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Ballo 1945 Grande adagio popolare

BALLO 1945 GRANDE ADAGIO POPOLARE: Il primo maggio di Virgilio Sieni

Ieri nella grande fabbrica di Fiat Mirafiori non più destinata alla produzione, ha preso vita il progetto Ballo 1945 Grande adagio popolare di Virgilio Sieni con più di cento performers di tutte le estrazioni. Il progetto segue quello di Altissima Povertà e rinnova l’alleanza tra il grande coreografo fiorentino e l’Associazione Didee.

Ballo 1945 Grande adagio popolare prende avvio da alcune suggestioni: il luogo, innanzitutto, la fabbrica nel giorno della festa del lavoro. Uno stabilimento dismesso, non più produttivo che viene riqualificato dall’azione performativa di una comunità che crea insieme un oggetto immateriale, non merce né prodotto, ma esperienza di popolo, non calata dall’alto ma condivisa.

Un’immagine: Il Quarto Stato di Pellizza da Volpedo presentato proprio a Torino per la prima volta nel 1902. Un pretesto quegli uomini in marcia. Un punto di partenza per sviluppare un percorso.

Una geografia: politica e sociale che si sviluppa a partire da mappe e percorsi di corpi in movimento in uno spazio ormai privo di funzione, vivo solo di un passato, privo di un presente alla cittadinanza, per non dire di un futuro. Una riappropriazione della comunità di uno spazio, non più incognitus, ma riqualificato dall’agire insieme, dall’esperire insieme.

Ballo 1945 Grande adagio popolare è un cammino di una massa che prende possesso di un luogo. Un gruppo che si muove compatto riunendo e accogliendo le differenze che lo animano. Nel cammino seminano le azioni di singoli e di piccoli gruppi che presto vengono riassorbiti da quell’incedere irrefrenabile.

Una madre con figlia, un gruppo di immigrati, delle donne, semplici gruppi di persone di tutte le età, sesso e condizioni. Cellule di un corpo in movimento perenne, che come uno squalo muove perché la stasi è morte. Non stiamo parlando di progresso, di un incedere verso una meta prefigurata, ma di una manovra verso nuove configurazioni, allineamenti, assestamenti.

È il ritorno del tempo antico della metamorfosi, dove tutto partecipava alla natura del tutto. Quel tempo forse irripetibile, utopico, prima dell’impero della tecnica dove le parti sono specializzate e hanno uno scopo. Qui il gruppo si muove e genera nuove fisionomie che sono frutto di un agire senza progetto, generazioni spontanee ed equivoche, perché non finalizzate. E il tutto nel luogo della tecnica, la fabbrica, dove ogni pezzo assume un ruolo e una funzione secondo specifiche immodificabili, del lavoro in linea dove ciò che precede anticipa ciò che seguirà.

Ballo 1945 Grande adagio popolare è anche un mosaico dedicato all’accoglienza, alla condivisione, alla partecipazione. Il suo gesto da antico umanista, fiducioso nell’umanità, restituisce l’idea di un gruppo sociale che procede insieme sostenendo tutti, accogliendo tutti (e nelle figure ritornano i motivi delle deposizioni, delle pietà, del sostegno). Parrebbe un gesto politico e artistico ingenuo ai cinici, eppure nella sua manifestazione risulta commovente come pochi altri. È un gesto politico e artistico fuor dai termini della ragione giudicante. È un atto di fede e di fiducia illimitato e perciò potente perché ingiustificato.

Vedendo Ballo 1945 Grande adagio popolare mi tornava in mente un piccolo grande racconto di Kafka dal titolo Di notte. Non per assonanza, quanto più per contrappunto. Una grande massa di uomini in un deserto sterminato sdraiati dove prima erano in piedi. Un uomo solo con un lume perché uno deve vegliare, uno deve esserci, qualcuno deve pur aver fiducia.

Di Ballo 1945 Grande adagio popolare ho avuto il privilegio di vedere anche la prova generale e vedere una volta di più la grande umanità di Virgilio Sieni nel lavoro di coreografia. Non impone una visione, suscita piuttosto un atteggiamento di concentrata presenza. É il suo un mettersi a disposizione che invita a seguirlo in un percorso che si costruisce. Non è Sieni un capriccioso dio della danza che impone i suoi voleri, ma più un artigiano umanista animato da profondo amore e compassione per ciò che fa e verso coloro con cui lo fa. È il suo un mettersi a disposizione, un donarsi che si nutre dello scambio di doni vicendevoli con la folla che partecipa con lui alla costruzione di questa marcia.

Ph: @Giorgio Sottile

LE FOGLIE E IL VENTO di Mariachiara Raviola

All’inizio un piccolo fiore sorge sulla scena. Alla fine un piccolo fiore si schiude prima del buio. La danza di Shiva, che crea e distrugge i mondi, la danza dell’eterno rincorrersi delle forme. La morte, la vita e la metamorfosi delle forme che accompagna il loro gioco a rimpiattino. In questo piccolo spettacolo di Mariachiara Raviola andato in scena il 20 e 21 febbraio presso la Casa del Teatro Ragazzi di Torino, si assiste a un racconto lieve tra lo sbocciar di due fiori: si narra a un pubblico di bambini la storia di un albero e di una foglia, del loro intrecciarsi nelle stagioni, tra il sorgere e il calar degli astri, tra la notte e il giorno, da una primavera di gioco a un inverno che chiude un ciclo. La vita arborea, frutto del ciclo delle stagioni, racconta fin dall’epoca antica l’intrecciarsi inestricabile di morte e vita: l’anemone racconta l’amore della ninfa e di Zefiro, il cui alito di vento bacia la corolla e la schiude; il fiore d’Adone, il cui rosso violento colora i petali col sangue spiccato dal cinghiale e racconta il pianto delle dee che per sempre l’han perduto; e così il bianco narciso, e il giglio di purezza, e il chicco di melograno e il verde scuro dell’alloro. Quante vite arboree raccontano le morte e l’intrecciarsi dell’amore di uomini e dei. La meraviglia della vita e il suo struggente scorrer via come polvere al vento.
Le foglie e il vento è uno spettacolo coraggioso, che con lievità e una certa qual grazia racconta il costante trapassar delle forme ai bambini, ma anche la gioia di questo esserci finché è dato durare, un gioco nel tempo e nello spazio prima che un nuovo fiore apparirà a sostituir quello caduto e reciso.
La scena, gli oggetti, i danzatori son di bianco vestiti, e non a caso la Cina classica e l’India vedica in quel colore ravvisano la morte e il lutto. Eppure quella scena non inquieta, mette gioia e malinconia, rappacifica con la legge che incombe sulle forme, su tutte le forme. Con la leggerezza di un disegno orientale su carta di riso, i paesaggi e le cose passano e vanno, lasciando il posto ad altre stagioni, altri orizzonti prima che un nuovo fiore apparirà sulla scena.
Un delicato racconto, una danza lieve. Un solo difetto, quello di restar troppo fedele a un ritmo costante, laddove qualche scossone avrebbe ravvivato il racconto e la stasi suscitato maggior commozione. Nel complesso una semplicità che accarezza i giovani spiriti a cui è diretto, li accompagna soave alla comprensione dello struggimento che accompagna ogni trasformazione e ogni trapassare, senza scordar la gioia dell’esserci finché dura.

Le foglie e il vento

Ideazione e regia: Mariachiara Raviola
Coreografie: Mariachiara Raviola e Aldo Torta
Interpreti: Francesca Cinalli e Stefano Botti
Tappeto sonoro: Paolo De Santis
Scene e costumi: Elisabetta Ajani
Oggetti di scena: Gianni Cocomazzi
Abiti in carta: Sara Peretti
Produzione: Associazione Didee e Fondazione Teatro Coccia
Progetto La Piattaforma. Nuovi corpi, nuovi sguardi