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Chiara Bersani

LO STATO DELLE COSE: INTERVISTA A CHIARA BERSANI

Per la diciannovesima intervista per Lo stato delle cose incontriamo Chiara Bersani. Lo stato delle cose è, lo ricordiamo, un’indagine volta a comprendere il pensiero di artisti e operatori, sia della danza che del teatro, su alcuni aspetti fondamentali della ricerca scenica. Questa riflessione e ricerca partita lo scorso dicembre crediamo sia ancor più necessaria in questo momento di grave emergenza per prepararsi al momento in cui questa sarà finita e dovremo tutti insieme ricostruire.

Chiara Bersani è un’artista poliedrica che travalica la consueta distinzione dei generi. Molte sono le sue collaborazioni con i danzatori da Alessandro Sciarroni, Marco D’Agostin e Marta Ciappina. Tra i suoi lavori ricordiamo Goodnight Peeping Tom, The Olympic Game, Family Tree, Miracle Blade, Tell me more, oltre all’ultimo Gentle Unicorn. Nel 2019 vince il Premio Ubu come migliore attrice Under 35.

D: Qual è per te la peculiarità della creazione scenica? E cosa necessita per essere efficace?

Alla base di ogni creazione artistica c’è per me l’identificazione del principio di realtà che la supporta. La messa a fuoco di tale principio avviene nelle primissime fasi di lavoro, quando si identificano i pilastri ai quali ogni pratica attraversata verrà ancorata. Durante l’intero processo di ricerca il principio di realtà avrà il doppio ruolo di sorgente e faro: da qui si innesca la scintilla che appicca il fuoco e di nuovo qui bisogna tornare a confrontarsi e rigenerarsi.

Si tratta di un principio che garantisce e tutela la coerenza interna dell’opera consentendo all’artista di affrontare ardite deviazioni, sperimentare l’incoerenza, scoprire forme di coesione opposte a quelle previste.

Una creazione necessita di strategie di orientamento, specifici punti cardinali e apposite bussole affinché l’artista possa perdersi senza smarrirsi, ricercare senza naufragare.

E qui arriviamo al cuore della domanda: di cosa necessita la creazione artistica? Tempo.

Come si ottiene il tempo? Con i finanziamenti.

Vorrei poter rispondere a questa domanda passando direttamente ad un ipotetico e ben più poetico secondo step, che sicuramente eleverebbe la qualità del nostro dialogo, ma sarebbe ipocrita parlare d’altro quando lo scoglio economico persiste (se non peggiora) di anno in anno. Senza le economie i tempi di sperimentazione si accorciano, gli spazi dedicati ad accogliere imprevisti si annullano. La ricerca, che per sua natura dovrebbe basarsi sul diritto all’errore, al cambio di rotta, al ripensamento e al balbettio, è costretta a barattare questi elementi in nome di schedule di lavoro che sembrano ideate all’insegna del “one shot one kill”.

Ne deriva che l’artista e l’intera equipe creativa investono un’enorme quantità di energie, con conseguente assunzione di rischio, nel tentativo di ritagliare tempi cuscinetto che consentano un minimo di flessibilità senza mettere troppo a rischio l’opera. Per essere concreta: investire 2 giornate nella sperimentazione di un’intuizione per poi scoprire che non rispetta il principio di realtà rendendo necessaria una variazione di rotta, pone l’equipe davanti al bivio “coerenza vs tempi” ammantando l’intero processo creativo di un sottile e costante senso di ansia e frustrazione.

La posizione che vari artisti (tra cui anche io) stanno assumendo davanti a questa griglia è quella di risignificare il termine debutto: da momento in cui l’opera, confezionata e capace di brillare, viene presentata al mondo a step collocato all’interno di un processo di ricerca che sconfina nello spazio dedicato alle prime repliche. Sia chiaro però che questa strategia non deve essere accolta come la soluzione al problema visto che per l’artista non è a costo zero. Infatti quel mondo che cerca l’artista proprio per il rigore della sua ricerca è lo stesso che, nel momento della presentazione dell’opera, troppo spesso ne scorda le condizioni di produzione accogliendo la creazione come un risultato chiuso da leggere con la medesima griglia utilizzata per opere nate in condizioni completamente differenti.

Chiara Bersani
Chiara Bersani Ph: Armunia Castiglioncello

D: Oggi gli strumenti produttivi nel teatro e nella danza si sono molto evoluti rispetto solo a un paio di decenni fa, – aumento delle residenze creative, bandi specifici messi a disposizione da fondazioni bancarie, festival, istituzioni -, eppure tale evoluzione sembra essere insufficiente rispetto alle esigenze effettive e deboli nei confronti di un contesto europeo più agile ed efficiente. Cosa sarebbe possibile fare per migliorare la situazione esistente?

Per ridiscutere la situazione esistente credo sia fondamentale tornare ad osservare il quadro generale e da lì avviare una riflessione sistemica basata sul riconoscimento dell’artista come professionista con potere contrattuale. Partendo da questa base si dovrebbero iniziare a discutere quelle che sono, a mio avviso, tre questioni fondamentali:

Finanziamenti più solidi e continuativi. Pochissime realtà, specialmente nel circuito indipendente, possono contare su partner produttivi che investano economicamente su di loro in maniera trasversale, ovvero non per una singola produzione ma con una progettualità articolata nel futuro. Nella maggior parte dei casi l’artista deve necessariamente ripartire da 0 ad ogni nuova produzione, specialmente se lavora in sospensione tra diversi linguaggi o se, durante la sua carriera, sfora in territori differenti da quelli d’origine.

Solamente chi diventa Artista Associato di un festival o un centro di ricerca, oppure entra nei circuiti produttivi dei teatri stabili (ma qui per la danza o i linguaggi più fluidi l’impresa rasenta l’impossibile) può beneficiare di un sostegno di questo tipo. Va segnalato però che in entrambi questi casi le opportunità presenti nel nostro paese sono numericamente sensibilmente inferiori rispetto alla quantità di autrici e autori professionisti di cui sono richieste le opere ma non supportate le creazioni.

Più rischio d’impresa da parte dei produttori. La maggior parte degli enti che dispongono di significative risorse economiche tendono a supportare realtà autoriali già emerse e affidabili delegando ad altri spazi la scoperta e il supporto di autrici e autori dai linguaggi meno afferrabili.

Le curatrici e i curatori che svolgono in maniera sistematica e puntuale un lavoro di scouting e di sostegno ai nuovi linguaggi e alla sperimentazione, appartengono prevalentemente a realtà poco finanziate, considerate marginali e poeticamente etichettate spesso come preziose o resistenti senza che a questa stima corrisponda un supporto o una rete di sostegno da parte di strutture economicamente più potenti. La conseguenza è che sono numerose le realtà autoriali (non solo emergenti) che arrivano a produrre intere opere basandosi esclusivamente su una rete di residenze senza portafoglio o, nel migliore dei casi, con le giornate di lavoro pagate alla minima.

È importante ricordare che lo spazio in sala è solamente uno degli elementi fondamentali della creazione. Considerare come secondario tutto il resto (disegno luci, tempo di prove tecniche, collaborazione con musicisti per chi desidera suono inedito, possibilità di avvalersi di collaboratori esterni come drammaturghi e consulenti, tempo di studio teorico…) è profondamente sbagliato e pericoloso. Si alimentano così intere generazioni di artiste e artisti invitate/i dai produttori stessi a considerare come secondari tutti questi elementi facendo dell’arte povera una retorica imposta e non più un’eventuale scelta estetica.

Riconoscimento della necessità di un’equipe per l’artista. Se accettiamo un sistema che delega allo spazio Indipendente tutto il mondo della danza contemporanea e degli infiniti linguaggi non inscrivibili in una categoria specifica, allora lo stesso sistema deve riconoscerci la necessità di un equipe che lavori con noi nella creazione costante di nuove strategie produttive e distributive. Perché intercettare bandi è un lavoro. Compilarli è un lavoro. Identificare produttori è un lavoro. Stendere budget è un lavoro. Organizzare una produzione articolata in 10 mini residenze sparse su tutto il territorio nazionale e senza portafoglio o con quote limitate di rimborsi spesa, è un lavoro. Inventare strategie di narrazione per permettere a un opera di circuitare, è un lavoro. All’artista non deve essere chiesto di adempire a tutti questi ruoli ed è profondamente sbagliato il sottile pensiero per cui chi non accoglie tutte queste mansioni sia fondamentalmente snob. Quelle sopra elencate sono competenze specifiche che necessitano di professionisti per essere svolte al meglio. Non riconoscerlo, oltre a sminuire il ruolo fondamentale di Manger, Promoter, Producer ecc aumenta il divario di potere tra il produttore e l’artista in quanto il primo si avvale sempre di tutte le figure sopra elencate pretendendo che il secondo sappia puntualmente interfacciarsi con ognuna di queste.

Se riconosciamo che creare arte è un lavoro allora dobbiamo riconoscere anche che ogni produzione è il risultato di una trattativa tra due soggetti, il produttore e l’artista, i quali devono essere in grado di gestire e trattare ognuno la propria parte di potere contrattuale. Un sistema che esige precisione, burocrazia ed efficienza deve mettere l’artista nelle condizioni di poterlo affrontare. La trattativa produttiva deve svolgersi tra due realtà professionali, non tra un padre generoso e un allievo in costante ansia da prestazione

D: La distribuzione di un lavoro sembra essere nel nostro paese il punto debole di tutta la filiera creativa. Spesso i circuiti esistenti sono impermeabili tra loro, i festival per quanto tentino di agevolare la visione di nuovi artisti non hanno la forza economica di creare un vero canale distributivo, mancano reti, network e strumenti veramente solidi per interfacciarsi con il mercato internazionale, il dialogo tra gli indipendenti e i teatri stabili è decisamente scarso, e prevalgono i metodi fai da te. Quali interventi, azioni o professionalità sarebbero necessari per creare efficienti canali di distribuzione?

Rimando alla risposta fornita per la domanda precedente.

Chiara Bersani
Chiara Bersani al BIg Bari Gender film festival Ph: Pierpaolo Pepe

D: La società contemporanea si caratterizza sempre più in un inestricabile viluppo tra reale e virtuale, tanto che è sempre più difficile distinguere tra online e offline. In questo contesto quali sono oggi, secondo la tua opinione, le funzioni della creazione scenica che si caratterizza come un evento da viversi in maniera analogica, dal vivo, nel momento del suo compiersi, in un istante difficilmente condivisibile attraverso i nuovi media, e dove l’esperienza si certifica come unica e irripetibile ad ogni replica?

Oggi è il 17 Marzo del 2020 e credo sia ovvio, data la situazione internazionale in cui siamo, che rispondere a questa domanda con onestà sarebbe impossibile. Nessuno di noi ha idea di quando potrà tornare a vivere la scena né delle modalità con cui questo accadrà.

Quanto tempo passerà prima che ci sia permesso performare? Chi incontreremo in quel tempo futuro? Cosa porterà il pubblico nei teatri? Con quali aspettative? Quali ricordi? Chi sarà diventato? Cosa significherà per tutti la parola folla quel giorno? Come verrà vissuto il foyer?

E noi? Chi saremo diventati? Cosa vorrà dire per noi assumerci la responsabilità di riportare le persone nei tanto temuti luoghi chiusi? Per quanto tempo la parola “assembramento” farà paura?

E io che appartengo a quella fascia fragile attualmente privata di personalità, io che, a detta di molti, sono tra quelle persone “per cui tutti fanno il grande sforzo di stare in casa”. Io che appartengo a quel gruppo di persone che anche senza pandemia conosceva il significato di essere costretta a casa o perdere un lavoro per motivi di salute…

Io, come vivrò il momento in cui torneremo ad incontrarci?

D: Con la proliferazione dei piani di realtà, spesso virtuali e artificiali grazie ai nuovi media, e dopo essere entrati in un’epoca che potremmo definire della post-verità, sembra definitivamente tramontata l’idea di imitazione della natura, così come la classica opposizione tra arte (come artificio e rappresentazione) e vita (la realtà intesa come naturale). Nonostante questo sembra che la scena contemporanea non abbia per nulla abbandonato l’idea di dare conto e interrogarsi sulla realtà in cui siamo immersi. Qual è il rapporto possibile con il reale? E quali sono secondo te gli strumenti efficaci per confrontarsi con esso?

Siamo veramente sicuri di essere davanti ad una dicotomia?

Personalmente sono sempre stata piuttosto dubbiosa sul considerare il virtuale come opposto al reale. Sono numerose le artiste e gli artisti che proprio per parlare del contemporaneo scelgono i mezzi virtuali, così come spesso l’attivismo grazie al virtuale ha la possibilità di creare reti e moti ondosi finalizzati ad agire sul reale….ma anche restando nel nostro ambito, o ancor più nello specifico nei miei lavori, che pure sono sempre profondamente analogici, nessuna mia opera avrebbe la sua attuale forma senza le possibilità di ricerca / studio / comunicazione / scoperta che il virtuale mi concede.

Prendiamo Gentle Unicorn: parte della sua drammaturgia è la creazione di un rapporto con il pubblico basata sulla graduale costruzione di una reciproca prossimità tra i nostri corpi e sulla silenziosa tessitura di una rete di sguardi. Questo significa che l’intera opera esplora elementi profondamente culturali alla cui variabilità è fondamentale che io sia preparata. Nella vicina Austria, per esempio, le bambine e i bambini con disabilità frequentano scuole speciali e raramente da adulti vengono inseriti nella società. Fare Gentle Unicorn in una piccola città austriaca voleva dire incontrare persone che non avevano familiarità con corpi eccentrici come il mio e infatti le reazioni sono state particolarmente forti sia nell’entusiasmo che nel terrore (è stata l’unica data in cui le due bambine presenti erano terrorizzate da me).

L’unico motivo per cui questa ondata emotiva così complessa da gestire non mi ha travolta è stato che, grazie ad una collaborazione virtuale avviata 2 anni fa con un gruppo di artiste e artisti attiviste/i con disabilità austriaci, ero già stata informata del contesto culturale in cui andavo a lavorare. Il virtuale, in questo esempio, ha informato il mio reale indirizzandolo verso riflessioni che non avrei avuto la possibilità di aprire altrimenti.

Nell’ambito del mondo delle persone con disabilità il virtuale è spesso una via di accesso alla realtà irrinunciabile. Consente a chi non può partecipare fisicamente ad esperienze comunitarie, di aderirvi per una via diversa.

A costo di essere retorica, visto che scrivo dalla quarantena, invito tutte e tutti a fare un esercizio di memorizzazione sulle strategie messe in atto ORA per non perdere il contatto con il mondo grazie al virtuale. Chiedo di memorizzarla perché questa strada, che a molte e molti di noi risulta eccezionale e temporanea, la percorrono ogni giorno moltissime persone che, per differenti motivi, non possono uscire di casa o dal paese / città in cui vivono.

Quello che per tante e tanti è un temporaneo sentiero inconsueto, per numerosissime altre persone è un’irrinunciabile strada maestra.

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Per saperne di più su Chiara Bersani: www.chiarabersani.it

IL FESTIVAL DEL SILENZIO: PICCOLI UNICORNI PER SUPERARE LE BARRIERE

Si è svolto a Milano dal 2 al 5 maggio il Festival del Silenzio, diretto da Rita Mazza e organizzato da Fattoria Vittadini. Il festival nasce dall’esigenza di riflettere sul tema dell’accessibilità delle arti e propone un programma nel quale le opere sono rivolte ad un pubblico più ampio possibile, siano esse di danza, teatro o cinema.

Qualcuno potrebbe obbiettare che l’arte dovrebbe essere sempre rivolta a chiunque voglia accostarvisi, eppure ben sappiamo che le barriere sorgono ovunque anche nei luoghi più insospettabili. Se dunque l’accento e la preoccupazione del Festival del Silenzio si pone principalmente sulla disabilità (in cartellone vi sono molti performer nati segnanti ossia artisti la cui lingua madre è quella della segni), il discorso si può e si deve ampliare verso la rimozione di qualsiasi barriera intellettuale e fisica che tende a escludere l’accesso di settori di pubblico alla fruizione dell’opera d’arte dal vivo.

Quest’anno oltre alla programmazione del Festival del Silenzio si affianca il Satellite Meeting degli IETM, network internazionale per le performing arts a cui sono legati oltre quattrocentocinquanta tra artisti e festival in tutta Europa, dedicato proprio al tema: “Barriere di lingua e comunicazione nell’arte e nella cultura”.

È stato estremamente interessante per chi scrive assistere alle performance dei nati segnanti e scoprire una lingua che è danza e coreografia, comunicante nonostante non la si conosca (certo come in ogni lingua straniera si perde qualcosa), una lingua che impegna l’intero corpo nel significare, un linguaggio teso all’incontro con la volontà di superare ostacoli e difficoltà. Non è superfluo ricordare che benché la nostra cultura si affidi principalmente al Logos per la comunicazione, quest’ultima è per la stragrande maggioranza non verbale. Da qui la potenza dell’incontro dal vivo che è sempre totale quando ci si pone in stato di apertura verso l’altro.

Esempio illuminante è Gentle Unicorn di Chiara Bersani, premiata con l’Ubu 2018 come miglior attrice/performer under 35, in programma nella prima giornata di festival. Chiara ci accoglie già all’esterno della sala di Spazio Vittadini a La Fabbrica del Vapore con un foglio in cui prefigura l’incontro con il pubblico come già Stephen Hawking quando nel 2009 indisse il party per i viaggiatori del tempo. Un’apertura dunque anche a ciò che potrebbe apparire impossibile.

Entrando in sala il pubblico si predispone seduto in prossimità della scena su tre lati, il corpo di Chiara è invece disteso di spalle nell’angolo sinistro in fondo. Lentamente si alza e gattona, adagio, a fatica, per tutta la lunghezza della scena. La musica di Francesca De Isabella accompagna l’incedere sorgendo dal silenzio come da un luogo lontano. Gradualmente Chiara si avvicina e ci guarda. Si approssima al pubblico, sempre più vicina, i suoi occhi gentili rivolti a ciascuno di noi. Non accade nient’altro eppur tutto ha luogo in quell’incontro.

I miti greci ci parlano dalla lontana antichità sul potere dello sguardo. La fanciulla Kore, la pupilla, che nel ricambiare lo sguardo di Ade rende possibile il rapimento, perché solo attraverso gli occhi si può esser carpiti e attratti dal dio. Pensiamo ai rapimenti estatici di Dante nel ricambiare lo sguardo di Beatrice, luminoso oltre ogni dire. Ma anche a quello pietrificante di Medusa, da cui Perseo si difende solo con lo scudo di Atena, dea della sapienza (non è superfluo ricordare che di Medusa si diceva avesse corpo di cavallo, e che dal suo corpo decapitato scaturì Pegaso, cavallo alato).

Il nostro occhio nell’incontrare quello di Chiara può pietrificare come la Gorgone o permettere un rapimento come nel caso di Persefone. Sta a noi, alla qualità di ciò che offriamo nell’incontro stabilire se quel corpicino che attraversa la scena sia o meno un unicorno, un animale mitico e solitario. Chiara nel frattempo si avvia verso il fondo della scena, si appoggia con la schiena alla parete e prende una tromba da cui emette un suono, come un nitrito, ripetuto più volte a cui rispondono dietro le nostre spalle, altri strumenti. Lentamente entrano in scena altri corpi, ciascuno con uno strumento a fiato. Altri animali mitici hanno risposto al richiamo, si guardano, parlano con il loro linguaggio di suono, finché la luce scema. L’incontro è avvenuto? Noi pubblico abbiamo risposto alla chiamata? Che sguardo abbiamo offerto a quel corpo che a noi si è mostrato? Questa domanda aleggia a lungo prima degli applausi.

Gentle Unicorn mette in luce chiaramente le intenzioni del Festival del Silenzio: accessibilità significa prima di tutto potersi incontrare, e perché ciò sia possibile è necessaria la volontà. Bisogna essere disponibili, lasciare aperta la porta. Allora tutto diventa possibile e le barriere che si pensavano insormontabili si sgretolano e svaniscono come castelli di carta per un soffio di vento.

Chiara Bersani

INTERVISTA A CHIARA BERSANI: Unicorni e lampioni che illuminano il buio

Ho conosciuto Chiara Bersani l’anno scorso a Santarcangelo vedendo il suo Peeping Tom e da allora seguo il suo lavoro con molto interesse. La sua nuova opera si intitola Gentle Unicorn e debutterà, dopo una serie di residenze creative, il 13-14-15 luglio nella prossima edizione di Santarcangelo.

Enrico Pastore: Cosa ti ha spinto a frequentare la scena e a utilizzare questo supporto per manifestare le tue riflessioni?

Chiara Bersani: Credo che all’inizio di tutto ci sia il mio essere stata una bambina fisicamente fragile. Peculiarità del mio handicap è una fragilità ossea che proprio nell’infanzia ha la fase più acuta così io ero una bambina che si muoveva piano, poco, con cautela. Avevo l’energia atomica dell’infanzia in una struttura inadatta a contenerla. Per farla uscire da qualche parte ho iniziato presto a compiere una frenetica attività da “piccola filosofa”: osservavo, memorizzavo, rielaboravo, teorizzavo… avevo nella testa un complesso laboratorio di critica della realtà e a 8 anni ero una di quelle bambine che possedeva una teoria su tutto (ovviamente parliamo di teorie assurde e svincolate dalla razionalità).

Con l’adolescenza, ho fatto una scoperta che mi ha rivoluzionato la vita: il mio corpo adulto era forte. Qualcosa di ormonale che non so spiegare, unito al fatto che sono sempre stata seguita da medici specialistici ovviamente, ha ridotto in pochi anni in maniera significativa la mia fragilità e mi ha spinta, molto lentamente, a desiderare di sperimentare questo nuovo corpo che sembrava finalmente adatto al mondo. Sulla scena ho trovato il terreno fertile su cui coltivare e far esplodere questa meravigliosa fioritura.

Ecco come ci sono arrivata ed ecco perché nei primi anni non ho nemmeno lontanamente considerato l’ipotesi di diventare autrice: ero stanca di essere pensiero, volevo essere carne! Mi sono serviti anni di rivincita fisica prima di fare pace con la mia testa e concedere anche alla componente autoriale di emergere.

Come autrice non sono sicura che la scena sarà sempre il luogo idoneo per le mie creazioni. Fino ad ora è stato quasi sempre così, complice anche la mia profonda fascinazione per il potenziale di intimità tra artista, opera e fruitore che solamente la live art può dare.

Però mi piace ricordare che ogni questione richiede una forma e un linguaggio diverso per essere affrontata e che il mio compito nella creazione è anche quello trovare il canale più idoneo affinché l’opera esploda, anche a rischio di lanciarmi in terreni sconosciuti, anche a rischio di fallire.

Enrico Pastore: Quali funzioni assegni all’agire scenico e quali pensi siano le funzioni delle performing arts nel contesto attuale?

Chiara Bersani: All’agire scenico attribuisco prima di tutto una responsabilità.

Il suo essere radicalmente ancorata al presente come unico tempo possibile impone che lo spazio in cui si compie diventi piazza, con i venti liberi di correre tra le sue fessure. L’azione scenica, proprio perché portatrice d’urgenze, non può essere rigida. Solida, questo sì, ma sempre permeabile ai respiri e agli spostamenti d’aria di chi vi assiste.

Nella ribellione alle categorie, nell’abbracciare il termine performing arts come salvatore da un mondo artistico italiano troppo spesso incasellato in definizioni asfissianti (anche per doveri ministeriali, ma questa è un’altra storia), bisogna ricordare che ogni liberazione porta con sé possibilità e precipizi. È importante che gli artisti della mia generazione rinuncino ai porti sicuri, ai linguaggi consolidati, alle strutture ereditate dalle altre generazioni, alla creazione di “opere facilmente vendibili”, alle pressioni produttive, ai format sicuri e diventino corsari nel battere nuovi sentieri accogliendo il fallimento come una delle varie possibilità performative.

Siamo la generazione della crisi economica e allora possiamo concederci di fare del fallimento il nostro meraviglioso manifesto poetico. In fondo le performing arts ci aprono anche questa possibilità.

Enrico Pastore: In che modo, seppur c’è un modo, costruisci una tua performance?

Chiara Bersani: La mia amica Marta, ricercatrice universitaria, un giorno mi disse che io e lei avevamo la stessa metodologia di lavoro: vediamo un brandello di strada illuminato da un lampione, ci innamoriamo e decidiamo che impiegheremo i prossimi mesi/anni nel tentativo di costruire complessi sistemi di specchi che riflettano la poca luce illuminando quanta più strada possibile. Per scoprire, magari, che non c’era niente di quello che immaginavamo e abbandonarci alla deriva di ciò che troviamo.

Faccio fatica ad identificare un vero e proprio metodo di costruzione di una performance che sia idoneo ad ogni creazione. Mi piace però restare fedele all’ immagine della mia amica: trovare una piccola meraviglia e provare ad amplificarla, accettando che per farlo sono chiamata a muovermi nel buio.

Enrico Pastore: Che ruolo assegni al pubblico nei tuoi processi creativi? Chi è il pubblico per te: uno spettatore? Un componente della performance? Un performer a sua volta?

Chiara Bersani: Il Pubblico è l’amato/a che si presenta al primo appuntamento, con il suo carico di desideri e aspettative da mettere in dialogo con i miei.

Il Pubblico è mosso da una specifica intelligenza perché, fin dal momento in cui sfogliando il giornale o ascoltando la radio decide di prendere parte ad un evento, sta scegliendo. Quella sera il Pubblico cenerà un po’ prima per non fare tardi, si farà la doccia, magari metterà un abito più carino del solito. Oppure arriverà di corsa dal lavoro e non farà nemmeno in tempo a passare a casa per cambiarsi. O magari verrà a teatro ma l’opera a mala pena lo sbircerà perché quello è il primo appuntamento e la persona che ha accanto, forse, dopo gli darà un bacio…qualunque sia il percorso il Pubblico sarà lì per scelta e la possibilità di scegliere fa di noi esseri intelligenti.

Io sono la persona che li accoglie, la signora Dalloway che compra i fiori e sistema la casa. Ma sono anche la persona che avvia la conversazione condividendo le domande che mi fanno battere il cuore. Perché io, i performer e il Pubblico abbiamo accettato questo appuntamento, nessuno lo sta subendo. Affinché riesca bene la serata dobbiamo essere vigili insieme. Dobbiamo ricordare che ciò che avverrà questa sera, in questo teatro, dipenderà da entrambi: da come io condividerò le mie domande e da come ognuno deciderà di relazionarcisi. Sarà infatti una scelta personale se portare le questioni sollevate con sé nella notte o abbandonarle come macerie nel luogo dell’incontro.

Infondo non a tutti gli appuntamenti alla fine ci si innamora.

Enrico Pastore: Quale funzione assume la corporeità del performer nella tua idea di scena?

Chiara Bersani: Poli. Magneti. Presenze che con un movimento possono cambiare l’assetto del sistema solare.

Con i performer lavoriamo sempre alla ricerca di una presenza che catalizzi, accolga e diventi creatrice di senso ma che allo stesso tempo sia reattiva, vigile, pronta ad affrontare una via sconosciuta laddove la situazione lo impone. Se, come dicevamo prima, i corpi in gioco non sono solo quelli di chi abita la scena ma anche quelli di chi la osserva, i performer sono necessariamente chiamati a relazionarsi con le onde d’urto generate da fruitori sconosciuti.

Non è quindi possibile, per me, interrogarsi sui corpi performativi ignorando quelli degli osservatori.

Enrico Pastore: Parliamo della tua nuova creazione, Gentle Unicorn, quali sono le tue intenzioni nel rielaborare questa figura mitica? Quali le sue implicazioni con il nostro presente?

Chiara Bersani: Quando ho iniziato ad interessarmi alle origini di questa figura mi sono resa conto che eravamo davanti ad una creatura dal passato profondamente lacunoso e pertanto dall’identità fragile. Non c’è un momento nella sua storia in cui sia possibile identificarne la matrice. Ecco, sono partita da qui: dalla fragilità delle sue radici che si sposa a quella della mia forma. Più che rielaborare la sua figura ho provato a cercare i meccanismi che ci accomunano facendo dell’inafferrabilità di un’immagine la tensione-scheletro dell’intera creazione.

Il mio Gentle Unicorn è una creatura dall’identità precisa ma indefinibile, con un percorso autodeterminato e portato avanti fino al suo compimento…e sì, certo, sarebbe bellissimo se qualcuno lo seguisse, ma andrà bene anche se dovrà camminare da solo.

Non amo essere troppo esplicita nel suggerire letture o agganci con il presente. Ovviamente questo lavoro è stato fortemente alimentato da una serie di dibattiti del nostro tempo. Potrei azzardare a dire che ogni cosa, dall’utilizzo delle luci alla musica, dall’azione alla comunicazione, sia stata scelta sulla base di riflessioni politiche. Voglio però lasciare il Pubblico libero di trovare un proprio modo di vivere l’opera senza essere troppo informato da quello che è stato il mio percorso nella creazione. In performance come questa, dove si sceglie di rinunciare alla parola in nome della suggestione, credo sia importante per l’autore accettare che ogni fruitore vedrà qualcosa di diverso e alcune scintille che hanno generato il pensiero forse siano andate perdute.

Enrico Pastore: Qual è stato il percorso produttivo di Gentle Unicorn? E quando sarà il suo debutto ufficiale?

Chiara Bersani: Gentle Unicorn è un lavoro prodotto in Italia e tutti sappiamo com’è la situazione per chi si muove al di fuori del circuito dei Teatri Nazionali. Gli artisti, i festival, le piccole realtà produttive, i circuiti di residenze…tutto è fagocitato da un sistema produttivo al collasso in cui è quasi impossibile capire quale sia il miglior tentativo di resistenza. Resistere significa produrre nonostante tutto o fermarsi fino a quando determinate condizioni minime non saranno garantite?

Io, da artista, non lo so.

Insieme a Eleonora Cavallo (organizzatrice di produzione) e Giulia Traversi (curatrice e promoter) abbiamo deciso che per noi, per questa volta, resistere significava portare l’Unicorno al debutto.

Gentle Unicorn, come molte creazioni italiane, è nato itinerante grazie ad una concatenazione di residenze che hanno permesso al lavoro di mettersi alla prova in spazi e realtà diverse. In tutto il suo percorso, questo lavoro, è cresciuto sotto l’occhio attento di curatori estremamente generosi che in questo anno mi hanno accompagnata costantemente, prendendo treni per vedere gli sharing o inviandomi riflessioni, foto e video quando un Unicorno, per caso, gli attraversava la strada.

Gentle Unicorn debutterà al festival di Santarcangelo il 13 – 14 – 15 Luglio, a coronamento di un fitto dialogo sulle implicazioni politiche dei corpi che da due anni porto avanti con le direttrici artistiche Eva Neklyaeva e Lisa Gilardino. Ci sarà però anche un secondo debutto ovvero quello della versione museale con il titolo Seeking Unicorns che si terrà in un’altra realtà alla quale sono molto legata ovvero Operaestate Festival nella sezione di B.MOTION DANZA, Bassano del Grappa, il 22 e 23 Agosto.

Ph: @CentraleFies

Chiara Bersani

GOODNIGHT, PEEPING TOM di Chiara Bersani

Chiara Bersani si ispira a una leggenda. E dalla leggenda scaturisce il gesto erotico/politico della sua performance.

Lady Godiva cavalca nuda per le strade di Coventry e Tom il sarto sbircia dal un forellino nella persiana. E come chi osa guardare il sole troppo a lungo, il povero Tom, per sempre Peeping Tom, perde la vista. Cieco per aver voluto vedere.

Buona notte Tom, ora puoi guardare, senza tema di pericolo, affrontando il pericolo. Puoi riposare, Tom, non più guardone illecito, liberato nel tuo vedere puoi guardare Lady Godiva a tuo piacimento, che essa cavalchi un bianco destriero o un cavallo di ferro su ruote. Tutto ti è lecito al tuo voler guardare, non più oscuro scrutare, solo vedere ed esser visto. Nella piccola palestra della Scuola Elementare Pascucci di Santarcangelo cinque spettatori attendono nel lungo corridoio di potersi palesare come novelli Peeping Tom. È questo il pubblico: un guardone che scruta dal buio della sala i performer sulla scena. Guarda i loro corpi muoversi e agire/patire sulla scena del gran teatro del mondo. Guarda protetto dalla distanza. Scruta voglioso e invidioso, scava con gli occhi impunemente, e diviene cieco al vero vedere che è frutto di scambio di sguardi, di seduzioni reciproche, di occhiate fugaci. Eros cieco permette a Psyche di vedere finalmente, senza tema di anatema, di far danzare gli occhi suoi ridenti e fuggitivi sul corpo del desiderio e ricevere in cambio lo sguardo. E non è forse nello sguardo di Persefone, la pupilla greca, rapita da Ade, in quello sguardo fisso nel proprio rapitore, che sta il segreto di Eros nascosto tra i cavalli del cocchio del re dei morti, per intrufolarsi nel regno proibito, unico tra tutti gli dei a signoreggiare in ogni angolo del creato?

E così semplicemente, si entra in cinque nella palestra occupata dai quattro performers, e comincia un gioco di sguardi, quelli tanto amati da Casanova, e il semplice guardare si carica di significati erotici, politici, semplicemente esistenziali. É sfida, è seduzione, è esserci per l’altro e l’altro ricambiare. Il modo sta al singolo. Non c’è legge o trattato che insegna a guardare. Se lo fai in modo indecente sta a te, se lo fai carico d’amore, sta a te, se lo fai pudico o lubrico sta sempre a te. Come dice un adagio tibetano, ognuno è autore della propria miseria. Si può rintanarsi in un angolo a guardare senza voler partecipare, si può giocare con gli sguardi e bearsi di questo gioco semplice, fatto di silenzi, finalmente liberi dall’oppressione del dire.

In uno sguardo ci può esser più d’ogni dire, e nell’occhio umano c’è più deriva politica di ogni manifesto. L’occhio non sa mentire come la bocca, l’occhio è estraneo al mentire, non si può nascondere dietro un sorriso di circostanza. Se guardi accetti il dialogo, se sfuggi lo neghi e riveli di te più di quello che vorresti. MA si può anche offendere con uno sguardo, si può ferire ed essere feriti, si può accusare, si può denigrare, e si può amare infinitamente.

Un divino gioco è quello che sviluppa Chiara Bersani, novella Lady Godiva invita noi tutti Peeping Tom a non nasconderci dietro la persiana, ma a farci audaci, ad avere il coraggio di Persefone e scandagliare il rapitore che ci guarda con occhio rapace. Se si vuole si può addirittura guardarsi a due, nella scatola di legno che campeggia nell’angolo della palestra, si può fare un privé di sguardi. Si può accettare o no. In quell’ora che si passa con Chiara Bersani e i suoi performer, si sperimenta la croce e la delizia dello sguardo, si misura con l’occhio il corpo e le pulsioni che scatena, si può toccarsi, sfiorarsi, persino provare a scandalizzare, sedurre, provocare. E si può anche semplicemente stare, godersi il momento, fare niente del tutto, semplicemente vedere ed essere visti e provarne piacere.

Santarcangelo

Benvenuti a SANTARCANGELO DEI TEATRI – 07/07/17: The Olympic Games e Molotov Cocktail Opera

Trascorsa la prima delle giornate che ridisegneranno a poco a poco la topografia di Santarcangelo di Romagna fino al 16 di luglio, in occasione di un festival che per quest’anno afferma con forza la sua volontà di rinnovamento e apertura “a un pubblico nuovo” fin dalla prima pagina del suo programma cartaceo – qualora lo si riesca a reperire, al di fuori del “confine” romagnolo, poiché affidarsi esclusivamente al sito on-line e alla sua mega-cellula in espansione è un’esperienza che dà sicuramente più all’estetica e al visuale che alla pura comunicatività e informazione –, un piccolo sguardo su due delle “cerimonie di apertura” che hanno salutato l’ingresso di questa edizione 2017: l’anteprima di The Olympic Games di Marco D’Agostin e Chiara Bersani e Terra bruciata. Molotov Cocktail Opera dello svedese Markus Öhrn.

Una scelta decisamente accattivante quella di trasformare lo spazio del Lavatoio di Santarcangelo nel pulpito dal quale celebrare un’analogia tutt’altro che scontata: un festival di teatro come olimpiade, arena di corpi in movimento e spettacolarità da conquistarsi a volumi altissimi, da discoteca, con tanto di dj-set e cerchi olimpici scintillanti nel buio a sovrastare quella che viene definita una “liturgia”, e in effetti lo diventa, operata dalla grande presenza e sapienza vocale di Marco D’Agostin, che nella prima e ritmatissima parte della performance divide la scena con il corpo muscoloso e atletico del danzatore Matteo Ramponi. L’uno ci regala un’esplosione di danza a corpo libero, un incastro di muscoli pronti allo scatto, l’altro ci mette la voce: in maniera via via più serrata snocciola alla sua audience uno dopo l’altro tutti i paesi partecipanti ai giochi olimpici, una catena sillabica perfetta di internazionalità e compartecipazione, invito e incitamento, ed evoca accanto a sé in uno sfavillio di lustrini le mascotte di queste Olimpiadi santarcangiolesi; accanto ai bambini, lo raggiungono Chiara Bersani e Marta Ciappina, quest’ultima nelle pesanti e lenti vesti di un elefante.

Non lasciateci soli. You can come closer. Fra le raffiche di parole: you may say I’m a dreamer. Don’t leave us alone. Ma il pubblico non risponde, bombardato di luci, suoni, azioni, non è lì con loro. Non lasciateci soli, ripete continuamente D’Agostin. Non lasciateci soli. The world will be as one, grida.

A un tratto, il cambio. Quello della cerimonia inaugurale è in effetti un dispositivo che direziona lo sguardo, che lo canalizza verso un unico centro, un unico obiettivo che va pompato, gonfiato perché investa qualsiasi canale percettivo, perché non possa in alcun modo passare inosservato, perché si lasci guardare e consumare: benvenuti dunque a Santarcangelo, ai giochi olimpici, benvenuti; ma di fronte alla richiesta principale il pubblico non può fare nulla. Non siamo lì con loro, non del tutto. Non sembra, del resto, che i perfomers cerchino davvero una condivisione e un coinvolgimento che travalichi un meccanismo di pura visione. Alla seconda parte della performance fa dunque seguito questa assenza profonda. Il ritmo si dilata e rallenta: abbandonata la sedia a rotelle, spetta alla Bersani la denuncia, a tratti forse anche un po’ troppo patetica (nel senso etimologico del termine, ma la cui verità non è oggetto di discussione), sulla difficoltà, in questa ricerca, in un viaggio iniziato a livello di idea e concetto nel 2015, delle parole giuste. Difficile trovarle e utilizzarle lì, di fronte a noi, con quel “non lasciateci soli” che continua a fare eco, qua e la. Una parentesi che ci fa tornare con uno spirito diverso al gioco olimpico, ora arrivato al suo momento di inizio effettivo: con l’ausilio di un tapis roulant “mignon” la Bersani è la prima. Seguono la Ciappina, D’Agostin, da ultimo Matteo Ramponi, che ricompare solo all’ultimo, verso la fine della performance, sudato dopo una corsa (che ovviamente non vediamo) al di fuori dello spazio scenico. Nello sforzo fisico e nella resistenza tenace cui tutti e quattro sottopongono uno dopo l’altro i propri corpi – fra le molte immagini, quella delle braccia sollevate e delle mani tese di D’Agostin, che dalla prospettiva del pubblico sembrano voler raggiungere gli anelli olimpici ancora accesi in alto sulla parete, rimane una delle più forti – viviamo, da spettatori, un ulteriore straniamento, e nella lentezza generale accade anche qualcos’altro: ci stanchiamo. Accade non soltanto per il ritmo bruscamente variato, rispetto alla prima parte, ma anche perché i performer ribaltano con forza il meccanismo della visione, e non ci perdono d’occhio un istante. Guardano, scelgono di portarci con loro a forza, e in maniera frustrante ci costringono a vivere con loro l’ansia dello sportivo nel momento decisivo, nella dinamica interna del “comincio-non-comincio” e in quella di resistenza alla fatica: ma dello sport non importa più molto. Concludono man mano sedendosi in prima fila, con noi. Alla scena si lasciano solo i cerchi olimpici, le cui lampadine però non brillano più tutte insieme, e una macchinina telecomandata, a cui affidare quella che è la replica un po’ parodica di un fuoco artificiale: gli ultimi bagliori di una fiaccola olimpica che non illumina.

Dal fumo negli occhi di D’Agostin e Bersani, si aspettano le 23 e ci si sposta allo Sferisterio, dove altri fumi e altri fuochi sono attesi. Bisogna aspettare un po’, lo spazio è esteso in larghezza, ai piedi delle mura, e la visuale non è ottima ovunque, ma di questa performance si parlava già da un po’, e rientra in quella parte di eventi felicemente gratuiti e aperti alla partecipazione pubblica, allargata. Per il resto, che lo si voglia ammettere o meno, e che piaccia o meno, il fattore pirotecnico è sempre un ottimo richiamo di pubblico, oltre che fonte atavica di fascinazione. Molotov Cocktail Opera è né più né meno che un rito: figure vestite di nero col volto coperto attendono che le donne del Collettivo Azdora, queste invece in bianco, entrino, fiaccole in mano, e diano il via alla cerimonia. Una partitura in piena regola: una piccola polifonia di voci registrate e sovrapposte fra loro escono dalle casse (scelta che tuttavia sembra rivestire più la funzione di un semplice richiamo all’attenzione che incarnare una reale motivazione artistica) e precedono la cantilena che di lì a poco il coro Magnificat di Santarcangelo, centrale e dall’alto delle mura, scandirà ad accompagnamento del lancio delle molotov; figlie, queste ultime, sempre di un passaggio di mano femminile: dall’azdora in bianco, alla “black-block”, alla pira centrale. Il direttore d’orchestra ad armonizzare tutti i movimenti. Un piccolo disguido tecnico alle casse ha reso per un secondo l’intero movimento ancora più potente: le voci naturali del coro, che incalzanti ripetono una filastrocca poetica sulla mano destra che dà fuoco alla mano sinistra (è solo un gioco, solo un gioco, cantano), nella notte del primo giorno di festival sono di sicuro più potenti e incisivamente reali di quelle amplificate dall’impianto. Pubblico incantato a tratti, in altri distratto e un po’ perplesso dalla ripetizione di un gesto che non trova il suo culmine ma accade in sé, si disperde infine infine lentamente, mentre le ultime note muoiono, il fumo che fuoriesce dall’alto, dalla posizione del coro, si dirada, e le ultime molotov vengono lanciate “fuori-perfomance”, per il puro gusto di tenere acceso un fuoco che, a questo punto, si spera illumini dignitosamente Santarcangelo e tutto il festival: il cui taglio è stato annunciato quest’anno come meno “canonicamente teatrale”, ma dal quale – e di questo l’installazione posta a lato della piazza principale si fa portavoce eloquente – si dovranno staccare via pian piano tutte le più superficiali criticità per risalirne al nucleo, a quella cellula pulsante eletta persino come logo e iconico monito. Perché, di tutto questo iniziale focolaio, non rimanga solo il fumo.

Maria D’Ugo