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Odissea

ULISSE IN CARCERE: ODISSEA DE IL TEATRO DEI VENTI

Lo scorso 27 luglio ha debuttato Odissea de il Teatro dei Venti, un evento teatrale diretto da Stefano Té che ha attraversato le carceri di Castelfranco Emilia e Modena, all’interno di Trasparenze Festival, giunto alla sua IX Edizione dal titolo: Abitare Utopie. Prima di parlare della difficile genesi di questo dramma itinerante, è giusto fare una piccola premessa.

John Cage diceva che un’opera d’arte, una composizione, è paragonabile a una lettera a uno sconosciuto. Si compone, si scrive, si recita per un pubblico che non si conosce e, di conseguenza, in questo vi è un grande margine di rischio. Sarà piaciuto? Sarà capito? Sono i crucci di ogni artista. Oggi infatti l’industria dello spettacolo, volendo fidelizzare il pubblico/cliente, tende a minimizzare questo rischio puntando sul sicuro, sul ripetibile, sul semplificato, per incontrare nuovamente e senza scossoni i gusti già soddisfatti in precedenza. L’arte invece vive di questo rischio, anticipa i gusti, li previene, li sconvolge, li turba e nel fare questo smuove il pensiero di chi guarda. Lo spettatore, in questo caso, è chiunque volge i suoi occhi a ciò che accade sulla scena, sia esso un appassionato, un improvvisato e impreparato visitatore oppure un critico o un operatore. Ciò che importa è dunque la visione e le sue conseguenze, da cui non necessariamente nasce un dialogo una volta che è calato il sipario. Il rapporto, se non in casi eccezionali, è con l’opera, non con l’artista, che scompare dietro la propria creazione.

Per il critico le cose si fanno un tantino più facili, e nello stesso tempo più complicate in quanto si può o scegliere il destinatario o assumersi il rischio, come l’artista, di scrivere per uno sconosciuto. Preferendo questa seconda via si spera nel sorgere di una dibattito intorno all’opera e all’arte attraverso uno scritto che sia nello stesso tempo autonomo rispetto all’opera e ad essa vincolato e relativo. Nel far questo ci si distanzia dalla cronaca dell’evento (da qui l’autonomia) ponendosi in dialogo aperto, facendo scorrere i pensieri che sono sorti nella visione e mettendoli in relazione con l’agire artistico. Detto questo, per chi dunque si scrive una recensione?

Ph: @Chiara Ferrin

Lo scritto che per comodità chiamiamo con questo termine, nonostante sia una parola per nulla atta a racchiudere la complessità del ragionare sul teatro vivo e presente, si rivolge a un pubblico plurimo e variegato. Da una parte a un destinatario sconosciuto, costituito, per esempio, da amanti del teatro, da pubblico potenziale o da spettatori che vogliono confrontare le proprie riflessioni con quelle di un “esperto”; dall’altra si scrive per qualcuno che si conosce bene e con cui si vuole condividere un percorso riflessione al fine di intessere un circuito virtuoso di pensiero sul teatro agito, e tra questi vi sono ovviamente gli autori dell’opera, gli artisti e gli operatori del settore. Da ultimo infine ci può essere un terzo destinatario: uno sconosciuto con cui si vuol avviare una conoscenza e aprire un canale di comunicazione. In ogni caso l’obiettivo non è solo quello di rendere testimonianza di quanto avvenuto, ma soprattutto quello di far nascere un dialogo costruttivo tra le parti un causa: pubblico, artisti, critici e operatori

In questo caso, rispetto a Odissea di Stefano Tè e del Teatro dei Venti, il mio principale interlocutore, coloro verso i quali desidererei sorgesse uno scambio di idee e opinioni, sono gli attori, i detenuti delle carceri di Modena e Castelfranco Emilia. Alcune parti di questo scritto sono dunque rivolte specificamente a loro, i protagonisti, visibili seppur nascosti (vedremo poi perché), di questo evento teatrale che non voglio in nessun modo chiamare spettacolo, proprio per rispetto a questi particolari attori. Da dove nasce questo desiderio? Dal fatto che per la natura intrinseca dell’opera, – un viaggio attraverso vari luoghi, tra loro non comunicanti -, lo scambio con gli attori, anche in forma semplice di applauso, non è potuto avvenire. L’ultimo atto dello spettacolo all’interno del Teatro dei Segni, prevedeva la lettura da parte degli attori detenuti di uno scritto che Penelope consegna ad Odisseo. Per la normativa Covid coloro che escono dal carcere al rientro devono scontare dieci giorni di isolamento e per questo motivo la presenza è stata prevista solo l’ultimo giorno di repliche. Qualcuno potrebbe sorprendersi nel sapere che nonostante questo, tutti gli attori che hanno avuto facoltà di compiere l’uscita dal carcere abbiano accettato pur di incontrare gli spettatori. Questa non è stata l’unica difficoltà incontrata durante la lavorazione di Odissea.

Facciamo infatti un piccolo passo indietro e raccontiamo, per sommi capi, l’odissea di questa Odissea, ossia la genesi e la costruzione di un opera che ha attraversato un periodo di ricerca di circa due anni a cavallo di tutto il periodo pandemico, nonché l’attraversamento di difficile momento di rivolta nel carcere di Modena nei giorni tra l’8 e il 10 marzo 2020 e i successivi strascichi (trasferimenti, indagini, etc) di questo drammatico evento che vide la morte di nove detenuti.

Odissea ha dunque attraversato diverse fasi, alcune drammatiche di interruzione totale del rapporto con i detenuti e del successivo lento riannodare i fili di un dialogo, oltre a un ricercare una modalità di lavoro a distanza in cui fosse possibile veramente costruire insieme (Teatro dei Venti e detenuti) un ambiente in cui il teatro potesse sorgere non come surrogato ma come strumento di pensiero in azione.

Un primo frutto di questo lavoro di ricerca ha debuttato nella primavera 2021 sviluppandosi prima in versione filmica come “Odissea Web”, progetto realizzato con i materiali video delle prove da remoto, prodotti nel corso del lockdown, da marzo a giugno 2020 e, in seconda battuta, come progetto radiofonico in dodici puntate su Cosmic Fringe Radio. Infine tra il 27 e il 30 luglio 2021 ha preso corpo come performance itinerante tra i due istituti di pena a bordo di un bus su cui, come su una nave, lo spettatore compie la propria Odissea attraversando soglie e barriere prima di tornare al proprio presente.

Vista la difficoltà di questo percorso sembrava giusto rivolgere alcune considerazioni proprio ai detenuti che hanno vissuto più di tutti tali avversità e complicazioni, uomini come Odisseo segregati nell’isola di Ogigia, luogo separato e sospeso tra il mondo dei vivi e dei morti, lontani dalla propria patria e dalla propria famiglia.

Ph: @Chiara Ferrin

Iniziamo da ciò che distingue un attore ossia l’arte di recitare. Non siamo di fronte a dilettanti benché non si possa nemmeno parlare di professionisti (nel senso di coloro che vivono di questo mestiere). Non si finge né si simula, si è. Si fa qualcosa con tutto il proprio essere senza l’intenzione di imitare qualcosa o qualcuno. L’intenzione tende a scomparire e a tramutarsi in tensione, non quella nervosa di chi non sa stare in scena, ma quella positiva che elettrizza e cattura l’attenzione. Non vi è esposizione di un ego, ma un lasciarsi attraversare dalle figure evocate capaci quindi di raggiungere con forza l’occhio dell’osservatore. Facciamo alcuni semplici esempi: il ragazzo che compie evoluzioni da ginnasta o break dancer alterna virtuosismo e fatica, non fa altro che essere in questi due stati e in questa semplicità si esalta il dramma che incarna; l’uomo coperto di fango, compagno di Odisseo trasformato da Circe, nel suo far niente, nell’essere nient’altro che una statua di fango immobile, esalta la trasformazione, fa sembrare il suo corpo qualcosa di alieno così come il suo tornare alla vita nel momento in cui Odisseo, con l’acqua, cancella il fango. Se a qualcuno venisse in mente che fare il niente in scena sia semplice, non conosce la difficoltà dell’agire e dell’essere attore. Fare niente, semplicemente stare, è forse la cosa più difficile da chiedere. Saperlo fare sotto gli occhi di qualcuno è qualcosa che si avvicina al virtuosismo. Un dilettante non lo saprebbe fare. Infine lo strazio nel grido di Polifemo: «mi hanno accecato, padre punisci», è qualcosa che sa toccare il cuore perché chi lo dice è in quelle parole, non le dice perché scritte in un copione come parte dell’interpretazione di un personaggio, ma si fa attraversare dalla voce che incarna e così facendo raggiunge l’orecchio del pubblico.

Ph: @Chiara Ferrin

Questi sono solo degli esempi dei molti che si potrebbero fare di questi momenti d’arte presenti in Odissea e agiti da attori che ci fanno dimenticare il loro essere dei detenuti, capaci quindi di stare sotto l’occhio del pubblico portando se stessi e le proprie storie nascosti nelle pieghe del personaggio e dando così forza alla maschera di cui si fanno portatori.

Certo manca la tecnica, quella che un professionista acquisisce in anni di lavoro di bottega e di studio, ma l’atteggiamento, lo stare e l’essere in scena, sono quelli di un attore che sa che il suo lavoro non sta nel fingere o nel simulare ma nel far apparire.

Odissea è anche un attraversamento di luoghi, di soglie, di barriere. Quella principale è mentale tra chi sta dentro e chi sta fuori dal carcere. Ci si ricorda della pena, del reato, mai dell’uomo. Dietro le sbarre si confina ciò che non si vuole ricordare essere presente in tutti noi. Questi attori ci fanno dimenticare le barriere e sarebbe bello pensare che anche per loro, sulla scena, accada lo stesso. Paradossalmente a ricordarci dove siamo e cosa distingue chi guarda da chi agisce sono le guardie: seppur discrete, sono una presenza la cui divisa è l’unico costume a non essere di scena.

Da ultimo questa Odissea del Teatro dei Venti è l’intrecciarsi delle storie di Odisseo e di Penelope, nella collisione e confronto tra l’odissea del viaggio e quella dell’attesa. Non è insolita questa versione. È nota fin dall’antichità. Nel 2019 Pino Carbone e Teatri Uniti proposero su questo tema un PenelopeUlisse alla Biennale Teatro diretta da Antonio Latella. Non è questo il punto. Non è l’efficacia delle idee che importa ma la necessità e l’utilità all’interno di un disegno narrativo e drammaturgico. In questo caso sorprende il finale in cui Penelope prende la scena e affronta Odisseo e le sue narrazioni. Ogni storia ha molte versioni. I greci e i loro miti conoscevano bene la natura della narrazioni. Nessuna più di Arianna ha avuto nelle storie destini, amori e morti diverse, in tutte però resta la Signora del Labirinto. Penelope e Odisseo saranno sempre gli ingannatori, coloro che protetti da Atena, vincono le difficoltà con la metis, la capacità di cogliere l’attimo adattandovisi. Teatro dei Venti ci ha fatto riscoprire proprio questo aspetto del mito: l’essere una pluralità di racconti dai finali mai scontati.

Innumerevoli altre cose si potrebbero dire di questo evento teatrale che impegna il pubblico per molte ore e in molti luoghi. Stefano Tè ci ha abituati alle imprese difficili, se non impossibili. Il merito che ha avuto in questa operazione sta soprattutto nell’aver reso realizzabile il viaggio tra la città e i luoghi di reclusione, attraversando soglie, isole e territori, incontrando visioni e pensieri. Certo ci sono difetti, ma non è la perfezione che importa. Nel teatro che si confronta con la realtà carceraria penso siano tre gli obiettivi primari: ricordarci l’umanità di chi viene recluso e il superamento in chi guarda di quell’atteggiamento buonista, borghese e benpensante per cui anche i meno fortunati e coloro che sbagliano sanno fare delle cose buone. In questo credo che Teatro dei Venti e Stefano Tè siano riusciti pienamente. Il terzo è il più complicato pregiudizio ed è proprio di chi osserva volendo giudicare con malizia e cinismo: il teatro carcere serve a chi lo organizza più che ai carcerati. Su questo mi piacerebbe che rispondessero proprio gli attori che abbiamo potuto vedere sulla scena a Modena e Castelfranco Emilia. Penso che nessuno oltre loro possa arrogarsi il diritto di poter sentenziare sulla questione, per cui concludo queste riflessioni con un invito a loro affinché ci facciano pervenire i loro pensieri su ciò che ha significato il contatto con il teatro nella dimensione carceraria. Spero con tutto il cuore che questo invito possa essere accolto.

Visto a Castelfranco Emilia e Modena il 27 luglio 2021

Odissea

Con Alice Bachi, Vittorio Continelli, gli attori e le attrici delle Carceri di Modena e di Castelfranco Emilia, attori e allievi attori del Teatro dei Venti

Costumi: Beatrice Pizzardo e Teatro dei Venti

Allestimento: Teatro dei Venti

Drammaturgia: Vittorio Continelli, Massimo Don e Stefano Tè

Assistenza alla regia: Massimo Don. Regia Stefano Tè

Una produzione del Teatro dei Venti con il sostegno della Regione Emilia-Romagna. Nell’ambito dei progetti Abitare Utopie, co-finanziato dalla Fondazione di Modena, e Freeway co-finanziato da Creative Europe. Il progetto Freeway è realizzato con i partner aufBruch (Germania), Fundacja Jubilo (Polonia) e UPSDA (Bulgaria) e promuove la creazione artistica, la formazione, l’audience development e lo scambio di buone pratiche di Teatro in Carcere a livello europeo.

Durata 210’circa

Biennale Teatro

BIENNALE TEATRO 2020: CHIAROSCURI VENEZIANI

Si è concluso in questi giorni il quarto atto della Biennale Teatro sotto la direzione di Antonio Latella. Dopo aver posto l’accento sulla regia femminile (primo atto), sulla questione: attore o performer? (secondo atto), infine sulla drammaturgia (atto terzo), Latella quest’anno ha voluto dedicare tutta la sua attenzione al teatro italiano, costruendo, e usiamo le sue parole, una sorta di “Padiglione Italia”.

Il titolo di questa edizione del Festival era Nascondi(no) a evocare due aspetti: da una parte il nascondimento di tanto teatro italiano, soprattutto nei confronti dell’estero (ma anche in casa propria aggiungerei), dall’altro una certa idea di censura, direi piuttosto cecità selettiva, in cui gli occhi degli operatori vedono solo un certo tipo di scena. Antonio Latella del nascondino evoca perciò l’aspetto giocoso del direttore che “fa la conta” prima di andare alla cerca degli artisti nascosti.

Pensiero lodevole ma il direttore, come chiunque si trovi nella sua posizione, vede ciò che vuole vedere, osserva lo spicchio di realtà che in fondo, consapevolmente o meno, predilige. È la responsabilità della direzione: scegliere uno o più idee di teatro che si reputa essere di particolare interesse nel momento storico in cui si vive, o che pare preannuncino tempi e modalità innovative. E così ha fatto Antonio Latella. Ha scelto, e non certo i “nascosti”, non i “sommersi” sebbene non certo i “salvati”. Anzi in alcuni casi possiamo tranquillamente parlare di sovraesposizione e non certo di nascondimento (per esempio il caso di Leonardo Lidi, Babilonia Teatri, Liv Ferracchiati e Fabiana Iacozzilli che in questi ultimi anni sono stati decisamente e meritatamente sotto i riflettori). Se si voleva veramente cercare il nascosto, secondo l’opinione di chi scrive, si doveva guardare altrove, ma si parlava di scelte e queste di certo sono state compiute con coscienza, serietà e trasparenza.

Altro luogo in cui si denota da parte del direttore una scelta precisa è laddove ha chiesto ai partecipanti di creare i loro lavori senza pensare al contesto distributivo. Un ricercare dunque una libertà creativa, spesso negata dai paletti inseriti nei bandi di finanziamento pubblici e privati e dal contesto stesso che tende a chiudere la visione entro confini ben precisi con parametri che si pensa accontentino lo spettatore o l’abbonato, molto più spesso gli stessi operatori. Quella che potremmo chiamare censura di sistema, per tornare al tema principale. Dietro questa libertà vi è però un pericolo insidioso: creare un’opera svincolata dal contesto produttivo e distributivo, può portare a molti nascondimenti proprio perché il mercato attuale, in modalità iperproduttiva da anni, non è in grado di assorbire tutte le nuove creazioni. Questa libertà rischia dunque di alimentare proprio quel sistema di “censura” che si vuole evitare. E il rischio è forte. Alcuni dei lavori presentati dovranno aspettare mesi prima di una ripresa e quindi l’esordio veneziano rischia di essere un isolato fuoco d’artificio. C’è da chiedersi dunque se veramente ci si possa permettere di ignorare le leggi vigenti di un sistema produttivo ipercapitalistico che non si intende mettere in discussione, restandone all’interno. Sembra piuttosto un episodio di voluta cecità, un volersi dimenticare per un momento dell’esistenza di un regime costrittivo e limitante. I giovani autori però se lo possono veramente permettere? Non sarebbe invece il caso di mettere in questione tale regime chiedendone a gran voce la revisione e mettendo in cantiere delle proposte alternative?

La grande vitalità del teatro italiano più volte evocata da Antonio Latella sembra invece qualcosa di simile gli spasmi di un malato che, come diceva Dante: “non può trovar posa in su le piume,/ma con dar volta suo dolore scherma”. Questi mesi hanno fatto emergere una volta di più la terribile fragilità e precarietà del teatro italiano, instabilità di certo non causata dal Covid, ma presente nell’ossatura del sistema da decenni. La mancanza di una storicizzazione della ricerca italiana nel corso degli ultimi quarant’anni è sotto gli occhi di tutti. Quanti gruppi sono sopravvissuti dagli anni ’90? e dai 2000? quanti sono diventati dei “maestri” tanto da passare la loro esperienza alle più giovani generazioni favorendo quel lavoro di bottega tanto necessario al teatro? E il metodo invalso da anni degli under 35 non ha favorito proprio l’elezione prima e decapitazione poi di molti artisti giunti alla fatidica data? Come può esserci vera vitalità in un tale contesto di spaesamento e di contrasto generazionale? Non è che la vitalità nasconda invece le poche, insufficienti e macchinose tecniche di rianimazione messe in campo? E il pubblico come rientra in questa equazione? Cosa stiamo condividendo con coloro che chiamiamo in teatro?

Queste le molte domande sollevate dalla Biennale Teatro a cui ci troviamo a dover dare risposta in tempi brevi prima che l’incertezza e instabilità recati in dono dalla presente pandemia non renda i problemi insolubili.

Veniamo ora alle opere visionate durante le giornate veneziane che, tra luci e ombre, hanno saputo darci un’immagine, seppur parziale, del nostro teatro attuale.

Liv Ferracchiati La tragedia è finita Platonov La Biennale di Venezia / ©Andrea Avezzù

Innanzitutto Liv Ferracchiati con il suo La tragedia è finita, Platonov (menzione speciale Biennale 2020) dove un giovane autore, regista e interprete ha saputo dar prova di una sua raggiunta maturità. Il confronto con il grande incompiuto di Anton Cechov si sviluppa attraverso un sottile e ironico confronto a prima vista metateatrale, tra il lettore e i personaggi. In realtà in gioco c’è il contraddittorio tra il proprio presente e il contesto passato evocato dalla vicenda di Platonov, in cui aleggia la domanda: come abbiamo potuto disperderci? Dove sono finite le nostre potenzialità? Così il destino di Platonov diventa non solo del lettore, o di Amleto, ma il nostro, di persone divorate dall’incapacità di agire in maniera veramente efficace, che si disseminano come stille d’acqua in arido terreno. Il testo elaborato da e per la scena da Liv Ferracchiati è poetico, ironico con venature tragiche e melanconiche, e si nutre e partecipa dell’abbondanza dell’originale cechoviano e necessiterebbe forse di un leggero ridimensionamento. Più incerta seppur nella solidità dell’impianto e solo in confronto alla dirompente forza drammaturgica, la resa scenica, dove il movimento, lo spazio e il tempo, così come il corpo attorico sono a volte compresse dalla sovrabbondante presenza della parola (notevole comunque la scena delle donne di carta, così come efficace il duello finale tra Platonov e il lettore). Ferracchiati è ora un artista maturo, con un chiaro progetto di scena e un solido impianto concettuale tale da far emergere con adamantina limpidezza le intenzioni del suo teatro arguto e intelligente.

Prova di maturità anche per Giovanni Ortoleva con I rifiuti, la città e la morte di Reiner Werner Fassbinder. Ortoleva dopo Oh, little man, e il Saul al debutto in Biennale Teatro proprio l’anno scorso, porta sul palco del Teatro Piccolo Arsenale una regia di grande respiro, che ricorda non solo lo stesso Latella ma un’Ostermeier prima maniera, e capace di far trasparire la poesia violentemente tenera dell’autore tedesco attraverso una recitazione che oscilla tra teatro epico e intimismo mimetico. Questo movimento di entrata e uscita dal mondo perverso evocato dal testo di Fassbinder, avviene con leggerezza, senza forzature, utilizzando tutti i registri della scena. I costumi pop e vintage, le musiche sempre segno e mai semplice tappeto sonoro (dal Lacrymosa del Requiem verdiano, ai corali di Hendel, alla musica elettronica), le luci a disegnare un paesaggio di forti contrasti emotivi, la presenza di attori capaci di dar corpo, con economia di gesti, alle potenti forze telluriche che abitano le parole e la vicenda. Giovanni Ortoleva è ora, nonostante la sua giovane età, un autore di comprovata solidità e maturità, pronto ad affrontare le prossime prove con autorevolezza, soprattutto se aiutato da un sistema che non sfrutti ma esalti le sue ormai chiare potenzialità.

Babilonia Teatri con Natura Morta prova a mettere in questione il travaso della nostra esperienza dalla realtà al virtuale del cellulare con un’opera che si svolge nella quasi totalità nel chiuso di un gruppo What’s up. I messaggi e le questioni che portano bersagliano il pubblico con violenza, costringendolo a farne i conti in uno spazio privo di illuminazione con l’eccezione delle luci degli smart phone. Un problema tecnico di rete ha interrotto lungamente l’esecuzione del processo. La risoluzione del disguido porta all’apertura della chat invasa ora anche dalle risposte del pubblico, a volte ironiche più spesso infastidite e subito censurate. Il progetto, per quanto chiare ne siano le intenzioni di interpellazione politica e civile su questioni scottanti, appare però un poco pretenzioso, chiuso nella sua volontà assertiva e moralistica. È come se da parte degli autori vi sia la certezza di essere dalla parte giusta della barricata. Inoltre per quanto chiaramente si metta in discussione la dipendenza da virtuale ormai acquisita, il progetto rimane ingabbiato proprio dall’incapacità di porci nella possibilità di reagire, di creare un vero dialogo, e il pubblico rimane così costretto nella parte del ricevente passivo.

Leonardo LidiLa città morta La Biennale di Venezia / ©Andrea Avezzù

Passo indietro per Leonardo Lidi al confronta con un riadattamento di testo dimenticato di Gabriele D’Annunzio, La città morta. Il pubblico si trova di fronte a una gradinata da stadio americano in un’atmosfera alla Greese. Per quanto si comprenda chiaramente la volontà di calare l’opera in un mondo defunto e trapassato, la scelta appare un poco stucchevole più che veramente significante. L’impianto registico è quanto mai tradizionale, dove le trovate sceniche si ispirano a un pop trito e ampiamente sfruttato che ricorda molto la “locura” tanto ben descritta dalla serie Boris: conservatorismo con un poco di pazzia. Ci si aspettava di più da un ragazzo che con Gli spettri e Lo zoo di vetro aveva pur dato prova di una complessità compositiva di maggior respiro.

Leonardo Manzan con Glory Wall (Premio miglior spettacolo Biennale 2020) prova a giocare con il tema della censura proposto dalla Biennale Teatro mettendolo in discussione. Ci si trova davanti a un invalicabile muro bianco, pagina su cui inizia il discorso si di esso proiettato: se lo spettacolo fosse veramente sulla censura, essa dovrebbe intervenire e proibirlo, visto che non succede è un controsenso parlare di censura; ma perché poi dovrebbe intervenire la censura visto che del teatro non importa niente a nessuno? Il muro diventa quindi un’autocensura, ma anche strumento di piacere (da qui il riferimento alla pratica sessuale), poi lapide su cui grandi censurati come Pier Paolo Pasolini, De Sade e Giordano Bruno discutono sul tema con le voci di persone tra il pubblico. Così di numero in numero si arriva all’intervista finale in cui l’artista cerca di radicalizzare la messa in questione del sistema teatro. Benché l’ironia del lavoro e molte trovate siano efficaci, questo gioco di critica appare di maniera, leggermente ruffiano, più strappa applausi che vera interpellazione su un tema di politica culturale. Soprattutto riprende operazioni simili già attuate nel passato (per esempio da Cattelan) ma con altra efficacia. Se è infatti vero che gran parte del teatro ha perso presa ed effetto sulla realtà, è anche vero che dirlo dal palco della Biennale, senza provare ad attuare una vera azione di contro tendenza generale, restando in posizione di scherzosa critica, appare ancora meno energico e utile. È un gesto che sa di rinuncia più che di ribellione.

Leonardo Manzan Glory Wall La Biennale di Venezia / ©Andrea Avezzù

Luci ed ombre quindi in questi debutti alla Biennale Teatro. In alcuni casi forse sarebbe stato più saggio presentarli come studi, produzioni provvisorie, processi in fieri, piuttosto che lavori chiusi e finiti. Questo vale per molti ma soprattutto per Fabiana Iacozzilli (Una cosa enorme), il cui lavoro sembra risentire di due temi distinti e non ben amalgamati, la paura della maternità e la cura dell’anziano incapace di badare a se stesso, così come per Babilonia il cui processo di relazione con il pubblico avrebbe forse bisogno di ulteriori indagini e aggiustamenti. Molti di questi lavori poi avranno sicuramente e purtroppo problemi ad essere distribuiti, con il Covid a complicare ulteriormente il panorama. L’intento di sostenere il teatro italiano passa anche attraverso la creazione delle condizioni per la circuitazione e il sostegno del futuro dei progetti. Farli venire al mondo non basta. La vitalità, sempre che ci sia, va coltivata se no si inaridisce e presto muore.

Teatro e mondo digitale

PENSIERI SPARSI SU TEATRO, STREAMING E MONDO DIGITALE

In questi giorni mi è tornato in mente un libro di Isaac Asimov appartenente al Ciclo dei robot, Il sole nudo. In questo romanzo il detective umano Elijah Baley, accompagnato dal robot umanoide R. Daneel Olivaw, indaga su un omicidio sul pianeta Solaria. Tra la Terra e questa colonia spaziale non vi può essere maggiore distanza culturale: la prima vive sovraffollata, compressa, sotto cupole in immensi agglomerati di cemento e acciaio; gli abitanti di Solaria vivono invece isolati, in vasti appezzamenti, comunicando con gli altri solo tramite trasmissioni olografiche, rifuggendo non solo il tocco con un altro essere umano, ma persino il vedersi dal vivo se non per brevi e assolutamente gravi motivi. Tra due civiltà tanto distanti non sembrerebbe possibile la nascita di alcun dialogo, eppure il seppur breve contatto tra il terreste e i solariani cambia radicalmente i pregiudizi culturali di entrambi i popoli.

La distanza abissale tra la Terra e Solaria mi è sembrata assonante con la questione tanto dibattuta in questi giorni tra teatro e streaming o più in generale tra teatro e mondo digitale. Non potremmo immaginare arte più distante dall’asettico mondo etereo della rete eppure in questo periodo di obbligata e dolorosa distanza dai palchi di legno, il teatro sembra di necessità sbarcato sul web. Probabilmente questo incontro era inevitabile, forse addirittura necessario. Certa è l’irreversibilità delle conseguenze ora difficilmente calcolabili.

Alcuni potrebbero pensare che mai il teatro potrà prescindere dal contatto umano di una comunità riunita nel qui e ora dell’istante, per dibattere questioni civili, politiche etiche e morali; altri potrebbero dire che tale comunità si fosse ridotta a riserva indiana e che il web è una se non l’unica via d’uscita dall’isolamento. Quando si adotta una nuova tecnologia da sempre il dibattito si divide manicheo tra i sostenitori e i detrattori, pessimisti e ottimisti, luddisti e futuristi. La storia umana ci dice che quando si adotta uno strumento tecnologico non si torna indietro. Scoperta la stampa la pratica di confezionare libri da artigiani amanuensi per quanto non sparì andò il soffitta per sempre, così come il cellulare ha mandato in pensione le cabine agli angoli delle strade. Nell’adottare un nuovo strumento si guadagna qualcosa e si perde qualcos’altro. Bisogna essere consci di cosa si lascia e cosa si ricava. Non solo. Come afferma James Bridle: «Nel momento in cui creiamo uno strumento diamo forma a una certa interpretazione del mondo che, una volta reificata, è in grado di produrre un dato effetto su quel mondo. Diventa così un altro ingranaggio della nostra comprensione del mondo – per quanto spesso per via inconscia».

L’incontro tra teatro e mondo digitale quindi provocherà inevitabilmente una modificazione del concetto che l’arte scenica ha avuto per noi fino ad oggi. Possiamo decidere se controllare questo cambiamento o subirlo. L’adesione alla rete è avvenuta per il teatro in un momento di crisi totale. Potremmo quasi dire che l’arte scenica, come tutte le altre arti dal vivo, non ha potuto far altro trovandosi improvvisamente, a causa della pandemia, in un vicolo cieco.

Per quanto soprattutto la mia generazione, quella dei quarantenni, sia stata portata a considerare il web come una tecnologia neutra se non addirittura super democratica e antisistema (immensi archivi gratuiti, costi ridotti di promozione, accesso più o meno legale ma gratuito ai prodotti culturali e infine accesso alle notizie che i media tradizionali tendono ad occultare, per citare alcuni di questi cliché culturali), internet è tutt’altro che un luogo privo di pericoli. Bernard Stiegler usa la parola greca Pharmakon per riferirsi al web: veleno e medicina. Un luogo dunque di chiaroscuri in cui è bene avventurarsi sapendo quali rischi si corrono dal momento che il DNA teatrale sembra ormai innestato di fibre ottiche e bit digitali. Ne La mosca di Cronenberg quando Seth Brundle aziona il teletrasporto non sa che nella cabina c’è una mosca. La macchina di sua spontanea volontà non trasporta due esseri distinti ma mischia il loro DNA e se, in un primo momento, lo scienziato sperimenta grandi vantaggi, con il passare del tempo l’ibridazione lo porta alla morte.

Bernard Stiegler

La questione di un alleanza/connubio tra arti dal vivo e web è ovviamente di vasta portata e non sarà certo un articolo a dipanare una matassa quanto mai intricata. Ci limiteremo a indicare qualche percorso di riflessione.

Partiamo dall’ovvio: in teatro (come nella danza o nella performance) oltre all’incontro tra performer e pubblico nel qui e ora si opera anche un montaggio della visione unico per ciascuno spettatore. Il suo occhio è libero di incontrare sul palco quello che gli suscita maggiore curiosità, interesse, affezione, commozione. Nel semplice streaming come è stato fatto fino a oggi questo viene totalmente a perdersi. A imporsi è o una regia televisiva/cinematografica nelle produzioni più ricche o un semplice totale a camera fissa che replica il punto di vista centrale e appiattisce la visione per quelle più povere. Forse bisognerebbe trovare il modo di recuperare un modello di visione personale e unica prima di adattarsi unicamente allo stampo televisivo. Come fare? E qui sarebbe interessante una sperimentazione.

Ma non è solo una questione di spazio: il tempo del web è abissalmente più rapido e instabile di quello percepito in una esperienza artistica dal vivo. Per farsi un’idea empirica della questione basta vedere l’oscillazione di presenze nelle dirette Facebook o Instagram. Il tempo lento della presenza è in assoluto contrasto con il tempo rapido e discontinuo di internet. Persino l’on demand viene spesso spezzettato (il termine tecnico è “spacchettamento dei contenuti” es. Santa estasi di Antonio Latella, spacchettato in episodi come una serie TV) così perdendo lo sprofondarsi nel tempo dell’opera. La visione è distratta tanto quanto la lettura. Questo però non è necessariamente un male. Il jazz riadattò i tempi di esecuzione dei propri brani a quello dei 78giri e nelle esecuzioni dal vivo niente impedì il perpetuarsi di brani di ampio respiro. È dalla comparsa dei mezzi di riproduzione di massa che le arti si sono adattate e modificate.

Santa estasi Antonio Latella

Il principale pericolo per qualsiasi contenuto voglia sbarcare sul web è invece la logica computazionale, quella che Antoinette Rouvroy e Thomas Berns chiamano “la governabilità algoritmica della rete”. Tale criterio volto a quantificare più che a qualificare è figlio della logica neoliberista e di fatto ha già contaminato le modalità di accesso ai finanziamenti. Non si premia il progetto più interessante, meglio realizzato o più fecondo in una strategia a lungo periodo, ma quello che ottiene migliori valori e prestazioni quantificabili: numero di borderò, biglietti staccati, giornate lavorative, etc. Google, Facebook, Amazon e Apple, i cosiddetti “quattro cavalieri dell’apocalisse”, attualmente i veri padroni di internet, stanno implementando solo logiche computazionali che inevitabilmente modificano il nostro modo di pensare il mondo.

Stiamo esagerando? Pensate: quale ristorante scegliete su Tripadvisor? Quello con centinaia di recensioni o quello che ne ha solo una decina? Su Netflix scegliete d’istinto La casa di carta o la sconosciuta serie turca o indiana? Su Spotify di un gruppo che non conoscete, per farvi un’idea, non scegliete forse la canzone più gettonata? Siamo ormai influenzati a scegliere ciò che riscontra maggiori consensi senza troppo domandarci quali sono le ragioni e le radici di tale consenso. Nel mio paese, meta turistica per milioni di persone da tutto il mondo, con l’avvento di Tripadivsor i ristoratori, per protesta al nuovo mezzo che legittimava chiunque a interpretare la parte di Joe Bastianich, spinsero al primo posto in classifica un salumiere che faceva semplici panini al prosciutto!

Se la questione è la quantità vi sono molti modi per ottenerla, e soprattutto la logica computazionale è legata al culto del profitto e per questo tende ad eliminare le singolarità alla ricerca di ciò che incontra maggiormente i gusti dei potenziali utenti. Credete che questo non influenzi le arti? Epagogix è una società inglese incaricata dai maggiori produttori hollywoodiani di sviluppare delle reti neurali per dragare la rete e scoprire quali scene dei film vengano considerate migliori e più divertenti dal pubblico in modo da replicarne i risultati.

Se la rete offre indubbi vantaggi nella messa a disposizione degli archivi di teatri, festival e istituzioni, finalmente raggiungibili non solo dagli studiosi ma anche dai semplici appassionati, qualche dubbio si affaccia sulla questione in questi giorni molto dibattuta sulla reale possibilità di aumentare i pubblici raggiungendo fasce per ora restie a frequentare le sale teatrali. Come fa notare il già citato Bernard Stiegler gli algoritmi dei social e di Youtube mettono in relazione chi è già in relazione, chi già esprime inclinazione verso, il resto viene quasi totalmente escluso. Se guardo un video o ascolto un album dei Metallica difficilmente mi capiterà nei suggerimenti Tricky o Paul Kalkbrenner. Lo possiamo notare tutti semplicemente dando un’occhiata alla sezione “persone che potresti conoscere” sulle nostre pagine Facebook e constatare che quasi tutte fanno parte in qualche modo del nostro giro di interessi. Questa modalità è logica in un contesto neoliberista in cui quello che conta è vendere dei prodotti e dove quindi è necessario non mettere in evidenza le singolarità ma la maggior fetta possibile di interessati in base a preferenze già espresse. Se posto una foto di fiori è persino ovvio che gli algoritmi suggeriscano pubblicità e contatti con fioristi e vivaisti, ma nel caso di un oggetto culturale questa tendenza a settorializzare gli interessi non andrebbe a replicare la chiusura che già c’è nella realtà? Ricordiamoci che le macchine portano in sé i difetti dei loro costruttori, anche se a volte sorprendono per la libertà di prendere decisioni autonome.

Conseguenza di questo aspetto è quella che viene definita “delaminazione dei dati”. Un articolo scritto da un grande reporter con fonti verificate e verificabili, dagli algoritmi di ricerca viene accostato per assonanza a qualsiasi altro che riporti nell’indicizzazione simili o identiche catene di parole chiave. Tale prossimità comporta l’incapacità per la maggior parte degli utenti di distinguere la qualità delle fonti e delle notizie, cosa di cui si avvantaggiano gli inventori di fake news o chiunque sia interessato a confondere le acque. Per fare un esempio in campo teatrale Acqua di Colonia di Frosini e Timpano in chiaro sulla rete potrebbe essere tranquillamente accostata a video di apologia del fascismo o che inneggiano all’intolleranza e alla discriminazione razziale. Il pubblico si troverebbe a dover ricostruire un contesto e non sempre, come nel caso delle news, ne sarebbe in grado. Bisognerebbe cercare di avviare azioni a contrasto di questi meccanismi, verso una reale messa in relazione di ambiti diversi ma compatibili (pensiamo alle neuroscienze come a tutto il mondo dell’educazione per esempio). Un campo di sperimentazione fecondissimo sarebbe dunque quello di implementare strategie per ricostruire un’agorà di singolarità in un mondo digitale regolato dalla similarità e replicabilità.

Acqua di colonia Compagnia Frosini Timpano

Altra questione di cui tener conto è come far fronte al diluvio dei dati. Lope de Vega in Todos los ciudadanos son soldados scriveva: «quanti libri, quanta confusione!/Intorno a noi un mare di carta stampata/e per lo più piena di fandonie». I tempi cambiano ma le questioni restano. Viviamo oggi un periodo in cui il teatro e la danza sono affette da iperproduzione e questo proprio per il meccanismo dei finanziamenti pubblici e privati concepiti a partire da assunti economici neoliberisti. Come critico lo scorso anno ( ma è così da almeno cinque) ho assistito dal vivo a circa duecentottanta spettacoli in dieci regioni e due stati esteri, partecipando a ventotto festival, oltre alla partecipazione a svariate rassegne di teatri. Molto al di sopra della media nazionale dello spettatore medio e nonostante questo ho una ben parziale conoscenza di quanto venga effettivamente prodotto in questo paese. A volte diventa difficile scoprire nuove realtà o talenti emergenti proprio perché non si ha proprio la possibilità di vederli. In un passaggio sul web questo aspetto verrebbe portato a un eccesso difficilmente risolvibile aggravato dalle regole interne di internet: pageranking e tecniche SEO. Chi si avvantaggerebbe sarebbero ovviamente i soggetti con maggiori disponibilità di fondi da investire. I piccoli come sempre dovrebbero arrabbattarsi, oltre alla difficoltà di reperire il tempo per occuparsi della questione.

Per concludere questo breve quanto incompleto excursus parlare di un Netflix teatrale o di uno sbarco sul digitale come si parlasse della conquista di Marte dovrebbe essere accompagnato da una riflessione veramente approfondita delle modalità di ibridazione di teatro e mondo digitale. La necessità e il bisogno spesso fanno fare scelte foriere di conseguenze non sempre positive e, come appurato dalla storia, adottare uno strumento non solo diventa irreversibile ma modifica inevitabilmente il nostro modo di percepire e di pensare. È quella che gli i neuroscienziati chiamano neuroplasticità del cervello, ossia la capacità di riorganizzare i percorsi neurali a seconda degli stimoli provenienti dalla realtà. Plastiticità però non significa elasticità. Una volta adattato, il cervello non fa passi indietro. Lo sa qualunque ex fumatore.

La tecnologia esiste e non ha senso scagliarvisi contro o osteggiarla. Essa va utilizzata con coscienza, adattandola alle esigenze e alle necessità. Non bisogna subirla. Equivarrebbe a esserne schiavi. Sarebbe desolante dover constatare come Nicholas Carr che :«Lo schermo del computer dissipa i nostri dubbi con i suoi vantaggi e le sue ricompense che sembrerebbe ingeneroso osservare che è anche il nostro padrone».

Letture consigliate

Nicholas Carr Internet ci rende stupidi? Come la rete sta cambiando il nostro cervello, Cortina Raffaello, 2010

James Bridle Nuova era oscura, Produzioni Nero, 2019

Alfie Brown Capitalismo e Candy Crush, Produzioni Nero, 2019

Bernard Stiegler Il chiaroscuro della rete, Youcanprint, 2014

Yuval Noah Harari Ventuno lezioni per il XXI secolo, Bompiani, 2018

Mark Fisher Realismo Capitalista, Produzioni Nero, 2018

Jean Baudrillard Cyberfilosofia, Mimesis, 2010

Jean Baudrillard La scomparsa della realtà, Fausto Lupetti editore, 2009

Simon Sellars Ballardismo applicato, Produzioni Nero, 2019

www.arsindustrialis.org

Michele Mele

LO STATO DELLE COSE: INTERVISTA A MICHELE MELE

Per la sedicesima intervista per Lo stato delle cose incontriamo Michele Mele. Anche con lui affrontiamo le questioni che concernono creazione scenica, produzione, distribuzione, rapporto con il reale e funzioni della scena. Il viaggio che ci siamo proposti all’inizio di questo ciclo di interviste era scoprire la ricchezza di pensiero degli artisti che oggi lavorano e creano in un contesto estremamente complesso, e volevamo anche provare a ragionare con loro alla ricerca di soluzioni possibili.

Michele Mele si occupa di organizzazione teatrale e collabora con la Compagnia Stabilemobile di Antonio Latella, cura la promozione di Anagoor nell’abito del progetto Fies Factory e dal 2018 cura il managing del progetto Ultra con Gruppo Nanou e Masako Matsushita. È stato candidato al Premio Ubu 2019 nella categoria miglior organizzatore.

D: Qual è per te la peculiarità della creazione scenica? E cosa necessita per essere efficace?

La peculiarità del mio lavoro riguarda l’accompagnamento: conoscere e affiancare gli artisti e seguire la loro progettualità fin dall’inizio. A me interessa capire che cosa una creazione rappresenta all’interno di un percorso, quale direzione indica.
Hai presente quando esci da teatro e vuoi sapere tutto del lavoro dell’artista che hai visto, degli attori, vuoi leggere la letteratura completa dell’autore/autrice?
Ne devi volere ancora…

D: Oggigli strumenti produttivi nel teatro e nella danza si sono molto evoluti rispetto solo a un paio di decenni fa, – aumento delle residenze creative, bandi specifici messi a disposizione da fondazioni bancarie, festival, istituzioni -, eppure tale evoluzione sembra essere insufficiente rispetto alle esigenze effettive e deboli nei confronti di un contesto europeo più agile ed efficiente. Cosa sarebbe possibile fare per migliorare la situazione esistente?

Oggi ci sono più strumenti e meno soldi, budget inferiori rispetto a 10 anni fa per progetti che coinvolgono molti più soggetti, nel migliore dei casi anche molto diversi tra loro.

I teatri, più che gli artisti o i festival, possono mettere in campo azioni concrete inserite in logiche strutturali: proporre ad esempio lo stesso numero di repliche per teatro, danza e musica (contemporanei) nelle stagioni ‘classiche’, uscendo dalle logiche perimetrali delle sezioni, delle rassegne, delle architetture comunicative e cercare di mettersi in relazione con gli artisti e con i territori. I teatri vinceranno la sfida se sapranno rendersi veramente attraversabili, prima di tutto come spazi: lasciarsi abitare dagli artisti e dai loro progetti, creare le condizioni per una relazione di prossimità con il pubblico, fare in modo che le varie comunità vi transitino concretamente.

D: La distribuzione di un lavoro sembra essere nel nostro paese il punto debole di tutta la filiera creativa. Spesso i circuiti esistenti sono impermeabili tra loro, i festival per quanto tentino di agevolare la visione di nuovi artisti non hanno la forza economica di creare un vero canale distributivo, mancano reti, network e strumenti veramente solidi per interfacciarsi con il mercato internazionale, il dialogo tra gli indipendenti e i teatri stabili è decisamente scarso, e prevalgono i metodi fai da te. Quali interventi, azioni o professionalità sarebbero necessari per creare efficienti canali di distribuzione?


Teatri, festival, artisti, compagnie potrebbero interagire di più e meglio, limitando le collaborazioni episodiche e privilegiando progettualità a medio e a lungo termine; il lavoro promozionale va esteso dallo spettacolo all’artista e al suo percorso nel suo complesso. A livello ministeriale si potrebbe fare di più e meglio in termini di servizi alle imprese e ai teatri dato che vengono richiesti numeri così importanti, mettere ad esempio in campo azioni e professionalità che rendano più semplice produrre determinati numeri. Perché non è il Ministero a fornire ad artisti e compagnie le figure professionali necessarie alla produzione, alla promozione e alla distribuzione dei lavori?

D: La società contemporanea si caratterizza sempre più in un inestricabile viluppo tra reale e virtuale, tanto che è sempre più difficile distinguere tra online e offline. In questo contesto quali sono oggi, secondo la tua opinione, le funzioni della creazione scenica che si caratterizza come un evento da viversi in maniera analogica, dal vivo, nel momento del suo compiersi, in un istante difficilmente condivisibile attraverso i nuovi media, e dove l’esperienza si certifica come unica e irripetibile ad ogni replica?

Le funzioni della creazione scenica mi auguro siano ancora le stesse, pur mutando epoche e contesti. Credo abbiano a che fare con l’incontro, la diversità, il conflitto, la trascendenza, insomma con la dimensione comunitaria. Il carattere rituale della creazione, il suo esprimersi come condivisione, acquisisce un senso ulteriore in questo contesto digitale. E’ evidente che sta mutando la soglia dell’attenzione, che la curiosità scarseggia, che si approfondisce poco e male, che a volte bisognerebbe isolare i teatri da linee di telefonia mobile e wifi, che spesso abbiamo la percezione che la gente non sappia stare più insieme, ma ci sono ancora migliaia di persone che decidono di passare anche 3/4 ore in un teatro per una tragedia greca, seduti e in silenzio (le ho viste).

D: Con la proliferazione dei piani di realtà, spesso virtuali e artificiali grazie ai nuovi media, e dopo essere entrati in un’epoca che potremmo definire della post-verità, sembra definitivamente tramontata l’idea di imitazione della natura, così come la classica opposizione tra arte (come artificio e rappresentazione) e vita (la realtà intesa come naturale). Nonostante questo sembra che la scena contemporanea non abbia per nulla abbandonato l’idea di dare conto e interrogarsi sulla realtà in cui siamo immersi. Qual è il rapporto possibile con il reale? E quali sono secondo te gli strumenti efficaci per confrontarsi con esso?

Dobbiamo salvare il pianeta, combattere i cambiamenti climatici, ripulire i mari, ridurre le emissioni, curare le montagne e le campagne, non inquinare, essere più rispettosi verso ciò che abbiamo intorno. Il Teatro e la Danza possono essere strumenti straordinari di confronto con il reale ma dovranno prima rendersi ancora più accessibili e soprattutto sostenibili.

Liv Ferracchiati

LO STATO DELLE COSE: INTERVISTA A LIV FERRACCHIATI

Per la quindicesima intervista per Lo stato delle cose incontriamo Liv Ferracchiati. Anche con lui affrontiamo le questioni che concernono creazione scenica, produzione, distribuzione, rapporto con il reale e funzioni della scena. Il viaggio che ci siamo proposti all’inizio di questo ciclo di interviste era scoprire la ricchezza di pensiero degli artisti che oggi lavorano e creano in un contesto estremamente complesso, e volevamo anche provare a ragionare con loro alla ricerca di soluzioni possibili.

Liv Ferracchiati ha fondato la Compagnia The Baby Walk, e i suoi lavori hanno riscontrato negli ultimi anni un grande consenso, tanto che sono stati ospitati dai principali teatri e festival nazionali. Vincitore del Premio Scenario 2017 ha portato sulle scene la Trilogia dell’identità di cui fanno parte Peter Pan guarda sotto le gonne, Stabat Mater e Un eschimese in Amazzonia. Il suo ultimo lavoro è Commedia con schianto. Struttura di un fallimento tragico. In preparazione una versione di Platonov eLa morte a Venezia

Qual è per te la peculiarità della creazione scenica? E cosa necessita per essere efficace?

Per me non esiste una peculiarità della creazione scenica. Il teatro è un’arte impura e questa è la sua potenza e la sua libertà.

Quando però inizi un processo creativo, lo fai sapendo che il tuo lavoro si completerà, oltre grazie al filtro degli interpreti, in relazione allo spettatore. Devi sapere in quali spazi andrai, perché lo spazio cambia la prossimità con il pubblico, con uno spettatore che è lì in quel momento e che, oggi, ha in più la via di fuga del cellulare. Non si lotta più solo per l’attenzione, contro la noia (non sempre voluta), si lotta contro la dipendenza dalla tecnologia, contro la velocità. Per il resto, la diatriba è una questione di gusto. Un contrasto di sensibilità o un incontro elettivo tra l’evento scenico e il teatro interiore di ognuno.

Si potrebbe parlare di efficacia e per essere efficace la creazione scenica dev’essere organica, deve quindi contenere un utilizzo di spazio, luce, suono, voce, corpo e di altri mezzi rivolti alla percezione, in modo che il pubblico possa fare da specchio riflettente e rimandare un’energia sul palco. Una peculiarità della creazione scenica consiste nel suo essere un gioco tra palco e sala, come una partita di tennis, dove però vince il palleggio.

Insomma, è la forma a far fluire il linguaggio dell’opera ed è il lavoro sulla previsione della percezione a determinarne l’efficacia.

Bisogna sentire il ritmo della scena, il tempo della luce e lo spazio che occupa il suono.

Una luce che va via un secondo prima anziché un secondo dopo può determinare la cattiva riuscita di una scena, un volume troppo alto o troppo basso mancare un effetto, una frase detta meccanicamente perché magari l’attore è agitato può far saltare il testo, eppure queste cose succedono, perché il teatro è un’arte in azione: è uno spettacolo dal vivo, come si sa. Anche per questo è un’arte impura. Guardo con qualche diffidenza alle discussioni su cosa sia o non sia “teatro”, perché, seppure utili a uno scambio di idee, in sostanza, le sento velleitarie.

Non mi piacciono nemmeno tanto i commenti dopo uno spettacolo, positivi o negativi, di solito dopo gli spettacoli degli altri scappo, dopo i miei esco due ore dopo. Perché come spettatore ho fatto parte di un processo e non posso parlare di quel che ho visto come se ne fossi estraneo, anche se non mi è piaciuto. Sono stato lì e con la mia energia ho concorso a renderlo più bello o più brutto. Da autore rispetto quel momento negli altri e non li voglio costringere al commento-bon ton.

Insomma, la storia si ripete di continuo: c’è sempre una linea più accademica che si scontra contro una linea più rivoluzionaria, si discute, poi passa del tempo, ci si abitua e siamo di nuovo da capo.

Teatro può essere tutto, dipende dall’intuizione che hai e da quanto sei abile a tradurla.

La peculiarità della scena, o dell’arte in senso più ampio, è essere aderenti al proprio sentire, non aver paura di non piacere, anzi, allarmarsi quando si piace a troppi.

Liv Ferracchiati
Liv Ferracchiati

Oggi gli strumenti produttivi nel teatro e nella danza si sono molto evoluti rispetto solo a un paio di decenni fa, – aumento delle residenze creative, bandi specifici messi a disposizione da fondazioni bancarie, festival, istituzioni -, eppure tale evoluzione sembra essere insufficiente rispetto alle esigenze effettive e deboli nei confronti di un contesto europeo più agile ed efficiente. Cosa sarebbe possibile fare per migliorare la situazione esistente?

Credo che proprio questa frammentazione dispersiva di proposte costituisca un problema. Spesso ci si trova di fronte a molte realtà che magari hanno un budget troppo modesto da offrire a una compagnia o a un artista, del tutto insufficiente a coprire l’operato delle persone coinvolte nel progetto. Come se il teatro non fosse un lavoro. Non è un lavoro comune, credo, ma è un lavoro che ha bisogno di essere retribuito adeguatamente, come ogni altro. Se offro un’opportunità di studio per un progetto sto offrendo un lavoro, quindi devo avere risorse adeguate per paga, vitto, alloggio, rimborsi, ecc. ecc. Insomma, bisogna tenere ben presente che lo studio, la progettazione, la creatività scenica sono lavoro e come tale, vanno retribuiti, sempre.  Spesso, i teatranti sono i primi a rinunciare a questo principio. Se, per esempio, qualcuno offre una possibilità non retribuita bisognerebbe avere il coraggio di dire di no e di far saltare il progetto, per cercare realtà più virtuose.

Fare questo può significare tagliarsi fuori da questa sorta di mercato?

Già, ma lavorare gratis non equivale a tagliarsi fuori comunque? Non significa accettare che un mestiere complesso sia trattato alla stregua di un passatempo?

Esistono realtà virtuose, però. Nel mio piccolo ho avuto la fortuna di incontrarne e vorrei citare, ad esempio, il mio rapporto con il Teatro Stabile dell’Umbria che mi ha dato la possibilità, non solo di scegliere liberamente i miei progetti, ma anche di svilupparli secondo le mie modalità di lavoro. Quello che insomma dovrebbe fare ogni produzione che si confronta con un artista, ognuno diverso dagli altri e con esigenze diverse dagli altri.

Esistono poi rassegne importanti, come la Biennale Teatro, diretta Antonio Latella, che non ha esitato a dare visibilità ad artisti e compagnie di nicchia, come ad esempio la mia The Baby Walk. Insomma, io sono stato fortunato, ma questo significa che delle opportunità valide esistono.

La distribuzione di un lavoro sembra essere nel nostro paese il punto debole di tutta la filiera creativa. Spesso i circuiti esistenti sono impermeabili tra loro, i festival per quanto tentino di agevolare la visione di nuovi artisti non hanno la forza economica di creare un vero canale distributivo, mancano reti, network e strumenti veramente solidi per interfacciarsi con il mercato internazionale, il dialogo tra gli indipendenti e i teatri stabili è decisamente scarso, e prevalgono i metodi fai da te. Quali interventi, azioni o professionalità sarebbero necessari per creare efficienti canali di distribuzione?

Vorrei chiederti di più su “i metodi fai da te”, mi interesserebbe approfondire.

Che dire?

Bisognerebbe andare al Ministero della Cultura a porre queste domande.

O bisognerebbe distruggere le logiche di potere, certo, ma come si potrebbe fare? Peraltro, in quanti altri ambiti della vita nazionale sarebbe necessario farlo? Potrebbe servire mettere alla direzione dei teatri di produzione, pubblici e privati, persone esperte e appassionate, capaci di leggere la scena contemporanea, mentre spesso le nomine sono dettate da convenienze politiche o di altro genere. Anche questa è una consuetudine di tanti altri settori, però. Francamente, non credo di poter trovare risposte congrue e risolutive alla tua domanda, il mio mestiere non è la Politica.

Potrei semmai individuare qualche altro ostacolo a un buon funzionamento dell’organizzazione teatrale. Per esempio, se la distribuzione è di fatto un problema serio, endemico al sistema teatrale italiano, la lunga tenitura di una produzione in un teatro è un problema ancor più ingombrante. Così, una volta superata la difficoltà di mettere insieme il budget necessario per una produzione fino ad alzata di sipario, è noto che, anche facendo il tutto esaurito ogni giorno, l’incasso del teatro mai arriverebbe a coprire il foglio paga della compagnia durante le recite, perché sul costo del lavoro di maestranze e artisti, a fronte di paghe nette, in media, appena sufficienti, incidono i pesanti oneri aziendali. Oltre al foglio paga, restano sempre da coprire le spese di esercizio. D’altra parte, c’è il sistema degli abbonamenti, che tiene in piedi le sale teatrali ma obbliga a offrire sempre più titoli in cartellone, con teniture sempre più brevi, e questo costituisce un concreto ostacolo alla permanenza di un solo spettacolo in scena.

Ecco due aspetti del nostro sistema teatrale che, da anni, hanno ridotto la Prosa a una presenza intermittente di proposte, troppo spesso, disparate tra loro e hanno contribuito a un rapporto più freddo e disimpegnato con il pubblico teatrale. Una situazione che pone gravi limiti alla crescita del lavoro degli interpreti, nonché alla formazione di nuove leve, sia di artisti, sia di tecnici. Insomma, da autore e regista, so che gli spettacoli dovrebbero restare in scena a lungo e senza interruzioni, perché solo le teniture fanno crescere gli spettacoli.

Utopia?

Sì, forse, nel nostro Paese, carico di questioni sociali irrisolte, afflitto da una burocrazia ingombrante e compromessa, gravato da disfunzioni economiche e finanziarie, potrebbe sembrare un’utopia, ma in in un mondo normale sarebbe una pratica consolidata.

Liv Ferracchiati
Liv Ferracchiati

La società contemporanea si caratterizza sempre più in un inestricabile viluppo tra reale e virtuale, tanto che è sempre più difficile distinguere tra online e offline. In questo contesto quali sono oggi, secondo la tua opinione, le funzioni della creazione scenica che si caratterizza come un evento da viversi in maniera analogica, dal vivo, nel momento del suo compiersi, in un istante difficilmente condivisibile attraverso i nuovi media, e dove l’esperienza si certifica come unica e irripetibile ad ogni replica?

La scena è più lenta del sistema di immagini veloci che, come si dice, “scrolliamo” sul cellulare o che passiamo in rassegna aprendo il computer.

In più, il teatro richiede uno sforzo di volontà: staccare gli occhi da uno schermo e uscire.

Sento che siamo sempre più dipendenti da qualcosa che ci ipnotizza e ci toglie la possibilità di pensare, forse di muoverci. Il teatro, allora, deve contrapporsi a questo, usando qualsiasi linguaggio, non importa se con l’imitazione del vero o con l’artificio più grottesco. Credo sia importante che le idee tornino ad essere il nucleo centrale della creazione.

Ecco: utilizzare la scena per rimettere al centro di ogni lavoro le idee.

Non ho in mente un teatro a tesi o conferme a canoni accademici, parlo proprio di idee nella loro forma più libera. Bisogna tornare a chiedersi con forza: di cosa voglio parlare? Cosa per me è urgente dire adesso?

Spesso si prende in giro la parola “urgenza”, forse perché abusata, per me invece è una parola necessaria.

Il nostro lavoro non si può fare senza un motore, lasciandosi attrarre dall’esserci o lasciandosi andare alla routine, bisogna che siamo mossi da qualcosa.

Un’idea mi sembra sufficiente, purché sia forte.

Del resto, la stessa spinta serve a chiunque per vivere e conosco tante persone, impegnate in ambiti diversi, che mettono molta passione nel loro lavoro e sono mosse da idee.

Con la proliferazione dei piani di realtà, spesso virtuali e artificiali grazie ai nuovi media, e dopo essere entrati in un’epoca che potremmo definire della post-verità, sembra definitivamente tramontata l’idea di imitazione della natura, così come la classica opposizione tra arte (come artificio e rappresentazione) e vita (la realtà intesa come naturale). Nonostante questo sembra che la scena contemporanea non abbia per nulla abbandonato l’idea di dare conto e interrogarsi sulla realtà in cui siamo immersi. Qual è il rapporto possibile con il reale? E quali sono secondo te gli strumenti efficaci per confrontarsi con esso?

Credo sia impossibile prescindere dal reale, quello che ci accade intorno influisce su ciò che sentiamo, ci forma, ci rende più o meno sensibili, più o meno intelligenti.

Anche una forma astratta, un racconto surreale saranno determinati dal rapporto con ciò che è considerato reale, se non altro per il gioco del paragone.

Per me, il lavoro creativo è prima di tutto un’indagine su chi è l’essere umano, una ricerca che mi serve a comprendere le mie azioni e quelle di chi mi sta intorno.

Gli strumenti efficaci per confrontarsi con esso, come ho detto nella prima risposta, possono cambiare di volta in volta. Vorrei chiudere così il cerchio della riflessione che tu hai stimolato: il linguaggio può cambiare continuamente, al centro bisogna riportare l’idea.

Club Gewalt

Biennale Teatro 2019: nuovi pensieri drammaturgici e il caso Club Gewalt

Si è conclusa da pochi giorni la terza edizione della Biennale Teatro di Venezia diretta da Antonio Latella e dedicata alla drammaturgia in un ideale trittico, dopo regia e attore/performer, all’esplorazione della scena contemporanea.

Su quest’ultimo aspetto del teatro contemporaneo si sta giocando la partita più interessante, al fine di delineare le future funzioni dell’arte teatrale, nel prossimo futuro. Le scelte drammaturgiche determinano le modalità operative di un incontro con il pubblico e le norme di messa in questione del reale attraverso il teatro.

Non si tratta dunque tanto di scegliere come raccontare una storia, ma quanto piuttosto di stabilire un’azione, o una serie di azioni, che definiscono nuovi confini all’interno del complesso rapporto tra il pubblico, la scena e il reale quotidiano.

Nel momento in cui un collettivo o un singolo artista decide di proporre una modalità partecipativa, costruendo una drammaturgia che coinvolga lo spettatore nella costruzione di una performance, ne determina fatalmente le funzioni, nonché le scelte di messa in scena e le tecniche di recitazione. Lo stesso accade quando si sceglie di chiedere al pubblico di essere semplicemente uno sguardo esterno senza però intervenire su quanto avviene se non tramite una riflessione post eventum (ad esempio l’appelation di Milo Rau). All’interno di questo perimetro stabilito vi sono infinite varianti, possibilità e opportunità, la cui esplorazione garantirà la nascita di una futura scena.

La Biennale Teatro 2019 offriva l’opportunità di esperire diverse scuole di pensiero drammaturgico: nuove scritture i cui testi potevano affrontare le crisi della contemporaneità con linguaggi più complessi e aperti, drammaturgie condivise in grado di costruire, a partire dal lavoro scenico, dispositivi scenici mirati a chiedere al pubblico di prendere una posizione o che prevedono una costruzione e uno sviluppo insieme all’azione diretta dello spettatore.

Si è constatato come si stia compiendo oggi una transizione iniziata negli anni Cinquanta del secolo scorso, per non dire con i primi esperimenti delle avanguardie storiche, da opera-oggetto a opera-esperienza. Dai primi esperimenti di John Cage al Black Mountain College, passando per la nascita dell’happening e della performance, l’evento artistico si è conformato sempre più come un momento in cui tramite un’esperienza e una modalità di relazione si mette alla prova il mondo e un pensiero sul mondo. Anche quando si richiede solamente una visione, questa diventa atto di montaggio, azione attiva dell’occhio dello spettatore che ricombina quanto visto in una conformazione sua propria da cui può trarre o dedurre delle conseguenze nel proprio vivere reale. L’atto scenico attraverso l’azione drammaturgica diventa un prassi filosofica, un pensiero in atto, che fa sfuggire dalle gabbie della pura rappresentazione anche qualora se ne utilizzino le regole sistemiche. Un fenomeno rintracciabile soprattutto nei colpi di coda della tradizionale opera oggetto laddove questa fallisce sempre più l’incontro e l’interesse del pubblico. L’incontro con l’oggetto estetico in sé chiuso si determina sempre più come momento stantio, poco favorevole a un dialogo proficuo tra scena e platea.

Tra gli artisti proposti in questa selezione curata da Antonio Latella è parso di particolare interesse, in questo processo di trasformazione e metamorfosi dell’evento scenico, il collettivo olandese Club Gewalt con Yuri e Club Club Gewalt 5.0 punk. Formato da sette performer estremamente versatili nell’utilizzo di vari linguaggi artistici benché il collettivo prediliga l’aspetto musicale e canoro nei propri lavori. Si potrebbe dire come l’azione artistica del gruppo di Rotterdam sia l’ultima propaggine di una sperimentazione sull’opera in musica. Non è un caso che gli stessi Club Gewalt definiscano la loro ricerca come un percorso volto a creare il Gesammt Kunstwerk (opera d’arte totale di wagneriana memoria) del Ventunesimo secolo. Per giungere a tale risultato i materiali coinvolti nella scrittura scenica spaziano dall’alta cultura, tradizionalmente intesa alle icone pop e trash, in un vero genere superflat in cui manga e TV series convivono con Monteverdi e Scriabin. Materiali e tecniche così concepiti e mixati sono al servizio di una funzione che delinea l’opera d’arte dal vivo come atto politico di intervento e presa di coscienza del reale. Immigrazione, politica ambientale e il veganismo ad esso strettamente legato, femminismo e contrasto alle nuove destre estreme emergenti nel continente europeo sono solo alcuni dei temi sviluppati dalla loro ricerca artistica.

Yuri, a workout opera racconta le vicende sportive del ginnasta olandese Yuri van Gelder, detto “il Signore degli anelli”, attraverso una playlist di allenamento e una coreografia di movimenti costruiti a partire da esercizi ginnici. I sette performer, in tutina da ginnastica su un palcoscenico allestito come una palestra, alla partenza del cronometro iniziano a cantare la parabola sportiva di Yuri, sorta di Icaro contemporaneo capace di raggiungere le più alte vette sportive e cadere rovinosamente. Il tono del racconto è tutt’altro che tragico in quanto le cadute sono non frutto di Hybris ma di sbadataggine e leggerezza. Yuri van Gelder fu estromesso dalla tanto agognata finale olimpica di Rio 2016 per aver festeggiato con numerose birre, contravvenendo alle norme di comportamento della sua federazione, evento che gli fruttò il soprannome di Lord of the drinks. La vicenda si dipana dunque tra doping, faticosi reinserimenti nel circuito mondiale, vittorie strepitose ed esclusioni clamorose, senza mai discostarsi da un tono leggero, frivolo, quasi vanesio come se l’esposizione mediatica della parabola sportiva di van Gelder abbia ridotto i momenti drammatici a semplice parentesi di gossip per i rotocalchi. Persino la fatica fisica di questo allenamento intenso, mostrato davanti agli occhi del pubblico, viene a svanire nell’immersione totale nella playlist eccitante, esaltante e divertente risuonata a volume altissimo. Questo appiattimento, tipico del superflat, congiunto con l’ironia leggera, svuota il potenziale tragico della storia personale di Yuri ma nello stesso tempo denuncia la frivolezza di un sistema che livella ogni umana vicenda a semplice notizia di intrattenimento per il tempo breve del consumo. Il timer scandisce i trentotto minuti della performance ma non è che simbolo di questo trangugiare bulimico a cui consegue un altrettanto rapido rigetto nell’oblio. Il finire consapevolmente anzitempo, di circa mezzo minuto rispetto al cronometro, e la conseguente attesa in silenzio nel giungere al termine, è ironica sottolineatura di un consumare le risorse ben oltre la nostra capacità di produrne di nuove.

Club Club Gewalt 5.0 punk è uno spazio che si trasforma in locale notturno, il bar è aperto e il concerto tra punk e hardcore ha inizio: questo è solo il debutto di un’esperienza teatrale in quattro quadri e della durata di più di tre ore responsabile di condurre lo spettatore in un vortice di pazzia e fisicofollia, come l’avrebbero definita i futuristi.

La performance si dipana in quattro capitoli: Punk – un’introduzione, Capitalismo – una commedia, Bingo – un gioco di vita, Politica – un dramma. Al pubblico vengono consegnati di volta in volta dei libretti in cui sono inclusi i testi delle canzoni, le istruzioni su quanto è chiesto di fare, la scansione degli eventi e delle singole scene. Si passa quindi da un concerto al varietà, dal bingo alla parodia di Game of Thrones, in cui si mettono in discussione i paradigmi della società capitalista e del concetto di consumo. Club Club Gewalt 5.0 punk è una performance molto complessa da descrivere e quindi conviene riferire solo alcuni punti chiave. In Bingo per esempio si divide il pubblico in quattro squadre identificate da diversi colori. La prima squadra a fare cinquina deve urlare “Bingo!” così da poter accedere al premio racchiuso in una delle quattro pignatte appese al soffitto, ciascuna indicante alcuni dei problemi o temi del nostro presente: eurocentrismo, violenza sugli animali, ambiente, femminismo. Nella frenesia del gioco portato al parossismo da musica ad alto volume, grida di giubilo indotte dai performer, domande quiz a tema economico e pignatte distrutte a colpi di mazza ci viene ricordata la spropositata cifra in milioni di dollari che gli americani spendono ogni anno in questo gioco.

Nella quarta parte – Politica, un dramma – due performer vestiti da John Snow e Daenerys Targarien, personaggi della nota serie Game of Thrones, inscenano un dialogo costellato di tentativi vicendevoli di assassinio le cui parole sono tratte da un confronto tra Bernie Sanders, uno dei leader democratici, e Scott Pruitt repubblicano negazionista delle influenze delle emissioni di gas serra nei cambiamenti climatici e designato alla guida dell’Agenzia per la protezione dell’ambiente dall’amministrazione Trump. Da questi semplici esempi si può comprendere la commistioni tra cultura alta e popolare, tra temi politici e intrattenimento che caratterizzano la pratica artistica di Club Gewalt.

Nonostante il grande impatto delle performance del gruppo olandese e la straordinaria vitalità e novità dei loro costrutti drammaturgici, non si può non rilevare come in qualche modo ritorni, declinato nel contesto contemporaneo, il problema sollevato da John Cage nel 1958 all’alba della nascita dell’Happening. La spinta rivoluzionaria e libertaria dell’allora nuovo movimento artistico, frutto di una prima commistione di generi e di sfondamento di barriere tra i singoli linguaggi, si scontrava con l’azione, in qualche modo dittatoriale, di spingere lo spettatore a fare quanto richiesto dai performer senza operare una vera scelta all’interno del percorso proposto (vedi per esempio la partitura di 18 Happenings in 6 parts di Allan Kaprow). John Cage polemizzò con i creatori dell’Happening, quasi tutti suoi allievi, rilevando la necessità di lasciare libero il pubblico di costruirsi il proprio percorso all’interno di una performance che permettesse la libertà di una scoperta. Intenzioni e pratica dell’Happening per Cage dunque divergevano. Così avviene anche per certe modalità di Club Gewalt le quali da una parte spingono il pubblico ad affrancarsi dai miti precostituiti dalla cultura capitalista e dall’altra inseriscono percorsi obbligati da cui non è possibile sfuggire, quasi inducendo una modalità prevista di consumo.

Da questa analisi in conclusione non è possibile non rilevare la grande qualità e novità di una ricerca plurilinguistica volta a costruire una performance capace di mettere al centro un’esperienza demistificante.

La presenza di Club Gewalt indica anche uno dei pregi di queste edizioni di Biennale Teatro dirette da Antonio Latella: il confronto consapevole tra ciò che avviene all’estero e la ricerca nostrana. Nell’arco di tre anni Latella ha selezionato gruppi, registi, collettivi poco conosciuti nel nostro paese la cui ricerca mette in discussione la drammaturgia, l’essenza dell’interprete, attore o performer che sia, nonché le modalità di ingaggio del pubblico. Tutto questo in dialogo sia con i nostri giovani, sia con artisti italiani già affermati. Tale colloquio non può che dirsi virtuoso e necessiterebbe di maggiori e più articolati momenti nel nostro panorama nazionale. Spesso infatti nelle direzioni artistiche dei grandi festival si cerca dall’estero ciò che è già acclamato e conosciuto più che mettere in relazione le ricerche dei vari paesi con quanto avviene, le più volte con ritardo, nel nostro paese. A costo di parere esterofilo il confronto con il panorama europeo resta assolutamente prioritario perché solo attraverso il raffronto con modalità diverse vi può essere una vera crescita.

Matilde Vigna

INTERVISTA A MATILDE VIGNA SU AMINTA DI ANTONIO LATELLA

Dopo aver visto Aminta di Antonio Latella al Teatro dell’Arte della Triennale di Milano ed essere rimasto affascinato dall’uso sonoro e musicale della parola del Tasso, ho sentito la necessità di conoscere e approfondire le fasi di lavorazione. Ho incontrato in questa intervista Matilde Vigna, cheinsieme a Michelangelo Dalisi, Emanuele Turetta e Giuliana Bianca Vigogna compone il cast di Aminta.

Matilde Vigna, è stata vincitrice del premio Ubu 2016 come migliore attrice under 35 insieme all’intero cast di Santa Estasi, sempre per la regiadi Latella. Recentemente è stata protagonista di Causa di beatificazione per la regia di Michele di Mauro, presente nel cartellone dello scorso Festival delle Colline Torinesi, e di Spettri per la regia di Leonardo Lidi alla Biennale Teatro 2018.

A partire da quale elemento avete iniziato ad affrontare il lavoro su Aminta?

Direi che ci siamo approcciati ad Aminta guidati da due direttrici: il lavoro sul verso e la ricerca di Amore. Abbiamo affrontato Tasso partendo dal verso, esplorando non soltanto la sua metrica e musicalità ma anche la verticalità dello stesso, la sua capacità di portarci in profondità. Allo stesso tempo ci siamo chiesti cosa sia amore – Amore? è infatti la domanda iniziale dello spettacolo. Cosa sia per noi oggi, cosa fosse per lo stesso Torquato Tasso, come questa parola (così difficile da dire, attorialmente parlando) ed il suo significato possano essere declinati in un’infinità di modi. Questa domanda è la freccia iniziale che scagliamo in mezzo al pubblico. Il verso è la corda tesa e vibrante che permette – assieme al lavoro musicale di Franco Visioli – questa scoccata.

Attraverso quali fasi il testo scritto, quello che Carmelo Bene chiamava il morto-orale, si è trasformato in parola viva?

Il lavoro di Antonio Latella con noi attori è stato principalmente incentrato sulla concretezza del verso parlato. Inoltre il lavoro con Linda Dalisi sul testo, a livello di comprensione, etimologie, radici storiche e curiosità, è stato fondamentale per la nostra comprensione ed appropriazione del testo stesso. Le dinamiche tra gli attori che dialogano (I personaggi infatti nella presentazione della prima edizione di Aminta vengono chiamati INTERLOCUTORI) rendono il verso vivo, concreto, radicato, è un lavoro in “verticale”. Latella ha insistito molto sulla verticalità. Il verso si fa carne, ci attraversa, ma ogni verso è una freccia scoccata dritta verso il pubblico. Anche il suono curato da Franco Visioli va nella direzione della verticalità e non secondario è stato per noi l’ostacolo/arma rappresentato dai microfoni, governati sempre da Visioli. Non fermarci al suono della nostra voce, alla musica del verso. Il microfono ci “ruba l’anima”, ma la direzione è sempre verso l’Altro e non può fermarsi alla capsula del microfono.

Puoi raccontarmi qual è stato il processo di messa in scena? quali sono state le differenti fasi di lavorazione?

Il primo incontro è avvenuto nell’ottobre 2017. Abbiamo incontrato il regista e la sua

squadra e il resto del cast, ed è stato entusiasmante. In questa fase abbiamo lavorato con Linda Dalisi, sul testo, sulla storia del Tasso e sul periodo storico, sulle varie versioni di Aminta e sull’iconografia e le esperienze musicali collegate. Anche noi attori avevamo dei compiti da preparare e questo è stato fondamentale per immergerci da subito totalmente nell’opera e in noi stessi, per contaminarci a vicenda e anche per farci conoscere dal resto della compagnia. In questa sede abbiamo lavorato con Francesco Manetti sulla polka: com’è evidente nello spettacolo la scelta è stata radicalmente diversa ma credo che il lavoro sul ritmo ci sia rimasto dentro e ci abbia permesso di dire poi i versi nell’immobilità senza perdere mordente. A marzo 2018 c’è stata un’altra fase di lavoro a Esanatoglia, nelle Marche. Noi attori dovevamo arrivare con la memoria del primo atto e alcuni dei pezzi musicali. Abbiamo iniziato ad incarnare i versi, a provare soluzioni sceniche. In questa fase noi attori “nuovi” al lavoro con la compagnia Stabilemobile abbiamo potuto toccare con mano la qualità di una compagine di artisti e professionisti di altissimo livello. Antonio Latella guida una squadra encomiabile e noi giovani ci siamo sentiti parte di un processo creativo plurilaterale – e in queste condizioni memorizzare pagine di versi diventa un piacere e un onore. A ottobre 2018 il processo si è concluso a Macerata, dove Aminta ha debuttato l’8 novembre al Teatro Lauro Rossi. In questo frangente il secondo tempo si è concretizzato, abbiamo aggiunto un ulteriore pezzo musicale (Vitamin C), il lavoro su noi attori, su luci, suoni, scena e costumi si è definito.

In che modo sono emersi i materiali musicali e quale rapporto instaurano con il testo?

Le scelte musicali sono opera di Latella e Visioli. Il Lamento dell Ninfa di Claudio Monteverdi (coevo del Tasso) si colloca nel primo atto dove predominano immobilità, costumi neri (ad eccezione di Tirsi), e restituzione del testo originale. Nel secondo tempo, dopo il monologo del Satiro – ossia qui la trasformazione di Aminta nel Satiro ad opera di Silvia – tutto cambia. La poesia si perde pur rimanendo, Amore ha scoccato la sua freccia, c’è una liberazione, un urlo. Sopraggiunge il rock. Quindi PJ Harvey con Rid of Me all’inizio e Vitamin C dei CAN alla fine. Oltre alla musicalità penso che anche le allusioni più o meno esplicite contenute nei testi di queste canzoni abbiano suggerito a Antonio Latella la loro collocazione.

Antonio Latella nell’intervista che mi rilasciò a luglio 2017 alla Biennale Teatro, mi disse chesecondo lui era finita l’era del regista-capitano della nave. Stava emergendo piuttosto una nuova figura, più simile a un direttore d’orchestra o a un compositore. Dal punto di vista di un attore come vedi questa trasformazione del ruolo del regista? Si avverte questo cambio di rotta?

Decisamente. Antonio Latella guida una squadra di artisti che lavorano in autonomia, che propongono, c’è un confronto continuo. L’immagine del direttore d’orchestra è calzante. Per noi attori soprattutto Antonio Latella è guida maieutica, non impositrice: seguiamo chiaramente le sue indicazioni, ma è evidente come lui parta da noi, e non imponga nulla. Lo spettacolo si crea lavorando con noi attori con i nostri corpi e le nostre intelligenze e lui è maestro in questo. Forse è semplicistico dire che tutto si riduce al cast, ma penso che abbia saputo abilmente selezionare gli attori che potessero tradurre la sua idea di Aminta nel 2018.

Quale ruolo assume l’interprete in questa nuova creazione di Antonio Latella?

L’interprete è fondamentale. O, per tornare alla dicitura primaria di Tasso, l’interlocutore. Abbiamo il compito di riportare la meraviglia di questi versi facendoci attraversare, con un movimento necessariamente verticale. La musica ci supporta, i microfoni ci amplificano, il faro su rotaia circolare compie il suo moto di rivoluzione attorno a noi ma alla fine – complice anche la quasi totale immobilità – tutto si riduce a noi e alle parole del Tasso. Ed è nostra responsabilità ogni sera lasciare che questo accada, perché senza la nostra totale adesione la difficoltà della lingua rischia di superarne il valore, e questo non può accadere. É infatti un lavoro politico, di riscoperta senza edulcorazioni della ricchezza della nostra lingua madre, in un tempo di impoverimento e imbarbarimento linguistico e – se mi è permesso – non solo.

Qual è stata la tua principale difficoltà, come attrice, nell’affrontare Aminta, e come sei riuscita a superarla?

Personalmente, lasciare che Silvia fosse. Prima del debutto ero molto spaventata: temevo di non essere all’altezza, che nel mio sentirmi “troppo poco” caricassi eccessivamente o non fossi all’altezza del disegno registico, così elegante, forte e rigoroso. E devo ringraziare Antonio Latella che ha capito il mio momento di disagio e mi ha dato fiducia. Allo stesso modo il supporto di Franco Visioli sulla parte musicale per me è stato fondamentale e mi ha fatto esplorare nuove fantastiche possibilità.

Ph: @Brunella Giolivo

Aminta

S’EI PIACE, EI LICE: Aminta di Antonio Latella

Se piace è lecito. Così canta il coro nel primo atto di Aminta di Torquato Tasso. L’amore contrapposto all’onore e al decoro, un invito ad amare perché :”non ha tregua
con gli anni umana vita, e si dilegua”. Aminta è un dramma pastorale che parla d’amore, un genere quanto mai distante dall’oggi e messo in scena per la prima volta probabilmente il 31 luglio 1573 dalla celebre Compagnia dei Gelosi, fondata da Flaminio Scala. Qual è dunque la sfida di Antonio Latella? Superare l’antagonismo tra ricerca e repertorio al fine di coniugare l’innovazione con la grande tradizione.

Anche Milo Rau nel suo recente Gent Manifesto persegue lo stesso obiettivo, sintomo che forse oggi bisogna porsi la questione e ripensare il rapporto con il passato e le funzioni del teatro. Le vecchie categorie invalse fino alla fine del Novecento stanno decadendo, la parola avanguardia risulta stantia, senza più alcuna valenza rivoluzionaria, così come il teatro di rappresentazione classico ha perso la sua capacità di affascinare e di far credere. Un nuovo connubio tra due anime che hanno perso vigore potrebbe essere salutare.

Antonio Latella dunque vuole provare ad andare al di là di un invalso pregiudizio che oppone due maniere di fare teatro. In verità tradizione non significa affatto immobilismo o vieto conservatorismo. La parola deriva dal latino tradere, consegnare oltre, trasmettere. Indica un movimento, non una stasi. Hobsbawm e Ranger, non a caso, intitolarono il loro saggio L’invenzione della tradizione, a significare il continuo riassestamento e riformulazione di ciò che si tramanda da una generazione all’altra. Il filosofo Alessandro Bertinetto arriva a teorizzare che ogni opera d’arte sia di fatto una sorta di improvvisazione perché nel venire al mondo inventa nuovi canoni e rinnova il linguaggio che riceve in consegna e senza nessun piano preordinato. Quello che si definisce canone, quindi, non è nient’altro che il frutto di piccole e continue variazioni, deroghe, libere eccezioni, tradimenti e innovazioni.

D’altra parte, come non è sufficiente adottare un tema o un testo contemporaneo per essere innovativi, nemmeno l’uso di un testo vecchio di quattro secoli e di una lingua desueta e nobilissima costituita di endecasillabi e settenari definisce un agire conservatore. È il modo in cui si utilizzano i materiali, le tecniche impiegate e le funzioni che si attribuiscono al proprio fare che ci posizionano in un campo o nell’altro.

Se Antonio Latella avesse ricostruito le scene e le modalità della corte estense all’epoca del Tasso ci troveremmo di fronte a niente più che un restauro nostalgico di tempi perduti, ma non è questo il caso. La versione di Aminta che ci propone è per molti versi innovativa proprio perché inserisce una nuova variazione all’interno di una tradizione novecentesca che si è posta il problema di quale rapporto potesse instaurarsi tra testo letterario e scena.

Quattro bravissimi interpreti (Michelangelo Dalisi, Emanuele Turetta, Matilde Vigna e Giuliana Bianca Vigogna) emergono dal buio. Sulla scena solo quattro aste con microfoni circondati da un binario su cui lentissimo gira, in senso orario, un riflettore. La parola non è mai riferita, diventa suono in azione, colpisce come freccia al di là dei significati, incanta come musica d’Orfeo. La sensazione di concerto si rafforza a ogni nuovo incontro musicale: dapprima Monteverdi, e poi Rid of me di P. J. Harvey fino a Vitamin C dei Can (questi ultimi due brani suonati in scena da Matilde Vigna). L’azione è minimale. Pochi spostamenti, qualche minimo cambio di direzione. Un’unica vera scena, alla fine della prima parte, in cui Aminta si denuda e viene legato coi suoi propri vestiti, per essere trafitto, come San Sebastiano, dalle aste dei microfoni. Alla fine un ritorno lentissimo nel buio.

L’amor di cui si canta non ha niente di mieloso o stucchevole. É innanzitutto potenza della natura che sconvolge e urta. L’amore che i greci raffiguravano come bambinello bendato pronto a scoccare le sue temibili frecce, è appunto arma che ferisce e sconcerta, perché amare è andare contro il proprio ego, è un viaggio verso l’altro e il diverso. Eros, come racconta Platone, è figlio di Poros e Penia, di ingegno e povertà, ed è tutt’altro che bello, bensì rude e vagabondo perché come la madre è legato al bisogno. E proprio per questo e non per caso che tutti i volti contrastanti e conflittuali di Amore siano presenti in questo dramma pastorale: dall’ingenua speranza alla più nera disperazione, dalla bestialità del fauno al cinico distacco di Tirsi, il calore d’Aminta e il gelo di Silvia.

Tipico del dramma silvano questo restar sul filo della tragedia. Nato come complemento alla triade tragica, esso la evocava e ne sfuggiva per il rotto della cuffia. In quel dire antico, in quei versi in cui ci si perde, vi è sentore di minaccia e di bisogno. L’amore è sale della vita ma anche forza contrastata, che si conquista con la lotta e la fatica. Non è scontato né facilmente donato. È lotta sull’orlo di quel baratro da cui si getta Aminta: ci si salva ma per miracolo divino.

In conclusione, per descrivere questa Aminta di Antonio Latella, potremmo usare le parole che spese il De Sanctis a proposito dell’opera di Tasso: “una sprezzatura che pare negligenza ed è artificio finissimo”. Sprezzatura, come diceva Baldassarre Castiglione, è quell’arte di far apparire semplice ciò che assolutamente non lo è. Aminta di Antonio Latella sembra possedere una minimale semplicità in questo suo essere quasi priva di azione, ma è densa di dramma, di contrasti, di forze evocate e scatenate dalla parola. Qualcuno potrebbe obbiettare che la lingua antica sia tutt’altro che semplice, popolare e facilmente intellegibile a un pubblico non preparato. Se il proposito fosse quello di riferire una storia di ninfe e pastori allo spettatore odierno forse si avrebbe ragione, ma qui l’intento è tutt’altro: la vera protagonista è la potenza della parola, la sua forza quasi magica di evocare e smuovere, un verbo che non è discorso ma, come diceva Giulio Caccini, è canto: “senza misura, quasi favellando in armonia con sprezzatura”.

Vista al Teatro dell’arte alla Triennale di Milano

Ph: @Brunella Giolivo

Antonio Latella

BIENNALE TEATRO 2018: INTERVISTA AD ANTONIO LATELLA

Si è conclusa la seconda edizione della Biennale Teatro sotto la direzione di Antonio Latella dedicata all’attore-performer. Ultimo atto del festival la premiazione di Leonardo Manzan, romano, 26 anni, vincitore del bando del College Registi Under 30. Menzione speciale a Giovanni Ortoleva, 26 anni, da Firenze.

Durante la prima settimana di festival abbiamo incontrato il direttore in quest’intervista per approfondire alcune delle questioni poste dalle opere e dagli artisti presenti nella rassegna.

Enrico Pastore: Antonio Latella perché ha sentito l’esigenza di porre la questione attore-performer?

Antonio Latella: «È una questione molto intima perché facendo il regista ti confronti sempre con gli esseri umani e non con una natura morta. Forse è l’unica arte dove alla fine tutto è consegnato agli uomini. Non sono filmati, non sono fotografati ma sono lì e agiscono per te. Per me il punto centrale resta sempre l’attore-performer perché senza di loro non può esserci il teatro e credo che per farlo abbia bisogno proprio di corpi e di vita per entrare in contatto con il pubblico.

Per questo penso che ci sarà sempre bisogno degli attori-performer. Per molti paesi europei, ma anche per gli americani, non c’è differenza tra attore o performer. Io non voglio dire se c’è o meno una differenza, però penso che, guardando gli spettacoli di questa Biennale, ognuno può farsi un’idea se tale condizione esista o meno. Se c’è è una differenza dello stare, non concettuale e l’essere in scena in quel momento e di quale tipo di contatto si cerca».

Enrico Pastore: Non pensa che si stia delineando di fronte a noi una nuova figura che non è un regista né un coreografo, quanto più un compositore della scena, un artista che compone con le modalità delle tre arti sceniche verso una nuova forma di teatro?

Antonio Latella: «Io non uso mai la parola artista riferendomi a un regista; eppure sempre più spesso ci troviamo di fronte a persone che vengono dall’arte figurativa e che scelgono come loro luogo d’azione il teatro. Questo crea già una scissione.

Finalmente, e lo dico anche contro me stesso che ho due piedi nel Novecento, è finita la figura dittatoriale del regista. Credo che la sua figura, come capitano che guida una nave sia finita. Il suo nuovo ruolo che emerge è quello che mi ha posto nella domanda: uno che ha la capacità di attendere ed è capace di portare al massimo i talenti di cui si circonda e fusi dal suo lavoro con delle meravigliose alchimie.

Il nuovo regista compie un atto creativo, e infatti, non si usa più la parola spettacolo quanto creazione. C’è una differenza sostanziale. Si tratta proprio di creare da zero, di scrivere per e con la scena. Questo permette una nuova dimensione di racconto.

Molti suoi colleghi si chiedono: ma dov’è la storia? In realtà c’è ma è diversa e pertiene a una modalità nuova di racconto, legata a una generazione esperta nell’uso delle nuove tecnologie di comunicazione e quasi non comunica più con le parole, non utilizza più gli scritti ma si basa su una divulgazione di simboli, di fotografie, una scrittura costituita dall’unione di immagini».

Enrico Pastore: Questa nuova figura possiamo dire che è già stata prefigurata dal Novecento. Pensiamo a Cage: un musicista che ha inventato l’happening e composto pezzi di teatro dove potevano agire danzatori, attori e performer. Stiamo andando finalmente contro le categorie di genere?

Antonio Latella: «Non esistono più le categorie. Ed è quello per cui personalmente mi batto da anni. Ci sono mille cose completamente diverse ma la categoria non esiste più. Io già inorridisco quando sento parlare di teatro di tradizione, di ricerca, teatro off.. Queste non ci sono più. Solo se siamo in grado di rimuoverle, riusciamo a rilanciare il teatro nella sua globalità. Se continuiamo a creare delle nicchie alimentiamo anche delle fruizioni di pubblico molto elitarie che non si fondono mai tra di loro. Credo, invece, che oggi l’atto politico importante, sia questa fusione del pubblico e non la sua separazione. Alcuni artisti riescono a farlo e posseggono questa abilità di scrittura trasversale».

Enrico Pastore: Quello che dice è giusto ma ci conduce a un punto dolente toccato dal convegno attore-performer: bisogna che le istituzioni si riformino e creino strumenti che superino le categorie. Questo non può essere delegato solo ai festival o ai teatri.

Antonio Latella: «Certo, c’è bisogno del lavoro delle istituzioni, ma credo sia fondamentale anche il lavoro del direttore artistico. Quest’ultimo, nonostante le trappole ministeriali, deve riuscire a essere coraggioso e capace di arredare la sua casa con diversi linguaggi e farli passare al pubblico. Il direttore artistico deve essere un po’ meno pigro. Spesso si accontenta di preparare una situazione da supermercato e non fa passare un pensiero. Se riesce, al contrario, a divulgarlo, farà in modo di coinvolgere anche il pubblico.

Ci sono casi in cui i primi due anni di mandato hanno addirittura svuotato teatri ma poi sono riusciti a creare nuovo pubblico. È vero che noi non possiamo essere competitivi dal punto di vista economico. L’Italia non è lo è da questo punto di vista. Le nostre risorse sono ridicole rispetto a quelle di altri paesi. Io però riesco a vedere delle forze che possono in qualche modo rilanciare e sono convinto che la cosa più interessante che sta accadendo, ora in Italia, siano proprio i festival. Si è compreso come rappresentino il luogo per un rilancio. E in qualche modo tra di noi c’è una competizione sana e creativa».

Enrico Pastore: Quale può essere il ruolo dei festival nel rilancio delle arti sceniche in Italia?

Antonio Latella: «Innanzitutto non competere con i grandi festival internazionali. Non ce lo possiamo permettere. Dobbiamo essere potentissimi nella proposta e nelle idee e riuscire a porre delle domande.

L’altro aspetto fondamentale credo sia il coraggio dello scouting. Noi lo stiamo facendo e altri festival è gia da tempo che perseguono questo ruolo. Dobbiamo concentrarci sul fatto che non si lavora solo per quelli che sono già affermati, ma soprattutto per quelli che hanno bisogno di essere mostrati. Se riusciamo a operare in questa direzione il lavoro diventa altruistico. In questo modo riusciamo a creare delle curiosità per il pubblico e per gli operatori».

Enrico Pastore: Quale pensa sia la funzione delle arti sceniche nel nostro contemporaneo?

Antonio Latella: «Ci sono due cose che mi emozionano molto. La prima è che, al di là di quello che ho sentito al convegno, ci sarà sempre bisogno degli attori. Sia un regista che un performer avrà sempre bisogno di loro. Fare questo lavoro oggi è una scelta decisamente eroica. Personalmente trovo sempre commovente quando dei giovani decidono di far teatro. Non è il futuro, non è Star Trek, è archeologia. Vedere dei giovani che si siedono davanti a un testo che esiste da quattro o cinquecento anni, non è come ha detto qualcuno, roba da dilettanti. Io lo trovo eroico. Cercare di capire, assorbire, lottare per far proprie parole non tue è un atto di eroismo. In questo senso c’è già un futuro.

La seconda cosa è che quanto penso per l’attore lo penso per il pubblico. Ancora oggi mi chiedo, nonostante questa velocità che abbiamo nella vita, perché lo spettatore scelga di andare a teatro. Non siamo noi artisti a fare la differenza, la fa chi viene a vederci. Io credo che lo faccia, nonostante ci sia il cinema, la televisione, internet, proprio per la presenza degli attori. Sceglie qualcosa che accade ora, in questo momento preciso, di assistere ad uno spettacolo, e lo fa per regalarsi del tempo, rispetto a chi decide sul suo agire. Andare a teatro mi regala del tempo per me.

Io non penso a qual’è il nostro compito. Io sento una responsabilità nei confronti di chi sceglie di venire a vedermi. In questo non c’è nulla di consolatorio. Non credo debba essere trattato con i guanti bianchi, anzi, il contrario: vuole essere messo in discussione. Io penso che se il pubblico non sente di essere provocato ma avverte che gli vengono poste delle domande, sta al gioco. Questo rapporto basato sul rispetto ha un aspetto propriamente politico.

Io non so se sia vero che il teatro sia il luogo in cui traspare la verità mediante l’artificio. Sono convinto sia l’unico luogo in cui si possano fare delle domande. La risposta poi te la dai tu, quando torni a casa e lo fai in modalità intima nel tuo privato».

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Giuseppe Stellato

BIENNALE TEATRO 2018: GIUSEPPE STELLATO

Una gradita sorpresa alla Biennale Teatro 2018 è la performance Oblò di Giuseppe Stellato. In scena protagonista indiscussa una Lavatrice insieme al performer Domenico Riso.

Tecnicamente quello che fa Domenico Riso è un’azione performativa, mentre la Lavatrice ci racconta storie come un consumato attore professionista. Storie tragiche per lo più, sulla vita, la morte, su noi che guardiamo avidi, sulla società che insieme costituiamo, sul valore che diamo alla vita non solo degli oggetti.

Il performer dopo aver posizionato i microfoni davanti all’oblò, fa partire un programma di lavaggio e si posiziona seduto davanti alla Lavatrice osservando il suo lavoro. Il performer è anche il primo spettatore di quanto avviene.

I suoni della macchina si spandono nello spazio commisti a quelli di bambini che giocano, voci distanti, rumori tellurici, persino aeroplani.

Il performer si alza e prendendo un pennello dipinge di rosso una striscia di plexiglas posta in proscenio. La linea rossa si amplia, i suoni si spandono, la lavatrice gira. Tutto tende a una fine, terribile, inesorabile e sorprendente.

La macchina, presente in ogni rassicurante quotidiano domestico, diventa improvvisamente viva, pericolosa, aggressiva. Specchio di noi stessi costretta a lavare non solo i nostri panni sporchi ma quegli stracci di coscienza che ancor rimangono, seppur rimangono.

In Oblò di Giuseppe Stellato quella Lavatrice si trasforma in video tridimensionale in caricamento su qualsiasi smartphone, tablet, portatile, sempre rivedibile, on demand per ogni prouderie, in cui si lavano non solo le coscienze ma anche qualcosa che tocca a voi scoprire.

Vi è una storia di morte che tutti abbiamo visto e non importa di chi sia perché, se non oggi, domani ce ne sarà un’altra a prendere il posto. Resta l’atto politico di quest’oggetto che ci guarda monocolo come un ciclope. In quell’occhio ci perdiamo, ci specchiamo, ci vergognamo.

Performance intelligente quella di Giuseppe Stellato, artista visivo e scenografo (Pinocchio di Latella e Ma di Linda Dalisi per citare due suoi lavori). L’oggetto domestico e quotidiano diventa protagonista portando all’eccesso il suo funzionamento. La lavatrice in scena lava e nient’altro, ma il suo funzionamento fuori contesto diventa significante.

Performance con pochi elementi semplici e ben ordinati. Nessuna possibilità di equivocare. Ma a volte la genialità è semplice e non necessita di troppi orpelli.

Giuseppe Stellato porta alla Biennale Teatro 2018 anche Mind the gap, dove nuovamente un oggetto meccanico diventa protagonista e ci interroga. Questa volta è un distributore automatico, quelli che si trovano nelle stazioni non troppo distanti dalla fatidica linea gialla, quella che ci distanzia da un viaggio, da un distacco, da una partenza.