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Teatro e mondo digitale

PENSIERI SPARSI SU TEATRO, STREAMING E MONDO DIGITALE

In questi giorni mi è tornato in mente un libro di Isaac Asimov appartenente al Ciclo dei robot, Il sole nudo. In questo romanzo il detective umano Elijah Baley, accompagnato dal robot umanoide R. Daneel Olivaw, indaga su un omicidio sul pianeta Solaria. Tra la Terra e questa colonia spaziale non vi può essere maggiore distanza culturale: la prima vive sovraffollata, compressa, sotto cupole in immensi agglomerati di cemento e acciaio; gli abitanti di Solaria vivono invece isolati, in vasti appezzamenti, comunicando con gli altri solo tramite trasmissioni olografiche, rifuggendo non solo il tocco con un altro essere umano, ma persino il vedersi dal vivo se non per brevi e assolutamente gravi motivi. Tra due civiltà tanto distanti non sembrerebbe possibile la nascita di alcun dialogo, eppure il seppur breve contatto tra il terreste e i solariani cambia radicalmente i pregiudizi culturali di entrambi i popoli.

La distanza abissale tra la Terra e Solaria mi è sembrata assonante con la questione tanto dibattuta in questi giorni tra teatro e streaming o più in generale tra teatro e mondo digitale. Non potremmo immaginare arte più distante dall’asettico mondo etereo della rete eppure in questo periodo di obbligata e dolorosa distanza dai palchi di legno, il teatro sembra di necessità sbarcato sul web. Probabilmente questo incontro era inevitabile, forse addirittura necessario. Certa è l’irreversibilità delle conseguenze ora difficilmente calcolabili.

Alcuni potrebbero pensare che mai il teatro potrà prescindere dal contatto umano di una comunità riunita nel qui e ora dell’istante, per dibattere questioni civili, politiche etiche e morali; altri potrebbero dire che tale comunità si fosse ridotta a riserva indiana e che il web è una se non l’unica via d’uscita dall’isolamento. Quando si adotta una nuova tecnologia da sempre il dibattito si divide manicheo tra i sostenitori e i detrattori, pessimisti e ottimisti, luddisti e futuristi. La storia umana ci dice che quando si adotta uno strumento tecnologico non si torna indietro. Scoperta la stampa la pratica di confezionare libri da artigiani amanuensi per quanto non sparì andò il soffitta per sempre, così come il cellulare ha mandato in pensione le cabine agli angoli delle strade. Nell’adottare un nuovo strumento si guadagna qualcosa e si perde qualcos’altro. Bisogna essere consci di cosa si lascia e cosa si ricava. Non solo. Come afferma James Bridle: «Nel momento in cui creiamo uno strumento diamo forma a una certa interpretazione del mondo che, una volta reificata, è in grado di produrre un dato effetto su quel mondo. Diventa così un altro ingranaggio della nostra comprensione del mondo – per quanto spesso per via inconscia».

L’incontro tra teatro e mondo digitale quindi provocherà inevitabilmente una modificazione del concetto che l’arte scenica ha avuto per noi fino ad oggi. Possiamo decidere se controllare questo cambiamento o subirlo. L’adesione alla rete è avvenuta per il teatro in un momento di crisi totale. Potremmo quasi dire che l’arte scenica, come tutte le altre arti dal vivo, non ha potuto far altro trovandosi improvvisamente, a causa della pandemia, in un vicolo cieco.

Per quanto soprattutto la mia generazione, quella dei quarantenni, sia stata portata a considerare il web come una tecnologia neutra se non addirittura super democratica e antisistema (immensi archivi gratuiti, costi ridotti di promozione, accesso più o meno legale ma gratuito ai prodotti culturali e infine accesso alle notizie che i media tradizionali tendono ad occultare, per citare alcuni di questi cliché culturali), internet è tutt’altro che un luogo privo di pericoli. Bernard Stiegler usa la parola greca Pharmakon per riferirsi al web: veleno e medicina. Un luogo dunque di chiaroscuri in cui è bene avventurarsi sapendo quali rischi si corrono dal momento che il DNA teatrale sembra ormai innestato di fibre ottiche e bit digitali. Ne La mosca di Cronenberg quando Seth Brundle aziona il teletrasporto non sa che nella cabina c’è una mosca. La macchina di sua spontanea volontà non trasporta due esseri distinti ma mischia il loro DNA e se, in un primo momento, lo scienziato sperimenta grandi vantaggi, con il passare del tempo l’ibridazione lo porta alla morte.

Bernard Stiegler

La questione di un alleanza/connubio tra arti dal vivo e web è ovviamente di vasta portata e non sarà certo un articolo a dipanare una matassa quanto mai intricata. Ci limiteremo a indicare qualche percorso di riflessione.

Partiamo dall’ovvio: in teatro (come nella danza o nella performance) oltre all’incontro tra performer e pubblico nel qui e ora si opera anche un montaggio della visione unico per ciascuno spettatore. Il suo occhio è libero di incontrare sul palco quello che gli suscita maggiore curiosità, interesse, affezione, commozione. Nel semplice streaming come è stato fatto fino a oggi questo viene totalmente a perdersi. A imporsi è o una regia televisiva/cinematografica nelle produzioni più ricche o un semplice totale a camera fissa che replica il punto di vista centrale e appiattisce la visione per quelle più povere. Forse bisognerebbe trovare il modo di recuperare un modello di visione personale e unica prima di adattarsi unicamente allo stampo televisivo. Come fare? E qui sarebbe interessante una sperimentazione.

Ma non è solo una questione di spazio: il tempo del web è abissalmente più rapido e instabile di quello percepito in una esperienza artistica dal vivo. Per farsi un’idea empirica della questione basta vedere l’oscillazione di presenze nelle dirette Facebook o Instagram. Il tempo lento della presenza è in assoluto contrasto con il tempo rapido e discontinuo di internet. Persino l’on demand viene spesso spezzettato (il termine tecnico è “spacchettamento dei contenuti” es. Santa estasi di Antonio Latella, spacchettato in episodi come una serie TV) così perdendo lo sprofondarsi nel tempo dell’opera. La visione è distratta tanto quanto la lettura. Questo però non è necessariamente un male. Il jazz riadattò i tempi di esecuzione dei propri brani a quello dei 78giri e nelle esecuzioni dal vivo niente impedì il perpetuarsi di brani di ampio respiro. È dalla comparsa dei mezzi di riproduzione di massa che le arti si sono adattate e modificate.

Santa estasi Antonio Latella

Il principale pericolo per qualsiasi contenuto voglia sbarcare sul web è invece la logica computazionale, quella che Antoinette Rouvroy e Thomas Berns chiamano “la governabilità algoritmica della rete”. Tale criterio volto a quantificare più che a qualificare è figlio della logica neoliberista e di fatto ha già contaminato le modalità di accesso ai finanziamenti. Non si premia il progetto più interessante, meglio realizzato o più fecondo in una strategia a lungo periodo, ma quello che ottiene migliori valori e prestazioni quantificabili: numero di borderò, biglietti staccati, giornate lavorative, etc. Google, Facebook, Amazon e Apple, i cosiddetti “quattro cavalieri dell’apocalisse”, attualmente i veri padroni di internet, stanno implementando solo logiche computazionali che inevitabilmente modificano il nostro modo di pensare il mondo.

Stiamo esagerando? Pensate: quale ristorante scegliete su Tripadvisor? Quello con centinaia di recensioni o quello che ne ha solo una decina? Su Netflix scegliete d’istinto La casa di carta o la sconosciuta serie turca o indiana? Su Spotify di un gruppo che non conoscete, per farvi un’idea, non scegliete forse la canzone più gettonata? Siamo ormai influenzati a scegliere ciò che riscontra maggiori consensi senza troppo domandarci quali sono le ragioni e le radici di tale consenso. Nel mio paese, meta turistica per milioni di persone da tutto il mondo, con l’avvento di Tripadivsor i ristoratori, per protesta al nuovo mezzo che legittimava chiunque a interpretare la parte di Joe Bastianich, spinsero al primo posto in classifica un salumiere che faceva semplici panini al prosciutto!

Se la questione è la quantità vi sono molti modi per ottenerla, e soprattutto la logica computazionale è legata al culto del profitto e per questo tende ad eliminare le singolarità alla ricerca di ciò che incontra maggiormente i gusti dei potenziali utenti. Credete che questo non influenzi le arti? Epagogix è una società inglese incaricata dai maggiori produttori hollywoodiani di sviluppare delle reti neurali per dragare la rete e scoprire quali scene dei film vengano considerate migliori e più divertenti dal pubblico in modo da replicarne i risultati.

Se la rete offre indubbi vantaggi nella messa a disposizione degli archivi di teatri, festival e istituzioni, finalmente raggiungibili non solo dagli studiosi ma anche dai semplici appassionati, qualche dubbio si affaccia sulla questione in questi giorni molto dibattuta sulla reale possibilità di aumentare i pubblici raggiungendo fasce per ora restie a frequentare le sale teatrali. Come fa notare il già citato Bernard Stiegler gli algoritmi dei social e di Youtube mettono in relazione chi è già in relazione, chi già esprime inclinazione verso, il resto viene quasi totalmente escluso. Se guardo un video o ascolto un album dei Metallica difficilmente mi capiterà nei suggerimenti Tricky o Paul Kalkbrenner. Lo possiamo notare tutti semplicemente dando un’occhiata alla sezione “persone che potresti conoscere” sulle nostre pagine Facebook e constatare che quasi tutte fanno parte in qualche modo del nostro giro di interessi. Questa modalità è logica in un contesto neoliberista in cui quello che conta è vendere dei prodotti e dove quindi è necessario non mettere in evidenza le singolarità ma la maggior fetta possibile di interessati in base a preferenze già espresse. Se posto una foto di fiori è persino ovvio che gli algoritmi suggeriscano pubblicità e contatti con fioristi e vivaisti, ma nel caso di un oggetto culturale questa tendenza a settorializzare gli interessi non andrebbe a replicare la chiusura che già c’è nella realtà? Ricordiamoci che le macchine portano in sé i difetti dei loro costruttori, anche se a volte sorprendono per la libertà di prendere decisioni autonome.

Conseguenza di questo aspetto è quella che viene definita “delaminazione dei dati”. Un articolo scritto da un grande reporter con fonti verificate e verificabili, dagli algoritmi di ricerca viene accostato per assonanza a qualsiasi altro che riporti nell’indicizzazione simili o identiche catene di parole chiave. Tale prossimità comporta l’incapacità per la maggior parte degli utenti di distinguere la qualità delle fonti e delle notizie, cosa di cui si avvantaggiano gli inventori di fake news o chiunque sia interessato a confondere le acque. Per fare un esempio in campo teatrale Acqua di Colonia di Frosini e Timpano in chiaro sulla rete potrebbe essere tranquillamente accostata a video di apologia del fascismo o che inneggiano all’intolleranza e alla discriminazione razziale. Il pubblico si troverebbe a dover ricostruire un contesto e non sempre, come nel caso delle news, ne sarebbe in grado. Bisognerebbe cercare di avviare azioni a contrasto di questi meccanismi, verso una reale messa in relazione di ambiti diversi ma compatibili (pensiamo alle neuroscienze come a tutto il mondo dell’educazione per esempio). Un campo di sperimentazione fecondissimo sarebbe dunque quello di implementare strategie per ricostruire un’agorà di singolarità in un mondo digitale regolato dalla similarità e replicabilità.

Acqua di colonia Compagnia Frosini Timpano

Altra questione di cui tener conto è come far fronte al diluvio dei dati. Lope de Vega in Todos los ciudadanos son soldados scriveva: «quanti libri, quanta confusione!/Intorno a noi un mare di carta stampata/e per lo più piena di fandonie». I tempi cambiano ma le questioni restano. Viviamo oggi un periodo in cui il teatro e la danza sono affette da iperproduzione e questo proprio per il meccanismo dei finanziamenti pubblici e privati concepiti a partire da assunti economici neoliberisti. Come critico lo scorso anno ( ma è così da almeno cinque) ho assistito dal vivo a circa duecentottanta spettacoli in dieci regioni e due stati esteri, partecipando a ventotto festival, oltre alla partecipazione a svariate rassegne di teatri. Molto al di sopra della media nazionale dello spettatore medio e nonostante questo ho una ben parziale conoscenza di quanto venga effettivamente prodotto in questo paese. A volte diventa difficile scoprire nuove realtà o talenti emergenti proprio perché non si ha proprio la possibilità di vederli. In un passaggio sul web questo aspetto verrebbe portato a un eccesso difficilmente risolvibile aggravato dalle regole interne di internet: pageranking e tecniche SEO. Chi si avvantaggerebbe sarebbero ovviamente i soggetti con maggiori disponibilità di fondi da investire. I piccoli come sempre dovrebbero arrabbattarsi, oltre alla difficoltà di reperire il tempo per occuparsi della questione.

Per concludere questo breve quanto incompleto excursus parlare di un Netflix teatrale o di uno sbarco sul digitale come si parlasse della conquista di Marte dovrebbe essere accompagnato da una riflessione veramente approfondita delle modalità di ibridazione di teatro e mondo digitale. La necessità e il bisogno spesso fanno fare scelte foriere di conseguenze non sempre positive e, come appurato dalla storia, adottare uno strumento non solo diventa irreversibile ma modifica inevitabilmente il nostro modo di percepire e di pensare. È quella che gli i neuroscienziati chiamano neuroplasticità del cervello, ossia la capacità di riorganizzare i percorsi neurali a seconda degli stimoli provenienti dalla realtà. Plastiticità però non significa elasticità. Una volta adattato, il cervello non fa passi indietro. Lo sa qualunque ex fumatore.

La tecnologia esiste e non ha senso scagliarvisi contro o osteggiarla. Essa va utilizzata con coscienza, adattandola alle esigenze e alle necessità. Non bisogna subirla. Equivarrebbe a esserne schiavi. Sarebbe desolante dover constatare come Nicholas Carr che :«Lo schermo del computer dissipa i nostri dubbi con i suoi vantaggi e le sue ricompense che sembrerebbe ingeneroso osservare che è anche il nostro padrone».

Letture consigliate

Nicholas Carr Internet ci rende stupidi? Come la rete sta cambiando il nostro cervello, Cortina Raffaello, 2010

James Bridle Nuova era oscura, Produzioni Nero, 2019

Alfie Brown Capitalismo e Candy Crush, Produzioni Nero, 2019

Bernard Stiegler Il chiaroscuro della rete, Youcanprint, 2014

Yuval Noah Harari Ventuno lezioni per il XXI secolo, Bompiani, 2018

Mark Fisher Realismo Capitalista, Produzioni Nero, 2018

Jean Baudrillard Cyberfilosofia, Mimesis, 2010

Jean Baudrillard La scomparsa della realtà, Fausto Lupetti editore, 2009

Simon Sellars Ballardismo applicato, Produzioni Nero, 2019

www.arsindustrialis.org

Frosini/Timpano

CARNE di Compagnia Frosini/Timpano

Lunedì 11 giugno al Teatro Vittoria di Torino è andato in scena, per la rassegna Play With Food, Carne di Frosini/Timpano da un testo di Fabio Massimo Franceschelli prodotto da Gli Scarti e Kataklisma Teatro.

Carne è un’ironica interrogazione in forma di dialogo tra una coppia. Lei vegetariana, forse vegana, e lui vorace carnivoro. La discussione si avvia a partire da queste due posizioni opposte ma gradualmente sonda ed esplora anche angoli più nascosti e scomodi della questione.

Quando la carne diventa oggetto è perché è toccata dalla morte. Il cadavere è non più vivo, resta materia inerte, sfruttabile, vendibile. “Vivo – momento – oggetto”, come dice la donna. Cosa avviene in quel momento che sta tra la vita e la pura materialità dell’oggetto?

Kantor diceva che il teatro parla sempre della morte e questo è particolarmente vero per Carne di Frosini/Timpano. La carne attira su di sé il desiderio di vita, di piacere, d’amore, ma è anche pulsione di morte quando diventa cibo, merce da mercato. La faccenda si fa anche più complicata quando appare chiaro come i due aspetti diventino via via intrecciati e indistinguibili.

Frosini/Timpano sono artisti raffinatissimi nel costruire il loro teatro su questi nuclei incandescenti che suscitano prese di posizioni forti, spesso venate di pregiudizio, aprioristiche, attanagliate da fideistiche posizioni politiche, e che svolti e dipanati presentano grovigli ancora più intricati di polarità contrapposte.

La donna per esempio per quasi tutta la performance è vegetariana convinta ma quando si scopre incinta e anemica, ecco che spinta dal medico, diventa improvvisamente carnivora. Cambia il contesto e l’egoismo spinge a mutare schieramento.

La carne diventa campo di battaglia e per quanto si sorrida si scopre che su questo terreno la nostra civiltà ha poggiato fragili fondamenta fin dall’epoca più ancestrale. Come sottolinea più volte Harari, ma anche Calasso o Girard nei loro scritti, non siamo animale nato onnivoro. Ci siamo trasformati da preda erbivora in predatore carnivoro per imitazione. Siamo balzati in cima alla catena alimentare per volontà non per natura.

Nel sacrificio della carne gli antichi si sono interrogati. La tragedia nasce dal sacrificio del capro espiatorio, la carne bruciata e il sangue versato che scongiurava il male e la sciagura.

Frosini/Timpano, in questo lavoro, sollevano il tappeto sotto cui abbiamo nascosto le magagne intorno alla carne. Si interrogano attraverso la loro modalità sempre venata di comicità astuta, tagliente come un bisturi, sapiente in quanto forma di riflessione, sulla carne e sui pregiudizi di ogni lato e colore politico che gravano sulla questione e non illuminano ma nascondono il vero problema: la morte,

Frosini/Timpano sono due artisti che da sempre mi affascinano per questa loro capacità di mettere con sapienza il proverbiale dito nella piaga. Sia Acqua di colonia, dove in campo c’era il nostro passato coloniale e l’idea che noi italiani ci siamo costruiti di noi stessi e del nostro vergognoso passato; sia in Dux in scatola, dove il corpo del duce morto apre inquietanti scenari sul nostro dopoguerra e il modo in cui abbiamo sanato le ferite aperte dalla dittatura e la guerra civile; sia in Aldo Morto, dove il rapimento Moro viene analizzato senza falsi pietismi per illuminare quanto il fatto di cronaca abbia scosso il nostro immaginario e cambiato la nostra politica.

Frosini/Timpano non hanno paura alcuna di sollevare il vaso e scoprire i vermi che s’agitano al di sotto senza sosta e questo a costo di sembrare scomodi, politicamente scorretti.

Quello che fanno Frosini/Timpano è una messa in crisi costante delle narrazioni che come italiani ci siamo costruiti per fondare questo paese. E una narrazione non è mai veritiera, è sempre un romanzo fatto spesso dai vincitori, in cui si forza la storia per creare una storia.

La domanda che pongono Frosini/Timpano è: quanto sono state inquinanti quelle narrazioni? Quanta verità è stata nascosta perché ci si formasse l’idea che abbiamo di noi stessi? E quanto le nostre posizioni e idee sono corrotte dalle narrazioni che sorgono continue intorno a noi?

Ritornando ad Harari: come specie ci siamo distinti proprio per la capacità di costruire racconti e termini inesistenti proprio per unificarci al di là del piccolo branco. Abbiamo costruito civiltà, imperi e nazioni su concetti illusori: non ci sono frontiere, non ci sono razze, non ci sono nazioni. In quanto termini fallaci non contengono verità, sono tutto e niente, ogni posizione a favore o contro un argomento è costituita da polvere.

Frosini/Timpano ci fanno esperire la polvere, e lo specchio limpido che è nascosto sotto di essa.

Ph: @Emanuela Giusto

Acqua di colonia

ACQUA DI COLONIA INTERVISTA A ELVIRA FROSINI E DANIELE TIMPANO

Enrico Pastore: Come è sorta in voi l’esigenza di occuparvi della sventurata avventura coloniale italiana?

Elvira Frosini: È iniziata un paio di anni fa perché è un argomento tanto sconosciuto. La parola giusta è rimosso. Ci occupiamo spesso di storia ma sempre in funzione del presente, di come la storia ha determinato quello che stiamo vivendo, e ci siamo resi conto di come questo argomento fosse sconosciuto. Anche noi stessi ne sapevamo poco. E abbiamo capito che era un argomento che in qualche modo era stato volutamente messo da parte e non portato alla luce di una coscienza nazionale. Ci siamo subito messi a studiarlo e dal primo momento lo abbiamo messo in relazione con il presente, con queste migrazioni, che non sono direttamente e meccanicamente un prodotto del colonialismo, ma sono comunque strettamente ad esso legate. Abbiamo quindi riscontrato che la posizione scomoda in cui ci troviamo tutti quanti nell’affrontare l’altro che arriva, è in che posizione mettersi e cosa pensare, soprattutto in Italia, e questo deriva dal fatto che non abbiamo quasi coscienza di cosa è avvenuto prima di noi. Della nostra storia e della loro storia. Fondamentale è stato anche l’incontro con Igiaba Scego e la lettura del suo Libro Roma negata che ci ha aperto gli occhi sull’argomento. Il libro contiene anche numerosi documenti fotografici di Rino Bianchi su Roma e su tutte le tracce nell’urbanistica romana che riguardano l’epoca coloniale sia di epoca fascista, quella più conosciuta, sia di quella dell’epoca precedente. Ci siamo resi conto quindi che noi tutti viviamo immersi in questi segni ma non li vediamo perché non li conosciamo. Siamo partiti quindi dall’assunto: nessuno conosce niente. Si studia pochissimo e male a scuola, non ci si interroga veramente sulle conseguenze, insomma è un argomento, ripeto, rimosso. Così abbiamo incominciato a leggere, a studiare per un paio d’anni. Studio non solo storico, ma comprensivo del panorama culturale.

EP: Acqua di colonia infatti è uno spettacolo che utilizza una enorme quantità di materiali provenienti da ambiti culturali diversi: dall’avanspettacolo, al fumetto, alla ricerca storica, una commistione di cultura alta e bassa. Come avete proceduto alla selezione e al montaggio di questo materiale?

EF: Questa è una bella domanda. Noi abbiamo accumulato, come hai già detto, una quantità enorme di materiale di tutti i tipi, dalla barzelletta al libro di storia, dalla pubblicità al romanzo, al fumetto, alla canzone. Poi ci siamo resi conto che il materiale era sterminato e che era necessaria una decantazione e, in seguito, una selezione dei materiali. Tu hai visto abbiamo usato canzoni come Sanzionami questo, Adua liberata, Topolino in Abissinia, ma ce n’erano molte altre. Abbiamo selezionato quelle che più rispondevano al nostro discorso, che rendevano la direzione verso cui stavamo andando. Dobbiamo dire che lo spettacolo ha due intenzioni principali: la prima è fare una sorta di riassunto storico, che abbiamo voluto tenere, perché abbiamo constatato che nessuno ne sa niente, una parte quindi leggermente didattica benché fatta in una certa maniera; dall’altra c’era l’intenzione di sfatare la vulgata comune che il colonialismo è stato solo fascista, e invece ha attraversato tutta la nostra storia dall’unità d’Italia. Il colonialismo italiano non è stato solo Mussolini e l’Etiopia ma qualcosa che ci è appartenuto da subito. Volevamo quindi rendere chiaro da subito questo punto. Tripoli, bel sol d’amore del 1911 è importante, l’abbiamo messa per questo motivo. Marchiamo una differenza di percezione oggi tra questa canzone e Faccetta nera, quest’ultima innominabile perché fascista, Tripoli no. Tripoli la possono cantare e suonare tutti, anche la banda dei Bersaglieri, come canzone patriottica quando invece è una canzone colonialista d’aggressione. Il rimosso dentro il rimosso. I materiali quindi sono venuti a galla piano piano, abbiamo ridotto, tagliato, condensato. Abbiamo tenuto quei materiali che si avvicinavano al discorso che volevamo fare, da Topolino in Abissinia al discorso di Montanelli fino a Pasolini, avvicinandoci gradualmente all’oggi. Perché nel nostro spettacolo c’è sì il colonialismo passato ma anche la domanda: oggi cosa siamo? Perché quel pensiero eurocentrico, occidentale centrico di superiorità, di paternalismo è insito in noi ancora oggi in maniera più o meno inconsapevole.

EP: In che modo è avvenuta la costruzione scenica di Acqua di colonia?

EF: le immagini nascevano durante la scrittura. Come hai visto la prima parte è più un evocare, un’evocazione, se vuoi, anche postdrammatica, – faremo questo, non sappiamo niente e così via -, e non a caso questa prima parte è chiamata zibaldino africano, in cui appunto evochiamo cose che c’entrano e magari anche cose che apparentemente non c’entrano come la torta africana dall’artista svedese di origine africana Makode Aj Linde. In questa prima parte è come se noi facessimo un disegno, uno schizzo a matita, e poi nella seconda parte lo coloriamo, lo rendiamo vivo, lo incarniamo. Mettiamo in scena alcune delle cose che abbiamo evocato nella prima. La messa in scena della seconda è avvenuta durante la scrittura, poi è chiaro che nelle prove si ritocca, si taglia, si cambia. Anche il testo stesso perché quando lo incarni nascono altre esigenze non pensate durante la scrittura. Ci sono anche molte scene che abbiamo tagliato, tipo quella della stele di Axum che parlava diventando personaggio. Avremmo potuto fare anche Audrey Hepburn e Bob Marley che evochiamo solo nella prima parte. La seconda parte quindi è un’incarnazione, una realizzazione nel vero senso della parola, della prima parte. La facciamo accadere e scivoliamo dentro questi piccoli personaggi. Queste evocazioni diventano noi e noi diventiamo loro. In questo senso abbiamo voluto fare intendere che tutti, noi compresi, noi per primi, siamo dentro il problema. Acqua di colonia non è uno spettacolo che ha una tesi da dimostrare. Spero che emerga che c’è tutta una complessità che non è facilmente districabile, che anche nel politically correct c’è una buona dose di paternalismo. Non è quindi tutto bianco e nero, semplice semplice. Noi stessi per primi siamo in questa complessità.

EP: In Acqua di colonia ho apprezzato tantissimo la vostra abilità di mettere il pubblico di fronte ai propri pregiudizi, per esempio quando li invitate a cantare Faccetta nera, che tutti conoscono almeno per le prime due rime, ma che nessuno osa cantare; o quando mettete a raffronto il numero Angeli negri di Tognazzi/Angus con la replica Pasolini/Davoli. É senz’altro una modalità scomoda e difficile, ma anche utilissima perché toglie i veli alle nostre bugie consolatorie. Come siete giunti a mettere in atto questa modalità?

EF: In realtà questa modalità fa proprio parte del nostro percorso e del nostro linguaggio. Anche negli spettacoli precedenti utilizziamo questo metodo che fa parte del nostro modo di scrivere e pensare il teatro. Un modo in cui sia l’attore che lo scrittore non sono depositari di una verità da rivelare allo spettatore, semmai sono in una posizione pari allo spettatore incarnando tutta una serie di contraddizioni. Anche negli spettacoli precedenti come Aldo Morto e Zombitudine ci sono sempre queste piccole deflagrazioni di posizioni sia metodologiche che attoriche. Ci mettiamo in posizioni talmente diverse che non è chiaro se siamo noi che parliamo o il personaggio, e questo obbliga lo spettatore a porsi la domanda: ma io cosa penso? Pasolini per esempio che appare in Acqua di colonia. Pasolini è un grande intellettuale del nostro tempo, un intellettuale che è stato sottoposto a un processo di santificazione, quasi di mercificazione, ecco anche in lui, anche nel nostro pensiero migliore è presente la contraddizione. Le radici di queste posizioni paternalistiche sono presenti anche nei migliori intellettuali, quindi stiamoci attenti, guardiamole bene, le usiamo anche noi quando parliamo o quando pensiamo. Se non ci rendiamo conto di questo è una cosa, ma se cominciamo a vederla allora magari si apre uno spiraglio verso qualcosa di diverso.

EP: Qual è secondo voi la funzione dell’evento scenico nel nostro contesto culturale e sociale? Dove e in che modo acquista importanza incontrare il pubblico?

EF: Questa è una domanda da un milione di dollari. Una domanda difficilissima. Noi ce la poniamo tutti i giorni e non è che abbiamo una risposta. Abbiamo la nostra risposta. Secondo noi la funzione non è tanto quella di sovvertire o cambiare il reale, anche perché oggi il teatro è talmente una nicchia che non riguarda masse di spettatori tali da poter operare un cambiamento nella società. Parliamo di piccole folle. Però questo incontro dal vivo con le persone è, secondo noi, una delle poche cose rimaste che accade realmente. Per noi il teatro è mettersi nella stessa condizione dello spettatore, che per noi è sempre presente. Non lavoriamo senza l’idea di uno spettatore che ti sta ascoltando. Il teatro è fare accadere delle cose che ci riguardano. Se c’è ancora una funzione è proprio questa: far accadere delle cose, ma cose che ci riguardano. Qualcosa che ci parla, che dialoga, che ci fa venire in mente un desiderio o un dubbio. Sono d’accordo con te: la domanda sulla funzione bisogna tornare a porsela, soprattutto in questo momento di depauperamento della cultura. Oggi sentendo la notizia di Armando Punzo che abbandona il Festival di Volterra ho pensato: verso cosa stiamo andando? Fra qualche anno che panorama avremo intorno a noi?

Daniele Timpano: volevo aggiungere una cosa. In questa Italia dove la fruizione culturale e dell’informazione appare sempre più o calata dall’alto, o delegata all’individuo che in maniera sempre più frammentaria, individuale, secondo la propria curiosità, ricostruisce delle informazioni, ecco in mezzo a queste due polarità, mi pare che il teatro sia uno dei pochissimi posti dove rimane in vita quello che un tempo si chiamava diritto di associazione. Parlo proprio delle prime costituzioni e carte dei diritti di fine Settecento. Ecco il teatro secondo me è depositario di queste modalità.

Acqua di colonia

ACQUA DI COLONIA di Frosini e Timpano

Ogni nazione costruisce un’immagine di sé lontana dalla realtà, un’immagine in cui vengono rimossi con perizia tutti gli elementi ombrosi che possano sporcarla o appannarla. Un’immagine falsa e rassicurante che lava la coscienza e serve alla propaganda. Per l’Italia questa immagine è costituita della frase: italiani brava gente! In Acqua di colonia del duo Frosini e Timpano si smonta con graffiante e impietosa ironia questa falsa immagine: nelle colonie dell’Africa Orientale l’Italia ha commesso i suoi peggiori crimini di guerra. Il massacro di Sciar al Sciatt, lo sterminio e deportazione delle truppe del Muktar, l’uso dell’iprite e del fosgene in Etiopia, il massacro di Debra Libanas, i bombardamenti degli ospedali della croce Rossa. L’elenco sarebbe lungo e non ha senso riportarlo qui, basta un piccolo accenno però a far intendere quanto poco realistico sia il motto: Italiani brava gente.

Ce lo siamo costruiti poco a poco, soprattutto per distinguerci dai cattivi nazisti tedeschi nostri alleati. Noi non le abbiamo mica fatte le porcate, eravamo i buoni dalla parte sbagliata. Non è così. Appena riconquista la libertà dall’occupazione Austroungarica ci siamo lanciati nell’avventura coloniale. Il passaggio da oppressi a oppressori si consuma in appena 8 anni nel 1869 con l’acquisto dall’armatore Rubattino della baia di Assab e si conclude nel 1960 quando a Mogadiscio viene ammainata la bandiera italiana e la Somalia torna a essere unita. Quasi cento anni di occupazione coloniale eppure nessuno, o quasi, lo ricorda.

Acqua di colonia di Frosini e Timpano mette in luce anche il secondo aspetto insito nel motto: la rimozione del ricordo di essere stati colonialisti. In fondo non siamo mica la Francia o l’Inghilterra. Eppure lo siamo stati, abbiamo aggredito popoli che nulla avevano fatto contro di noi, li abbiamo occupati e sfruttati, abbiamo compiuto atti criminali che ci siamo sempre rifiutati di far giudicare, compiuto stupri, massacri, deportato popolazioni, gasato i nemici. Documento sconcertante è Topolino in abissinia (per chi volesse o non credesse ecco il link su Youtube https://www.youtube.com/watch?v=n8xsJMJG1Ho ), dove il volontario Topolino sbarca in Abissinia con il gas nella borraccia e il mitragliatore sulle spalle, pronto a uccidere negri e inviarne la pelle ai suoi che stanno a casa.

La scuola non tratta se non di sfuggita la questione, dalla storia patria i fatti son rimossi, arriviamo addirittura a intitolare a Graziani, macellaio degli arabi, un mausoleo ad Affile nel 2012! Eppure le nostre vie, le nostre strade conservano la memoria: a Roma via dell’Ambaradan, piazza dei 500 (quelli uccisi dagli etiopi, perché le abbiamo anche prese in Etiopia), quartiere Africano a Roma, e qui a Torino piazza Massaua, piazza Bengasi. Ma chi sa dove si trovano questi posti? E siamo al terzo punto della questione: siamo ignoranti della nostra storia, e ignoranti della geografia della nostra storia. E questa ignoranza ci porta al quarto e ultimo punto: oggi, quando in parlamento si parla di Ius soli, quando si tratta di decidere se il figlio di un immigrato nato in Italia debba o meno essere considerato italiano, quando sulle nostre coste arrivano i barconi carichi di immigrati, ci ritroviamo a essere molto lontani dal concetto di: italiani brava gente. Siamo ignoranti e razzisti, e ci nascondiamo dietro a mille misere scuse: c’è la crisi, non ce n’è per noi italiani figurati per questi e così via.

Questi in sunto i punti toccati da Acqua di Colonia di Frosini e Timpano utilizzando ogni genere di materiali dalla cultura alta a quella bassa, dal fumetto (il già citato Topolino in Abissinia), alla rivista (il numero di varietà di Tognazzi/Angus Angeli negri che costituisce il tormentone dello spettacolo), Faccetta nera e l’Aida, Buti e Di Stefano. Si inizia ricordandoci che Adua o Massaua non sappiamo neanche dove siano, ma che ce frega poi? Si domanda. È roba vecchia, perché dovremmo sentirci in colpa? Perché siamo colpevoli noi adesso di quello che è stato fatto allora? Però in fondo affiora la verità: siamo colpevoli perché rimuoviamo, perché reiteriamo gli atteggiamenti.

E così il duo Frosini e Timpano si chiede come raccontarci gli italiani in Africa Orientale e si incomincia ad immaginare la scena: potremmo riempire il palco di animali di peluche, giraffe, rinoceronti, tutti morti e noi entriamo in scena con un bel controluce giallo e le maschere antigas con le orecchie di Topolino, prendiamo ‘sti peluche, li mettiamo nel sacco nero, e ce ne andiamo, il tutto mentre Di Stefano canta Addio, sogni di gloria. Questa sarà l’immagine che chiude lo spettacolo, ma per il momento continua la ridda di soluzioni immaginarie su come raccontare l’Africa degli italiani. E ci si accorge che sulla scena c’è anche una donna di colore, seduta su uno sgabellino, muta presenza a ricordare il rimosso.

E dopo tanto immaginare si incomincia utilizzando un sapiente montaggio delle attrazioni e si costruisce una narrazione che demolisce pezzo a pezzo la menzogna, le difese culturali, i miti intellettualistici: e per far questo compaiono in scena Ninetto Davoli e Pasolini, quasi a replicare il tormentone di Angeli Negri; e Stanlio e Ollio, Indro Montanelli che racconta della sua sposa somala di dodici anni. Spassosissimo il momento in cui frasi di triviale razzismo si scopre essere state pronunciare sia dal barista sotto casa, o dalla cugina, ma anche da Kant, Hegel e Benedetto Croce, perché il razzismo è condiviso, non risparmia nessuno.

Acqua di colonia di Frosini e Timpano è un portento ironico che con l’arma del dileggio stralcia il velo pietoso delle menzogne patrie su una delle pagine più nere della nostra storia. Ma l’ironia, come nel bellissimo Train de vie, arriva giusto a un passo dal traguardo. Il finale dei due Topolino con la maschera antigas in controluce giallo mentre Di Stefano canta Addio, sogni di gloria, è atroce e terribile, e ci ricorda che per quanto ci possiamo ridere sopra abbiamo commesso crimini orribili. Non siamo brava gente, ricordiamolo sempre.