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Sara Pischedda

LO STATO DELLE COSE: INTERVISTA A SARA PISCHEDDA

Per la trentatreesima intervista incontriamo una giovane danzatrice: Sara Pischedda. Lo stato delle cose è, lo ricordiamo, un’indagine volta a comprendere il pensiero di artisti e operatori, sia della danza che del teatro, su alcuni aspetti fondamentali della ricerca scenica. Questa riflessione e ricerca partita lo scorso dicembre crediamo sia ancor più necessaria in questo momento di grave emergenza per prepararsi al momento in cui questa sarà finita e dovremo tutti insieme ricostruire.

Sara Pischedda nel 2015 entra a far parte della compagnia ASMED
Balletto di Sardegna
danzando per la produzione Aragosta di Moreno
Solinas, Soffio di Mark Siezkarek, Tempesta di Caterina Genta. Come autrice ha firmato Satura…si?, 120gr e e se fossi…?

D: Qual è per te la peculiarità della creazione scenica? E cosa necessita per essere efficace?

In questo momento della mia vita artistica , praticamente agli esordi se così si può definire, mi sento di rispondere a questa domanda con la frase “essere se stessi”. 

Questo nel mio percorso è stato fondamentale, dopo tanti tentativi, ho iniziato a sperimentare su quella che sono io e su quello che potevo offrire, a chi veniva vedermi in scena, sviluppandolo con l’aiuto del mio vissuto, dei miei ricordi e quindi adesso più che mai sono convinta che per creare è efficace iniziare da dalla radice.

Poi l’evoluzione magari ti porta da qualche altra parte, ma conoscere se stessi è una chiave per capire come sviluppare altri concetti ! 

D: Oggi gli strumenti produttivi nel teatro e nella danza si sono molto evoluti rispetto solo a un paio di decenni fa, – aumento delle residenze creative, bandi specifici messi a disposizione da fondazioni bancarie, festival, istituzioni -, eppure tale evoluzione sembra essere insufficiente rispetto alle esigenze effettive e deboli nei confronti di un contesto europeo più agile ed efficiente. Cosa sarebbe possibile fare per migliorare la situazione esistente?

Si gli strumenti si sono evoluti, ci sono più possibilità di residenze artistiche, più finanziamenti ma, a parer mio, si è tralasciata un po la cosa efficace ed efficiente  per tutti gli artisti, ossia la relazione stretta con chi è “sopra” di noi, come ad esempio gli organizzatori di festival. 

Ecco forse ho sbagliato anche a definire l’esistenza di qualcuno al di sopra di noi, siamo tutti qui a lavorare per lo stesso obiettivo, magari con compiti differenti ma la voglia e il desiderio,  di realizzare qualcosa di fruibile e far conoscere quest’arte il più possibile, sono le stesse.

Possono esserci tantissimi strumenti produttivi ma se questa collaborazione tra le parti interessate non esiste, a parer mio, il risultato sarà sempre blando 

D: La distribuzione di un lavoro sembra essere nel nostro paese il punto debole di tutta la filiera creativa. Spesso i circuiti esistenti sono impermeabili tra loro, i festival per quanto tentino di agevolare la visione di nuovi artisti non hanno la forza economica di creare un vero canale distributivo, mancano reti, network e strumenti veramente solidi per interfacciarsi con il mercato internazionale, il dialogo tra gli indipendenti e i teatri stabili è decisamente scarso, e prevalgono i metodi fai da te. Quali interventi, azioni o professionalità sarebbero necessari per creare efficienti canali di distribuzione?

Penso ci sia un legame forte con la precedente risposta.

Ripeto il  problema o meglio il freno che è inserito e che non fa muovere la macchina è proprio l’assenza totale di collaborazioni tra le parti. 

Voglio spiegarmi meglio, esistono delle collaborazioni ma sono comunque superficiali. Non danno spazio a delle vere e proprie conoscenze tra luoghi spazi e persone che risultano differenti tra loro. 

Spesso si racchiude tutto in una cerchia ristretta di persone e tutto rimane li. 

Invece no, bisognerebbe aprile il più possibile le porte e far circolare aria colma di idee, legami e creare delle vere e proprie reti di connessioni .

Come è scritto nelle domanda esiste la situazione nella quale indipendenti e teatri stabili si muovano su strade parallele, che viste così non  potranno incontrarsi mai. Forse perché la società ci ha portato sposare questo comportamento “io coltivo il mio orticello e tutto è in ordine” .

Invece gli orti devono diventare distese immense dove poter coltivare ognuno le  proprie peculiarità per poi avere la possibilità di usufruire ognuno delle capacità dell’altro e creare così una vera rete di condivisione.

Altro problema da non sottovalutare è quella di tendere a ricoprire più professionalità in una sola persona, dovuto sicuramente alla mancanza di strumenti economici necessari a ricoprire tutto questo.

Ma magari potrebbe essere la benzina giusta per far riaccendere il motore di questa macchina ferma. 

Ad ognuno il suo ! 

D: La società contemporanea si caratterizza sempre più in un inestricabile viluppo tra reale e virtuale, tanto che è sempre più difficile distinguere tra online e offline. In questo contesto quali sono oggi, secondo la tua opinione, le funzioni della creazione scenica che si caratterizza come un evento da viversi in maniera analogica, dal vivo, nel momento del suo compiersi, in un istante difficilmente condivisibile attraverso i nuovi media, e dove l’esperienza si certifica come unica e irripetibile ad ogni replica?

La creazione scenica che si vive al momento ha un sapore talmente unico, che non si dovrebbe sostituire mai. 

A volte per praticità viene sostituita ma l’emozione che possa essere negativa o positiva è un attimo che viene recepito dallo sguardo che passa attraverso la pelle, percorrere il cuore e rimane impresso nella mente può darlo solamente il real time! 

D: Con la proliferazione dei piani di realtà, spesso virtuali e artificiali grazie ai nuovi media, e dopo essere entrati in un’epoca che potremmo definire della post-verità, sembra definitivamente tramontata l’idea di imitazione della natura, così come la classica opposizione tra arte (come artificio e rappresentazione) e vita (la realtà intesa come naturale). Nonostante questo sembra che la scena contemporanea non abbia per nulla abbandonato l’idea di dare conto e interrogarsi sulla realtà in cui siamo immersi. Qual è il rapporto possibile con il reale? E quali sono secondo te gli strumenti efficaci per confrontarsi con esso?

Adesso come adesso il virtuale è entrato a far parte della nostra vita quotidiana più che mai, come se ci fosse un “mondo parallelo”, dove possiamo sentirci bene con noi stessi ! 

Inutile dire che le sensazioni vengono annullate tanto quanto la vita reale.

Quindi rifugiandosi in questa “Second Life” giochiamo ad un gioco ideale, creato da noi dove possiamo vivere le sensazioni che vogliamo noi!

Il reale potrei definirlo come situazione difficile da sviluppare, ma se devo dare un mio parere, è molto interessante proprio per questo, nella conclusione mi ricollego alla mia prima risposta dicendo che lo strumento che più stimola l’artista è essere se stessi, reali con i propri difetti e pregi !

Interplay

SPECIALE INTERPLAY: si chiude alla Lavanderia a Vapore l’edizione 2019

L’edizione 2019 di Interplay si è chiusa ieri sera 30 maggio alla Lavanderia a Vapore di Collegno. Nella serata conclusiva il pubblico, sempre numeroso per tutta la durata del festival, ha potuto assistere a un florilegio di pezzi brevi, piccolo caleidoscopio di stili e poetiche della nuova danza.

Document per sei danzatori firmato dal duo coreografico israelo-olandese Ivgi&Greben per l’interpretazione del Balletto Teatro Torino, è un pezzo tagliente e disperato. Un’umanità dolente e stracciona che arranca in lunga fila tra martellanti suoni meccanici, costretta in un’unica striscia centrale come su un nastro trasportatore industriale. Umani-automi, piegati in movimento verso un orizzonte che è abisso. Un avanzare fatto di ritorni, di mani tese al cielo, di cadute e disequilibri, il tutto senza posa, ancora e ancora fino alla caduta finale. Una coreografia venata di nero, disperante, colma di emozioni seppur senza via di fuga.

Bloom di Daniele Ninarello per MM Contemporary Dance Company, esito del progetto Prove d’autore XL, azione del Network Anticorpi XL, ricrea l’immagine di una fioritura. Un solo danzatore al centro della scena danza delinea alcune sequenze di movimenti. Il suo danzare richiama intorno a se come un Maelstrom gli altri esecutori che uniscono in un respiro comune le proprie sequenze a volte unisone, a volte variazioni sul tema. Una spirale che attrae e rilascia come un respiro, che si espande e si apre, prima di richiudersi e ricominciare il processo. Un danza che nasce dall’ascolto, dalla percezione di ciò che avviene e si sviluppa attraverso linee e geometrie piene della grazia di un fenomeno di natura spontanea. Bloom rivela, qualora ce ne sia ancora bisogno, la grande ricchezza e maturità della ricerca coreografica di Daniele Ninarello.

120 gr di Sara Pischedda è una breve e ironica coreografia che ha per oggetto il corpo stesso della danzatrice che appare come una delle figure femminili di Botero. Una giovane donna dalla fisicità massiccia, sensuale nella sua rotondità, appare in tacco alto fasciata da un vestito giallo canarino acceso. Un corpo esposto allo sguardo, sempre in posa come per un selfie, circondata da suoni di smartphone che fotografano. A questo sovraesporsi, all’apparire per forza e a tutti i costi, segue una spoliazione. Resta il corpo nudo, che rifulge della grazia sensuale e piena delle figure femminili di Giulio Romano, un corpo che semplicemente si pone allo sguardo, senza voler essere diverso da quello che è. Ed ecco che la danza si unisce alla parola, un racconto ironico di sé, del proprio venire al mondo sotto il segno dell’abbondanza delle rotondità dell’88 dell’anno di nascita e in quella prima poppata esorbitante da 120gr. Cos’è la perfezione? In cosa consiste la bellezza di un corpo se non nella propria poetica unicità lontana da un modello uniformante e appiattente? Queste alcune delle domande che solleva Sara Pischedda in 120gr, quesiti posti con autoironia e leggerezza senza nascondere la serietà e profondità della questione.

A concludere il programma Some remain so del coreografo francese Alexandre Fandard che attraverso le tecniche di contrazione Krump, la danza urbana nera americana nata negli anni ’90 sulla East coast, esplora gli abissi della follia insiti in ognuno di noi, e Liov firmato da Diego Sinner per due danzatori, rappresentazione di una lotta o una sfida violenta e tutta maschile che si sviluppa nella tensione tra il mollare e il tenere duro.

Questo dunque il programma che conclude l’edizione 2019 di Interplay, festival dedicato alla danza tra i più interessanti nel panorama italiano. Natalia Casorati impronta la sua direzione artistica nel dare luce ai giovani coreografi e nel ricercare le nuove tendenze di ricerca. Quest’attenzione alle nuove generazioni trova risposta nel vasto pubblico che frequenta ogni anno il festival composto per la maggior parte proprio da giovani. Nonostante un budget che meriterebbe maggiore attenzione dalle istituzioni, Interplay non solo propone un programma interessante e per molti versi differente e unico, ma intesse importanti relazioni con le rete nazionali e internazionali inserendo la propria attività in un contesto più ampio ed europeo.

Importante il momento di incontro sul ruolo dei festival titolato Antenne del Contemporaneo che ci auguriamo prosegua negli anni a venire allargando il confronto. I momenti di riflessione sono sempre più importanti per comprendere modalità di azione e nuove funzioni all’interno di un contesto sociale e politico sempre più complicato e dissonante.

Per concludere una proposta: mancano forse a Interplay dei momenti di incontro tra pubblico e autori, un confronto sulle poetiche e sulle pratiche che avvicini lo spettatore all’artista. Alcuni festival stanno proponendo con successo queste occasioni di confronto, soprattutto perché i nuovi linguaggi artistici appaiono come distanti e sconosciuti tanto da creare diffidenza in molti e, d’altro lato, consentono all’artista di toccare con mano le reazioni che la propria opera suscita in chi la osserva e fruisce.

ph: @Tony Nandi