e niente è predeterminato anche quando sono previste stazioni di transito nel percorso perché tutto può accadere anche la ribellione e la catastrofe.

Ad esempio in Questo lavoro sull’aranciadi Marco Chenevier, dove nei vari passaggi che prevedono le torture ai danzatori, differenti pubblici hanno opposto diversissime reazioni: passano dal sadico infierire alla supina obbedienza agli ordini e alle regole date, giungendo fino al boicottaggio e all’aperta ribellione. In M2 dei Dynamis dove la coabitazione e occupazione della piccola zolla di terra da parte dei sette volontari, nonostante i passaggi siano preordinati in una sorta di narrazione, quanto avviene può cambiare radicalmente volta per volta. P Project di Ivo Dimchev l’artista pone dei compiti molto generici al pubblico (fa eseguire una danza di tre minuti, dare un bacio o simulare un atto d’amore nudi per cinque minuti, dietro una ricompensa in denaro), ma quanto avviene in quel modulo temporale è scelta dei partecipanti: l’atto d’amore simulato può essere una tenera carezza come un gesto pornografico. Tutto può accadere realmente e l’artista pone solo delle condizioni affinché si possa fare un’esperienza in qualche modo illuminante: la mercificazione di ogni nostro agire. Chi partecipa a tali eventi avverte immediatamente questo stato di imponderabile e imprevedibile precarietà e benché scelga di non parteciparvi attivamente non si sente al sicuro seduto alla sua poltrona. Inoltre il teatro performativo, partecipativo o cooperativo, si pone fuori anche dal concetto di ripetizione in quanto ad ogni nuovo incontro con lo stesso dispositivo, gli esiti e le problematiche emergenti mutano sensibilmente con il variare della composizione del pubblico, tanto da far nascere risultati che nulla hanno a che fare con le esperienze precedenti.

In conclusione è utile citare alcuni lavori che si collocano in una vasta zona mediana tra questi due estremi enunciati ma condividono la necessità di conferire una qualche ragione all’agire/patire di cui tutti facciamo esperienza e fatichiamo a fornire di senso. Quasi niente e Scavi di Deflorian/Tagliarini esplorano la frammentarietà del ricordo e dell’esperienza degli attori, appartenenti a diverse generazioni, nel confronto con il personaggio di Giuliana, protagonista di Deserto Rosso di Michelangelo Antonioni, e del malessere che lei vive. Il disagio del vivere, la mancanza di risposte di fronte a ciò che ci rende fragili, si affronta tramite i frammenti, i brandelli e le schegge di racconti personali a confronto con gli episodi tratti dalla celebre pellicola e la cui ricostruzione in un presunto mosaico spetta a ogni singolo spettatore, come il riconoscersi o meno con quanto viene riferito e narrato.

Tra le nuove generazioni possiamo ricordare Oh, little man di Giovanni Ortoleva, dove una drammaturgia controllata e scritta a priori, interpretata da un attore in uno schema di regia riconoscibile. Narra del naufragio di un capitalista speculatore tra i peggiori e nel finale si trasforma in un evento partecipato conferendo al pubblico la responsabilità di salvare o meno il naufrago. A seconda della scelta effettuata non solo cambia la conclusione dello spettacolo ma si prefigurano diverse risposte a un fenomeno che ci vede tutti più o meno partecipi come vittime o carnefici.

Si è cercato di delineare due tra le principali correnti che attraversano il nostro teatro (due estremi come sottolineato molto fluidi e permeabili e tra i quali vi sono infinite vie mediane), e di evidenziare come entrambe cerchino di dar conto di questo tempo di crisi e di incertezza, con il recupero di una tradizione che cerca nella parola e nel racconto un principio unificante e chiarificatore dell’estrema frammentazione del reale, ma anche l’abbraccio di tale caotico fluire ricreandolo; facendone esperienza al fine di poter desumere delle chiavi di lettura per quanto precarie. Entrambi sono tentativi di dare una nuova funzione al teatro per tornare ad essere un luogo in cui la comunità cerca di metabolizzare tutto quanto la perturba, inquieta e scuote senza dare certezza alcuna.