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Quando abbiamo smesso di capire il mondo

QUANDO ABBIAMO SMESSO DI CAPIRE IL MONDO – PARTE II

:”Solo quando avranno ridotto le forme che si sono sviluppate indipendentemente da loro a pure e semplici commedie che s’inseriscono nel gioco del commercio, la loro unica passione, fino a vederci nient’altro che una rigida dimostrazione di forza monetaria, a quel punto si sentirà risuonare una grassa risata”.

Alain Desnault La mediocrazia

Come crawling faster/ obey your master/ your life burns faster/ obey your master

Metallica Master of Puppets

Economia è regina incontrastata di ogni settore dell’umana attività in questo Ventunesimo secolo. Essa regna affiancata da Burocrazia e Cronofagia, e spadroneggia indisturbata come un tempo Ares dominava i campi di battaglia, insieme ai figli Phobos (paura) e Deimos (Terrore). E come Ares strappò Afrodite, dea della bellezza, dalle braccia di Efesto, dio artigiano ma zoppo, così oggi Economia compie il ratto dell’arte rubandola alla sua bottega e mettendola sul mercato. Non è un caso che uno dei sogni nefasti sorti agli albori della modernità capitalista sia quello di Baudelaire sul bordello-museo, dove lui, l’artista, accorre a presentare il suo nuovo libro alla maîtresse, e trova le sale piene di opere d’arte, prostitute e signori dell’alta finanza.

Difficile è individuare quando esattamente sia iniziato il processo. C’è chi dice (Alain Badiou) negli anni Settanta quando diversi fenomeni coincidenti cominciarono a verificarsi: fallimento in Occidente dei moti rivoluzionari e riformatori giovanili, armati o pacifici che fossero; avvio della deregulation del capitalismo; inizio della dissoluzione del blocco sovietico. Poi gli anni ’80 di Reagan e della Thatcher, quelli della Milano da bere e del There is no Alternative. Nella storia ogni punto d’origine è sempre arbitrario ma se per un momento proviamo a pensare a quanto è cominciato a accadere nel campo delle arti performative proprio a partire dalla fine degli anni Settanta, riscontriamo un graduale e parallelo scemare delle istanze politiche e sociali nonché delle utopie riformatrici. L’arte gradualmente si è richiusa su se stessa. Forse la scomparsa di una contronarrazione efficace al capitalismo liberista ha fiaccato il campo dell’opposizione e col tempo si è creato quello che potremmo chiamare Effetto Parasite dal meraviglioso film di Bong Joon-ho: non più ribellione né contrasto ma bensì desiderio di emulazione.

Ancora negli anni ’90 però vi era una vitalità politica forte, riconosciuta e condivisa Pensiamo a Barboni e a Guerra di Pippo Delbono, il Marat-Sade di Armando Punzo, la Biennale di Carmelo Bene (1989), i Teatri Invisibili e la nascente Generazione Novanta. Ma quella stagione sembra sempre più un’estate di San Martino. Oggi si parla più di bandi ministeriali, di FUS ed ExtraFUS, di borderò piuttosto che di funzioni o di finalità politiche del teatro. Quando l’ex Presidente del Consiglio Giuseppe Conte lo scorso anno disse: ”i nostri artisti che ci fanno tanto divertire”, il mondo teatrale si scandalizzò, dimenticandosi però che Valerio Binasco, assumendo il ruolo di consulente artistico al Teatro Stabile di Torino disse parole ancor più gravi: «Il compito del teatro non è fare cultura o fare politica. È far ridere e piangere. Se ci riusciamo è fatta»!

Umberto Boccioni Rissa in Galleria

Da tempo dunque il mondo delle arti performative ha perso un ruolo da giocarsi nella società, condividendo istanze e problematiche con altre categorie sociali come avveniva nel passato. Perché questo è avvenuto? Probabilmente perché non è più stata la politica il referente antagonista, ma bensì l’economia, la quale più che avversario e competitore con cui è possibile discutere, magari in maniera accesa, essa si è imposta come matrigna fortemente ingerente nella vita dei figliastri recalcitranti; e con una genitrice che elargisce una paghetta non si arriva a un compromesso, si può solo obbedire o disubbidire in un rapporto costituito in massima parte da premi e punizioni. Come disse nell’aprile del 2016 George Mombiot sulle pagine di The Guardian, quotidiano non certo tendente all’estrema sinistra :«Il neoliberalismo vede la competizione come la caratteristica che definisce le relazioni umane. Ridefinisce i cittadini come consumatori, le cui scelte democratiche sono esercitate al meglio attraverso la compravendita, un processo che premia il merito e punisce l’inefficienza. Sostiene che “il mercato” fornisce benefici che non potrebbero mai essere raggiunti dalla pianificazione».

Gli effetti di tale ingerenza non sono facilmente districabili. Essi si diramano come un corpo estraneo in ogni ambito della filiera creativa dalla formazione alla internazionalizzazione, sovrapponendosi però a un sistema che ancora risente di valori a essa alieni. La filiera artistica risponde a questa estranea possessione in maniera scomposta a volta rigettando, a volte rendendo impossibile l’agire, altre in modalità autoimmune. Per risolvere la questione bisognerebbe agire come Alessandro di fronte al nodo gordiano: tagliare e resettare, ma questa si profila la possibilità più remota e utopistica. Nell’analisi della filiera, non potendo isolare i sintomi, non resta che toccare gli argomenti e di volta in volta ritornare, ripetere, riformulare.

Cominciamo dal principio ossia dalla volontà di trasmutare l’azione culturale, attività artistica e politica come quant’altre mai, in azienda o impresa di cultura. La prima considerazione è che le parole non sono innocue: quando il teatro, il cui etimo greco significa: il luogo da cui si guarda, e quindi prevede un osservatore che profonda il suo sguardo in un oggetto o in un mondo, diventa un luogo di profitto, in cui qualcosa viene venduto a qualcuno, ci troviamo in un universo completamente alieno da quello di partenza. Se poi osserviamo le parole dal punto di vista della comunità che frequenta il luogo in oggetto (perché teatro è un luogo prima che un arte!) essa si trova trasformata da agorà a cliente e consumatore, ed ecco che improvvisamente qualsiasi valenza politico sociale si annienta nel buco nero della quantificazione economica. Ultima ma non ultima l’economia mal s’accomoda a fianco dell’etica. Qualcuno potrebbe affermare, e non senza ragione, che nemmeno l’arte va troppo a braccetto con la dama pudica e castigata, ma la cultura sì, come l’istruzione. Essa si basa su principi etici di apertura a tutte le categorie, soprattutto alle più svantaggiate e deboli, tende a voler far crescere la società nei suoi valori, e nei momenti di crisi è stata il collante delle comunità (pensiamo agli Ebrei o ai Tibetani, popoli che nell’esilio sono sopravvissuti e sopravvivono proprio grazie ai valori culturali). In economia vince solo il più forte, chi ha più capitale, e quindi la naturale conseguenza, come diceva Trump, diventa: i poveri sono dei perdenti.

Impresa culturale è termine che ci trasporta in un altrove volto a snaturare le funzioni e quest’ultime sono tutt’altro che questione di lana caprina o di lanugini ombelicali, si parla delle fondamenta di un’arte millenaria. Ecco dunque che proprio nell’assunzione del termine ci si trova di fronte alle prime anomalie: sostegno pubblico e impresa culturale difficilmente si trovano in un piano di accordo vicendevole. Infatti le normative rivelano difetti e malformazioni. In epoca Covid, in tempi di ristori e di aiuti straordinari in molte regioni le cosiddette imprese culturali si sono trovate escluse dai sostegni alle piccole e medie imprese proprio per il fatto di essere senza fine di lucro, status necessario a chi richiede fondi di sostegno per l’attività culturale sia da parte regionale sia da fondazioni bancarie. E questo all’alba della riforma del terzo settore che obbliga tutti gli attori del settore culturale a divenire impresa di cultura. Quale? Nemmeno l’Agis saprebbe consigliarvi per il meglio.

Facciamo qualche esempio tre regionali e uno nazionale. Cominciamo dalle segnalazioni regionali tre casi sparsi per il territorio nazionale tra Nord, Sud e Isole. Primo: il bando Sì Lombardia, in cui Regione Lombardia chiedeva per la partecipazione l’iscrizione al REA (Registro delle imprese) e l’ottenimento del DURC, così come altri vincoli specifici al mondo imprenditoriale, eppure nonostante queste richieste il comparto culturale è stato escluso perché non ha fine di lucro. Secondo: la Legge quadro sulle azioni di sostegno al sistema economico della Sardegna a salvaguardia del lavoro a seguito dell’emergenza epidemiologica da covid-19 in cui i sostegni previsti sono a compensazione di un mancato reddito di impresa cosa difficilmente dimostrabile per chi è senza scopo di lucro. Terzo: la Basilicata si potrebbe annoverare tra i “casi curiosi”, in quanto ha pensato al tessuto dell’impresa profit, escludendo l’impresa non profit, anche nei casi in cui la normativa lo prevedeva e consentiva. Un caso concreto: Avviso Pubblico Misura straordinaria emergenza sanitaria COVID 19, emanato a giugno 2020, proprio per dare le prime risposte alle difficoltà causate dalla pandemia, assegnando un contributo, seppur minimo, a fondo perduto per i soggetti giuridici che ne avessero fatto richiesta. L’impianto normativo di riferimento e i criteri di concessione del contributo risultano interessanti, ovvero c’è il “classico” rimando al Regolamento UE n. 651/2014 e al suo Art. 1 dell’Allegato 1, ormai caposaldo di Avvisi e Bandi e che definisce il perimetro dell’Impresa, facendo rientrare anche le Associazioni che svolgono regolarmente attività commerciale; ed è definito un importo del contributo in base al numero di addetti/dipendenti del soggetto richiedente: mille Euro per nessun addetto, duemila Euro per chi ha in organico fino a cinque addetti e tremila Euro per chi ha da 6 a 10 addetti. Pur non volendo entrare nel merito tecnico e discutere l’adeguatezza o meno del provvedimento specifico, la cosa che si evidenzia e che contraddice l’azione dell’Ente Regione è l’impossibilità, per le forme associative (anche se iscritte al R.E.A. della Camera di Commercio di riferimento esattamente come in Lombardia) di poter accedere alla Misura: non per motivi di Codice ATECO o mancanza di dipendenti ( l’Avviso tutelava anche soggetti senza dipendenti), bensì per il tipo di forma giuridica: Associazione. Dopo questo breve excursus esemplificativo su base regionale riportiamo un esempio nazionale: Invitalia e il “suo” Bando Impresa SIcura per il rimborso degli acquisti di dispositivi di protezione per i propri lavoratori, sostenuto da un fondo INAIL -di cinquanta milioni di Euro- di cui tutti conosciamo le funzioni: contrasto agli infortuni sul lavoro e le malattie professionali. Un bando che in uno dei suoi primi articoli specifica chiaramente che la tipologia di forma giuridica del soggetto non inficia la richiesta di contributo, ma nella sezione FAQ riporta l’impossibilità per le forme associative di accedere al contributo, e porta con sé quindi una contraddizione forte nel momento in cui si pensa alla tutela dei dipendenti, e alla luce di una normativa impresa, ripetiamo, che allarga lo spettro dell’impresa stessa. C’è un fondo INAIL, che è alimentato anche dalle associazioni con dipendenti e che quindi versano l’assicurazione obbligatoria, c’è il riferimento ai lavoratori, ma ciò che conta è la forma giuridica. Non se ne comprende la motivazione.

Questi sono solo quattro esempi su decine che si possono fare della contraddizione in termine di cultura, impresa e sostegno pubblico nelle normative attuali alla vigilia della riforma del terzo settore.

Nella visione dell’economista la cultura è un impresa e come tale ha un unico obiettivo centrale su cui si deve focalizzare il finanziamento: la produzione di un oggetto di consumo. L’opera è il prodotto. Tutta la filiera delle arti performative si è così concentrata nell’unica attività premiata dal modello economico: il prodotto e lo ha fatto talmente bene che le ore di produzione sono quasi tre volte tanto quelle di rappresentazione! Si calcola in ben 23000 ore di recite di produzione e solo 9100 di recite di distribuzione dato questo che lascia intendere due cose: una spinta decisa e sproporzionata sulla produzione e il disequilibrio evidente tra le opere e la loro effettiva possibilità di circuitare. E stiamo parlando solo dei valori censiti nelle strutture riconosciute e finanziate dal Ministero.

Il mercato quindi è inondato di prodotti di cui in verità c’è scarsa domanda, ma essendo l’unico modo per percepire denari attraverso i borderò ecco che tutti persistono nell’errore di produrre nuovi oggetti destinati a nascere già morti. Pensiamo a quanto avviene in questi giorni di teatri chiusi, dove l’unica attività lecita sono le prove, tutti hanno prodotto, ma su quale mercato verranno venduti? E se consideriamo l’accumulo delle creazioni viste poco o per niente nel 2020 quali piazze smaltiranno tutti gli invenduti? E nel 2022 che facciamo: produrremo ancora in massa, soppiantando le opere dalla vita brevissima di questo biennio? Si profila all’orizzonte una vera strage degli innocenti.

Umberto Boccioni Velocità

L’iperproduzione è il primo effetto del malsano innesto di valori economici in ambito culturale e artistico. L’opera nasce da un’esigenza che nasce sì nell’artista, ma questo lo dovrebbe cogliere in seno alla società. Dall’incontro tra i due soggetti dovrebbe nascere un dialogo dovuto alla necessità. Come in American Gods i nuovi dei mal digeriscono i vecchi dei e così Economia mal sopporta l’imperio di Ananke, anzi vive e prolifera proprio laddove non vi è necessità alcuna: fatto il prodotto, creato dal nulla il bisogno, si crea il mercato. Non importa che il pubblico chieda o meno l’opera, e nemmeno si necessita che l’artista abbia qualcosa da dire a un pubblico. A ogni stagione bisogna immettere novità in palinsesto, cose mai viste da nessuno, possibilmente in prima assoluta, in mancanza di queste almeno in prima regionale. E di conseguenza ecco l’ossessione per l’audience engagement. Il pubblico deve crescere esponenzialmente come il PIL, non si deve arrestare mai, anzi a ogni stagione bisogna trovare nuovi escamotage per mobilitarne di nuovo. L’arte però ha tempi lunghi, digestioni lente, passaparola antichi, tutti valori che mal s’accordano con i principi di quantificazione immediata del successo. E così per ottenerlo la qualità scende, si ibridano i linguaggi propri della scena con quelli di più sicuro appeal della televisione, della serialità cinematografica, dei social network. Ora chiariamo: niente contro l’ibridazione dei linguaggio purché il teatro resti tale, se diventa televisione, o Tik Tok allora i presupposti sono sbagliati. I mass media di massa, soprattutto quelli digitali, hanno numeri incomparabili a quelli che può raccogliere il vecchio carro di Tespi. La corsa al pubblico è dunque persa in partenza. Per il teatro dovrebbero essere I rapporti ad assumere importanza, e con essi le relazioni con i territori e le questioni sociali, quello che per i sociologi è l’impatto sulla società, ma su questo ritorneremo con un focus apposito. Come detto è difficile districare i temi che sono follemente interconnessi.

Se dunque bisogna produrre a tutti i costi, se la guerra si compie sulla prima ad ogni costo quali sono le conseguenze per il comparto? Innanzitutto sparisce il repertorio. Le opere infatti si riattualizzano rispetto ai contesti che risemantizzano i contenuti, per quanto vivano l’istante hanno una aspettativa di vita ben più lunga dei 12 mesi a cui spesso sono destinate. Ora però se la gara si gioca sulla novità a tutti i costi, le opere giocoforza hanno vita breve se non brevissima, soppiantate dal nuovo prodotto. Stessa cosa per l’artista giovane il quale va sfruttato in fretta, prima cioè che venga immesso uno più giovane sul mercato. E così si inaridisce la fonte primaria di formazione: il passaggio di conoscenza da una generazione all’altra. Se si bruciano le tappe sovraesponendo le forze giovani fino all’età critica dei 35 anni, inevitabilmente coloro che passano il fatidico vallo di Adriano e diventano over si trovano per lo più scartati, e così non si storicizza la ricerca, non si passano le abilità e le tecniche. I giovani poi vengono indotti a produrre impreparati perché va venduto non tanto il loro talento ma la loro giovinezza. I palinsesti poi non privilegiano una territorialità ma, sempre in gara con le première, comprano i vincitori di premi, le prime regionali, il giovane appena scoperto. L’artista di esperienza, a meno che non sia famoso, non fa pubblico perché è già visto, lo si conosce già, non ha la patina del nuovo ad ogni costo. Attenzione: quando si parla di novità essa deve però essere rassicurante, non così nuova da scuotere veramente il pubblico. Infatti se per un cellulare o una televisione si corre a comprare l’ultimo modello, in arte viceversa il nuovo terrorizza. Quello che si vede sulle scene deve essere una novità con una patina di assoluta e certa riconoscibilità in modo da confermare i gusti del pubblico e non gettarsi in pasto al rischio di scontentarlo e quindi perdere in sbigliettamenti e abbassare l’indice di incremento degli spettatori-clienti.

Ulteriore danno provocato dal concentrarsi sulla sola produzione è la loro quantificazione. I parametri ministeriali (per ora sospesi ma non aboliti) valutano la qualità solo per il 30%. Il restante 70% si riferisce alla quantità: tanto pubblico, tante date, tanta rassegna stampa. E se la quantità vince sulla qualità, l’opera si adegua a un fast food dove non importa che l’hamburger sia veramente buono, ma che lo consumi più gente possibile.

La vera anomalia però è il mercato stesso. Esiste? Si sono implementati dei reali strumenti per la sua espansione? Ci sono progetti di immissione dei nostri prodotti culturali sul mercato estero? La distribuzione funziona? Nel prossimo articolo proveremo ad analizzare la forma e il ruolo del cosiddetto mercato nella nostra filiera produttiva.

Biennale Teatro 2018

BIENNALE TEATRO 2018: simposio sull’attore-performer. Nuove sfide per l’istituzione teatrale.

Domenica mattina presso la Sale delle Colonne di Ca’ Giustinian, Antonio Latella propone un simposio sul tema dell’attore-performer a cui la Biennale Teatro 2018 è dedicata.

Al convegno intervengono come relatori figure di altissimo profilo artistico e professionale: Chris Dercon (storico d’arte, curatore e direttore del Volksbühne di Berlino), Paweł Sztarbowski (co-direttore Teatr Powszechny di Varsavia), Bianca Van der Schoot (già direttrice artistica RO Theater di Rotterdam e performer), Armando Punzo (regista, fondatore della Compagnia della Fortezza).

Il binomio attore-performer racchiude in sé sfide e criticità che la scena contemporanea deve saper accogliere se vuole rispondere alle urgenze poste dalla nostra società.

Bisogna innanzitutto chiarire due punti fondamentali: con la parola teatro non si intende più solo ed esclusivamente il teatro di rappresentazione, la cosiddetta prosa, a partire almeno dagli anni ’50. I confini di ciò che può essere considerato teatro tendono ad aespandersi in maniera esponenziale tanto quasi da sparire.

Se prendiamo come arbitrario punto di partenza – e nella storia ogni data è arbitraria in quanto è come gettare un sasso in un impetuoso fiume che scorre -, l’estate del 1952 al Black Mountain College dove Cage fa nascere The Untitled Event, e passando per l’Happening, il Tanztheatre di Pina Bausch, il Teatro di Kantor e la performance (solo per citare alcuni momenti cardine) la figura dell’attore si è ibridata con l’innesto di tanti elementi provenienti da ambiti artistici differenti che la parola stessa necessita di nuove definizioni.

Conseguenza di tale ibridazione, o generatio aequivoca, è stata la graduale ridefinizione del ruolo e delle funzioni dell’attore, non più solamente interprete di un ruolo scritto in un copione e al servizio del regista, ma fautore di un’esperienza condivisibile con il pubblico, filosofo in azione, stimolatore del pensiero critico sulla realtà.

Secondo elemento da notare: se la figura dell’attore mimetico/interpretativo è stata “contaminata” dalle pratiche performative dell’arte visiva e della danza contemporanea, difficilmente la modalità di finzione replicante si è trasferita alla performance e al teatro-danza, in qualche modo impermeabili a questa modalità. Non a caso, come a sottolineato in apertura Chris Dercon, è l’attore a “soffrire” la convivenza con i performer.

Su questi due aspetti esposti in maniera sommaria si potrebbe scrivere un intero saggio senza raggiungere conclusioni esaustive. In questo piccolo articolo mi limito a far emergere dei punti di discussioni possibili.

Nel continuare questa incompleta disamina dobbiamo notare che la performance stessa si è allontanata dai protocolli invalsi fino agli anni ’90 almeno, ossia dove l’artista era protagonista e interprete di un pensiero in azione. Oggi in qualche modo il creatore di performance tende a delegare l’azione a performer esecutori di compiti (per esempio Ivo Dimchev o Timo Seegal per fare solo due noti protagonisti). Anche in questo John Cage è stato un precursore (pensiamo a Theatre Piece del 1960).

L’influenza della performance ha mutato anche le modalità della scena: non evento separato dal pubblico ma esperienza immersiva, compartecipata, persino creata in comunione; non più evento ripetibile con un punto di vista preciso, ma istante irriproducibile dove il partecipante crea il proprio montaggio personale (esempio lampante la performance di Simone Aughterlony Everything fits in the room in programma alla Biennale Teatro 2018).

Tutto questo inevitabilmente porta a mutare le funzioni della scena. Come ricorda Bianca Van Der Stroot bisogna chiedersi: perché il teatro? Questa è la vera domanda da porsi oggi più che: esiste una differenza tra attore e performer?

Milo Rau sta provando da anni a porre in questione le funzioni del teatro. Il suo concetto di Interpellation, ossia una scena che domanda direttamente allo spettatore di ripensare il reale, è in fondo una ricerca di riformulare i protocolli di ingaggio del pubblico e le funzionalità della scena stessa.

La questione attore-performer è di fatto un falso problema. Come ricorda Dercon citando John Cage: non ci sono soluzioni perché non c’è il problema. Quello che conta è ciò che sottolinea Bianca Van Der Stroot: bisogna servire l’opera, utilizzare le forme e i materiali che gli sono più congeniali per giungere a un’efficacia. Pensiero in linea con quello di Roberto Castello.

Non importano i generi, importa l’efficacia di un’azione e di un’esperienza che si condivide con un pubblico non più passivo ma attore esso stesso dell’evento. Quindi non più un regista, o un coreografo o un artista visivo quanto più un compositore di linguaggio scenico che utilizza svariati strumenti e tecniche orchestrandoli in una sinfonia scenica. Mejerchol’d prefigurò nei suoi pensieri sul teatro un attore con queste caratteristiche e forse noi, oggi, potremmo integrare le sue teorizzazioni spingendosi un po’ oltre.

Quello che è avvenuto negli anni ’60/’70 e che continua nel nostro contemporaneo a produrre effetti è una ridefinizione totale della scena al di là dei generi. Un punto di non ritorno che ci spinge e stimola ad andare avanti, a cercare nuove soluzioni e nuove possibilità di espressione.

Non solo. Servono anche nuove istituzioni, aperte alla sfida per rigenerare i luoghi deputati alle live arts, pronte a riformulare i metodi di finanziamento, a garantire i luoghi e i tempi della ricerca, a coadiuvare la nascita di nuove strategie di produzione e distribuzione. Come ricorda Chris Dercon questo non è possibile demandarlo solo ai teatri e ai festival deputati, occorre un intervento e un’azione politica e istituzionale.

Il convegno su attore e performer in questa Biennale Teatro 2018 apre quindi scenari stimolanti per il pensiero non solo degli artisti ma degli operatori, dei critici, dei politici. In una mattinata di lavoro ovviamente non si può trovare delle soluzioni ma sono state poste le domande che necessitano di risposte urgenti. Dobbiamo rimboccarci le maniche, lavorare assiduamente per costruire fondamenta solide alla nuova scena che sta prendendo forma sotto i nostri occhi. Non si può tornare indietro dobbiamo spingerci avanti e prefigurare un nuovo teatro al di là dei generi tradizionali.