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Inferno di Roberto Castello

L’INFERNO SECONDO ROBERTO CASTELLO

Per descrivere l’inferno immaginato da Roberto Castello potremmo utilizzare una apodittica sentenza di Baudelaire: «È l’immagine variegata della bellezza equivoca». La frase era riferita al lavoro di un illustratore, Costantine Guys, oggi pressoché sconosciuto. Baudelaire riconosceva a costui la modernissima capacità di cogliere lo spirito dell’epoca in schizzi di vita da strada o di bordello, tra vicoli e case chiuse, sul confine in cui l’inaccettabile andava a braccetto con il rispettabile. Roberto Castello in Inferno ha questa rara capacità. In poche scene ci catapulta in un luogo affascinante e brillante pur nella sua mediocrità. Ci divertiamo all’inferno. Ci rimaniamo volentieri, ridendo, felici. C’è tutto quello che serve: la nostra idea di quotidianità, di cultura, di spettacolo.L’inferno non è quindi né metafisico né ultraterreno, non ci aspetta alla fine della vita, e le nostre anime non saranno pesate né giudicate da nessun Minosse. Non è nemmeno l’inferno della guerra, o della miseria, o della criminalità, benché li presupponga. L’inferno di cui si parla è quello di cui siamo coautori, quello che creiamo volenterosi ogni giorno, contenti, come Cypher in Matrix, di gustare una bistecca buona quanto finta.

Inferno di Roberto Castello Ph:@ Giovanni Chariot

Infernodi Roberto Castello è niente più che un vecchio specchio in cui mirare noi stessi, uno specchio andato un po’ fuori moda da quando il teatro non è più l’occhio che guarda il mondo, ma si manifesta, per lo più, come spazio di esposizione di sé. Quei personaggi sciabattanti e sciatti, coi visi e i corpi distorti da boccacce e pose innaturali, quelle cocottes felici e raggianti di essere sotto al riflettore, quindi, non siamo altri che noi.L’Inferno se privo di diavoli è però colmo di immagini, ma come nella caverna di Platone, esse risultano solo ombre di una verità, invisibile a noi, incapaci some siamo, a volgere lo sguardo verso l’uscita, tanto il luogo di proiezione è pieno di confort e attrazioni. Il gioco di ombre è formato da due livelli pronti a incastrarsi perfettamente: la danza energica, nervosa, espressiva, gioiosa e multiritmica e una videoanimazione sul fondale. Questa non è mai un semplice sottofondo o una carta da parati, ma un elemento dialogante e significante, in molti luoghi divertente.

Inferno di Roberto Castello ph:@ Cosimo Trimboli

Tre alberi spogli su una collina illuminati solo da uno scoppio di fuoco di artificio, un deflagrare unico e ripetuto come rintocco di campana a morto. Gli alberi risuonano e costituiscono il primo ambiente sonoro. Il cielo è nero ma man mano sorge una pallida alba abitata da corvi e un grande frigorifero rosso. Si passa poi in una galleria d’arte in cui le opere sono astruse ed esposte come in un supermercato, e osservate da strani hipsters. Presto la situazione si agita, la danza si anima, e il cane di Jeff Koons insegue un uomo di marmo. Ovviamente in questa pletora di icone non poteva mancare l’arte e la cultura, bersagliata bonariamente per la sua autoreferenza.

Questi sono due piccoli esempi, senza andar troppo a svelare e peccare di spoileraggio. Servono solo a far comprendere il clima di uno spettacolo che va visto e goduto, per la capacità di farci sorridere della nostra civiltà ormai declinante e sciocca. Non ci sono accuse né giudizi, solo le immagini. Possiamo dialogarci, respingerle, se vogliamo persino ignorarle. Dobbiamo farci i conti se vogliamo comprendere noi stessi. Possiamo però anche tranquillamente goderci lo spettacolo, divertirci e sorridere, e fermarci al primo livello di lettura.

Roberto Castello possiede infatti questa grande qualità; la capacità di sapersi rivolgere a qualunque tipo di pubblico. Nessuno rimane escluso ed è inoltre libero di cogliere ciò che vuole, secondo la sua personalissima capacità di vedere.L’Inferno è dunque accogliente. Non respinge nessuno. Non necessita di esorcismi. Ne facciamo già parte, intelligenti e colti, colpevoli e innocenti. Da un bel pezzo. E la cosa non ci dispiace affatto.

INFERNO

visto al Teatro Astra di Torino il 13 aprile 2022

Coreografia: Roberto Castello/in collaborazione con Alessandra Moretti/danza Martina Auddino, Erica Bravini, Jacopo Buccino Michael Incarbone, Riccardo De Simone, Susannah Iheme, Alessandra Moretti, Giselda Ranieri

musica Marco Zanotti in collaborazione con Andrea Taravelli/Fender rhodes Paolo Pee Wee Durante/luci Leonardo Badalassi/costumi Desirée Costanzo/consulenza 3D Enrico Nencini/mixaggio audio Stefano Giannotti/mastering audio Jambona Lab

un ringraziamento a Mohammad Botto e Genito Molava per il prezioso contributo una coproduzione ALDES, CCN – Centre Chorégraphique National de Nantes, Romaeuropa Festival, Théâtre des 13 vents CDN – Centre Dramatique National Montpellier, Palcoscenico Danza – Fondazione TPE

e con il sostegno della Rassegna RESISTERE E CREARE di Fondazione Luzzati Teatro della Tosse, ARTEFICI.ResidenzeCreativeFvg / ArtistiAssociati

con il sostegno di MIC / Direzione Generale Spettacolo, REGIONE TOSCANA / Sistema Regionale dello Spettacolo

Durata 75′

Giselda Ranieri

LO STATO DELLE COSE: INTERVISTA A GISELDA RANIERI

Con la nona intervista per Lo stato delle cose questa settimana incontriamo Giselda Ranieri, danzatrice e coreografa ligure di nascita, giramondo per scelta. Abbiamo posto anche a lei le cinque domande su temi importanti quali creazione, produzione, distribuzione, funzioni della scena e rapporto con il reale. Lo scopo di questi incontri è di raccogliere le idee e i pensieri di chi oggi è protagonista della giovane ricerca scenica e cogliere dalle risposte alcune linee guida sugli strumenti necessari per un vero rinnovamento nonché le possibili coordinate verso la scoperta di nuovi paradigmi e funzioni per il teatro inteso nel suo senso più ampio del termine.

Giselda Ranieri è autrice associata ALDES, specializzata nell’instant composition e creatrice di lavori caratterizzati sempre dalla commistione dei linguaggi del corpo. Tra i suoi lavori ricordiamo T.I.N.A e HO(ME)_ PROJECT.

D: Qual è per te la peculiarità della creazione scenica? E cosa necessita per essere efficace?

Mi vengono in mente diverse cose: la presenza viva di corpi performanti, ossia con un tipo di presenza più consapevole rispetto al quotidiano; la compartecipazione a un evento che essendo human based sarà sempre diverso anche nella ripetizione (ma forse questo vale anche per un concerto rock!); l’essere fondato e focalizzato sul processo di ricerca prima che sul risultato.

Per essere efficace deve avere senso prima di tutto per chi la fa questa creazione: avere un valore di scoperta, di conoscenza, deve spostare, modificare qualcosa prima di tutto nell’autore. Intendo efficace come significante.

Penso che l’efficacia di una creazione sia qualcosa di delicato che si rivela piano piano nel farsi processuale per poi palesarsi pienamente solo dopo un po’ di tempo, attraverso un lavoro di fino, di cesello, anche attraverso le repliche. Efficace è qualcosa che dice senza bisogno di troppe parole, che agisce e segna senza bisogno di essere mostrato, che arriva al corpo di chi guarda in modo diretto. Quando si parla di gesto efficace, ad esempio, anche in senso comune, si intende quel gesto che impiega la giusta (misurata all’obiettivo) dose di energia: né più, né meno. Personalmente lo trovo col molto lavoro soprattutto in fase di processo creativo e grazie alla precisione della messa a punto dello spettacolo. Riconosco l’efficacia di una creazione scenica quando tutto mi sembra nel posto giusto, al momento giusto: quando c’è una certa musicalità al di là della specificità del linguaggio utilizzato.

D: Oggi gli strumenti produttivi nel teatro e nella danza si sono molto evoluti rispetto solo a un paio di decenni fa, – aumento delle residenze creative, bandi specifici messi a disposizione da fondazioni bancarie, festival, istituzioni -, eppure tale evoluzione sembra essere insufficiente rispetto alle esigenze effettive e deboli nei confronti di un contesto europeo più agile ed efficiente. Cosa sarebbe possibile fare per migliorare la situazione esistente?

Più investimenti nel settore spettacolo? Migliore utilizzo delle risorse esistenti? Più coraggio negli investimenti? La ricomparsa dei mecenati? A parte scherzi (mi riferisco all’ultima sparata!), sicuramente maggiori risorse economiche sarebbero d’aiuto per tutti gli interlocutori coinvolti. All’estero capita non di rado di trovare un giovane coreografo (giovane qui inteso anche in senso anagrafico) sostenuto almeno in parte da un teatro stabile o in residenza presso prestigiosi istituti culturali. Forse manca anche un po’ di coraggio o presa di responsabilità da parte di alcune istituzioni nell’investire in progetti o artisti che non rappresentino già una garanzia di successo.

Penso anche che un lavoro congiunto tra i diversi luoghi di produzione e strumenti produttivi potrebbe agevolare molto non solo l’avvio di nuove creazioni, ma anche il loro sviluppo e consolidamento.

Credo infatti che la questione principale non sia più tanto iniziare una creazione per cui effettivamente ci sono diverse opportunità, quanto piuttosto la capacità di sostegno allo sviluppo successivo di questi progetti e alla loro compiuta realizzazione.

D: La distribuzione di un lavoro sembra essere nel nostro paese il punto debole di tutta la filiera creativa. Spesso i circuiti esistenti sono impermeabili tra loro, i festival per quanto tentino di agevolare la visione di nuovi artisti non hanno la forza economica di creare un vero canale distributivo, mancano reti, network e strumenti veramente solidi per interfacciarsi con il mercato internazionale, il dialogo tra gli indipendenti e i teatri stabili è decisamente scarso, e prevalgono i metodi fai da te. Quali interventi, azioni o professionalità sarebbero necessari per creare efficienti canali di distribuzione?

Non credo che in quanto artista sia la persona più adatta per rispondere a questa domanda; forse bisognerebbe chiedere direttamente a un distributore riguardo alle carenze del “sistema”…ecco, forse, prima di tutto l’assenza di un sistema integrato tra competenze e ruoli.

Partirei forse da qui: col potenziamento, la cooperazione e il coordinamento del lavoro delle strutture e delle professionalità già esistenti.

Non sono più una novità le soluzioni creative che gli artisti hanno trovato nel tempo per supportarsi vicendevolmente. Ne è un esempio, la creazione di gruppi ombrello capaci di sostenere economicamente un ufficio – ossia diverse professionalità al servizio dell’artista – attraverso l’unione e la condivisione del lavoro di più autori.

Ed esiste già, per quanto riguarda la danza a livello nazionale, una rete di strutture che condivide una rosa di proposte di spettacoli abbassando i costi di circuitazione. Ma è principalmente rivolta ad autori con meno di 5 anni di produzione alle spalle. Un buon esempio da sviluppare ulteriormente.

Potrebbe poi essere fortificata la presenza di operatori di settore sempre più in contatto con le istanze degli artisti indipendenti o di quelli non strutturati. Proprio per la scarsità di risorse, spesso un artista non ha la possibilità di permettersi il supporto di figure specifiche quali quella di un distributore. Se da un lato è giusto che noi artisti per primi siamo responsabili e soggetti attivi del nostro fare artistico, è anche vero che non tutti nasciamo con uno spiccato piglio imprenditoriale ed economico (probabilmente si sarebbero fatte altre scelte nella vita) e sarebbe più corretto che ognuno potesse optare se essere una figura unica “tutto fare” o se scegliersi i giusti collaboratori con cui condividere esperienze e progettualità.

In Europa figure di questo genere esistono già o, per meglio dire, la iper-specializzazione non sembra essere sinonimo di competenza, ma forse, a volte, di chiusura e viene spesso incentivato il deragliamento delle competenza: coreografi-dramaturg, ricercatori universitari-danzatori-scrittori, danzatori-scrittori di danza…

Forse, più che di figure iper-specializzate ci sarebbe bisogno di professionalità ibride in grado di declinare il proprio carnet di competenze a seconda del progetto o dell’artista a cui si dedicano.

D: La società contemporanea si caratterizza sempre più in un inestricabile viluppo tra reale e virtuale, tanto che è sempre più difficile distinguere traonlineeoffline. In questo contesto quali sono oggi, secondo la tua opinione, le funzioni della creazione scenica che si caratterizza come un evento da viversi in maniera analogica, dal vivo, nel momento del suo compiersi, in un istante difficilmente condivisibile attraverso i nuovi media, e dove l’esperienza si certifica come unica e irripetibile ad ogni replica?

Siamo certamente immersi in una realtà anche virtuale e la cosa poco interessante è che non ne conosciamo neppure gli utilizzi migliori o più creativi….ma questo è un altro discorso.

Sono convinta che oggi, più che mai, l’esperienza live, in presenza, sia qualcosa di non sostituibile e di effetto, soprattutto quando si ha occasione, come pubblico, di essere abbastanza vicino al performer: la visione di un corpo reale sulla scena (che respira, suda, si muove) può essere impattante anche a livello emotivo, ci “muove” letteralmente grazie ai neuroni specchio (vedi G. Rizzolatti) di cui tutti disponiamo.

Tendendo le orecchie dopo gli spettacoli o chiedendo direttamente alle persone tra il pubblico, ho scoperto che a meravigliare è soprattutto la diversa vicinanza-relazione con quel corpo reale, sulla scena; questo forse non vale per gli habitué del teatro, ma per coloro che riescono a mantenere sempre vivo lo stupore nello sguardo sì. A sorprendere è quel tipo particolare di Presenza, come una sorta di “presenza aumentata” (e allora siamo anche qui nel regno del virtuale?!). E’ come se, per la prima volta, si fosse in grado di vedere “Il Corpo” e tutte le sue possibilità espressive; non parlo solo delle capacità tecniche del performer in scena (danzatore o attore che sia), ma proprio di quella Presenza che solo sulla scena è possibile sperimentare: per chi guarda e per chi agisce.

D: Con la proliferazione dei piani di realtà, spesso virtuali e artificiali grazie ai nuovi media, e dopo essere entrati in un’epoca che potremmo definire della post-verità, sembra definitivamente tramontata l’idea di imitazione della natura, così come la classica opposizione tra arte (come artificio e rappresentazione) e vita (la realtà intesa come naturale). Nonostante questo sembra che la scena contemporanea non abbia per nulla abbandonato l’idea di dare conto e interrogarsi sulla realtà in cui siamo immersi. Qual è il rapporto possibile con il reale? E quali sono secondo te gli strumenti efficaci per confrontarsi con esso?

Per mia tendenza personale sono portata a guardarmi intorno e riflettere anche attraverso la creazione scenica sul reale che mi circonda. Sono convinta che la scena possa farsi voce del reale (metamorfizzato, trasfigurato, idealizzato…) per aiutare a interrogarsi sul proprio presente e sulla propria presenza consapevole, scenica e quotidiana. L’unico rapporto possibile col reale è un rapporto critico, di osservazione, riflessione, che apra a domande, spunti di visione altri dalla norma. Ma cosa è “reale”? Una visione allucinata è reale per chi la vive; una relazione sentimentale, anche se vissuta a distanza è reale; la manipolazione del reale è reale. Al di là della realtà materiale c’è una realtà intimamente oggettiva: questa è quella che mi interessa perché portatrice di voci differenti e di potenzialità immaginifiche. Quindi credo che anche le strategie di confronto col reale siano e debbano essere molteplici. La mia personale è “l’ironia” , la presa di distanza, anche da me stessa, che mi permette (quando viene bene!) di avere uno sguardo d’insieme sul reale e col reale (nel senso che io sono soggetto compreso in quella visione). Non la distanza cinica che pone il soggetto fuori dall’insieme, ma un tipo di distanza che per me è come la boccata d’aria del nuotatore prima di ributtarsi in acqua. Mi prendo seriamente non troppo sul serio e sinceramente diffido un poco da chi non sa sorridere e a volte ridere (in faccia) alla vita.

L’unico rapporto col reale che mi interessa vedere sulla scena è il coraggio dell’interprete e dell’autore attraverso di lui, di andare in profondità e oltre se stesso, la capacità di trasfigurarsi per farsi corpo (che comprende la voce) espanso, comunitario. di mettersi in vibrazione con le drammaturgie della scena per fare esperire a chi guarda delle verità sensibili (perché hanno a che fare coi sensi). Questo per me vale per qualsiasi approccio spettacolare e di ricerca.

Giselda Ranieri

SPECIALE INTERPLAY: Tecnologia filosofica, Resodancer Company, Andrea Gallo Rosso, Giselda Ranieri

Si chiude Interplay con un’ultima serata che ha visto in scena quattro lavori che per stile e concezione della danza sono molto distanti: dalle quasi mistiche riflessioni sul silenzio di Tecnologia Filosofica, al formalismo della Resodancer Company con la coreografia dell’israeliana Shy Pratt, dalla semplicità e leggerezza di Andrea Gallo Rosso alla nevrotica e divertente instabilità di Giselda Ranieri prodotta da Aldes.

Boule de neige di Tecnologia Filosofica è una meditazione sul silenzio, sulla danza come movimento separata da una componente sonora. Il suono è per lo più evocato da un video proiettato sulla grande tela che cade dall’alto e taglia ortogonale il piano della scena: pioggia e neve che cadono, la nebbia che oscura un sole lontano, le onde del mare che spazzano la battigia.

I due danzatori si incontrano o si fronteggiano ai lati della scena. I movimenti fluidi, a volte sincroni, talvolta a rincorrersi come onde del mare, fino a trovarsi seduti a terra opposti e speculari in posa meditativa.

Boule de neige di Tecnologia Filosofica è un lavoro intenso e delicato, teso a riscoprire il valore del silenzio come luogo per gettare uno sguardo lucido sulla realtà e su se stessi. Al lavoro forse mancano dei gradini di intensità restando sempre in qualche modo ancorato a una stessa temperatura. Diversi gradienti di intensità darebbero uno spessore maggiore a un lavoro che possiede profondità di pensiero.

Moving Closer di Andrea Gallo Rosso, coreografia composta con danzatori professioni e non, di cui alcuni immigrati di seconda generazione. Un incontro tra persone tramite la danza e il movimento forse troppo semplice, quasi dato a priori, senza conflitti. Da un coreografo come Andrea Gallo Rosso ci si può aspettare qualcosa di più complesso e strutturato, ma forse il lavoro è ancora in fase di raffinazione.

Nacreous di Resodancer Company è una coreografia di Shy Pratt, per anni alla Batsheva Dance Company diretta da Ohad Naharin, che trova nella composizione e nello sviluppo della forma la sua cifra. Perfezione tecnica in un intreccio continuo di movimento quasi in un contrappunto severo e virtuosistico.

Un faro in controluce illumina un danzatore che in assolo danza la sua frase di movimento che si allaccia, passando il testimone, a quello che segue in un catena che li vede poi assieme sulla scena a dar il via a una sorta di coro polifonico a quattro voci.

L’intensità emotiva si innalza e diventa ardente e commovente nel duo che prelude al finale. Una coppia che fraseggia con movenze che parlano d’amore, di fisicità e di contrasti fino a che uno dei due sparisce trascinato repentino fuori dalla scena lasciando l’altra nella solitudine del palcoscenico. Un finale che evoca la fragilità dell’esistenza che scompare nel faro di controluce dell’inizio.

T.I.N.A. Di Giselda Ranieri, titolo che evoca in acronimo una frase della Tatcher There is no alternative. Come si sfugge al vaniloquio? Come si fronteggiano i continui stimoli e la marea delle scelte possibili? Nevrotici in questo perpetuo presente ricco di mille alternative sempre a nostra disposizione ci troviamo a non capire chi siamo e cosa vorremmo essere.

T.I.N.A. Di Giselda Ranieri è un quadro ironico e divertente che ritrae l’infinita ricchezza che le meraviglie della tecnica ci mette a disposizione e snaturandoci, percuotono e scorticano la nostra personalità che vaga senza meta alla ricerca di un’ancora che con il suo peso ci ormeggi in un porto qualsiasi, lontano dalla tempesta degli stimoli.

Giselda Ranieri appare in una danza di movimenti convulsi, con la testa in un televisore: testa tagliata come nella scatola magica di un illusionista. Alla danza convulsa si unisce uno sproloquio senza senso, fatto di interruzioni, sincopi, frasi mozzate, ripensamenti, balbettii.

Quello di Giselda Ranieri è un dialogo interiore tra le nostre multiple personalità, nessuna delle quali dominante e completa. Siamo frammenti di voci che non sanno parlare e nemmeno decidere un destino, aquiloni nella tempesta ogni tanto percossi da un fulmine che più che ravvivarci ci paralizza. Avremmo tanto tutti bisogno del silenzio evocato da Boule de neige all’inizio della serata.

Uno spettacolo, quello di Giselda Ranieri, armato di disincantata ironia, buona interpretazione sia coreutica, – in un movimento convulso, isterico, sincopato -, sia recitativa. – nel dare colore e spessore a un monologo fatto di frammenti incomprensibile -, che però, a lungo andare, si arena nel ribadire costantemente lo stesso concetto perdendo la freschezza iniziale.

Si chiude così l’edizione 2018 di Interplay guidato da Natalia Casorati, direttrice artistica di grande intuito, che presenta ogni anno alla platea torinese i sentieri emergenti della nuova danza e giovani coreografi interessanti e promettenti.

ph:@sandro mabellini

SPECIALE INTERPLAY: IN GIRUM IMUS NOCTE ET CONSUMIMUR IGNI di Roberto Castello

Tra luce e ombra si cammina senza un dove, senza un perché. Un’umanità scomposta, in perenne movimento nei frame di luce concessi per un tempo limitato prima di sprofondare nella notte. D’ogne posa indegna quest’umanità cammina in quel poco di giorno grigio, fatto di luce attenuata come di fumo che scivola via e si disperde, di movimento ossessivo come chi s’affanna per un nonnulla, e poi la notte, prima di un nuovo giorno che non porta novità né progresso. Solo varietà nell’alternar di bianco latteo e nero pece.

Di qual fuoco si sia consumati in questa notte non è dato sapere. Frenesia, furore, smania in quest’inceder coatto, spinti da un ritmo non nostro, ossessivo compulsivo. Un titolo palindromo come lo spettacolo: da qualsiasi parte lo si giri, ridonda lo stesso suono, lo stesso gusto, lo stesso andar da nessuna parte.

:”Che ore sono?”

:”La stessa di sempre”. Un finale di partita eternamente rimandato dalla luce che succede all’ombra. C’è molta atmosfera beckettiana in questo lavoro di Roberto Castello con Aldes. Per tutto il tempo della piece, nel martellare ritmico elettronico, mi risuonava nella mente la May di Passi: nove passi avanti, nove passi indietro, come un metronomo. E così i chicchi si aggiungono ai chicchi finché c’è un mucchio, un piccolo mucchio, l’impossibile mucchio.

Per questo lavoro si è parlato di ritorno del tragico. Non sono d’accordo. Non c’è nessun fato inalterabile a sconfiggere l’eroe che si batte comunque e nonostante tutto. Le Moire non hanno filato nessun percorso ineluttabile. Il procedere è verso nessuna parte. Vi è un eterno ritorno di un’uguale miseria senza nessun destino. Come i ciechi di Bruguel si avanza verso un abisso eternamente rinnovato e rimandato, oltre, senza mai fine.

Un lavoro intenso, provante, sia per il pubblico che per i bravissimi danzatori (Mariano Nieddu, Giserlda Ranieri, Ilenia Romano, Irene Russolillo). Un flusso in eterno movimento, nell’alternarsi di forme di luce che creano spazi sempre diversi per un procedere senza posa. Ogni tanto degli inserti rappresentativi, frammenti di quotidiano distorto, come di feste andate a male, in qualche modo degenerati. Un lavoro disperante, dove anche l’ironia sa di fiele. Nessuna pacca sulla spalla, nessun tentativo di indorare la pillola. D’altra parte l’aveva già detto Shakespeare nella sua tragedia più nera: “La vita e’ solo un’ombra che cammina, un povero attore che si pavoneggia e si dimena durante la sua ora sul palcoscenico, dopodiché non si sente più nulla. Una favola narrata da un idiota, piena di rumore e furia, che non significa nulla.”

Ph. Ilaria Scarpa