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Il giardino dei ciliegi

ALESSANDRO SERRA: IL GIARDINO DEI CILIEGI

L’immagine iniziale de Il giardino dei ciliegi diretto da Alessandro Serra ricorda un bellissimo racconto breve di Kafka intitolato Di notte: “Sprofondato nella notte. […] Gli uomini intorno dormono. Una piccola commedia, un’innocente illusione che dormano nelle loro case, nei letti solidi, sotto un tetto solido”, e giunge un lume da dietro il fondale, poi entro la stanza: “uno deve vegliare, dicono. Uno deve essere presente”. Da questo momento ecco il risveglio, tutto prende vita, inizia il vortice di risolini e piccoli pianti intorno al destino del giardino dei ciliegi.

Alessandro Serra fa danzare il testo di Čechov. La sua più che una regia è una coreografia, e la danza è quella degli appestati, di coloro che festeggiano sull’orlo dell’abisso che incombe solo un passo più in là. Le immagini evocate appaiono tutte a prima vista innocenti, serene, carezzevoli. Eppure un retrogusto di stantio, di muffo, di defunto non abbandona il palato. I fermo-immagine color seppia che evocano i ferrotipi e gli ambrotipi non parlano forse di un mondo morto? E gli oggetti? Il carrello, le sedie da giardino in ferro battuto, le valigie e le cappelliere, gli ombrellini da passeggio in pizzo? Non siamo di fronte a una ricostruzione suppur un poco surreale, per quanto a prima vista possa parere. È un mondo di fantasmi quello che appare davanti ai nostri occhi, di anime morte ignare del fulmine che si abbatteva su di loro. E non ci sono nemmeno vincitori e sconfitti tra quei balli, festicciole, e ritrovi di famiglia e amici. Tutti saranno travolti dalla nera tempesta che si profilava all’orizzonte e verso la quale nessuno volge gli occhi. Nel finale infatti si torna alla landa desolata i cui tutti dormono. Solo Firs si aggira tra loro, ma poi si accascia, si sdraia bocconi e, dopo un ultimo risolino, il silenzio. Non vi è nemmeno più colui che veglia.

Il giardino dei ciliegi
Il giardino dei ciliegi ph:@Alessandro Serra

Il movimento e il ritmo, di cui Alessandro Serra è padrone, sono proprio i sintomi più evidenti di tale sprofondare nell’abisso. Come diceva Ernesto De Martino: “In tutto sta in primo piano l’elemento del moto: l’alterazione del movimento, la perdita dell’equilibrio, lo scuotimento della sicurezza e della tranquillità nel mondo delle cose, conducono alla conclusione; il mondo crolla, sprofonda”.

Le immagini sono cesellate, frutto di estrema cura. I quadri si susseguono come in una galleria. Ogni gesto o movimento è dosato e mai abusato. Tutto concorre a far emergere un gusto complesso, di dolce, di zuccheroso a nascondere il marcio che pur affiora. Probabilmente tutto ciò sfugge alle intenzioni volte più a far risaltare, come recita il programma di sala, una stanza per bambini e un sentimento legato a un’età lontana e come dimenticata. Ma l’opera spesso sfugge dalle mani dell’autore, rivela altri sentieri, sollecita altre visioni, e questo rivela la ricchezza di una scrittura al di là del tempo e delle interpretazioni.

Il giardino dei ciliegi

Il giardino dei ciliegi è stata l’ultima opera di Čechov ad andare in scena. Era il 1904 al Teatro d’arte di Mosca sotto la direzione di Stanislavskij. Se Čechov aveva concepito l’opera come una commedia, Stanislavskij la interpretò come una tragedia. C’era dunque presente un’ambivalenza nella vicenda che faceva oscillare da un estremo all’altro, una ricchezza di punti di vista per un piccolo enigma. Passati sei mesi da quella prima Čechov morì di tubercolosi. Il grande scrittore se ne andava poco prima dei colpi di cannone. Nel 1905 scoppiarono infatti in tutta la Russia moti contadini e operai, un prologo a quella definitiva del 1917 che mise fine alla Russia zarista. La maggior parte non si aspettava un tale esito. Come i personaggi de Il giardino dei ciliegi molti non compresero i segnali di tempesta che incombevano su una società morente. Oggi come allora siamo ciechi. Tra feste e balli facciamo di tutto per ignorare i colpi di scure che si abbattono sul giardino dei ciliegi

Visto al Teatro Astra di Torino il 15 febbraio 2020

Oyes

VANIA di Oyes: tra immobilismo e rimpianto di una vita che non c’è.

Ieri sera per la rassegna Schegge di Cubo Teatro è andato in scena al Cecchi Point Vania della Compagnia Oyes, recentemente insignita del Premio Hystrio Iceberg.

Vania è ispirato al dramma di Cechov Zio Vania attraverso una riscrittura comune che aggiorna i temi del grande maestro russo a un paesino di provincia italiano. Quattro i personaggi in scena più il Professore, presente in assenza. Di lui solo un suono di respiratore che lo fa né vivo né morto.

La moglie Elena, la figlia Sonia, il fratello Ivan e il Dottore, non stanno meglio di lui. Certo si muovono, sono coscienti, ma sono anch’essi appartenenti a un mondo in cui la vita non è presente se non in un altrove dislocato nel tempo o nello spazio geografico lontano. Questi mondi immaginari sono per tutti il paese dei balocchi, laddove tutto è possibile, dove è realizzabile una qualche felicità.

I quarantenni volgono lo sguardo al passato, la giovane nipote a Londra, la bella Elena guarda ad altri uomini: tutti impossibilitati a trovare quel che cercano nel loro qui ed ora. I personaggi sono bloccati verso una qualsiasi azione efficace, incapaci di contrastare la forza d’inerzia che li trascina a un tetro immobilismo.

In questa riscrittura di Cechov, Oyes mantiene la forza espressiva che promana dai suoi testi sempre rivolti all’emersione del dramma dal piccolo noioso quotidiano. Dolori intensi e struggenti, speranze infrante, illusioni irrealizzabili, amori spenti e disillusi: tutto nel lento chiacchiericcio domestico, nell’agire d’ogni giorno tra una tisana e la spesa, tra un cambio di lenzuola e una sbornia al bar.

I personaggi intorno all’infermo sono anch’essi tutti malati, appestati dal male di vivere senza entusiasmo, illuminati da lampadine che non sono altro che aste da flebo. A turno visitano il Professore, e dalla stanza dedicata al dolore si immergono nel flusso dell’anonimo e scialbo vivere d’ogni giorno.

Non ci sarà evoluzione. Il blocco rimane tra l’aspettare Godot e la rassegnata certezza che mai arriverà.

Quella di Oyes per Cechov è un vero esercizio di ammirazione, frutto di uno studio attento e di una passione costante (altri due i lavori della compagni dedicati alla sua drammaturgia: Io sono il Gabbiano e Anton).

Convincenti gli interpreti: naturali, sebbene forse un po’ raggelati all’inizio, intensi, misurati. Piccola sbavatura solo l’inutile nudo mezzo busto della moglie Elena nel finale.

La riscrittura dosa ironia e dolore, rendendo sopportabile quel cumulo di dolore e immobilismo. Certo non siamo di fronte a un teatro di reale innovazione, soprattutto nella regia e nell’interpretazione.

La regia è appiattita su movimenti orizzontali, con scene chiuse. La recitazione è classica seppur non ammorbata da una dizione falsa come le monete di cioccolato. Benché si sia svecchiato il linguaggio siamo nell’alveo del teatro di tradizione e della rappresentazione.

Vania di Oyes è un lavoro ben costruito dunque, e ben recitato, che tocca l’animo e il cuore del pubblico con una storia che ci appartiene e che ci fa riflettere sulla nostra vita e su quanto siamo in grado di viverla pienamente. Tutto questo con un linguaggio scenico conosciuto, senza ansie avanguardistiche, ma forse un po’ datato e impolverato. Non basta aggiornare un testo per trovarsi di fronte a un teatro contemporaneo.

Benché sia sempre refrattario agli stilemi della rappresentazione classica, di fronte a lavori ben fatti come questo, ne riconosco l’efficacia ma mi domando: non è possibile raggiungere lo stesso effetto sfruttando le conquiste della migliore tradizione del Novecento senza per forza ancorarsi a stilemi funzionali ma stantii? Non sarebbe più auspicabile il coraggio di affrontare modalità più moderne per raccontare a teatro? E ancora: non si commette lo stesso peccato dei personaggi di Cechov nel conformarsi agli stilemi tradizionali, seppur aggiornati, invece di lanciarsi all’adozione di nuove tecniche anche se non conferiscono la certezza del risultato?

Sono domande che mi pongo sempre più spesso e mi piacerebbe vedere più coraggio nei giovani artisti, non tanto nella ricerca del nuovo per il nuovo, quanto nell’emersione di un vero linguaggio scenico moderno, che sfrutti le potenzialità del teatro invece di adagiarsi sul conosciuto sfruttamento di un testo letterario.

Queste sono ovviamente solo mie piccole paturnie. Vania di Oyes è uno spettacolo che funziona e fa pensare e forse questo è già abbastanza.

Simon Stone

LES TROIS SOEURS: Cechov riscritto e rivisitato da Simon Stone

Lo dico subito così non resta alcun dubbio: questa versione de Le tre sorelle diretta da Simon Stone e in scena al Teatro Carignano fino al 26 gennaio prossimo,  è grande regia e non fa per niente parte di quella categoria di spettacoli di cui ci si dimentica dopo dieci minuti che si è usciti da teatro.

Cercheremo in questa breve disamina di capire in cosa consistono i punti di forza ma anche di individuarne i difetti, e non per fare i puntigliosi che cercano in ogni occasione il pelo nell’uovo, ma per assolvere uno dei compiti della critica, che non è quello di accodarsi al pubblico plaudente ma quello di sollevare questioni e problemi che siano utili all’arte scenica.

Simon Stone fa riscrivere completamente Cechov. Tutta l’azione e il dialogo sono riferiti al nostro presente. C’è tutto: da Donald Trump a The Walking Dead. La scrittura è aggiornata anche sulle questioni di genere con inserti e personaggi del mondo LGBT. Un’operazione che richiama le riscritture filmiche dei grandi romanzi.

Tutta l’azione, divisa in tre atti, avviene in uno chalet girevole, una casetta per vacanze con vari locali su due piani e giardino. Noi spettatori voyeur, abituati a curiosare nelle vite degli altri su Facebook, siamo i guardoni che vedono la vita degli altri scorrere senza parteciparvi come tanti Tonio Kroger.

Tre atti e tre momenti nella vita di questa piccola comunità che gravita intorno alle tre sorelle: un’estate, un natale, e il momento in cui lo chalet si vende e avviene il suicidio. Tutta l’azione scorre davanti a noi nelle varie stanze in un sapiente montaggio di dialoghi e situazioni. Benché non accada quasi nulla e le conversazioni siano per la gran parte quelle di una famiglia qualsiasi, il flusso narrativo è intrigante, senza mai un momento di pausa.

Le scene orchestrate da Simon Stone sono sempre multifocali. Non c’è un solo punto di vista, ma molteplici. Se l’azione principale avviene in cucina, in giardino, in salotto o in bagno qualcos’altro accade che porta avanti la narrazione e tocca a noi pubblico fare il nostro montaggio.

Gli attori sono straordinari. I personaggi credibili. L’illusione di trovarsi di fronte a qualcosa di reale è massima. Sembra di essere al cinema e vedere tre episodi di una serie tv. Non di fronte alla vita vera, quella è ben più caotica, disperata, deludente. Una vita ricostruita dal cinema, che coincide quasi con la nostra, se non per i dialoghi perfetti, per i colpi di scena abilmente posizionati al posto e al momento giusto. Ma l’arte è questo: è artificio che parla della vita, non è la vita stessa, anche se per qualcuno il binomio doveva essere perfetto.

Così alla fine di questa breve descrizione ci troviamo di fronte a una delle questioni che sollevano Les Trois Soeurs di Simon Stone: convenzione vs iperrealismo.

Mentre osservavo e, lo ripeto a scanso di equivoci, mi godevo lo spettacolo, nello stesso tempo mi frullavano nel cervello le lezioni di Mejerchol’d del 1918 in cui parla dei Meininger. Il grande maestro russo parla dell’opposizione tra il naturalismo spinto all’estremo che non lascia nulla all’immaginazione e la convenzione che spinge la fantasia dello spettatore a riempire i vuoti e ammirare il mistero. E guarda caso questa disamina parte proprio da Cechov, il quale criticò Stanislavskij il quale aveva avuto il demerito di aver portato le regie delle sue opere troppo vicino alle posizioni iperrealiste dei Meininger.

Cechov stesso, secondo Mejerchol’d chiedeva di condurre le sue opere verso un mondo più convenzionale, magari sognate, ma che facesse emergere una sorta di mistero dal testo.

A questo pensavo mentre vedevo scorrere di fronte a me la regia di Simon Stone, pensavo alla curiosa coincidenza in cui vedevo questo Cechov giusto cento anni dopo le lezioni di Mejerchol’d e che quanto detto allora valeva ancora oggi. Cosa avrebbe detto Cechov di fronte a questo chalet perfettamente costruito e rotante, queste scene così aderenti al vero, questi personaggi così credibili in questa versione moderna dei Meininger? E questa forma di realismo estremizzato, dove in ogni scena c’è tutto, perfino le forchette nei cassetti, l’asciugamano di fianco al lavandino e le birre nel frigo, non è parte anche di un mondo produttivo elitario?

Chi mai nel teatro normale, quello che si dibatte nei problemi di finanziamento e distribuzione potrebbe mai permettersi questa forma di rappresentazione? Ed è forse poi necessaria, al di là di un risultato sopraffino, questa ricerca del reale a tutti i costi?

Mejerchol’d abbandonò nel 1918 il grande teatro, quello dei velluti e delle risorse infinite, per intraprendere una nuova avventura, che aderisse al momento rivoluzionario. Un teatro diverso, fatto di poveri mezzi ma di grande inventiva. E da questa scelta si creò una polemica in seno alla scena russa, proprio in merito alle due polarità di realismo e convenzione. Le stesso domande che assillavano Mejerchol’d e la scena russa abitata anche da Cechov, si possono curiosamente riferire anche all’oggi e ci fanno capire che in fondo benché molte condizioni siano mutate non molto è cambiato in cento anni.

Ma questa curiosa coincidenza riferita allo spettacolo di Simon Stone e al suo Cechov fa sì che la domanda che viene posta sia riformulata rispetto al presente. Questo iperrealismo cinematografico, al di là degli splendidi risultati, è una strada utile per il teatro di oggi? Questo osservare un’azione che si svolge davanti a noi indipendentemente da noi, non è una modalità rappresentativa d’altri tempi? Le Live arts non si stanno spostando gradualmente ma pare in maniera inequivocabile, verso una modalità performativa partecipata e processuale?

Ripeto queste sono domande che mi sorgono spontanee nel vedere uno spettacolo quasi perfetto e acclamato da numerosi e lunghi applausi del pubblico. Sono domande di sistema che vanno al di là dei meriti indubbi di un regista giovane ma già assai maturo e con ampi e valenti mezzi espressivi al suo arco. Sono domande che riguardano il teatro in generale e sorgono proprio di fronte a una delle sue migliori manifestazioni. Les trois soeurs di Simon Stone, questo Cechov riscritto e riattualizzato, è la Rappresentazione con la maiuscola. Ma non si era fatto di tutto per uscirne?

foto @Thierry Depagne