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INTERVISTA A IRENE RUSSOLILLO

La prima volta che ho visto Irene Russolillo sono rimasto affascinato dalla sua danza graffiante, esuberante, in un certo senso istintiva. Oserei dire che in lei si realizza magnificamente l’ideale di “sprezzatura” definito da Baldassare Castiglioni: ”Da ciò credo io che derivi la grazia, perché delle cose rare e ben fatte ognun sa la difficoltà, onde in esse la facilità genera grandissima maraviglia…”.
Nei lavori di Irene Russolillo nulla è sforzato, tutto porta a una certa divina grazia, la grazia di una ninfa o di una menade, qualcosa da maneggiare con cura perché contiene in sé una parte oscura, inquietante che appena appare come un’ombra sotto la superficie di uno specchio d’acqua montano. E questa sorta di inquietudine nasce, a mio avviso, dal trovarsi sempre di fronte a qualcosa di veramente intimo, come di confessione segreta, qualcosa da udire con rispetto e conservare nel cuore. È il personale che si riversa e si apre verso il mondo in tutta la sua dirompente fragilità. Ma questo dato autobiografico è sempre distanziato da chi danza, c’è sempre uno scarto come fosse un doppio alchemico: è Irene ma non Irene (Le parrucche, la calotta che nasconde i capelli). Questo distanziarsi da sé, quasi farsi maschera del danzatore, permette che questo universo personale sia avvertito come proprio anche dallo spettatore. In qualche modo si riesce a condividere e a parteciparvi.
Per questo motivo ho deciso questo mese di dedicare una lunga intervista a Irene Russolillo, per parlare dei suoi lavori, dei suoi progetti e delle profonde motivazioni che si annidano nei suoi lavori.

EP: Cos’è per te la danza? E quale pensi sia oggi la sua funzione seppur ne ha una? E quale rapporto ti piacerebbe si instaurasse con il pubblico o un pubblico?
IR: Per me è danza potenzialmente qualunque situazione dinamica che abbia uno sguardo dall’esterno. Lavorare (con) la danza mi pone di fronte molti più elementi oltre al movimento e, rivelandone infiniti aspetti, complica inevitabilmente il significato stesso della parola e il concetto che esprime. La danza può facilitare lo scambio di sguardi e di pensieri tra persone. Inoltre fa venir voglia di accedere più volentieri al (con)tatto. Questo insieme di sguardo, pensiero e contatto può anche emozionare. In generale, attraverso le sue varie declinazioni, la danza può nutrire la ricerca personale e intellettuale di ciascuno, come individuo e come parte di una comunità.

EP: Quando hai capito che la danza poteva essere la tua vita?
IR: Finita l’università, completata in tutt’altro ambito, ho deciso di “provare”; durante l’adolescenza e fino a tutti gli anni universitari, il più delle emozioni provenienti dalla sala di balletto erano state frustrazione e sfiducia. L’incontro con la danza contemporanea e le sue sfumature, il fatto che avessi facilità ad entrare in connessione con certi maestri e che piano piano mi si formasse un gusto e una prerogativa professionale, mi hanno convinto a insistere ma è solo riscuotendo risultati positivi nelle audizioni e piano piano all’interno dei lavori che mi sono “ritrovata” danzatrice.

EP: Quale è stato l’incontro artistico che reputi essere stato il più importante nella tua formazione? C’è un artista che ti ispira, che è il tuo nume tutelare nascosto?
IR: Non ho mai avuto un nume tutelare ma prima di considerarlo un dato di fatto, mi è sempre dispiaciuto non avere un riferimento, un maestro, un “mito” . in seguito ho avuto molti maestri, dai libri e dai video, molti. dal vivo, tre incontri hanno segnato il mio percorso per ragioni molto diverse tra loro, quello con micha van hoecke, cesar brie e roberto castello. ma devo dire che ho avuto “rivelazioni” anche in incontri brevissimi.

EP: Qual’è il lavoro a cui ti senti più legata? E qual’è invece quello che ti ha fatto credere nelle tue capacità espressive?
IR: Il lavoro a cui sono più legata è il mio solo strascichi. c’è un prima e un dopo strascichi per me come artista e per me come persona. il lavoro che invece definisco la “psicoterapia” più efficace nella mia esperienza è stato carne trita di roberto castello, in cui ho “liberato la bestia” (soprattutto con l’uso della voce) e sono andata in territori espressivi ampi e per me nuovi.

EP: Parlando di Strascichi, un lavoro che ritengo molto toccante e graffiante nello stesso tempo, sembra, ma magari è una mia impressione, che l’autobiografia sia il motore importante del lavoro. E’ corretto? e se si, tale motore si limita a quel lavoro o parti sempre da elementi autobiografici che poi in qualche modo diventano opera e si distanziano da te?
IR: Non che abbia ancora un repertorio così vasto, tutt’altro. ho all’attivo 3 soli concepiti e realizzati; al momento sto lavorando su due progetti molto diversi tra loro, in collaborazione con altri artisti. per questi ultimi due andiamo a “pescare” ovunque, fuori e dentro di noi. a posteriori posso dire invece che tutti e tre i soli sono nati da spinte interne “vomitatrici” e inopponibili, quindi sì, decisamente autobiografici almeno nel loro punto di partenza.

EP: Qual è il ruolo che attribuisci alla voce e al canto nel tuo lavoro?
IR: La voce è uno degli elementi della scena. È un mezzo che amplifica possibilmente l’espressività e il senso di quello che faccio. Come strumento a sé e nel suo coesistere al movimento, è un terreno in cui indago e compongo con l’entusiasmo di una principiante, con molta curiosità e stimoli. Il canto è un desiderio, un piacere.

EP: Da quali elementi la natura del tuo movimento trae forza e nutrimento?
IR: Il mio movimento nasce dalla forza anche rituale che la scena mi da, dal momento in cui sono presente sulla scena e ho un pubblico. Da quando ho smesso di seguire un ideale di esecuzione, la mia danza è diventata la mia danza. Durante le prove ripeto le azioni ma è solo in scena che il movimento si nutre e si espande oltre me stessa e, talvolta, malgrado me stessa.

EP: vedendo i tuoi lavori ho sempre avuto l’impressione che l’autobiografia sia un punto di partenza, un elemento portante: se è così in che modo diventa materia nel tuo lavoro artistico? e come riesci a distanziare un elemento così vicino e incandescente?
IR: Nei soli Strascichi e A loan è stata molto importante la scelta dei costumi e del trucco. Cerco di far venire fuori un’immagine sostanzialmente distante dall’ “irene quotidiana”. È un “mascheramento” che serve innanzitutto ad “ingannare” me stessa, altrimenti imbrigliata in drammi esistenziali a cui rimarrei appiccicata. In altre parole, cerco di mettere a punto un piano formale rigoroso – oltre ai costumi, la musica, la danza, le luci, i testi – che faccia da “filtro” e diventi esso stesso contenuto. In seguito cercherò di capire come un mio punto di partenza personale possa stimolare anche altre persone.

EP: Mi parli di Ebollizione? com’è nato? Quale è stata la genesi e la sua fortuna e quale è stata la sua importanza nel tuo percorso artistico?
IR: Ebollizione è nato da una spinta esterna, a creare qualcosa di mio. Io che da tanto ormai stavo stretta nei soli panni dell’interprete, ho messo nel pezzo diverse delle cose che già da tempo avrei voluto fare. Ebollizione è nato nella totale solitudine, non avevo ancora il coraggio di coinvolgere qualcun altro. ne è venuto fuori uno sfogo anche divertente ma al quanto acerbo.

EP: Parliamo di A Loan. da cosa nasce l’esigenza di affrontare questo viaggio nell’oscuro e nella debolezza? E in cosa consiste “il prestito”?
IR: Rifletto spesso su quanto non ci sia scelta nelle relazioni umane se non accettare le parti oscure di ciascuno per stare in dialogo con gli altri, in primis le persone che ci stanno più vicine, anche se non le “capiamo”. Ho voluto dialogare con queste parti oscure che sono giudizi, desideri, paure, intenzioni, ricordi e a cui ho dato il nome comune di “fantasmi” ; nel farlo mi sono ritrovata di passaggio su strade probabilmente già tracciate o da risolcare che, in sostanza, non sentivo di possedere. Le parole di alcuni sonetti di Shakespeare sono state il motore scatenante di tutto il lavoro perché risuonano profondamente in me, non avrei potuto trovare altre parole e quindi mi sono concessa questo prestito dal Poeta.

EP: A Loan mi è sembrato un lavoro molto meno istintivo rispetto a Strascichi o a Ebollizione, un lavoro molto ponderato, riflessivo, solido ma fluido, come se per affrontare l’oscuro tu abbia in qualche modo messo un freno alla tua vitalità esuberante, come se ci volesse più circospezione, più prudenza. é una considerazione che vorrei che tu possa commentare, se lo vuoi.
IR: Ho cercato di comporre una formula con i vari elementi, in un lavoro al cesello. Parlando di “ciò che c’è, anche se non si vede” (v. fantasmi della domanda precedente) non potevo liberare l’energia né avere un potere liberatore su chi mi guarda. I movimenti sono muscolari e compressi, la calotta nasconde i capelli, la luce e la musica sono ipnotici. Per parlare di assenza avevo bisogno di nascondermi un po’.

EP: Verso quali orizzonti ti sta portando la tua ricerca?
IR: Non mi pongo grossi limiti, per me la danza ha molti sensi e varie misure. E, in generale, ho molti desideri.