La ballata dei Lenna

La Ballata dei Lenna: Human Animal ovvero è la noia che ci rende umani?

Al CineTeatro Baretti di Torino, all’interno della stagione titolata Il tempo del disinganno, è andato in scena da l’8 al 10 aprile Human Animal de La ballata dei Lenna, spettacolo liberamente ispirato a Il re pallido, ultimo romanzo incompiuto di David Foster Wallace.

I tre componenti de La Ballata dei Lenna, Paola Di Mitri, Nicola di Chio e Miriam Fieno, hanno seguito le tracce de Il re Pallido, ambientato ne gli uffici della Internal Revenue Service, l’agenzia delle entrate americana, strutturando la loro ricerca a partire da uno studio sul campo, in diverse nostrane, temute e famigerate Agenzie delle Entrate.

Come nel romanzo di Foster Wallace vengono seguite le vicende di tre funzionari in una giornata qualunque. Costoro divengono paradigmi attraverso cui porsi una serie di domande sul vivere contemporaneo: si può restare umani nonostante la burocrazia? La noia è parte integrante del nostro vivere? Qual è la sua funzione? E infine: cosa vuol dire essere umani? Domande a cui non è facile rispondere, ma necessarie al fine di potersi interrogare su alcuni inquietanti aspetti del nostro quotidiano agire/patire.

Interessante la modalità di messa in questione adottata da La ballata dei Lenna: insieme al biglietto ci viene consegnato un numero, esattamente come quando ci si presenta in un qualsiasi ufficio pubblico. Nel prendere posto si è già in attesa, in una situazione potenziale di noia, di tempo vacante, imposto da un sistema più forte di noi. Chi non ha provato, prendendo quel numerino, in posta, in stazione, all’agenzia delle entrate, la sensazione di costrizione, di star perdendo tempo, di essere una vittima? E chi non ha provato avversione per quei funzionari che hanno la nostra vita in loro potere?

In scena gli attori ci stanno aspettando di fronte a uno schermo, che taglia orizzontale la scena e proietta i nostri volti di pubblico, o utenti, in attesa. Questo l’incipit di un processo di interrogazione che attraversa varie fasi e utilizza diversi media. I personaggi ci vengono presentati attraverso un video: tre funzionari dell’Agenzia delle Entrate che devono ripulire dei documenti coperti di fango ed escrementi in seguito a un’alluvione.

Nell’adempiere a questo noioso e umile compito i tre addetti ci mostrano il dietro le quinte di questi uffici, la loro quotidiana resistenza o abbandono al meccanismo burocratico del quale sono comprese anche le nostre vite. Tutto ciò lo vediamo tramite un video costituito da piani sequenza colmi che continuamente mutano il nostro punto di vista. Ai primi piani e ai piani americani il compito di evidenziare il percorso emotivo dei tre protagonisti.

Talvolta il personaggio si presenta in platea. Rompe lo schermo, la divisione tra noi e loro solo apparentemente perché vi è ancora il confine della platea che ci separa. La narrazione però si sposta su un altro piano di realtà, dalla dimensione video a quella dal vivo del palcoscenico.

Un ulteriore slittamento avviene quando i tre attori smettono i panni del loro personaggio e si presentano per quello che sono: interpreti appunto. Ecco che in questa funzione chiamano i numeri che ci hanno assegnato chiedendoci direttamente: cosa vuol dire essere umano? La domanda è retorica, non si pretende realmente una risposta. Anzi il meccanismo di chiamata non serve ad altro che a smontare la supposta unicità delle nostre identità. Siamo tutti molto più simili di quello che pensiamo, per gusti, predilezioni, lamentele, tutte manifestazioni di un agire indotto da parte di un sistema che condividiamo.

Human Animal de La ballata dei Lenna è dunque un meccanismo teatrale che mette in campo una regia costituita da quello che potremmo chiamare: montaggio delle attrazioni. Video, azione scenica, drammaturgia sono frammenti che costituiscono un insieme discontinuo che si conforma come mosaico che mette in questione il reale. La narrazione è pretesto per porre delle domande che ci accompagnano oltre la messinscena. Lo spettacolo è dispositivo di interrogazione di una comunità rispetto a delle questioni che la attraversano, un congegno complesso che sviluppa un linguaggio multiforme e composito.

Human Animal ci consegna un lavoro di una compagnia giovane che ha ben chiaro i propri obbiettivi di ricerca e che sa coniugare, con linguaggio maturo, narrazione, spettacolarità e ricerca di senso.

IL FESTIVAL DEL SILENZIO: PICCOLI UNICORNI PER SUPERARE LE BARRIERE

Si è svolto a Milano dal 2 al 5 maggio il Festival del Silenzio, diretto da Rita Mazza e organizzato da Fattoria Vittadini. Il festival nasce dall’esigenza di riflettere sul tema dell’accessibilità delle arti e propone un programma nel quale le opere sono rivolte ad un pubblico più ampio possibile, siano esse di danza, teatro o cinema.

Qualcuno potrebbe obbiettare che l’arte dovrebbe essere sempre rivolta a chiunque voglia accostarvisi, eppure ben sappiamo che le barriere sorgono ovunque anche nei luoghi più insospettabili. Se dunque l’accento e la preoccupazione del Festival del Silenzio si pone principalmente sulla disabilità (in cartellone vi sono molti performer nati segnanti ossia artisti la cui lingua madre è quella della segni), il discorso si può e si deve ampliare verso la rimozione di qualsiasi barriera intellettuale e fisica che tende a escludere l’accesso di settori di pubblico alla fruizione dell’opera d’arte dal vivo.

Quest’anno oltre alla programmazione del Festival del Silenzio si affianca il Satellite Meeting degli IETM, network internazionale per le performing arts a cui sono legati oltre quattrocentocinquanta tra artisti e festival in tutta Europa, dedicato proprio al tema: “Barriere di lingua e comunicazione nell’arte e nella cultura”.

È stato estremamente interessante per chi scrive assistere alle performance dei nati segnanti e scoprire una lingua che è danza e coreografia, comunicante nonostante non la si conosca (certo come in ogni lingua straniera si perde qualcosa), una lingua che impegna l’intero corpo nel significare, un linguaggio teso all’incontro con la volontà di superare ostacoli e difficoltà. Non è superfluo ricordare che benché la nostra cultura si affidi principalmente al Logos per la comunicazione, quest’ultima è per la stragrande maggioranza non verbale. Da qui la potenza dell’incontro dal vivo che è sempre totale quando ci si pone in stato di apertura verso l’altro.

Esempio illuminante è Gentle Unicorn di Chiara Bersani, premiata con l’Ubu 2018 come miglior attrice/performer under 35, in programma nella prima giornata di festival. Chiara ci accoglie già all’esterno della sala di Spazio Vittadini a La Fabbrica del Vapore con un foglio in cui prefigura l’incontro con il pubblico come già Stephen Hawking quando nel 2009 indisse il party per i viaggiatori del tempo. Un’apertura dunque anche a ciò che potrebbe apparire impossibile.

Entrando in sala il pubblico si predispone seduto in prossimità della scena su tre lati, il corpo di Chiara è invece disteso di spalle nell’angolo sinistro in fondo. Lentamente si alza e gattona, adagio, a fatica, per tutta la lunghezza della scena. La musica di Francesca De Isabella accompagna l’incedere sorgendo dal silenzio come da un luogo lontano. Gradualmente Chiara si avvicina e ci guarda. Si approssima al pubblico, sempre più vicina, i suoi occhi gentili rivolti a ciascuno di noi. Non accade nient’altro eppur tutto ha luogo in quell’incontro.

I miti greci ci parlano dalla lontana antichità sul potere dello sguardo. La fanciulla Kore, la pupilla, che nel ricambiare lo sguardo di Ade rende possibile il rapimento, perché solo attraverso gli occhi si può esser carpiti e attratti dal dio. Pensiamo ai rapimenti estatici di Dante nel ricambiare lo sguardo di Beatrice, luminoso oltre ogni dire. Ma anche a quello pietrificante di Medusa, da cui Perseo si difende solo con lo scudo di Atena, dea della sapienza (non è superfluo ricordare che di Medusa si diceva avesse corpo di cavallo, e che dal suo corpo decapitato scaturì Pegaso, cavallo alato).

Il nostro occhio nell’incontrare quello di Chiara può pietrificare come la Gorgone o permettere un rapimento come nel caso di Persefone. Sta a noi, alla qualità di ciò che offriamo nell’incontro stabilire se quel corpicino che attraversa la scena sia o meno un unicorno, un animale mitico e solitario. Chiara nel frattempo si avvia verso il fondo della scena, si appoggia con la schiena alla parete e prende una tromba da cui emette un suono, come un nitrito, ripetuto più volte a cui rispondono dietro le nostre spalle, altri strumenti. Lentamente entrano in scena altri corpi, ciascuno con uno strumento a fiato. Altri animali mitici hanno risposto al richiamo, si guardano, parlano con il loro linguaggio di suono, finché la luce scema. L’incontro è avvenuto? Noi pubblico abbiamo risposto alla chiamata? Che sguardo abbiamo offerto a quel corpo che a noi si è mostrato? Questa domanda aleggia a lungo prima degli applausi.

Gentle Unicorn mette in luce chiaramente le intenzioni del Festival del Silenzio: accessibilità significa prima di tutto potersi incontrare, e perché ciò sia possibile è necessaria la volontà. Bisogna essere disponibili, lasciare aperta la porta. Allora tutto diventa possibile e le barriere che si pensavano insormontabili si sgretolano e svaniscono come castelli di carta per un soffio di vento.

Trasparenze Festival

TRASPARENZE FESTIVAL: la volontà di muovere utopie

Dal 2 al 5 maggio, tra Modena, Castelfranco Emilia e Gombola, si è svolta la settima edizione di Trasparenze Festival, dal titolo: muovere utopie. Negli ultimi anni la parola festival, che indica una festa e una rassegna a tema culturale, ha assunto non tanto nuovi significati quanto un riassestamento delle sue funzioni, processo questo ben lungi dall’essere terminato.

L’idea tradizionale di vetrina di spettacoli seppur permane soprattutto nei grandi eventi, viene sempre più sostituita nelle manifestazioni medio piccole dal convincimento che il festival sia soprattutto un momento e un’occasione in cui il teatro e le arti performative incontrano le comunità che le ospitano e si relazionano con il tessuto sociale.

Il festival diventa quindi uno strumento per intessere relazioni, non nel senso delle public relations, quindi con un fine utilitaristico, quanto piuttosto un recupero dell’idea di agorà, di luogo aperto al confronto e al dibattito, dove le anime di una polis, non necessariamente geografica e stabile, ma anche temporanea, ideale, utopistica forse, si possono confrontare e pensare evoluzioni impreviste.

Tale evoluzione, come detto ben lungi dall’essere terminata, è stata causata da più fattori: l’evoluzione del pubblico, stanco di essere un semplice occhio passivo e desideroso di essere maggiormente coinvolto; la presa di coscienza degli operatori dello scollamento avvenuto tra la società e la cultura e quindi dell’inutilità di una proposta legata semplicemente alla visione, al mostrare senza affiancare una riflessione e un incontro che riavvicini la comunità al teatro, non inteso come luogo fisico quanto piuttosto come piano immaginario e sperimentale; infine la richiesta dei maggiori finanziatori, oggi le fondazioni bancarie, di pensare luoghi che coinvolgano sempre maggiori categorie di pubblico, riflessione questa non sempre disinteressata.

La società come comunità e la relazione tra artisti e cittadini diviene dunque il centro dell’interesse dei festival e le strategie messe in campo sono molteplici, non tutte sempre efficaci, non tutte sincere. Trasparenze Festival si distingue nel panorama nazionale per un’effettiva ricerca di uno spazio di incontro tra l’arte del teatro (termine inteso nel senso più ampio possibile) e il territorio in cui opera e la società che lo abita, soprattutto nei riguardi delle categorie meno protette: detenuti, anziani, richiedenti asilo, disabili. Inoltre Trasparenze Festival cerca di smuovere il pensiero e la riflessione all’interno della comunità teatrale stessa, cercando di ripensare le modalità di creazione, riflettendo sul significato dell’atto creativo in sé.

Ogni agire comporta pregi e difetti, pratiche emendabili e perfettibili, penso soprattutto al Progetto Cantieri che intende promuovere un periodo residenza creativa non finalizzata alla restituzione di un prodotto ma all’indagine del momento zero della creazione artistica e che potrebbe essere magari maggiormente espanso nel tempo e forse allargato al pubblico e alla critica in maniera più integrata. L’agire però si distingue nelle intenzioni, nel promuovere pratiche virtuose, perché oggi è proprio nelle pratiche che il fare artistico e culturale porta la sua diversità e le sue utopie, e sotto questo aspetto Trasparenze si differenzia per la responsabilità e sincerità.

Un esempio è il tentativo operato dal festival di attivare un progetto di residenze artistiche che coinvolge la comunità a rischio spopolamento della piccola frazione di Gombola, nel comune di Polinago sull’appennino. Purtroppo a causa di una tempesta di neve fuori stagione il programma previsto il 5 maggio, che prevedeva una camminata poetica accompagnata dalla voce di Ermanna Montanari, lo spettacolo di Abbiati Una tazza di mare in tempesta, La delicatezza del poco e del niente di Roberto Latini e l’incontro cantato del Collettivo Hospites di Mario Biagini è stato annullato ma certo rimane nelle intenzioni e speriamo che nelle prossime future edizioni del festival tutto ciò possa essere realizzato.

L’afflato utopistico di Trasparenze Festival e del suo direttore Stefano Tè si manifesta in tutta la sua luminosità soprattutto nel progetto Moby Dick, spettacolo urbano che si avvale della drammaturgia di Giulio Sonno e che coinvolge bambini, detenuti, richiedenti asilo, attori e musicisti professionisti. Moby Dick è una produzione più vicina agli allestimenti di un grande teatro d’opera e quasi impossibile per una compagnia indipendente come quella del Teatro dei Venti. Stefano Tè ha però fortemente creduto nella sua realizzazione ed è riuscito insieme ai suoi collaboratori a rendere reale questa immensa nave che diventa balena e abita le piazze.

Un carro palco enorme che, come il Pequod, la nave di Achab nel meraviglioso romanzo di Hermann Melville, diventa una comunità ideale che solca i mari sfidando la sorte per la realizzazione di un progetto impossibile. Come spiega Giulio Sonno, il libro di Melville è attraversato dalla crisi del trascendentalismo americano che vede minato il sogno della democrazia partecipata. Ecco dunque che lo scontro tra Achab e la balena bianca assume un significato politico, nel conflitto tra l’idea di democrazia e la società di massa prefigurata nel Leviatano di Hobbes.

Lo spettacolo vede la grande nave trainata in piazza. Sulla tolda l’equipaggio percuote le grosse botti vuote che ospiteranno l’olio di balena. La nave issa gli alberi e le vele, si trasforma in balena, diviene essa stessa mostro e si chiude in minore con il monologo di Achab rivolto direttamente alla testa del leviatano, testa attraversato da molte suggestioni testuali, dal Faust di Goethe, al Qoelet, al trentatreesimo canto del Paradiso dantesco.

L’azione scenica ci restituisce la vita di una nave, dove gli attori non fingono d’essere equipaggio ma sono equipaggio e con questo si intende comunità che non simula ma agisce. Il pregio maggiore di questo Moby Dick, che offre al pubblico un’epica e magnifica risoluzione del romanzo di Melville, è quella di saper coniugare una grande spettacolarità con una intensa profondità di senso. Il carro-palco stesso non è solo macchina di fascinazione ma diventa piano ideale per la sperimentazione di una società possibile, e la sua immagine si moltiplica e rimanda ad altre navi ideali che hanno solcato i mari, da quella dell’Antico Marinaio, a quella di Ulisse, a quella dell’Olandese Volante, perfino quella dei grandi navigatori da Colombo a Magellano in mare per scoprire nuovi mondi.

Moby Dick è quindi la migliore manifestazione possibile dell’afflato utopistico che anima il Trasparenze Festival. È l’emblema della sua azione politica volta a creare comunità prefigurando scenari magari improbabili ma decisamente possibili quando si è animati, come Fitzcarraldo da una grande fede.

Ph: @Chiara Ferrin

Performa Festival

Performa Festival: abitare la cultura, essere comunità.

Ad Arbedo nei pressi di Bellinzona in Canton Ticino dal 19 al 28 aprile si svolge la nona edizione di Performa Festival diretto da Filippo Armati. Da molti anni seguiamo con affetto e interesse questo evento dedicato alle arti performative che si distingue, nonostante i mezzi economici limitati, per una intelligente programmazione volta ad esplorare i confini e le possibilità operative in campo sociale delle Live Arts e per le sue istanze etico-politiche applicate all’arte dal vivo.

È personale opinione di chi scrive che una delle funzioni che rendono indispensabili le performing arts sia quella di riunire una comunità al fine di affrontare alcune problematiche essenziali del vivere sociale non tanto proponendo delle soluzioni effettive quanto di prefigurare delle diverse possibilità di azione. In quest’ottica divengono fondamentali non tanto i risultati estetici quanto le pratiche attraverso cui si pongono le questioni alla comunità/pubblico. L’azione artistica è quindi anche azione politica volta alla trasformazione della percezione del mondo in cui si abita.

Già John Cage aveva teorizzato una ridefinizione delle funzioni dell’arte che da esposizione di risultati estetici diveniva occasione per ampliare le proprie conoscenze sul mondo. L’azione performativa diventa dunque un luogo e un tempo in cui mettere in discussione le proprie concezioni e in cui si fa esperienza di modalità alternative. Un ambiente sperimentale in cui testare procedure inconsuete di percezione.

Performa Festival è tutto questo: un piccolo laboratorio in cui si condividono pratiche e pensieri che tendono a modificare il nostro comune pensiero su come abitare questo mondo. Tale azione non si limita al solo momento performativo ma si dispiega in ogni istante moltiplicando le occasioni di incontro, dialogo e condivisione tra pubblico, operatori e artisti. Nei giorni di festival si viene così a creare una piccola comunità transitoria e aperta in cui chiunque la frequenti contribuisce alla crescita e allo sviluppo dell’evento di cui si fa co-creatore.

Tra gli eventi in programma nel primo week end segnaliamo Border Line di Beatrice Bresolin & Collaborators coprodotto da Performa Festival insieme al Centro per la Scena Contemporanea di Bassano del Grappa, tenutosi in Piazza Collegiata a Bellinzona. Border Line è una sorta di gioco volto alla creazione di nuovi spazi d’azione e di relazione, luoghi in cui porsi delle domande, riflettere, ma anche esperire ludicamente nuove possibili conformazioni.

Nel borgo di Arbedo è andato in scena Made in Performa, una breve passeggiata in corti e giardini privati, messi a disposizione per l’occasione, dove hanno luogo quattro pezzi brevi nati dalla collaborazione di danzatori e musicisti attraverso residenze creative sviluppate dal festival durante l’anno.

Il percorso ha portato il pubblico a visionare dapprima Tea time del duo formato da Rebecca Weingartner e Benjamin Lindh Medin, Una situazione consueta, come un tè in giardino presto diventa perturbante mediante piccole azioni di danza che trasformano il tempo e lo spazio della convivialità. Dopo un breve spostamento eccoci in un altro giardino in cui Maria Vlasova e Heni Bellhamadi ci presentano una sorta di rito sciamanico che ha origine dall’interazione del corpo della danzatrice con un uovo in molte culture simbolo dell’anima.

A questo segue Bonsai di Emilia Giudicelli e Gregoire Paultre Negel, un altro rito volto a esplorare la perdita di controllo e di equilibrio. Il pubblico forma un cerchio nell’orto intorno a un piccolo campo di patate blu. Il cerchio si muove in senso antiorario e gradualmente esplora, attraverso piccole azioni di disequilibrio, una progressiva ebbrezza dionisiaca attraverso un uso spontaneo e imprevisto del corpo e della voce.

Ultimo pezzo breve è Jurassic Noises #1 del duo formato da Camilla Stanga e Cesc Rezzonico, pezzo breve che lega suoni tellurici e primordiali a un movimento felino e primitivo. A chiudere il programma un aperitivo e una cena in corte condivisa da pubblico e artisti.

In serata al Teatro Civico di Arbedo una Impro Jam di danza e musica con la presenza del grande percussionista ticinese Ivano Torre a cui hanno partecipato i danzatori e i musicisti presenti al festival. Spesso si è portati a sottovalutare gli spettacoli di improvvisazione come se fossero frutto di faciloneria e dilettantismo. Tuttavia la creazione istantanea, nel suo vivere l’istante presente, ci trasporta in una diversa concezione del tempo, non più sotto l’imperio di Kronos, ma in quello che i greci chiamavano Kairos, il tempo dell’occasione. Per vivere il tempo cairologico è necessaria una diversa forma mentale, le metis, ossia la capacità di comprendere e reagire all’istante con soluzioni frutto di profonda intuizione più che di ragionata deduzione. La metis è l’attitudine del navigatore di cogliere i cambi di vento, la capacità quindi di reagire all’imprevisto imponderabile. Nella creazione istantanea per vivere questo stato mentale e questo specifico tempo è necessaria una grande predisposizione, un attento ascolto, una quasi totale sottrazione dell’ego, un rispetto profondo senza i quali ciò che accade sprofonderebbe nel caos. Nell’arte dell’improvvisazione si crea dunque la regola nel suo farsi e ciò che ha luogo viene continuamente risemantizzato dal momento che segue. L’improvvisazione non è quindi frutto di un progetto quanto piuttosto di una interpretazione e una esplorazione dell’istante presente. Inoltre non è pura invenzione ma rimodulazione di ciò che si sa, delle tecniche che si padroneggia, in una nuova e imprevista configurazione che conduce, se ben eseguita, a scoperte impensate.

Performa Festival, oltre alla programmazione spettacolare, ha proposto anche dei momenti di dialogo di assoluto interesse. Primo fra tutti una riunione per la costituzione di una associazione di categoria per i danzatori attraverso la quale presentare istanze e dialogare con le istituzioni politiche. In Svizzera come in Italia si riscontra un’inspiegabile allergia ad agire di concerto, eppure solo come comunità è possibile ottenere non solo un riconoscimento, ma una più fruttuosa collaborazione con gli organi politici.

Performa Festival è un luogo di sperimentazione ma anche luogo di incontro e di scambio. Non esente da qualche difetto di organizzazione, a cui supplisce con energia, cuore e generosità, offre ai suoi ospiti e spettatori un programma interessante ma soprattutto una visione etica e politica dell’arte come strumento efficace di intervento e ripensamento del reale.

Programme Commun

Visioni d’oltralpe: il Festival Programme Commun di Losanna

A Losanna in Svizzera si è svolta dal 27 marzo al 7 aprile la quinta edizione di Programme commun, festival la cui programmazione è condivisa da tre istituzioni teatrali della città: Théâtre Vidy, Théâtre Arsenic e Théâtre Sevelin 36.

Il cartellone ha proposto spettacoli e artisti di grande livello internazionale quali Jerome Bel, Angélica Liddell, Simone Aughterlony, Thomas Ostermeier, Stephan Kaegi/Rimini Protokoll insieme a artisti meno conosciuti ma di grande interesse e qualità come Samira Elargoz e Marion Duval.

Programme commun non è però solo un grande festival vetrina ma cura aspetti di promozione della cultura della coproduzione e della distribuzione internazionale che nel nostro paese stenta a maturare. Agli operatori internazionali, numerosissimi e da ogni parte d’Europa ma non solo, sono stati offerti momenti di incontro e confronto su temi di comune interesse, così come la presentazione di progetti di giovani autori svizzeri in avanzato stato produttivo alla ricerca di coproduttori che possano loro permettere sia un salto di qualità sia l’apertura verso mercati esteri. Questo aspetto di industria culturale andrebbe assolutamente sviluppato in Italia innanzitutto perché aiuterebbe da un lato a smuovere un mercato interno che tende a essere chiuso e involuto e dall’altro a fornire una spinta necessaria per la promozione dei nostri giovani verso l’Europa oltre a significare l’accesso a fonti di finanziamento meno incerte.

Un’altra caratteristica che dovremmo prendere ad esempio è l’apertura dei luoghi teatrali all’utilizzo della comunità in ogni ora del giorno. Le caffetterie dei teatri sono aperte e frequentate durante tutta la giornata da studenti, anziani, persone comuni. Si può mangiare, prendere semplicemente un caffè o un aperitivo, così come dopo lo spettacolo fermarsi a fare serata, ballare, chiacchierare incontrare gli artisti, discutere su quanto visto. Inoltre sono una forma di autofinanziamento notevole per le attività culturali.

Il teatro come luogo di incontro al di là dell’appuntamento spettacolare è in Italia rarissimo, nonostante non manchino alcune ottime eccezioni come Fuori Luogo a La Spezia. Spesso i teatri aprono non più di un’ora prima e chiudono subito dopo, ci si può accedere solo se si ha il biglietto per la rappresentazione in programma e limitano la loro attività alle necessità del cartellone. I nostri teatri sono luoghi chiusi che accolgono a malapena il pubblico pagante. Nonostante tutte il gran ciarlare di audience engagement i teatri in Italia non sono luoghi di aggregazione e di ritrovo per la comunità.

Tra gli spettacoli visti a Programme Commun di particolare interesse è la performance in forma di documentario di Samira Elargoz Cock, Cock… Who’s there? L’artista è seduta su una sedia al centro della scena racconta dello stupro subito e della necessità di affrontare questo evento traumatico in una performance che diventa una sorta di studio antropologico e sociologico sul maschile. Samira Elargoz illustra il metodo seguito in questa sua indagine che l’ha portata in un primo momento a confrontarsi con amici e familiari sulle conseguenze dello stupro. Il secondo stadio è il graduale ritorno alla frequentazione con gli uomini prima in chat e in seguito dal vivo riflettendo come l’incontro con l’altro sesso sia sempre per la donna un momento di potenziale minaccia e come l’attitudine maschile al confronto con il femminile sia improntata al dominio e alla conquista. In un periodo in cui i femminicidi affliggono la cronaca quasi quotidianamente la performance di Samira Elargoz pone questioni importanti che necessitano di un confronto e di ben più che una superficiale riflessione. La performance alterna documenti video e momenti analitici, e benché mantenga una tonalità asettica dal tono scientifico-sociologico, è commovente e urticante, colpendo letteralmente allo stomaco il pubblico presente.

Di tono decisamente diverso la performance di Simone Aughterlony artista cui la Biennale di Venezia ha lo scorso anno dedicato una piccola personale di tre lavori Uni*form, Biofiction e Everythings fit in the room. Al Théâtre Arsenic presenta il nuovo lavoro dal titolo Maintaining stranger in cui i cinque performer agiscono una partitura all’apparenza casuale e caotica in un paesaggio roccioso e artificiale, quasi deserto mistico in cui confrontarsi con lo sterminato fuori di sé e l’abisso che abita l’interiorità. Nella desolazione rocciosa gli incontri scatenano azioni, dialoghi, racconti poetici che aprono squarci visionari sulla diversità e l’amore che unisce e divide. La performance è inoltre caratterizzata dall’accompagnamento sonoro suggestivo e profondo del performer musicista Hahn Rowe. Maintening stranger è un ulteriore sviluppo del linguaggio scenico di un’artista come Simone Aughterlony che si situa a cavallo tra i generi non essendo propriamente performance né coreografia o regia quanto piuttosto uno stadio evolutivo ulteriore, creatura scenica ibrida frutto di intrecci sapienti di DNA diversi ma compatibili.

Rito mistico e visionario il nuovo lavoro di Angélica Liddell Una costilla sobre la mesa: Madre. Un omaggio alla defunta madre che prende avvio dal romanzo di Faulkner Mentre morivo e da alcune ritualità della regione spagnola dell’Estremadura, come quella degli Empalaosdi Valverde de la Vera dove uomini vengono strettamente legati con delle corde di canapa ai bracci di una croce in un supplizio espiatorio.

La scena si apre e numerose donne velate sono sedute nella penombra su delle sedie di legno. La Liddell rivolge un’invocazione alla madre defunta, grida e piange trasformando l’odio in amore e pietà. Tramite questa preghiera che è anche bestemmia si dà l’avvio a un rito di una religiosità quasi pagana, accesa e allucinatoria in cui la madre defunta si trasforma in potenza del femminile e si manifesta come incarnazione di varie forze ed energie: la donna nuda e incinta, la bambina nella bara, le donne velate, la Vergine Maria, la Madre Terra.

Molti i riferimenti biblici che costellano questo mistero di religiosità barbara e medievale. Un esempio su tutti l’episodio evangelico dell’indemoniato di Gerasa da cui Gesù scacciò la legione di demoni nei porci. Un uomo vestito con un costume tradizionale dell’Estremadura vaga per la scena con una testa di maiale cantando l’episodio e ripetendo all’infinito le ultime parole di Gesù: “Và e annunzia loro quello che il Signore ti ha fatto e la misericordia che ha avuto di te”.

Una Costilla sobre la mesa: Madre è un confronto intimo con la madre defunta che Angélica Liddell trasforma in rito collettivo e barocco, di una visionarietà allucinata e febbrile non estranea alla cultura spagnola e che colpisce profondamente benché in alcuni tratti sembri debordare. Un lavoro che ancora una volta ribadisce l’attitudine di Angélica Liddell a trasformare l’atto scenico in un’azione di sopravvivenza, in cui il dolore della vita viene affrontato e metabolizzato mediante l’atto creativo performativo.

Da ultimo Retrospective di Jerome Bel, autobiografia filmica in forma di frammenti che ripercorre la carriera del grande coreografo attraverso alcune parole chiave come corpo, libertà, identità, movimento. In Retrospective Jerome Bel si riassume e ci consegna un’immagine della propria concezione della danza come momento egualitario e poetico che unisce al di là della tecnica e delle capacità. Man mano che scorrono le immagini di Gala, Disabled Theater, The show must go on, Veronique Doisneau, si evince il filo rosso della non-danza di Jerome Bel: una forma libera, condivisibile, che esalta l’inventiva e la creatività che ciascuno porta con sé, nel proprio corpo, qualsiasi esso sia.

Programme Commun è un festival decisamente complesso che offre non solo una panoramica di grande qualità su quanto avviene nella scena contemporanea europea, e questo senza indulgere nel facile mainsteam, ma offre momenti di incontro, discussione, confronto non solo tra addetti ai lavori ma con il numeroso pubblico che ha frequentato le sale e i teatri durante la rassegna. Un festival che non si costituisce come una riserva indiana per professionisti del teatro, ma come luogo in cui le diverse comunità che animano la società possono incontrarsi.

Compagnia Dimitri/Canessa

Ad esempio questo cielo: Compagnia Dimitri/Canessa mette in scena Raymond Carver

Dal 4 al 7 aprile al Teatro della Contraddizione di Milano è andato in scena in forma di studio Ad esempio questo cielo della Compagnia Dimitri/Canessa per la regia di Elisa Canessa.

Cosa faresti nel tuo ultimo minuto di vita? Chiede l’attore. Non molti saprebbero rispondere a questa domanda. Soprattutto perché mentre ci stai pensando il minuto è ormai bello e passato. Raymond Carver, sulle cui parole poetiche è costruito lo spettacolo, sapeva cosa fare. Avrebbe forse continuato a scrivere un’ultima poesia, o avrebbe gettato un ultimo sguardo amorevole a Tess.

Negli ultimi mesi della sua vita il grande scrittore e poeta americano cercò spasmodicamente di scrivere il più possibile, sperava di avere più tempo a disposizione per non tralasciare nulla. «Vorrei avere ancora un po’ di tempo. Non cinque anni, e nemmeno tre, non potrei sperare così tanto — ma se avessi anche solo un anno. Se sapessi di avere un anno». Da questo nucleo e dalla domanda iniziale prende spunto Ad esempio questo cielo.

Due attori sulla scena Federico Dimitri e Andrea Noce Noseda. Due aste con microfoni ai lati, una in proscenio a destra, e uno verso il fondale, dal lato opposto a sinistra. Al centro una piattaforma tonda girevole. Due uomini in scena a dare vita alle parole di Carver rendendo manifesto il suo canto all’esistenza, al mondo, all’umano.

È una corsa e un inseguirsi intorno a questo nucleo tematico rappresentato dalla piattaforma, dal suo turbinare come ruota intorno al perno. E la forza centrifuga è tutto ciò che ci strappa con forza dalla vita.

I due attori alternano momenti lirici e poetici ad altri decisamente più clownistici tesi a far esplodere la potenza delle parole di Carver. I temi si intrecciano e ritornano come voci armoniche in polifonia creando una buona dinamica tra i frammenti poetici e l’azione. Un esempio è la poesia Ti muore il cane che ritorna come leitmotiv all’inizio e alla fine creando dei piccoli legami tenui tra i frammenti sparsi.

Ad esempio questo cielo è una sorta di mosaico fatto di piccole tessere poetiche, di azioni, di oggetti, che ricostruiscono un disegno possibile, uno dei tanti, un affresco che avrebbe potuto benissimo essere diverso se il caso avesse spostato l’ordine degli addendi. Le parole non determinano l’azione e quest’ultima non le descrive. È un congegno scenico dove parole e azione si moltiplicano vicendevolmente, si propagano e diramano il senso che si sprigiona dal loro contatto. Non vi è nulla di didascalico, piuttosto l’affermazione della potenza del linguaggio scenico quando non è suddito della parola.

Ad esempio questo cielo della Compagnia Dimitri/Canessa coproduzione italo-svizzera è attualmente in fase di studio ma in avanzato stadio di lavorazione. Piccoli accorgimenti quale l’evitare la ripetizione degli stessi moduli lirico/clownistici e qualche rifinitura alla dinamica ritmica soprattutto nel finale non potranno che migliorare un lavoro che già ora tiene avvinta la curiosità e attenzione dello spettatore con ironia giocosa senza tralasciare momenti più intensamente toccanti.

Platonov

Il Mulino di Amleto: Platonov ovvero come sfuggire alla tempesta

Dal 2 al 7 aprile al Teatro Astra nella stagione della Fondazione TPE è andato in scena Platonov de Il Mulino di Amleto per la regia di Marco Lorenzi.

Platonov è l’opera prima del giovane Cechov, nascosta dalla sorella del drammaturgo nel 1917 in una cassetta di sicurezza durante i disordini delle Rivoluzione d’ottobre e riscoperta qualche anno più tardi nel 1921. Cechov scrisse il testo a ventun anni e come tutti i giovani che si accingono a scalare l’ardua parete della loro prima opera, peccò in eccesso, volendo mettere tutto quello che si agitava nell’animo suo nel tentativo di creare un affresco che dipingesse la vita nella sua interezza. Vi è materia più per un romanzo che dispieghi la sua trama per un numero infinito di pagine più che per un dramma o tragedia teatrale che si consuma per poco tempo su un palcoscenico.

Molti i personaggi più vicini, nelle loro piccole misere abiezioni mischiate a grandi aspirazioni, a Dostoevskij che al Cechov che conosciamo. Quest’influenza non nasconde i temi classici cechoviani (l’incapacità di raggiungere la felicità, la tortura dello stare insieme giusto, etc.), ed è solo la traccia della ricerca di uno stile da parte di un giovane che ancora non si è liberato dell’autorità dei suoi modelli di riferimento.

Platonovè come detto afflitto dalla necessità spasmodica di dire tutto, senza nulla tralasciare, una foga che hanno tutti i personaggi, malati di un eccesso di vitalità, paralizzati proprio dalla sovrabbondanza e dall’eccedenza. Fulcro della vicenda è infatti l’eccesso d’amore che si avviluppa intorno alla figura del protagonista, il maestro elementare Michail Vasil’evic Platonov (impersonato da Michele Sinisi). Incapace di realizzare le proprie ambizioni, proprio perché esorbitanti, e richiuso in una sorta di cinismo punitivo, Michail attrae l’amore di tre donne: la moglie Aleksandra Ivanovna (Rebecca Rossetti), la giovane Sof’ja Egorovna (Barbara Mazzi) e la tenutaria in disgrazia Anna Petrovna (Roberta Calia). Platonov benché le attragga è incapace di concretizzare le sue accese passioni. Le sue promesse cadono sempre nel vuoto, inabili a superare l’entusiasmo del qui ed ora. Alla prima sospensione della tensione subito si affaccia la possibilità che la vita sia altrove. La felicità è sempre rimandata, sognata in un altro momento, mai nel presente.

L’eccesso di vitalità è inoltre manifesto nella festa banchetto nella tenuta. La vodka è il motore di un’ostentata ebbrezza e i brindisi non sono che la maschera delle molte infelicità che attraversano la compagnia. L’ubriachezza è anche la miccia che innesca gli scarichi violenti di tensione tra i personaggi che, trovandosi da soli nell’intimità di una relazione, non possono altro che scagliarsi gli uni contro gli altri proprio perché attratti da eccessiva forza gravitazionale.

Marco Lorenzi e il Mulino d’Amleto affrontano questo “mostro” drammaturgico operando alcune scelte registiche di grande interesse ed efficacia. Prima fra tutti l’inclusione del pubblico nel contesto scenico, inserzione e coinvolgimento che avviene ricambiando lo sguardo dell’osservatore come fosse il testimone oculare di quanto avviene, presenza vera e non nascosta nel buio della sala e separata da un’invalicabile quarta parete. Il pubblico viene interpellato, coinvolto nella festa e fin dall’entrata in sala quando viene offerto un bicchierino di vodka quasi partecipassimo anche noi alla festa di Anna Petrovna.

In secondo luogo il costante mutare del punto di vista che bascula tra interni ed esterni tramite una parete mobile trasparente. Scene e controscene si intrecciano così dando allo spettatore la possibilità di seguire, tra primo e secondo piano, la scena principale contrappuntata da ciò che avviene contemporaneamente e altrove come ne Le tre sorelle di Simon Stone dove questo effetto era dato dai vari ambienti della casa girevole. Gli effetti di quanto deve avvenire o di quanto avvenuto sono compresenti alla scena principale, i personaggi sono dunque sempre in scena, vivono le loro emozioni e le conseguenze delle loro azioni costantemente, senza sfuggirne mai. Inoltre sullo sfondo la proiezione in presa diretta di quanto avviene tramite cellulare, come in una qualsiasi festa di oggi. L’immagine video ci cala in una dimensione di realtà, di presenza immediata ma fornisce anche un ulteriore punto di vista in movimento.

Questo alternarsi di interno/esterno, di scene di insieme da cui emergono i singoli dialoghi crea un movimento come se da nubi tempestose fulmini abbaglianti si scaricassero a terra. I personaggi emergono dal coro della festa, per un attimo sono in proscenio a rivelare le loro intime contraddizioni, e infine vengono nuovamente riassorbiti dal caos. In questa corrente alternata si vedono anche le differenti maschere che i personaggi indossano durante la vicenda: quella intima e quella pubblica, quella dedicata alle singole persone e frutto di libere scelte contrarie agli equilibri esistenti in seno alla piccola congregazione, e quella dedicata alla piccola comunità avvinta in relazioni obbligate e inestricabili. L’esempio più evidente di questa tensione sempre presente tra ciò che si vorrebbe e ciò che si deve, è il triangolo Anna Petrovna, tenutaria in disgrazia, Porfirij Semenovic (Stefano Braschi), anziano possidente che vuole salvare dalla rovina Anna Petrovna ma in cambio le chiede di sposarlo, e Platonov amato dalla donna e a sua volta di lei innamorato. Il bisogno di Anna, le voglie di Porfirij e l’incapacità di prendere una decisione di Platonov continuano a provocare eccessi e scontri che non riescono in nessun modo a risolversi e che trascinano nel gorgo anche gli altri protagonisti: le tre donne, Kirill (Angelo Maria Tronca), il figlio di Porfirij medico degenerato, e Osip (Yuri D’Agostino), il ladro assassino che si aggira ai margini di questa piccola società.

Terzo elemento è una sorta di straniamento fatto di immersione e distacco, non critico come in Brecht, piuttosto più ironicamente giocoso, quasi a non prendersi veramente sul serio svelando il gioco delle parti al pubblico. Tale straniamento, spesso metateatrale come per esempio il tecnico luci che è personaggio in scena, è la valvola di sfogo che permette alla tensione di allentarsi. Il testo cechoviano ne sembra incapace, accumula attriti e dissidi che montano fino all’ovvia inevitabile tragedia finale.

In scena infatti si manifesta una pistola e come diceva lo stesso Cechov quanto un’arma appare non può far altro che sparare. Mulino di Amleto ha deciso invece di infrangere questa regola. Marco Lorenzi ha voluto liberare Platonov dell’obbligo di finire in tragedia prefigurando la possibilità che la tempesta tanto annunciata alla fine, in qualche modo, si sia potuta dissipare. È possibile sfuggire a questa cronaca di una morte annunciata? Si può sfuggire all’abbraccio stritolante di Ananke, la Necessità, rompere il destino tragico? Mulino di Amleto sembra asserire che il destino non sia scritto, che stia a noi cambiarlo, e per uscire dal circolo vizioso bastai semplicemente fare un piccolo passo.

Per concludere una piccola considerazione: questo Platonov se fosse stato sostenuto da una produzione più coraggiosa e consistente farebbe parlare di sé non solo in Italia ma anche in Europa. A volta la distanza tra i nostri autori e quelli di altri paesi, più accorti sotto questo punto di vista, consiste esclusivamente nel sostegno produttivo. E non sto parlando solo di soldi ma di figure professionali che agevolino l’immissione sul mercato e i contatti con gli operatori internazionali. Non crediamo abbastanza nei nostri autori e non li mettiamo veramente in condizioni di competere con i loro coetanei esteri. Concludo quindi con una domanda provocatoria: se a Mulino di Amleto fosse stata concessa una produzione pari a quella di Simon Stone ci sarebbe stata una così grande differenza di risultato? Se la risposta a questa domanda è negativa allora non sarebbe il caso di cominciare ad avere coraggio e puntare veramente sui nostri giovani?

Tabea Martin

Canti a Sorella Morte: Tabea Martin, Abbondanza/Bertoni, Anagoor

Diceva Kantor che il teatro ha sempre a che fare con la dimensione della morte. Se questo assunto forse non è così generale da diventar regola, di certo risulta calzante per alcuni lavori visti recentemente: Forever di Tabea Martin, La morte e la fanciulla di Abbondanza/Bertoni e Orestea di Anagoor.

Cominciamo da quest’ultima, già vista al suo debutto alla Biennale di Venezia a luglio del 2018 e in questi giorni in scena al Teatro Astra di Torino (per la recensione completa rinvio a http://www.enricopastore.com/2018/07/23/biennale-teatro-2018-anagoor-orestea/index-2/ ). Nella trilogia presentata da Anagoor, le cui tre parti sono rinominate Agamennone, Schiavi e Conversio in luogo di Agamennone, Coefore e Eumenidi, i morti sono i dominatori della scena, burattinai che muovono le azioni dei vivi, ombre pesanti che schiacciano e impongono la vendetta. Il sangue vuole altro sangue perché le ombre, come sa bene Odisseo, sono assetate e ritrovano parola e raziocinio sono bevendone.

Una lunga catena di morti attanaglia gli Atridi, la maledizione di Pelope grava sulla famiglia dall’assassinio di Crisippo: la lotta fratricida tra Atreo e Tieste, e poi il sacrificio di Ifigenia, la mattanza di Agamennone ad opera di Clitennestra ed Egisto, fino a Oreste a cui Apollo ordina di vendicare il padre. Come si esce dalla catena dell’omicidio? Come si placano i morti? Il peccato di Caino sarà mai emendato o è parte della natura umana?

La morte violenta, la mano dell’uomo che colpisce un suo simile e lo strappa anzitempo a questo mondo che respira, insieme alla necessità del perdono per svincolarsi dal potere che i morti esercitano sui vivi, sono il tema che permea la trilogia di Anagoor. Eschilo rompe il cerchio sostituendo la violenza della faida con l’imperio della legge, anch’esso gesto brutale e arbitrario, che sostituisce una necessità con un’altra, ma che mitiga con il velo della civiltà la natura feroce. Anagoor volutamente tagliano la costituzione del tribunale, la cui azione è evocata dalla tosatura delle pecore in luogo del macello, e lasciano aperto lo squarcio sull’abisso. La figura umana scolpita con il laser, sgrossata a forza si direbbe, conquista la sua bellezza civile solo a costo di azioni violente contrapposte ad altre azioni violente. Per quanto si voglia il cerchio si allarga ma mai veramente si infrange. Come nel sogno di Hans Castorp ne La montagna incantata di Thomas Mann, la bellezza solare nasconde un universo dominato da forze oscure votate alla morte e alla notte. L’istinto del sangue è sempre vigile e minaccioso dietro il velo sottile della civiltà.

In La morte e la fanciulla di Abbondanza/Bertoni, visto nuovamente il 30 marzo alla Lavanderia a Vapore di Collegno, Thanatos abbraccia Eros a partire dall’omonimo Lied di Franz Schubert con il testo di Mathias Claudius che dice: “Bella creatura delicata! Sono un amico, non vengo per punirti. Non sono cattivo. Dolcemente dormirai tra le mie braccia!”. Non è superfluo ricordare che in tedesco Morte è maschile e il rapporto che intesse con la fanciulla ha una maggiore carica erotica rispetto a quanto traspare dalla traduzione italiana.

In scena tre danzatrici di nero vestite, il volto coperto dai lunghi capelli, creano l’immagine di questo abbraccio sensuale e violento in cui l’orrore si mescola a un piacere perverso. All’uscita di scena appare la proiezione in video di quanto avviene in quinta. Le immagini contrappongono alla dimensione vitale di ciò che accade dal vivo alle sequenze registrate e irrigidite da un’eternità riproducibile. Il dialogo tra ciò che è fissato e quanto avviene nel qui ed ora è il tema che si intreccia costantemente nell’intero spettacolo.

Quando le danzatrici rientrano in scena il corpo è nudo velato solo dalle nebbie create dalle macchine del fumo, nebbie dell’Ade che cercano di stringere i corpi danzanti e vivi. La danza si contrappunta alle note dei quattro movimenti del quartetto di Schubert Der Tod und das Mädchen del 1824, composto a seguito di una malattia che aveva ridotto il compositore in fin di vita e che lo aveva reso conscio della fragilità dell’esistenza. La musica di Schubert è però aliena dagli antagonismi dialettici, è più specchio di un’espansione dell’area tematica, un viluppo di cerchi concentrici che si dilatano, una serie di episodi che si affiancano e inanellano reminiscenze e affinità come nel gioco delle perle di vetro. La coreografia richiama questo movimento spiraliforme che si espande da un cerchio come la danza che richiama visivamente il quadro omonimo di Matisse all’Ermitage di San Pietroburgo e che ritorna ancora e ancora. Le tensioni dunque non si risolvono, come il moto attrattivo/repulsivo tra la fanciulla e Morte, ma eternamente si dilatano, si rinnovano, mutano e si ripropongono.

Abbondanza/Bertoni fanno emergere in questo acclamato lavoro (lo recensimmo già nel 2017 http://www.enricopastore.com/2017/07/04/abbondanza-bertoni/ ) sia la voluttà che l’orrore che la vicinanza della morte provoca in tutti noi, e questo affiorare di attrazione e repulsione avviene attraverso la bellezza quasi classica dei corpi nudi e danzanti nell’atmosfera nebbiosa e cupa, fatta di chiaroscuri, ombre e tenui illuminazioni che piovono di taglio dall’alto. La bellezza ambigua della fragilità si sposa con la struggente sonorità romantica di Schubert e tratteggia una morte amica/nemica, ombra sempre presente e incombente che invano tentiamo, come la fanciulla, di ricacciare nell’ombra e allontanare da nooi.

Forever di Tabea Martin, vista in prima assoluta il 24 marzo al Kaserne Theatre di Basilea, è uno spettacolo per ragazzi e famiglie che si confronta giocosamente con il tema dell’immortalità. Che succederebbe se potessimo vivere all’infinito, se potessimo non morire mai? Sarebbe come diceva Carmelo Bene che “tutto è bene ciò che non finisce mai”? La morte viene dunque affrontata per assurdo come nelle dimostrazioni matematiche.

Cinque danzatori di bianco vestiti attendono il pubblico in proscenio. Lo spazio scenico, latteo e immacolato anch’esso, è occupato da numerosi palloncini bianchi di svariate dimensioni. Dall’alto delle catene alla cui estremità è legato un pallone come pallide lampade, tranne le prime due ai lati estremi della scena a cui sono appese due taniche una contente lacrime e l’altra sangue.

I danzatori si interrogano sul morire. Ognuno propone una o più versioni del fatidico momento ma come negli spettacoli dei clown, non si muore. O meglio: il ciclo di vita, morte, rinascita torna ancora e ancora per non finire mai. Un carosello infinito si dipana sulla scena in cui la violenza è giocosa e sembra non far mai male. Il sangue imbratta la scena, viene sputato, versato, lanciato, schizzato e le lacrime si versano dalla tanica, si eseguono funerali in cui il morto si alza per la delusione dei convenuti e tragedie e cataclismi si susseguono con un ritmo forsennato.

Forever di Tabea Martin è un vortice che cattura senza lasciare mai lo spettatore, coinvolge in questa moderna e clownesca totentanz, ci fa sorridere e ci commuove mentre ci confronta con la terribile realtà della finitezza negandola in questo infinito morire e risorgere. Tabea Martin è una coreografa i cui spettacoli, meccanismi ibridi a cavallo di molti linguaggi, sono sempre un sorpresa e un inno alle infinite possibilità dell’arte scenica. Vitali e coinvolgenti, rapiscono per il loro ritmo forsennato in cui gli episodi si susseguono con la violenza di una grandine estiva ma con la giocosa esuberanza di ciò che colmo di vita e di meraviglia.

Forever, La morte e la fanciulla e Orestea sono dunque tre spettacoli che hanno linguaggi registici e di messa in scena radicalmente diversi e distanti ma che affrontano da opposte balze un medesimo e urgente tema: la finitezza dell’esistenza, la scomparsa di ciò che è vivo, il vuoto che non si colma. L’orrore, la violenza, persino a voluttà e la gioia sono i registri attraverso i quali si affronta il mistero che circonda sorella morte “da la quale nullu homo vivente pò skappare” come cantava frate Francesco. Tre esempi di grande maestria che raccontano, qualora ce ne fosse bisogno, dell’efficacia del teatro nell’affrontare con il suo pubblico le grandi questioni e le domande senza risposta.

Les Printemps de Sevelin

Danze della primavera: Les Printemps de Sevelin

A Losanna, città della Svizzera francese affacciata sul Lago Lemano, la primavera è salutata da oltre vent’anni da un interessante festival internazionale di danza, Les Printemps de Sevelin, organizzato dal Théâtre Sevelin 36 e dal suo direttore Philippe Saire.

Il Théâtre Sevelin 36 si trova nel quartiere Flon, situato nel centro della città e oggi cuore pulsante della vita notturna e culturale di Losanna dopo il recupero dal declino industriale negli anni ’90. I grandi magazzini e opifici sono oggi diventati locali notturni, discoteche, teatri, gallerie d’arte e studi d’artista frequentati fino tarda notte.

Les Printemps de Sevelin è un festival dedicato alle nuove e giovani tendenze nella danza contemporanea, e affianca agli spettacoli una serie di appuntamenti quali aperitivi filosofici, workshop e incontri, offrendo al suo pubblico uno sguardo trasversale su quanto avviene nella ricerca del corpo in movimento e miscelando con sapienza nomi riconosciuti nel panorama internazionale come Jan Martens, Pietro Marullo e Arno Schuitemaker, con artisti giovani, come Simon Crettol, che presentano le loro prime sperimentazioni (per chi volesse consultare il programma rimando a questo link https://www.theatresevelin36.ch/fr/programme/festival/ ).

Interessante il processo di audience development messo in atto dalla direzione del teatro che ha coinvolto negli anni le scuole superiori, quelle di danza locali e la Manufacture Haute école des arts de la scène, azione che ha permesso la costruzione di un pubblico prevalentemente giovane (la maggioranza ben al di sotto dei quarant’anni) che frequenta le attività con costanza e assiduità.

Durante la mia visita al festival ho potuto vedere tre lavori molti diversi: Likes di Nuria Guiu Sagarra, Raphaël di Simon Crettol e If you could see me now di Arno Schuitemaker.

Likes di Nuria Guiu Sagarra, giovane danzatrice e coreografa catalana, indaga da un punto di vista antropologico il significato, il valore e il potere che il Mi piace sui social assume nella nostra vita quotidiana. Nuria Guiu Sagarra ha osservato due fenomeni come la Cover Dance, termine che indica la riproposizione in video tutorial di coreografie presenti nei video musicali, e lo Yoga-tutorial in tutte le sue infinite ed esotiche varianti come lo yogagoat, yoganude, yagolates (mix di yoga e pilates), yogabeer, etc. La performance inizia con la presentazione del punto di vista antropologico: osservare e partecipare. La danzatrice quindi racconta la sua ricerca e mostra al pubblico, con intelligente ironia, alcuni passi di danza tratti da video di cover dance e di yoga.

Questo materiale diventa quindi l’elemento costitutivo di una nuova coreografia, una creazione che si sviluppa a partire da questi elementi già pre-approvati dall’audience sulla rete e si pone una domanda: come può questa coreografia riconquistare i tanto agognati likes? Quali sono gli elementi che conducono a una diffusione capillare sulla rete? La questione è capitale soprattutto rispetto a ciò che tradizionalmente si è portati a considerare come arte e sui potenziali metodi di diffusione della stessa. Per ottenere i likes e quindi essere conosciuti e riconosciuti bisogna per forza abbassare i livelli, essere estremamente semplici da divenir banali o utilizzare ammiccamenti erotici? La popolarità si conquista solo attraverso la riproposizione del già visto? Il corpo, soprattutto quello femminile. può essere solo strumentalizzato come bene di consumo? Con ironica leggerezza Nuria Guiu Sagarra presenta nel suo lavoro pericoli, possibilità e fascinazione della ricerca spasmodica del Like, ossessione che nasconde l’antico e sempre attuale bisogno di amare ed essere amati. Lo spettacolo sarebbe forse più efficace se coinvolgesse il pubblico nell’esperimento (per esempio se i like fossero messi dal vivo) invece di relegarlo in posizione di passivo osservatore.

Simon Crettol, artista giovanissimo che proviene dalla scena Waaking e Hip Hop e da poco diplomatosi alla Manufacture, presenta Raphaël, opera acerba sebbene contenga elementi di grande energia e immagini ben costruite. Simon Crettol evoca la femminilità che abita il suo mondo interiore attraverso forme ibride tra performance art, antiche ritualità e street dance. Un’esplorazione frammentaria della parte femminile della propria personalità che necessita ancora di raffinazione e di una matura costruzione drammaturgica.

If you could see me now di Arno Schuitemaker è un’esperienza ipnotica, quasi mistica, in cui ii confini tra l’io e gli altri tendono a confondersi e a sbiadire attraverso la danza e la musica da club. Tre danzatori sulla scena iniziano a danzare sul ritmo ossessivo di musica elettronica dando vita a un’onda che coinvolge il pubblico in sala. I corpi in movimento, benché unici e particolari nelle movenze e nei passi, diventano come un unico organismo che palpita, si spande e si contrae al ritmo dei beats. Il tempo e lo spazio si dilatano e si comprimono, l’energia si propaga, la percezione di modifica come in una seduta di ipnosi collettiva. If you could see me now è una sorta di immersione nell’attimo presente, istante che sembra statico pur nella sua eccessiva dinamicità, quasi una bolla in cui le lancette del tempo sembrano immobili. Elemento fondamentale, come spesso accade per i lavori di Arno Schuitemaker, il disegno luci che dipingere spazi sempre diversi, crea ritmo e interagisce con il movimento dei danzatori potenziandolo.

Questi i tre lavori visionati che, pur nella brevità del racconto, danno un’idea, seppur parziale, dei differenti linguaggi e ricerche coreografiche che il Festival offre allo sguardo dei suoi spettatori. Les Printemps des Sevelin è un evento fresco, rivolto principalmente ai giovani e una programmazione che non si limita a essere semplice vetrina, ma vuole presentarsi come luogo di incontro e scoperta sociale e artistica, e che intende il teatro come ambiente in cui la comunità si confronta attraverso l’azione coreutica su temi e questioni che la attraversano.

The night writer

Forma e vuoto: The night writer di Jan Fabre

Il 15 marzo si è aperto al Teatro dell’Arte della Triennale di Milano la seconda edizione del Festival FOG dedicato alle performing arts. Numerosi e importanti gli artisti in programma con alcune prime di assoluto interesse come Uncanny valley di Rimini Protokoll, Deposition di Michele Rizzo o La plaza de El conde de Torrefiel (l’intero programma si può consultare a questo link https://www.triennale.org/fog-19/).

Ad inaugurare la rassegna la prima assoluta di The night writer di Jan Fabre interpretato da Lino Musella, il volto di Rosario ‘o Nano nella serie Gomorra.

Un piccolo piano di legno montato su due semplici cavalletti formano una scrivania al centro della scena. Alle spalle una telo da proiezione. La scena coperta completamente da bianco sale su cui campeggiano quattro pietre sparse nello spazio quasi a ricordare un giardino zen.

In questo spazio appare Lino Musella a impersonare una sorta di incarnazione di Jan Fabre. Dopo essersi seduto al tavolino comincia a leggere e interpretare frammenti di diari e testi che coprono un periodo dell’attività dell’artista belga dalla fine degli anni ’70 agli inizi del Millennio. Frasi, pensieri, immagini che Jan Fabre vuole darci di sé e del suo lavoro, dei suoi rapporti con la famiglia, con l’arte, con il sesso, con il pubblico.

Fin dai primi minuti di questo strano spettacolo hanno cominciato a risuonarmi nella mente i primi versi del secondo canto del Paradiso, quei versi in cui Dante ci avvisa di stare attenti, noi desiderosi d’ascoltare, e di misurare bene le forze della nostra piccioletta barca, mica da perdersi nel vasto oceano che l’artista sta per solcare. The night writer è infatti un vasto mare aperto di pensieri sparpagliati nello spazio e nel tempo che vogliono dar conto di un percorso di ricerca artistica periglioso e accidentato, un sentiero petroso e difficile compiuto da un uomo di genio.

L’impressione che si forma man mano che si avanza è però quella di una maschera che vuole coprire più che evocare e rivelare. Un’immagine che si vuole dare di sé, della propria personalità d’artista soprattutto in un periodo in cui è messa in discussione da una serie di scandali e di accuse per molestie sessuali.

Con questa mia affermazione non voglio entrare assolutamente nel merito della questione e nemmeno intendo giudicare (per altro allo stato attuale dei fatti non possiamo che presumere l’innocenza). A lungo si potrebbe disquisire sul rapporto tra etica ed estetica e non è certo in una recensione che si può affrontare con completezza questa spinosa questione. Per chi volesse informarsi, invito a leggere la bella ed equilibrata intervista di Gaia Clotilde Chernetich a Ilse Ghekiere a questo link https://www.teatroecritica.net/2019/03/le-accuse-molestie-sessuali-nel-mondo-della-danza-intervista-ilse-ghekiere/ .

Quello che intendo dire è che questi fatti paiono influenzare The night writer e che esso sia una sorta di risposta di Jan Fabre a chi mette in discussione il suo lavoro, la sua persona e i suoi metodi, e che tale risposta suoni in gran parte inadeguata. È innegabile che i testi trasudino una poesia urticante e provocatoria, a volte incisiva come un bisturi, come è altrettanto indiscutibile la grande qualità attorica di Lino Musella che affronta il magmatico materiale testuale con un piglio aggressivo, a tratti violento e irruente, persino irritante, ma efficace perché controllato e misurato, senza trascendere o debordare mai. Nonostante questi indubbi pregi The night writer risulta però noioso e un tantino autocelebrativo, con alcune parti persino inutili. Due esempi su tutti: il pubblico invitato a fare il coro a Amandoti dei CCCP e a Volare, un coretto che non è vero coinvolgimento dello spettatore a un processo artistico ma semplice utilizzo strumentale della sua partecipazione; e penso soprattutto al giochino di parole con le quattro pietre -in tedesco stein -, che diventano quattro illustri rappresentanti nei vari rami del sapere del Novecento (Ein-stein, Wittgen-stein, etc.), momento spocchiosamente superfluo. The night writer pare quindi si sorregga più sulle qualità recitative di Lino Musella e sulla qualità dei singoli testi che sul significato profondo e sulla necessità o urgenza dell’opera nel suo complesso.

Come documento questo lavoro appare affetto soprattutto da unilateralità, mancano le voci degli altri, anzi sembra che si voglia respingerle e ci si voglia schermare da loro. Se pensiamo, per esempio a 20000 days in earth di Iain Forsyth e Jane Pollard su Nick Cave, in cui quest’ultimo racconta la sua ventimillessima giornata sulla terra e che paragono per la similitudine di un genio creatore grafomane che giornalmente scrive pensieri, canzoni, riflessioni, risulta evidente come l’immagine che l’artista ci dona di sé sia mediata, ridimensionata o amplificata dalle voci di chi lo circonda, dall’ambiente in cui vive e con cui si confronta in una qualsiasi giornata della sua vita. In The night writer invece vi sono mille voci ma che appartengono tutte alla stessa anima strabordante e che sembra non mettersi mai in discussione. Questo ritratto per frammenti, che ha per oggetto una creatività complicata, difficile, dolorosa e completamente chiusa in se stessa avrebbe dovuto e potuto diventare qualcosa di condivisibile, oggetto su cui riflettere insieme invece che semplice icona ostentata all’ammirazione delle genti.

L’ultima immagine dello spettacolo, quella di un video girato probabilmente nel porto di Anversa, ci presenta un Jan Fabre giovane, su una barca che abbandona alla corrente di un canale una scritta in vetro blu. Le parole vengono trascinate dalla corrente e scompaiono fuori campo. Forse il senso di questo lavoro è tutto in questa ultima immagine. L’artista belga ha affidato le parole del suo Giornale notturno alla corrente. Vadano dove credono, approdino dove vorranno il fato e gli dei. A lui non importa se verranno comprese, se genereranno scalpore, polemiche, oppure ammirazione, o semplicemente affonderanno dopo pochi istanti. Per lui era importante proferirle davanti a un pubblico. L’urgenza era forse solo questa. Decisamente troppo poco per un artista come Jan Fabre. Il teatro in questo momento storico richiede di condividere con lo spettatore qualcosa di più che una forma vuota.