Richard Strauss

SALOME di Richard Strauss: lo scandalo innescato per un successo voluto

Lo scorso giovedì avrei sperato di vedere al Teatro Regio la Salome di Richard Strauss con la regia di Robert Carsen, uno dei migliori registi d’opera viventi, purtroppo dopo l’incidente durante la Turandot e con gli accertamenti di sicurezza ancora in atto, mi sono dovuto accontentare di una versione semiscenica in programma fino al 25 febbraio prossimo.

Non essendo un musicologo, e sottrattami la parte più specificamente teatrale dell’opera, ho riflettuto a lungo su cosa avrei potuto scrivere su questa Salome (in prima italiana proprio al Regio di Torino nel 1906 diretta da Toscanini). Poi mi sono imbattuto in un aneddoto raccontato dallo stesso Strauss e ho capito che si sarebbe potuta compiere una riflessione rispetto all’atteggiamento di molti artisti e operatori sulla questione del rapporto tra arte e mercato.

Richard Strauss racconta che il Kaiser Guglielmo II disse a proposito della sua opera: “Mi spiace che Strauss abbia composto questa Salome, lui peraltro mi piace molto, ma così si farà un danno terribile”. A chiosa di questa frase, con una smargiassata che contiene molta verità, il compositore disse: “Con questo danno potei costruirmi la villa a Garmisch”.

Quando Richard Strauss decise di scrivere un’opera tratta dalla Salome di Oscar Wilde (alla fine fu un traduzione che iniziò la tradizione della literaturopera, cioè semplici traduzioni e non riscritture), sapeva che questo soggetto avrebbe provocato uno scandalo. Nel testo c’erano tutti gli elementi: l’infatuazione incestuosa di Erode verso la figliastra della moglie/cognata Erodiade, il bacio necrofilo di Salome, l’erotismo insito in un racconto biblico, la femminilità seducente, provocante e perversa di una giovane donna che per prima si propone come attrice della seduzione stessa e, ovviamente, il testo di un autore scandaloso come Oscar Wilde.

Richard Strauss sapeva quello che stava facendo, anzi cercò coscientemente uno scandalo che avrebbe amplificato il successo. Come Gericault al tempo de La zattera della Medusa, nel scegliere il soggetto del suo dipinto musicale, Strauss in un certo qual modo manipolava il suo pubblico, lo sollecitava a prendere partito, sapeva di scuotere la critica e l’opinione degli addetti ai lavori e che tutto questo bailamme si sarebbe tradotto in un clamoroso successo.

Ciò non toglie che ci si trovi davanti a un capolavoro che per quel tempo era la punta d’avanguardia nel linguaggio operistico musicale. Bisogna attendere il Pierrot Lunaire di Schönberg e Stravinskij per raggiungere vette più ardite. Nel 1905 quando la Salome debuttò a Dresda, niente poteva dirsi più avantgarde.

Richard Strauss conosceva dunque il mercato e il pubblico e il suo era un rischio calcolato, lo scandalo provocato con intenzione. Quando l’opera fu proibita a Vienna, alla prima a Graz erano presenti i maggiori compositori dell’epoca: oltre al già citato Schönberg, Mahler, che si batté per lui, Berg, Zemlinsky e il nostro Puccini.

Nel Doktor Faustus di Thomas Mann Adrian Leverkühn, il compositore che per giungere a vette inaspettate vendette l’anima al diavolo, dirà dopo l’immaginaria sua partecipazione alla prima di Salome a Dresda. “mai avanguardismo e sicurezza di successo si sono uniti in maggiore confidenza”.

Certo oggi i temi trattati nella Salome non sono poi così sconcertanti, nemmeno il fatto che Oscar Wilde fosse stato omosessuale ci scuote o ci provoca, figurarsi una danza dei sette veli quando oggi sulle scene in molti lavori di veli non ce ne sono proprio, ma all’epoca tutti questi elementi, soprattutto una visione della donna così intraprendente e perversa (e molte delle opere di Strauss hanno come protagonisti le donne trattate in maniera non convenzionale: Arianna a Nasso, Dafne, Elettra, Elena egizia, etc.), erano una sorta di bomba H. Richard Strauss la lanciò sapendo cosa avrebbe provocato, lo fece anzi per amplificare il suo successo e aumentare la sua reputazione.

Oggi quello che scuoterebbe il mondo della cultura teatrale potrebbe essere proprio questo occhieggiare e rendersi conniventi con il mercato. Se l’arte contemporanea, vedi personaggi come Cattelan, Serrano, Hirst o Koons, operano proprio con gli stessi stratagemmi di Strauss, sebbene più raffinati, nel campo delle live arts c’è una sorta di snobismo al contrario quando si parla di mercato come se si dovesse anche noi vendere l’anima al diavolo.

Eppure nessuno si sente per niente compromesso quando chiede e ottiene sovvenzioni dal potere politico e dal potere bancario. La vera provocazione oggi è quindi parlare di mercato, concepire un’opera che pensa al mercato e ne manipola le reazioni (eppure Five easy pieces di Milo Rau agisce anche in questo senso).

Concepire opere, non dico capolavori, che sono innovazione e che nello stesso tempo possano incontrare o scontrare i desideri di un’audience sempre più disincantato e disaffezionato rispetto al teatro o alla danza, forse potrebbe aiutare a riguadagnare il terreno perso. Certo per ottenere un cambio di pensiero in questo paese si necessiterebbero vere e proprie rivoluzioni che riformino la filiera produttiva e distributiva, cosa ben al di là da venire. Così si resta tutti quanti con il pregiudizio che strizzare l’occhio al mercato o essere capaci di manipolarlo sia un atto di irrevocabile compromissione con il nemico giurato.

Come dice Huellebecq oggi non vi è niente di meno rivoluzionario dell’opera d’arte. Non siamo più negli anni Sessanta o Settanta e in quella temperie culturale, dove cultura era sinonimo di opposizione al capitalismo e ai suoi strumenti. E ci si dimentica per di più che il più grande provocatore e estremo avanguardista del secondo dopoguerra è stato quel tal Carmelo Bene che riusciva a smuovere le folle e ad attirare milioni di spettatori al Maurizio Costanzo Show parlando di altissimo teatro.

Forse dovremmo prendere più esempio da Richard Strauss e da questa sua Salome, e tornare a dialogare, interrogare e scuotere il pubblico in maniera sapiente, tornare a parlare del mondo e delle sue contraddizioni in maniera incisiva abbandonando certo snobismo da ricerca pura che oggi lascia un po’ il tempo che trova.

Domesticalchimia

IL CONTOURING PERFETTO: di DOMESTICALCHIMIA

Cos’è il counturing evocato da Domesticalchimia? « con il termine contouring, detto anche sculpting o shading, si indica una particolare tecnica di make-up che gioca con i colori chiaro-scuri per dare tridimensionalità. Consiste nell’applicare prodotti specifici che evidenziano determinate zone e ne mettono in ombra altre, correggendo, smussando e armonizzando i lineamenti del viso».

Meraviglioso tranello di titolazione: non c’entrano trucco, maschere o nascondigli. Parliamo di tecniche di difesa. 

Un’ovazione di pubblico ha salutato al Teatro delle Passioni di Modena l’ultima replica de Il contouring perfetto, spettacolo gradevolmente tutto al femminile presentato da Domesticalchimia

(produzione dietro alla quale annoverare Francesca Merli alla regia e le bravissime Zoe Pernici, Elena Boillat e Barbara Mattavelli): una roba da pazzi, uno spartito surreale, spazio impossibile, quando impossibile è solo un apparentemente inspiegabile.

I contorni ideali in cui vivere” funge come ottimo sottotitolo di questa una passeggiata paranoide nell’oscurità di una scena vuota: in una casa-fortezza una ragazza si sveglia, entriamo senza bussare ed è lei sorridendo a rivolgersi a noi. Anita non esce di casa, meglio contare le macchie di muffa sulle pareti. Quale promenade du poète, niente strade strette e misteriose per il blogger di oggi. Ma neanche patologica immobilità. La quotidianità casalinga di Anita si muove per vettori mobili ma mai angusti, magistralmente riprodotti con precisione marziale, asserviti alla stessa scansione della giornata: letto, bagno, una bella frittata (ah, l’uovo paradigma dell’essenzialità ed efficienza contemporanei!) e si parte con gli “#quattromilapassi” sul posto, nuovo record personale che aspetta solo di essere condiviso con un’audience fidata e sempre presente: i followers del blog e la migliore amica Sam, donna-bambola eccelsa nell’articolazione del “body language”, di gran lunga più eloquente ed essenziale della parola (oltre che davvero esilarante). Nel vuoto, le pareti incorniciano una quotidianità contornata da presenze. Tantissime presenze.

Francesca Merli e Riccardo Baudino, firmatari di questa drammaturgia calibrata dalla quale le ombre emergono con una rapidità ironica e surreale, linguaggio che si burla della rotondità sferica del realismo quanto dello psichico, lanciano una domanda dalle righe del foglio di sala: «Che cosa succede quando scopriamo che i cecchini appostati sulle torrette di difesa hanno facce molto simili alle nostre stesse paure?». Che qualcosa si scardina. E la presenza diventa quella del mostro acquattato nella cantina scura. Tanto meglio. Meglio occupata che vuota. Il vortice allucinatorio in cui cade l’assuefatta alla solitudine dello schermo del pc diventa sempre più avvolgente, l’incontro con La Signora (orribile pop-up, proiezione personale o virtuale?) che le denuncia il complotto di portata mondiale ad opera dei “Rettiliani”, celati sotto le mentite spoglie di persone reali, innesca per la loquace e “super-social” Anita un movimento di distruzione di tutte le sue perfette forme di difesa: be careful sweetheart, è la paura della paura che genera altra paura. E ancora non basta. Il male, dove che questo sia, è invenzione necessaria. E l’atto creativo genera movimento. Il come diventa biografia.

Immerso nell’attualità senza mai scadere in un apologo-condanna sull’incidenza dei social per la definizione dell’sé (questione esistente ma sempre a rischio di piatta retorica), Il contouring perfetto della produzione Domesticalchimia fa come suoi punti forti ritmo e partitura, gusto della variazione e del pop. Un meccanismo narrativo che si trattiene equilibrato, si espande per tornare a contrarsi: complice l’urgenza di un’attorialità che riporta sovrano il corpo immerso nel vuoto. Che chiama in causa anche il pubblico. Chiamati nel “dentro” dello sguardo di Anita, proiezioni allucinate di una cantina abitata.

Di Maria D’Ugo

senso della vita di Emma

FAUSTO PARADIVINO: il senso della vita di Emma

Partiamo dalle cose ovvie: Il senso della vita di Emma di Fausto Paradivino, in scena al Teatro Gobetti fino al 18 febbraio, è un lavoro che funziona, ben congegnato, con un ritmo ottimo nella prima parte, più zoppicante e lento nella seconda, con buoni attori nel cast e una storia in cui in qualche modo più generazioni possono riconoscervisi perché attraversa la storia patria dagli anni Sessanta ai giorni nostri.

In qualche modo è una storia del tipo La meglio gioventù ma con un taglio decisamente più comico e leggero.

La regia, sempre di Fausto Paradivino che impersona anche la parte di Carlo, se corre per gran parte del tempo (lo spettacolo dura tre ore) su binari abbastanza classici (scena e controscena in visione frontale), ha qualche momento decisamente ben riuscito come l’episodio di Marco (Gianluca Bazzoli) in Chiesa coi santi, o di Leone (Giuliano Comin) che cerca Emma (Iris Fusetti) in Inghilterra sulle note di London calling dei Clash, oppure quella della protesta ambientalista nella galleria di Londra.

Vi sono anche motivi interessanti come la narrazione della vita di Emma che avviene per gran parte in absentia e la figura di questa figlia problematica prende corpo via via nel corso della pièce: prima solo un nome, poi un burattino e infine nel finale appare in carne ed ossa, quasi una sorta di novello Pinocchio.

Il senso della vita di Emma di Fausto Paradivino contiene in sé un certo fascino discreto di dramma borghese, di storia familiare che tanta parte della cultura italiana degli ultimi anni, soprattutto filmica ma anche letteraria, sembra incatenare. Non riusciamo a svicolarci dal racconto di questo paese se non in forma di storia di famiglia, come se il legame parentale fosse la modalità per raccontare l’Italia e la sua società.

Il senso della vita di Emma è una commedia in fondo ben riuscita, divertente per lunghi tratti e con ben dosate parti drammatiche mai troppo accese. É un buon prodotto commerciale, di teatro mainstream (e questo lo dico senza giudizio alcuno), congegnato per piacere al pubblico e Fausto Paradivino si dimostra meritevole di tutti i complimenti che riceve come commediografo e drammaturgo di successo.

Eppure continuo a credere che questo sia un teatro del passato, concepito con canoni che non sono più del teatro contemporaneo. Questo tipo di drammaturgia, che rispolvera e rimoderna il dramma borghese, più letteratura che teatro, scritta a priori per la scena ma non sulla scena, mi sembra che abbia fatto il suo tempo.

Mi paiono più interessanti gli esperimenti di Dante Antonelli su Schwab, o le drammaturgie del Collettivo Controcanto o degli Omini. Respiro la modernità, la ricerca di qualcosa di vivo che parli il linguaggio del teatro e non quello della letteratura.

Quando ho deciso di andare a vedere Il senso della vita di Emma di Fausto Paradivino ero assolutamente conscio di questo, sapevo che tipo di operazione avrei visto e mi sono lasciato affascinare lo stesso, nonostante la mia militanza in un teatro altro. Anche i “nemici” hanno carisma e bravura e bisogna rende atto della loro abilità. Una sorta di onore delle armi, un riconoscimento al valore di questo tipo di teatro, quando è ben fatto, ma un teatro che vive di un sistema produttivo e distributivo privilegiato e che assorbe la maggior parte dell’attenzione a scapito di chi vive e lavora in un sottobosco più vivo ma più difficile da scoprire.

È stato un po’ come visitare la mia amata Venezia: Piazza San Marco è stupenda benché inquinata da tanto vieto turismo, per cui le faccio una breve visitina e poi preferisco perdermi nelle calli sconosciute dove ancora si può esperire la vera natura della città.

Enrico IV di Pirandello

ENRICO IV di Pirandello: Carlo Cecchi e il folle gioco tra verità e finzione

In questo Enrico IV di Pirandello riscritto da Carlo Cecchi, in scena al Teatro Carignano fino al 25 febbraio prossimo, si assiste a un gioco di specchi e risonanze che come in un romanzo di Philip K. Dick fa domandare dove sia la realtà.

Carmelo Bene in una sua magistrale lezione dal titolo Cos’è il teatro edita da Marsilio diceva, parlando del teatro tradizionale, quello con le parti, i copioni e le interpretazioni, che far finta di credere di essere una persona che non si è mentre la gente ti guarda e fa finta di credere che tu sia proprio quel personaggio che non sei, era un’operazione da Croce Verde. Una follia che Enrico IV di Pirandello fa diventare protagonista e Carlo Cecchi, nel riadattarlo, rende esponenziale. Uno spettacolo che, come recita il programma di sala: “parla di teatro, di teatro nel teatro e di teatro del teatro”.

Un uomo finge una pazzia, finge di essere l’imperatore Enrico IV di Germania, gli altri, i familiari, gli amici, lo assecondano, e la recita diventa la realtà, messa in scena per fuggire alla realtà. E così questo gioco di finzione fa sì che il concetto stesso di realtà diventi ambiguo, sfuggente, indefinibile.

Cosa è vero in questa vita dove ognuno indossa una maschera e recita una parte? Dov’è il confine tra vero e falso in un mondo in cui il reame di reale e virtuale si confondono sempre più?

Carlo Cecchi in questo Enrico IV rilancia il tema Pirandelliano della maschera e lo estremizza. Siamo nella rappresentazione elevata a potenza. Il teatro che si balocca con se stesso, specchiandosi come un Narciso, fino all’ultima battuta dove si dice all’attore che impersona il Barone Tito, ucciso da poco: ”Alzati che domani abbiamo un’altra replica”. Finzione nella finzione che gioca a svelare se stessa, ma la verità, quella greca, l’aletheia, è au contraire ciò che velandosi disvela.

Un’operazione questa di Carlo Cecchi molto intellettuale e un poco cervellotica. Una prova da grande attore, di un maestro della scena, in un testo pensato e scritto per un Grande attore come Ruggero Ruggeri. La regia è quasi nulla, nessuno si muove, tutte belle statuine, vicino alle sculture vere e proprie di Matilda di Canossa e dell’imperatore Enrico IV. Questo è uno spettacolo tutto nel suono della voce, quella di Cecchi, che quando appare fagocita quella di tutti gli altri personaggi. Ci lasciamo trasportare dai pensieri di Enrico IV, dal suo arguto gioco per sfuggire alla realtà, ma nello stesso tempo ci lasciamo suggerire da quella stessa voce che quello a cui stiamo assistendo è un gioco del teatro per il teatro, e questo si rende evidente proprio nella citazione  del Theatre et son double.

In questo Enrico IV di Pirandello si assiste dunque una rappresentazione che gioca con se stessa, perché come dice Carlo Cecchi: “questo (intendendo il teatro) è l’ultimo luogo in cui si può giocare”. Un ludo ripeto un po’ troppo complicato, complesso, e che parla di un tipo di rappresentazione che ha una patina polverosa e stantia. Un classico che diventa reperto archeologico laddove sulle scene contemporanee si assiste ad altri processi e a più fini elaborazioni.

Non vedevo Carlo Cecchi da un lontano Finale di Partita visto al Teatro Goldoni di Venezia. Era il 1995 e quell’anno vinse pure il Premio Ubu come Miglior Spettacolo e Miglior regia. Rimasi affascinato ora come oggi dal grande attore, da quella sua voce capace di rendere viva una realtà di finzione. Eppure nonostante il fascino e l’ammirazione per tanta tecnica, supremo talento e bravura, resto convinto che quel tipo di rappresentazione, quello che Carmelo chiamava da Croce Verde, sia appunto una fuga dalla realtà, esattamente come in Enrico IV. Ho sempre creduto che il teatro sia l’occhio che guarda il mondo, Teatron, e che non fugga da esso. Lo insegue, lo rimodula, lo ripensa. Come diceva Demetrio Stratos in una vecchia canzone degli Area: “giocare col mondo facendolo a pezzi”.

Jerome Bel Cédric Andriaux

JEROME BEL: Cèdric Andriaux e il velo squarciato sulla vita d’interprete

Jerome Bel Cédric Andriaux. Un ritratto d’interprete andato in scena in questi giorni al Teatro Dell’Arte della Triennale di Milano che, come già Veronique Doisneau, Isabel Torres e Lutz Förster, più che omaggiare una vita d’artista mette in discussione le idee e i luoghi comuni sulla danza.

Jerome Bel è un artista che in ogni sua opera riesce sempre a scuotere le fondamenta su cui si posa la danza, travalicando il genere della sua stessa arte, tanto che le sue opere si potrebbero tranquillamente dire performance e infatti vengono ospitate nei più importanti musei del mondo da MOMA di New York, alla Tate di Londra, così come a Dokumenta a Kassel.

Anche in queste vite d’artista vi è un tensione a misurare i limiti, le zone d’ombra, perfino la storia, in una forma che abita nel limine tra teatro, performance e danza. Cédric Andriaux è un interprete che ha una storia comune a molti danzatori. La passione da bambino, un talento normale che per raggiungere ottimi livelli deve formarsi con estrema fatica e sudore, l’incontro con un maestro (in questo caso Merce Cunningham), il lavoro con i coreografi. La storia di Cèdric è una storia come tante ma che vede la danza da una prospettiva del tutto trascurata: il punto di vista dell’interprete.

Cosa pensa durante sessioni di prove complicate e noiose, cosa avverte il suo corpo dopo ore e ore di allenamento estenuante che spinge il suo corpo al limite, in che modo vengono avvertiti famosi metodi e altrettanto famosi coreografi dal danzatore che li deve rendere carne in movimento. Tutti aspetti trascurati e che in fondo fanno la nervatura della storia della danza.

Quando Cédric Andriaux racconta delle sessioni mattutine del lavoro con Cunningham, sessioni che si aprono con esercizi sempre uguali a se stessi, e della noia, dei pensieri che gli attraversano il capo, degli sguardi lasciati vagare fuori dalla finestra sulle rive dell’Hudson o dietro i battelli che solcano le sue acque, non può non venire in mente quel Robert Cieslak che interrogato sulla sua interpretazione del Principe Costante di Grotowski confessava candidamente di aver pensato, nel recitare, a far l’amore con la sua ragazza.

In che modo la danza si traduce dal verbo del coreografo al corpo danzante dell’interprete? Jerome Bel Cèdric Andriaux ci concede uno sguardo clandestino su come Merce Cunningham, ormai vecchio e impossibilitato a far vedere i movimenti, si avvalesse di un computer e di come questo si allontanasse dalla realtà dei corpi, e come il metodo divenisse estenuante, logorante.

Vedere pezzi di metodo, di coreografie (frammenti di Biped e Suite for 5 di Cunningham, cosi come Newark di Trisha Brown e The show must go on dello stesso Jerome Bel attraversano il racconto/ricordo di Cèdric Andriaux), perfino i costumi originali (l’accademico tanto odiato da Cèdric), rende la danza qualcosa di fisico che si nutre più di fatica, frustrazioni e fallimenti che di successi brillanti e acclamati. Ed è in fondo il fallimento che interessa a Jerome Bel, quel momento di crisi che gli permette di sovvertire il comune pensiero sul teatro e la danza.

Quello che emerge da questo ritratto d’artista di Jerome Bel è una danza vissuta da un buon interprete nella sua quotidiana lotta per rendere vivo il pensiero dei coreografi con cui ha lavorato. Ma non solo. Il sollievo di Cèdric Andriaux nell’incontrare la morbidezza fluida di Trisha Brown dopo tanto tentar il limite estremo del lavoro con Cunningham, dice molto di come i linguaggi coreografici si incidano e feriscano il corpo dell’interprete. Così come le aspettative altissime e presto deluse nell’incontro con il linguaggio di William Forsythe.

Questi ricordi di Cèdric, che non prendono forma solo attraverso la sua voce monocorde ma divengono vita nel corpo e nello spazio al punto che quasi lo vediamo Merce Cunnigham, seduto al tavolino lì, nell’angolo della scena, che osserva l’allenamento, sono un documento inestimabile di un’arte effimera destinata a perdersi e che per secoli sono rimasti sepolti dietro il fulgore delle cronache e delle critiche così nei ricordi degli spettatori o dei coreografi medesimi. Il punto di vista dell’interprete è rimasto ombra e polvere della storia.

Colpisce l’innocente confidenza di Cèdric nel confessare che partecipare a un lavoro con Jerome Bel è finalmente la tranquillità di non preoccuparsi di farsi male, di affrontare il palco senza l’ansia di una prestazione e di poter finalmente vedere il pubblico dopo tanti anni di lavoro.

Jerome Bel Cèdric Andriaux è uno sguardo diverso sul linguaggio della danza. Illumina i materiali costituenti un linguaggio complesso e articolato da angolatura inconsueta, rivelando altre ombre e sfumature del tutto trascurate dalla norma. Lo sguardo che noi possiamo portare verso una coreografia, cambierebbe radicalmente se fossimo noi a provarla nel nostro corpo, esattamente come Forsythe diviene indigesto a Cèdric nel momento in cui gli tocca attraversarlo fisicamente.

È questo mutare di prospettiva che è interessantissimo in questi ritratti d’autore di Jerome Bel: quasi uno studio d’anatomia, una dissezione in cui emergono gli organi interni pulsanti di un’arte di cui siamo abituati ad ammirare solo la pelle lucente e ben illuminata. Noi pubblico in questo Jerome Bel Cèdric Andriaux siamo come quei dottori ne La lezione di anatomia di Rembrandt: circondiamo il cadavere dissezionato ben illuminato sul tavolo e cerchiamo di capire come il tutto funzioni.

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CORPI POLITICI E SCONFINAMENTI PROLIFICI: Teatro del Lemming e Julia B. Laperrière

Venerdì e sabato sera nel secondo appuntamento della stagione di Officine Caos sono andate in scena due opere che in vario modo portano all’attenzione del pubblico questioni politiche urgenti e stimolanti. Sia in Amleto di Teatro del Lemming, sia in UnCOVERED woMAN della danzatrice e performer franco-canadese Julia B. Laperrière si manifesta un corpo politico che travalica la scena e si spinge in platea.

Incominciamo da Amleto del Teatro del Lemming.

Chi è Amleto? Il principe di Danimarca diserta le scene e diviene platea, diviene moltitudine muta che osserva la scena. Impotente, silenzioso, privo per una volta di battute, questo Amleto del Teatro del Lemming diviene corpo politico.

Chi osserva, chi guarda non fa. Questo è l’assunto. E tutto questo si innesta in un gioco di specchi che rimanda dalla scena alla platea. La donna che regge lo specchio e sputa sull’immagine ivi riflessa, guarda verso di noi, ormai condannati a essere Amleto per decisione altrui, impossibilitati a ribellarci dalla posizione passiva che come pubblico abbiamo adottato, massa silenziosa che resta nel buio.

Siamo Amleto perché come lui ci troviamo in una parte che non abbiamo scelto né voluto, scissi tra accettazione e rinuncia.

Molto si è scritto e si potrebbe scrivere su Massimo Munaro e il Teatro del Lemming, ma una cosa è certa: è un teatro che non lascia mai indifferenti, che porta sempre a prendere una posizione. In questo capitolo della trilogia shakespeariana, diveniamo protagonisti senza nulla poter fare, nemmeno baloccarci con il dubbio di essere o non essere.

É la scena che ci dona sostanza, è l’agire di quelle immagini evanescenti, di luce caravaggesca, in perenne fluttuazione di registro, che ci permette di assumere un ruolo che altrimenti non terremmo ad assumere. Ma il Teatro del Lemming ci pone nello stesso tempo in un paradosso: siamo una parte, un personaggio, che non può parlare perché non ha la battuta, e non può agire perché non ha didascalia. Come un re degli scacchi i nostri movimenti sono limitati, e il gioco è svolto solo dagli altri pezzi.

E come il re degli scacchi siamo in perenne assedio, le immagini ci incalzano con un ritmo ossessivo prima, dilatato poi, spingendoci sempre più in una dimensione onirica che non può terminare che in un silenzio assordante. Siamo esistenze sospese tra l’alzata e la calata di un sipario, e poi è tutto buia notte e silenzio.

Come nella tragedia per il Principe di Danimarca il teatro diviene strumento di presa di coscienza del delitto, nel farsi doppio della realtà, così in questo caso si diviene coscienti della propria miserevole impotenza perché il teatro conferisce forma a una realtà che non vogliamo vedere. Continuamente provocati ad agire, a dire la nostra, a far parte della scena restiamo muti, nel buio, senza nulla fare perché non sappiamo cosa fare né quando né quali sono le regole e anziché inventarcene una, o agire senza il bisogno che ci siano, preferiamo restare zitti e fermi.

E allora chi è lo spettro del padre? E la madre prostituita? E Ofelia abbandonata e nell’acqua annegata? Tocca trovar nella nostra vita risposta ai quesiti che pone Massimo Munaro e il Teatro del Lemming. E tocca trovarla una risposta perché nella vita di ogni giorno ci proviene sempre più l’urgente e imperioso stimolo ad agire, a prendere posizione e sempre più distogliamo lo sguardo da quanto accade. Forse è ora di cominciare ad agire.

Altro discorso invece per UnCOVERED woMAN di Julia B. Laperrière, dove il corpo di donna si spoglia sempre più dei miti e dei pregiudizi che gravano sulla sua identità fino a ritornare nudo e forse di nuovo padrone di sé. Nel nome già vi è un’ambiguità, e forse un’accusa, o semplicemente la rilevazione di un sintomo.

Da una posizione china al suolo, lentamente la donna trasmuta come Proteo passando per Eva e la mela, alla casalinga, bella lavanderina imbrigliata nella borsa della spesa di tela, che diviene oggetto di vezzo e vanità, e infine corpo ribelle e rivoluzionario. Ma qual è la verità di questo corpo? Veramente riusciamo a spogliarlo dei pregiudizi che l’hanno coperto per sì lungo tempo? Il feminino veramente può sorgere libero e svincolato dalle immagini che l’hanno vestito per secoli?

Una piccola performance molto intelligente quella di Julia B. Laperrière, che esamina la figura della donna e l’ambivalenza di ogni immagine legata al corpo femminile. E come in Amleto di Teatro del Lemming siamo tutti Amleto, in questo caso ci troviamo a essere tutti dei Signor Palomar, a non sapere cosa guardare e se guardare quel meraviglioso corpo nudo che cerca con tutte le sue forze di svicolarsi dalla gabbia delle immagini e dei concetti che nonostante la nudità le restano comunque appiccicati addosso.

Fäk Fek Fik

FÄK FEK FIK: Le tre giovani di Collettivo Schlab

Domenica sera nell’ambito della rassegna Schegge di Cubo Teatro, ospite dello spazio Tedacà, ho potuto assistere a Fäk Fek Fik – le tre giovani di collettivo Schlab per la regia di Dante Antonelli.

Vincitore di tre premi al Roma Fringe Festival edizione 2015 (Miglior spettacolo, Miglior Drammaturgia e Migliori attrici ex-aequo) costituisce una tappa di scandaglio della drammaturgia di Werner Schwab da parte di Antonelli, che usa i testi dell’autore austriaco come strumento chirurgico per incidere e operare sul contemporaneo.

Fäk Fek Fik è una rimodulazione, riscrittura, rimontaggio de Le presidentesse di Werner Schwab: Le tre pensionate Grete, Mariedl ed Erna che nell’angusta cucina guardano la televisione e commentano orrori e banalità, lasciano il posto a tre giovani donne che annaspano in un mondo feroce di abiezioni e crudeltà. Le vecchie pensionate passano il testimone a queste giovani protagoniste che al pari di chi le ha precedute, non possono che subire un mondo violento e insensato di cui non trovano alcun bandolo.

Le tre giovani di Fäk Fek Fik sono un piccolo anello di un ciclo che non avrà mai fine e si ripeterà all’infinito ancora e ancora. Se Mariedl adorava sturare WC a mani nude, la giovane che la sostituisce, in una scena alla Trainspotting, a mani nude e ubriaca di Negroni, scava nella merda per recuperare tre ovuli di coca in un cesso della discoteca per compiacere un ragazzo carino. La variazione non fa che esaltare il ciclo di ripetizione.

Quello che risalta in Fäk Fek Fik è la bella interpretazione delle tre attrici Martina Badiluzzi, Giovanna Cammisa, Arianna Pozzoli: chiara, naturale, sentita. Mai affettazione e un certo gusto a trovarsi in quei ruoli che non guasta a un attore. Si percepiva il divertimento, persin il piacere, nell’essere in quel testo e in quella parte. E questo, al di là della tecnica, è sempre più raro sui palcoscenici. Troppe volte si assiste a interpretazioni vuote, mal costrutte, dove si vede l’attore e non il personaggio, come un cantiere in cui i lavori son ben lontani dall’essere conclusi. Per non parlare delle mancanze tecniche. In Fäk Fek Fik questo non avviene, anzi si gode di questa recitazione in spazi poveri, senza alcun orpello, con pochissimi oggetti, dove tutto è lasciato all’immaginazione dello spettatore nello spazio tra le parole e le azioni delle attrici.

Fäk Fek Fik è uno spettacolo ben riuscito e ben costruito, che richiama altre opere per forma simili benché diverse nelle intenzioni e perfino nelle tecniche drammaturgiche. Paragonare gli spettacoli è sempre un’operazione vana perché ogni lavoro è una storia a sé, ma c’è una cert’aria di famiglia che fa sì che nella mente si richiamino a vicenda: penso a La merda di Ceresoli o a Ifigenia in Cardiff di Malosti. In tutti questi casi le protagoniste sono donne, alle prese con l’abiezione di un mondo che subiscono e in cui in qualche modo godono a trovarsi ma che le fa arrabbiare e le porta alla soglia di una ribellione che non arriva veramente mai. La scena è spoglia e tutto è evocato dalle loro parole.

In Fäk Fek Fik la regia di Antonelli ha un buon ritmo, articola bene gli incastri drammaturgici, ed è ben assecondata dalle tre brave attrici. Non è quel gesto dirompente che mi sarei aspettato da quanto letto. In fondo siamo in un quadro registico abbastanza assodato benché assolutamente ben padroneggiato. Non si intravedono ancora nuovi orizzonti ma ottime basi da cui partire per cercarli.

Ma d’altra parte come può sorgere veramente qualcosa di nuovo se in uno spettacolo non si può spesso utilizzare che pochi elementi (in questo caso vestiti, sacchetti di plastica e poco altro)? Simon Stone appena visto allo Stabile di Torino ha a disposizione mezzi esorbitanti per emergere, che nel sistema produttivo italiano sono fantascienza. Certo i soldi non fanno la felicità e nemmeno la qualità, ma possono sicuramente aiutare a trovare strade nuove, elementi di scena che possono cambiare il quadro di una regia e di un’interpretazione.

Penso a Nathalie Beasse vista alla Biennale di Venezia. Nella sua semplicità, vi erano alcuni elementi chiave, come il telone nero che danza sulla scena all’inizio di Les Bruit des arbres qui tombent, che fanno la differenza tra un buono spettacolo e un grande spettacolo. Sono dettagli certo, ma se i nostri ragazzi avessero produttiva mente qualche soldo in più e fossero molto meglio distribuiti non farebbero opere che porterebbero a risaltare in ben altro modo il loro talento?

Chiedi chi era Francesco

CHIEDI CHI ERA FRANCESCO: Teatri di vita apre la stagione 2018 di Officine Caos

È iniziata una nuova stagione a Officine Caos che si apre con Chiedi chi era Francesco di Andrea Adriatico e Teatri di vita, spettacolo in memoria di Francesco Lorusso assassinato a Bologna da un carabiniere l’11 marzo 1977.

Chiedi chi era Francesco è uno spettacolo che nega se stesso. Uno schermo bucato, in cui si apre uno spazio angusto, quasi studio radiofonico, a rievocare le radio libere come Radio Alice che riempivano l’etere in quegli anni turbolenti.

Gli attori sempre di spalle, a negare un volto che non sia quello dei veri protagonisti proiettato in foto sulla struttura-schermo. Un breve attimo in cui si indulge alla rappresentazione, dove entra un carabiniere che spara alle spalle di un ragazzo in fuga tra i fumi dei lacrimogeni. Il cadavere che rimarrà sulla scena fino all’ultimo. Poi ci sono i sopravvissuti che chiamano la radio e che vengono proiettati dall’esterno, e per ultimo un ragazzo di oggi che riflette su quei fatti mettendoli in relazione con il suo oggi e con l’amore che ha appena perso.

In Chiedi chi era Francesco il ricordo di Lorusso avviene dunque in due momenti: da una parte la rievocazione dei fatti in maniera molto didascalica, da storia scolastica, con le foto a colmare la lacuna di un racconto scarno che non indulge a sentimentalismi; e poi l’oggi che si raffronta con i fatti, un oggi vissuto come rimpianto o nostalgia, oppure dai giovani con curiosità distaccata scanzonata quasi a dire: ma chi ve lo faceva fare a voi di prendervela per queste cose?

In Chiedi chi era Francesco i fatti del ’77 sono dunque sospesi tra questi due estremi: la storia anagrafica e quella personale. Non c’è indagine sui motivi che agitavano quella Bologna turbolenta, non si apre a un contesto italiano o culturale. Tutto sembra centrato solo su Francesco e sul ricordo che si conserva di lui rispetto alla propria storia personale.

I documenti audio, come la notizia della morte di Lorusso o gli ultimi istanti di Radio Alice durante l’ultima irruzione della polizia che determinerà la chiusura dell’emittente, sono lanciati nudi e crudi all’ascolto come in una trasmissione radio (E in effetti per un buon tratto lo spettacolo ricorda Hate radio di Milo Rau, senza però mai raggiungere la granitica durezza del regista svizzero nè la sua volontà di creare in platea un’agorà-tribunale). I commenti sono della commentatrice radio e risultano un po’ troppo superficiali e stucchevoli.

Un po’ troppo forzato anche l’inserimento di un fatto di cronaca legato ai Cie, anche se appare palese il legame con alcune delle lotte operaie di Francesco Lorusso, così come il riferimento allo smarrimento dei valori di sinistra.

Chiedi chi era Francesco è uno spettacolo, per quanto interessante per alcune scelte estreme, non completamente riuscito. Troppi toni didascalici e troppa aria di nostalgia. Se penso per esempio alla leggera aria di scanzonato confronto che anima Personale Politico Penthotal del Teatro della Piccionaia, dove da una parte si rievoca tutto il mondo che animò quei fatidici giorni tra il ’76 e il ’77 fino alla strage di Bologna, e in cui si apre in scena un reale confronto tra l’oggi dei rapper e il passato rievocato con il linguaggio di Pazienza, trovo che Chiedi chi era Francesco pecca di eccessiva rigidità, quasi da romanzo a tesi.

C’è una certa smania di voler dire, di voler rabbiosamente segnalare, come di trauma non superato, di qualcosa ancora presente nelle vite e non pienamente metabolizzato così da divenir materiale di nuova narrazione. È come se ci fosse troppo coinvolgimento da parte degli autori, un essere parte in causa che impedisce una reale distanza dai fatti narrati.

Fenomeno questo che vizia anche il secondo spettacolo che ha animato l’apertura della stagione di Officine Caos: Giselle, una parte di Carmelo di Erika Di Crescenzo/Cie la Bagarre. Come già in altre performance della Di Crescenzo, penso ad esempio Per il bene di Carmelo, la presenza del maestro è troppo ingombrante e scomoda. L’innamoramento verso Carmelo, un CB che appare in voce con pezzi tratti da Homelette for Hamlet o Hamlet Suite, è ironico, divertente, leggiero ma non pienamente convincente perché il maestro non è stato ucciso del tutto. Resta in scena con la sua presenza invadente, a ricordar che i morti non son veramente morti, che come il fantasma del padre di Amleto appaiono e ritornano dall’oltretomba.

Mi piacerebbe che Erika Di Crescenzo lasciasse sbocciare il suo talento lontano da CB, che lasciasse il suo innamorato e diventasse autrice di sé più che metteuse en scene di cadaveri eccellenti.

Un inizio leggermente sottotono in questa stagione alle Officine Caos, non tanto per gli spettacoli quanto per una ridondanza con il cartellone di Differenti Sensazioni terminato da poi due soli mesi. Troppi i ritorni come quello di Teatro del Lemming o di Teatro Nucleo oltre a quelli di Teatri di Vita e della Di Crescenzo. Se non conoscessi la serietà del lavoro di Stalker Teatro mi sembrerebbe una mancanza di fantasia e di una stanchezza nella direzione artistica. Non mancano le novità soprattutto dall’estero che nel proseguo della stagione non mancheremo di segnalare.

Ph:  @Michele Tomaiuoli

Faust Deep Web

FAUST DEEP WEB di Raphael Bianco e Matteo Stocco

Faust Deep Web andato in scena al Castello di Moncalieri il 26-27-28 gennaio, costituisce il secondo appuntamento della Trilogia della civiltà, progetto scenico e coreografico di Raphael Bianco e della Compagnia EgriBiancoDanza.

Con Orlando e Prometeo, Faust costituisce una tappa di un’indagine sui miti costituenti la nostra civiltà occidentale messi a confronto con un oggi problematico e a tratti inquietante.

Nel caso specifico di Faust Deep Web, la coreografia di Raphael Bianco si innesta sull’istallazione del giovane artista Matteo Stocco. Quattro grandi schermi da cui fuoriescono cavi innumerevoli come tentacoli di dei ancestrali e mostruosi. I danzatori sono gli officianti di questo strano rito di evocazione a cui pochi partecipanti sono ammessi.

Nell’entrare in questo spazio, sacro e sacrilego insieme, si viene accolti da due figure, una donna in bianco e una velata figura in nero che sussurrano: “Tu sei Faust”.

Ed è proprio quello che accade in questa performance. si è Faust nella misura in cui si vuole conoscere ciò che è proibito conoscere, ammirando il mondo dalle profondità del deep web. Gli schermi ci propongono universi nascosti e proibiti, di armi, sesso, di incontri illeciti, in quella parte sommersa della rete che contiene tutto lo scibile peccaminoso. Non sono più le meraviglie del mondo ma le sue bassezze e miserie.

Come in una performance del Teatro del Lemming, lo spettatore è protagonista, è il personaggio principale, continuamente sollecitato e provocato dai danzatori ad agire a reagire; e come avviene spesso in questo tipo di performance, il pubblico si trova ad essere imbarazzato, sentendosi invasore in uno spazio di cui non comprende le regole. Non sa quanto possa fare e se fare, per cui spesso si barcamena in una imbarazzata via di mezzo, vittima passiva di un meccanismo che finisce per subire.

Il percorso è comunque suggestivo ed evocativo. I bravi danzatori danno dimostrazione di buone qualità come attori, gestendo il rapporto con il pubblico in maniera disinvolta e mai forzosa. Il linguaggio danzato è semplice, minimale, assolutamente comprensibile, così come l’intento della performance che non si nasconde dietro inutili opacità intellettualistiche, pericolo sempre dietro l’angolo in questo tipo di realizzazioni.

Interessante l’uso del suono prodotto dai danzatori grattando i tubi, spostandoli, muovendo gli schermi, sfiorando gli oggetti metallici. Una colonna sonora aggiuntiva che si innerva in quella prodotta dagli schermi o dalle casse. Forse si poteva lavorare in questo senso in maniera più organica.

Anche la location di Faust Deep Web, la palestra nei sotterranei del Castello di Moncalieri costituiva un valore aggiunto all’evento, e dimostrando una volta di più che il luogo-teatro può essere ovunque e sfugge sempre più dalla gabbia del luogo deputato e anonimo.

Faust Deep Web è performance che attinge a vari linguaggi, perdendo la purezza del genere e diventando generazione equivoca tra vari mondi in cui si incrociano danza, teatro e arti visive. Oramai distinguere i vari generi di Live Arts diventa sempre più difficile e in un certo senso anche inutile. La scena ha sempre vissuto di incroci e di meticci e non ha avuto mai paura degli sconfinamenti.

L’ibrido scenico che si svolge dal vivo, che vive dell’immediatezza del contatto con il pubblico che non è solo spettatore ma co-creatore dell’evento è poi strada sempre più battuta e fruttuosa. Il pubblico è stanco di essere spettatore, vuole essere attore, essere coinvolto nel processo, partecipare alla costruzione dell’opera che ha senso solo nel momento presente in cui si fa e viene partecipata.

Ph: @SIMONE VITTONETTO

Andrea Cosentino

INTERVISTA AD ANDREA COSENTINO: io sono in scena colui che fallisce.

Questa interessante intervista ad Andrea Cosentino è stata fatta al Teatro della Caduta, dopo la replica di Lourdes lo scorso 18 gennaio. Ovviamente non abbiamo parlato dello spettacolo appena visto ma di Kotekino Riff, ultima fatica di Andrea, e di altri aspetti del suo teatro. Insomma come spesso succede nelle conversazioni sincere siamo andati dove non ci si aspettava.

Enrico Pastore: Cominciamo a parlare di Kotekino Riff. Che tipo intenzione si cela dietro questo spettacolo che non è uno spettacolo? Che tipo di comicità è la tua?

Andrea Cosentino: Kotekino Riff è ancora un esperimento. Io faccio degli spettacoli e poi degli spettacoli-esperimento, tipo Antò le momò, che vanno da nessuna parte. Sono palestre per inventare, o tentare di inventare nuovi modi di stare in scena. Kotekino Riff a tutti gli effetti non ha ancora debuttato ma è una delle cose che mi diverte di più fare adesso perché mi assumo dei rischi. Ormai a cinquant’anni ci sono cose che so di saper fare, e lo dico senza presunzione. So di saper raccontare una storia, so di poter far ridere e di emozionare con certi meccanismi. Per scoprire nuove cose diventa necessario prendersi dei rischi.

Per rispondere alla tua domanda in modo che spieghi anche cosa sia Kotekino Riff, ti posso dire che la mia è una comicità clownesca di colui che fallisce. Ridi perché il clown è caduto. Questo è Kotekino Riff o, per meglio dire, lo sono tutti i miei spettacoli ma in particolare Kotekino Riff: è un meccanismo di fallimento della presenza scenica. Si fallisce nello stare in scena, si fallisce nel raccontare storie, si fallisce nel rappresentare cose. È uno spettacolo che per metà è improvvisazione, vera o simulata, e che lavora sull’aspettativa negata. Kotekino Riff se ha una pretesa è quella di rendere cosciente il pubblico del bisogno di senso che ha quando assiste a un evento culturale e di come io giochi a negare questa aspettativa. È un tentativo di fare della comicità frustrante. Mi interessa che diventi, e per ora non lo è ancora totalmente, un modo per riflettere sul meccanismo di potere che si innesta quando si va in scena: tra rappresentante e rappresentato, tra chi sta in scena e il pubblico. Io ho sempre evitato di ergermi a rappresentante del mio spettatore tipo. Evito qualsiasi forma di immedesimazione in un pensiero.

Enrico Pastore: Per dirla alla Carmelo Bene è la ricerca di un manque.

Andrea Cosentino: Se vuoi sì, anche se non virata sulla phonè quanto più sulla relazione attore-spettatore. Kotekino Riff è la cosa più estrema che posso pensare in questo momento per evitare questo rischio. Il mio tentativo è di rendermi totalmente inaffidabile. Cerco comunque di fare della comicità e quindi di far funzionare un meccanismo. Io sono un po’ contrario a quel teatro eccessivamente avanguardistico. Il mio slogan è questo: nel mio teatro cerco di lanciare il sasso senza nasconder la mano. Mi piace renderti cosciente di ciò che faccio, mentre il teatro d’avangiardia che non mi piace è quello che ti lancia direttamente la mano e tu dici: va beh, il gesto è certo molto evidente ma perché perdo un’ora del mio tempo ad assistervi?

Enrico Pastore: Kotekino Riff contiene molto riferimenti a un certo pensiero teatrale complesso e preciso, penso ad esempio agli accenni ad Artaud, e non solo nel monologo e nella figura del pupazzo nel finale. Mi chiedevo quindi: c’è qualcosa che tu vuoi dire ai teatranti? c’è un messaggio specifico rivolto a chi il teatro oggi lo pratica? Un modo per scuotere un ambiente?

Andrea Cosentino: Il monologo finale è quasi un pezzo a sé. Forse potrei dirti che per la mia cultura non posso evitare di fare dei riferimenti teatrali. Mi escono quasi spontanei. Fino ad ora ho fatto Kotekino Riff cinque volte e in situazioni molto diverse, nei festival, in teatro, in casa. Ti posso dire che le volte che ha funzionato di più era proprio quanto non c’erano i teatranti o gli addetti ai lavori. Per esempio dopo lo spettacolo fatto a Kilowatt c’è stato anche chi ha scritto: questo è il solito teatro che parla di se stesso. Mentre nelle situazioni in cui nessuno sapeva chi era Artaud o non ci fosse nessuno con una particolare affezione per Leo De Berardinis, semplicemente si divertiva. E questo accade perché la situazione: io ti guardo, perché ti guardo? Perché ti devo stare a sentire? È qualcosa che riguarda tutti. Paradossalmente riguarda di più la vita dei social e la vita contemporanea che il teatro. Siamo noi teatranti che cerchiamo in ogni modo di riferire tutto a noi stessi. Certamente c’è un riferimento ma il mio tentativo è di scavalcarlo.

Nel pezzo finale c’è Artaud, e per me è importante che sia Artaud, ma è un burattino che fa parte del mio armamentario da tempo immemorabile. L’avrò costruito dieci anni fa, perché mi divertiva molto essere io il doppio di Artaud. È un Artaud derisorio, che si interroga. Il pezzo finale comunque si rivolge al mondo del teatro: l’accattonaggio teatrale, il continuo chiedersi: perché sono qui? Ti commuovo? Ti commuovo perché sono finto? Ti sembro vero? Vuoi essere provocato (e questa è l’avanguardia)? Se vieni qui con l’aspettativa di essere provocato come posso io veramente provocarti? Questo modo ritrae, in maniera critica e autocritica, una certa maniera di compiacersi del nostro piccolo mondo del teatro di ricerca nei riguardi di operazioni che sono provocatorie ma solo verso chi è lì apposta per essere provocato. È un rapporto sadomaso. E poi magari arriva uno da fuori e dice: ma che è ‘sta boiata?

Enrico Pastore: Cos’è il teatro per te? E qual è la sua potenza peculiare? E, soprattutto, ne possiede ancora una da esercitare?

Andrea Cosentino: Io sono affezionato allo specifico teatrale. Non tanto a Shakespeare o Marlowe, quanto allo spettacolo dal vivo. Faremmo un bel passo avanti quando capiremo che non c’è differenza tra un atto teatrale, o performativo di performance art, o anche un concerto. Sono eventi dal vivo. Quello che dobbiamo capire eè cosa vogliamo noi da un evento live. Probabilmente molti eventi dal vivo, anche molto stupidi o molto pop, sono molto più efficaci del teatro danno allo spettatore l’idea di essere visto. Forse la cosa più preziosa che può dare il teatro è dare allo spettatore l’idea di essere compreso nello sguardo. Adesso ti dico una cosa un po’ provocatoria: quando l critico teatrale di turno scrive: ti stavi rivolgendo solo a noi addetti ai lavori, io ti rispondo che a Kilowatt c’eravate solo voi addetti ai lavori. Io come attore-autore di me stesso se ho una capacità è quella di adattarmi al pubblico che ho di fronte e quindi sì mi stavo rivolgendo agli addetti ai lavori ma perché solo quelli avevo di fronte. E io parlo con chi c’è lì, in quel momento, davanti a me, non con uno spettatore tipo. Il teatro è una modalità, – e detta come la sto dicendo sembra un concetto astratto ma non lo è -, che si adatta e si trasforma nel momento in cui si compie ed è questa la sua grande potenza. Non è un’opera ma un processo che si fa nuovo ogni volta. Poi per me di base vige questo principio: che il teatro è meglio farlo che guardarlo, per cui cerco di far sì che tu spettatore faccia lo spettacolo insieme a me, che diventi anche tu parte del processo di messa in scena.

Quando si sale in scena ci si deve prendere un rischio e questo rischio è il buco in cui si può inserire lo spettatore per essere insieme a te. Devi essere tu insieme allo spettatore a fare l’opera. Non devi far vedere una cosa già fatta allo spettatore.

Enrico Pastore: Ora ti faccio una domanda di sistema. Una domanda che sempre più spesso mi piace fare perché sia arrivato il momento di mettere un po’ il dito nella piaga e smuovere le acque. Il teatro sta perdendo pubblico e rilevanza. Siamo in una città con un bacino di un milione di abitanti e c’erano in sala settanta persone per una serata unica…

Andrea Cosentino: E siamo pure contenti che fosse pieno!

Enrico Pastore: Esattamente. Quello che voglio chiederti è questo: cosa dovrebbe fare il sistema-teatro, le curatele, gli artisti per emendare i difetti che hanno condotto a questa irrilevanza e che aiuti a invertire la tendenza?

Andrea Cosentino: Io sono un po’ anarchico e non ho un vero pensiero politico sul tema dell’organizzazione dello spettacolo. Vedi io vengo da un paesino dell’Abruzzo e quando ho cominciato nelle sale di paese o nelle piazze avevo davanti a me solo vecchi e bambini. Gli adulti stavano fuori. La cultura popolare era che il teatro non fosse una cosa da uomini. Nasco un po’ con questo imprinting. Poi ti dico un’altra cosa. Io parlo veloce. Spesso mi rimproverano questo. Io credo di avere inconscia dentro di me, l’idea che il teatro sia una cosa noiosa e che prima ci sbrighiamo meglio è per l’attore che per lo spettatore. Io ho sempre costruito il mio teatro non pensando all’organizzazione dello spettacolo, perché dentro di me ho l’idea che io potrei fare spettacolo dappertutto e in qualsiasi situazione. La mia idea, perché io in fondo sono un anarchico antisistema, è che io in qualsiasi sistema nuovo si inventi e per quanto possa ben funzionare, io devo agire nelle maglie e infilarmi nelle pieghe.

Ho sempre pensato di essere un marginale e che il teatro, anche quello più istituzionale e ben finanziato, ne guadagnerebbe assai se prendesse coscienza del suo essere come arte assolutamente marginale.

Comunque da ignorante della politica teatrale quello che mi ha sempre scandalizzato sono due cose: da una parte la tendenza a chiudersi in un piccolo circoletto in cui ci autogiudichiamo e ci diciamo quanto siamo importanti nonostante la realtà, cosa micidiale che ci farà morire tutti, e, seconda cosa, che nel nostro sistema di finanziamenti è che si ricevono i fondi se sei produttore di spettacoli e insieme presentatore di spettacoli. A nessun produttore di birra tu dai dei soldi per produrre la birra, sia per acquistarla. É chiaro che poi si chiude il sistema. Provocatoriamente, perché non lo vorrei, potrei dirti: togliamo i finanziamenti e vediamo chi sopravvive. Ovviamente io ho la presunzione di credere di poter sopravvivere.

ph: @Tommaso Abbatesciani