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Teatro e mondo digitale

PENSIERI SPARSI SU TEATRO, STREAMING E MONDO DIGITALE

In questi giorni mi è tornato in mente un libro di Isaac Asimov appartenente al Ciclo dei robot, Il sole nudo. In questo romanzo il detective umano Elijah Baley, accompagnato dal robot umanoide R. Daneel Olivaw, indaga su un omicidio sul pianeta Solaria. Tra la Terra e questa colonia spaziale non vi può essere maggiore distanza culturale: la prima vive sovraffollata, compressa, sotto cupole in immensi agglomerati di cemento e acciaio; gli abitanti di Solaria vivono invece isolati, in vasti appezzamenti, comunicando con gli altri solo tramite trasmissioni olografiche, rifuggendo non solo il tocco con un altro essere umano, ma persino il vedersi dal vivo se non per brevi e assolutamente gravi motivi. Tra due civiltà tanto distanti non sembrerebbe possibile la nascita di alcun dialogo, eppure il seppur breve contatto tra il terreste e i solariani cambia radicalmente i pregiudizi culturali di entrambi i popoli.

La distanza abissale tra la Terra e Solaria mi è sembrata assonante con la questione tanto dibattuta in questi giorni tra teatro e streaming o più in generale tra teatro e mondo digitale. Non potremmo immaginare arte più distante dall’asettico mondo etereo della rete eppure in questo periodo di obbligata e dolorosa distanza dai palchi di legno, il teatro sembra di necessità sbarcato sul web. Probabilmente questo incontro era inevitabile, forse addirittura necessario. Certa è l’irreversibilità delle conseguenze ora difficilmente calcolabili.

Alcuni potrebbero pensare che mai il teatro potrà prescindere dal contatto umano di una comunità riunita nel qui e ora dell’istante, per dibattere questioni civili, politiche etiche e morali; altri potrebbero dire che tale comunità si fosse ridotta a riserva indiana e che il web è una se non l’unica via d’uscita dall’isolamento. Quando si adotta una nuova tecnologia da sempre il dibattito si divide manicheo tra i sostenitori e i detrattori, pessimisti e ottimisti, luddisti e futuristi. La storia umana ci dice che quando si adotta uno strumento tecnologico non si torna indietro. Scoperta la stampa la pratica di confezionare libri da artigiani amanuensi per quanto non sparì andò il soffitta per sempre, così come il cellulare ha mandato in pensione le cabine agli angoli delle strade. Nell’adottare un nuovo strumento si guadagna qualcosa e si perde qualcos’altro. Bisogna essere consci di cosa si lascia e cosa si ricava. Non solo. Come afferma James Bridle: «Nel momento in cui creiamo uno strumento diamo forma a una certa interpretazione del mondo che, una volta reificata, è in grado di produrre un dato effetto su quel mondo. Diventa così un altro ingranaggio della nostra comprensione del mondo – per quanto spesso per via inconscia».

L’incontro tra teatro e mondo digitale quindi provocherà inevitabilmente una modificazione del concetto che l’arte scenica ha avuto per noi fino ad oggi. Possiamo decidere se controllare questo cambiamento o subirlo. L’adesione alla rete è avvenuta per il teatro in un momento di crisi totale. Potremmo quasi dire che l’arte scenica, come tutte le altre arti dal vivo, non ha potuto far altro trovandosi improvvisamente, a causa della pandemia, in un vicolo cieco.

Per quanto soprattutto la mia generazione, quella dei quarantenni, sia stata portata a considerare il web come una tecnologia neutra se non addirittura super democratica e antisistema (immensi archivi gratuiti, costi ridotti di promozione, accesso più o meno legale ma gratuito ai prodotti culturali e infine accesso alle notizie che i media tradizionali tendono ad occultare, per citare alcuni di questi cliché culturali), internet è tutt’altro che un luogo privo di pericoli. Bernard Stiegler usa la parola greca Pharmakon per riferirsi al web: veleno e medicina. Un luogo dunque di chiaroscuri in cui è bene avventurarsi sapendo quali rischi si corrono dal momento che il DNA teatrale sembra ormai innestato di fibre ottiche e bit digitali. Ne La mosca di Cronenberg quando Seth Brundle aziona il teletrasporto non sa che nella cabina c’è una mosca. La macchina di sua spontanea volontà non trasporta due esseri distinti ma mischia il loro DNA e se, in un primo momento, lo scienziato sperimenta grandi vantaggi, con il passare del tempo l’ibridazione lo porta alla morte.

Bernard Stiegler

La questione di un alleanza/connubio tra arti dal vivo e web è ovviamente di vasta portata e non sarà certo un articolo a dipanare una matassa quanto mai intricata. Ci limiteremo a indicare qualche percorso di riflessione.

Partiamo dall’ovvio: in teatro (come nella danza o nella performance) oltre all’incontro tra performer e pubblico nel qui e ora si opera anche un montaggio della visione unico per ciascuno spettatore. Il suo occhio è libero di incontrare sul palco quello che gli suscita maggiore curiosità, interesse, affezione, commozione. Nel semplice streaming come è stato fatto fino a oggi questo viene totalmente a perdersi. A imporsi è o una regia televisiva/cinematografica nelle produzioni più ricche o un semplice totale a camera fissa che replica il punto di vista centrale e appiattisce la visione per quelle più povere. Forse bisognerebbe trovare il modo di recuperare un modello di visione personale e unica prima di adattarsi unicamente allo stampo televisivo. Come fare? E qui sarebbe interessante una sperimentazione.

Ma non è solo una questione di spazio: il tempo del web è abissalmente più rapido e instabile di quello percepito in una esperienza artistica dal vivo. Per farsi un’idea empirica della questione basta vedere l’oscillazione di presenze nelle dirette Facebook o Instagram. Il tempo lento della presenza è in assoluto contrasto con il tempo rapido e discontinuo di internet. Persino l’on demand viene spesso spezzettato (il termine tecnico è “spacchettamento dei contenuti” es. Santa estasi di Antonio Latella, spacchettato in episodi come una serie TV) così perdendo lo sprofondarsi nel tempo dell’opera. La visione è distratta tanto quanto la lettura. Questo però non è necessariamente un male. Il jazz riadattò i tempi di esecuzione dei propri brani a quello dei 78giri e nelle esecuzioni dal vivo niente impedì il perpetuarsi di brani di ampio respiro. È dalla comparsa dei mezzi di riproduzione di massa che le arti si sono adattate e modificate.

Santa estasi Antonio Latella

Il principale pericolo per qualsiasi contenuto voglia sbarcare sul web è invece la logica computazionale, quella che Antoinette Rouvroy e Thomas Berns chiamano “la governabilità algoritmica della rete”. Tale criterio volto a quantificare più che a qualificare è figlio della logica neoliberista e di fatto ha già contaminato le modalità di accesso ai finanziamenti. Non si premia il progetto più interessante, meglio realizzato o più fecondo in una strategia a lungo periodo, ma quello che ottiene migliori valori e prestazioni quantificabili: numero di borderò, biglietti staccati, giornate lavorative, etc. Google, Facebook, Amazon e Apple, i cosiddetti “quattro cavalieri dell’apocalisse”, attualmente i veri padroni di internet, stanno implementando solo logiche computazionali che inevitabilmente modificano il nostro modo di pensare il mondo.

Stiamo esagerando? Pensate: quale ristorante scegliete su Tripadvisor? Quello con centinaia di recensioni o quello che ne ha solo una decina? Su Netflix scegliete d’istinto La casa di carta o la sconosciuta serie turca o indiana? Su Spotify di un gruppo che non conoscete, per farvi un’idea, non scegliete forse la canzone più gettonata? Siamo ormai influenzati a scegliere ciò che riscontra maggiori consensi senza troppo domandarci quali sono le ragioni e le radici di tale consenso. Nel mio paese, meta turistica per milioni di persone da tutto il mondo, con l’avvento di Tripadivsor i ristoratori, per protesta al nuovo mezzo che legittimava chiunque a interpretare la parte di Joe Bastianich, spinsero al primo posto in classifica un salumiere che faceva semplici panini al prosciutto!

Se la questione è la quantità vi sono molti modi per ottenerla, e soprattutto la logica computazionale è legata al culto del profitto e per questo tende ad eliminare le singolarità alla ricerca di ciò che incontra maggiormente i gusti dei potenziali utenti. Credete che questo non influenzi le arti? Epagogix è una società inglese incaricata dai maggiori produttori hollywoodiani di sviluppare delle reti neurali per dragare la rete e scoprire quali scene dei film vengano considerate migliori e più divertenti dal pubblico in modo da replicarne i risultati.

Se la rete offre indubbi vantaggi nella messa a disposizione degli archivi di teatri, festival e istituzioni, finalmente raggiungibili non solo dagli studiosi ma anche dai semplici appassionati, qualche dubbio si affaccia sulla questione in questi giorni molto dibattuta sulla reale possibilità di aumentare i pubblici raggiungendo fasce per ora restie a frequentare le sale teatrali. Come fa notare il già citato Bernard Stiegler gli algoritmi dei social e di Youtube mettono in relazione chi è già in relazione, chi già esprime inclinazione verso, il resto viene quasi totalmente escluso. Se guardo un video o ascolto un album dei Metallica difficilmente mi capiterà nei suggerimenti Tricky o Paul Kalkbrenner. Lo possiamo notare tutti semplicemente dando un’occhiata alla sezione “persone che potresti conoscere” sulle nostre pagine Facebook e constatare che quasi tutte fanno parte in qualche modo del nostro giro di interessi. Questa modalità è logica in un contesto neoliberista in cui quello che conta è vendere dei prodotti e dove quindi è necessario non mettere in evidenza le singolarità ma la maggior fetta possibile di interessati in base a preferenze già espresse. Se posto una foto di fiori è persino ovvio che gli algoritmi suggeriscano pubblicità e contatti con fioristi e vivaisti, ma nel caso di un oggetto culturale questa tendenza a settorializzare gli interessi non andrebbe a replicare la chiusura che già c’è nella realtà? Ricordiamoci che le macchine portano in sé i difetti dei loro costruttori, anche se a volte sorprendono per la libertà di prendere decisioni autonome.

Conseguenza di questo aspetto è quella che viene definita “delaminazione dei dati”. Un articolo scritto da un grande reporter con fonti verificate e verificabili, dagli algoritmi di ricerca viene accostato per assonanza a qualsiasi altro che riporti nell’indicizzazione simili o identiche catene di parole chiave. Tale prossimità comporta l’incapacità per la maggior parte degli utenti di distinguere la qualità delle fonti e delle notizie, cosa di cui si avvantaggiano gli inventori di fake news o chiunque sia interessato a confondere le acque. Per fare un esempio in campo teatrale Acqua di Colonia di Frosini e Timpano in chiaro sulla rete potrebbe essere tranquillamente accostata a video di apologia del fascismo o che inneggiano all’intolleranza e alla discriminazione razziale. Il pubblico si troverebbe a dover ricostruire un contesto e non sempre, come nel caso delle news, ne sarebbe in grado. Bisognerebbe cercare di avviare azioni a contrasto di questi meccanismi, verso una reale messa in relazione di ambiti diversi ma compatibili (pensiamo alle neuroscienze come a tutto il mondo dell’educazione per esempio). Un campo di sperimentazione fecondissimo sarebbe dunque quello di implementare strategie per ricostruire un’agorà di singolarità in un mondo digitale regolato dalla similarità e replicabilità.

Acqua di colonia Compagnia Frosini Timpano

Altra questione di cui tener conto è come far fronte al diluvio dei dati. Lope de Vega in Todos los ciudadanos son soldados scriveva: «quanti libri, quanta confusione!/Intorno a noi un mare di carta stampata/e per lo più piena di fandonie». I tempi cambiano ma le questioni restano. Viviamo oggi un periodo in cui il teatro e la danza sono affette da iperproduzione e questo proprio per il meccanismo dei finanziamenti pubblici e privati concepiti a partire da assunti economici neoliberisti. Come critico lo scorso anno ( ma è così da almeno cinque) ho assistito dal vivo a circa duecentottanta spettacoli in dieci regioni e due stati esteri, partecipando a ventotto festival, oltre alla partecipazione a svariate rassegne di teatri. Molto al di sopra della media nazionale dello spettatore medio e nonostante questo ho una ben parziale conoscenza di quanto venga effettivamente prodotto in questo paese. A volte diventa difficile scoprire nuove realtà o talenti emergenti proprio perché non si ha proprio la possibilità di vederli. In un passaggio sul web questo aspetto verrebbe portato a un eccesso difficilmente risolvibile aggravato dalle regole interne di internet: pageranking e tecniche SEO. Chi si avvantaggerebbe sarebbero ovviamente i soggetti con maggiori disponibilità di fondi da investire. I piccoli come sempre dovrebbero arrabbattarsi, oltre alla difficoltà di reperire il tempo per occuparsi della questione.

Per concludere questo breve quanto incompleto excursus parlare di un Netflix teatrale o di uno sbarco sul digitale come si parlasse della conquista di Marte dovrebbe essere accompagnato da una riflessione veramente approfondita delle modalità di ibridazione di teatro e mondo digitale. La necessità e il bisogno spesso fanno fare scelte foriere di conseguenze non sempre positive e, come appurato dalla storia, adottare uno strumento non solo diventa irreversibile ma modifica inevitabilmente il nostro modo di percepire e di pensare. È quella che gli i neuroscienziati chiamano neuroplasticità del cervello, ossia la capacità di riorganizzare i percorsi neurali a seconda degli stimoli provenienti dalla realtà. Plastiticità però non significa elasticità. Una volta adattato, il cervello non fa passi indietro. Lo sa qualunque ex fumatore.

La tecnologia esiste e non ha senso scagliarvisi contro o osteggiarla. Essa va utilizzata con coscienza, adattandola alle esigenze e alle necessità. Non bisogna subirla. Equivarrebbe a esserne schiavi. Sarebbe desolante dover constatare come Nicholas Carr che :«Lo schermo del computer dissipa i nostri dubbi con i suoi vantaggi e le sue ricompense che sembrerebbe ingeneroso osservare che è anche il nostro padrone».

Letture consigliate

Nicholas Carr Internet ci rende stupidi? Come la rete sta cambiando il nostro cervello, Cortina Raffaello, 2010

James Bridle Nuova era oscura, Produzioni Nero, 2019

Alfie Brown Capitalismo e Candy Crush, Produzioni Nero, 2019

Bernard Stiegler Il chiaroscuro della rete, Youcanprint, 2014

Yuval Noah Harari Ventuno lezioni per il XXI secolo, Bompiani, 2018

Mark Fisher Realismo Capitalista, Produzioni Nero, 2018

Jean Baudrillard Cyberfilosofia, Mimesis, 2010

Jean Baudrillard La scomparsa della realtà, Fausto Lupetti editore, 2009

Simon Sellars Ballardismo applicato, Produzioni Nero, 2019

www.arsindustrialis.org

Compagnia Frosini Timpano

SPECIALE INEQUILIBRIO: Gli sposi di Compagnia Frosini Timpano

Gli sposi della Compagnia Frosini Timpano è uno dei lavori che attendevo di vedere con grande curiosità a Inequilibrio XXI.

Vi sono molte ragioni sottese a questo interesse: primaria la stima verso due artisti, Elvira Frosini e Daniele Timpano, la cui cifra è demolire con sfrontata ironia le idee preconcette utilizzando i fatti storici; in seconda battuta la loro abilità di trasformare i materiali in azioni teatrali costruendo non solo una drammaturgia ma una vera composizione scenica fatta di gesti, spazio, oggetti, luci e musiche; terzo elemento l’uso di eventi storici del passato più o meno a noi contemporanei è finalizzato a un intento, prima che estetico, politico.

Per la Compagnia Frosini Timpano il teatro è innanzitutto gesto politico, e come per molti artisti nel corso dell’ultimo secolo spesso l’azione di denuncia politica sul presente si nasconde nell’evento storico passato.

La Compagnia Frosini Timpano ha chiara la funzione del proprio teatro: far saltare le certezze e le opinioni consolidate che come comunità abbiamo degli eventi storici che ci hanno condotto a questo presente: il corpo del duce come luogo d’azione delle contraddizioni dell’Italia post-fascista (Dux in scatola); il nostro equivoco passato coloniale cancellato e dimenticato sotto la menzogna dell’italiano brava gente (Acqua di Colonia); la vicenda Moro (Aldo Morto); e ora la parabola della coppia di dittatori Nicolae Ceausescu e Elena Petrescu fucilati in diretta televisiva il giorno di Natale 1989.

La fucilazione dei dittatori rumeni, che ancora viene trasmessa il giorno di Natale in Romania, si può vedere tranquillamente su Youtube. Sono immagini forti che in qualche modo inaugurano una stagione in cui la storia si può osservare nel suo svolgersi, semplicemente ripresa al di là della retorica e della propaganda. Pensiamo a come si è sviluppato oggi dove tutto po’ essere ripreso in qualsiasi momento e diventare virale.

Milo Rau, autore di The last days of the Ceausescu nel 2009, mi raccontò in un’intervista che vedendo i filmati dell’esecuzione si convinse che il teatro doveva affrontare la realtà con una potenza pari a quelle immagini.

La Compagnia Frosini Timpano in Gli Sposi di David Lescot nella traduzione di Attilio Scarpellini raccontano l’intera parabola dei coniugi Ceausescu dagli oscuri esordi alla tragica morte. L’esecuzione è solo accennata, il processo avviene in voice off, con i piccoli gesti accennati e descritti. Il finale volutamente sfugge alla forza delle quelle immagini.

Sia Nicolae Ceausescu che Elena Petrescu sono di famiglia povera e contadini. Originari della Valacchia sono individui scialbi, senza particolari talenti, non troppo intelligenti o dotati, eppure per le oscure trame della storia si trovano a guidare una nazione, a farne il proprio feudo personale, a decidere della vita e della morte dei proprio concittadini.

Il regime di sangue costruito crolla esattamente come quello di Macbeth e di Lady Macbeth: nel sangue e nella violenza. La Romania è l’unico caso nel blocco comunista europeo a sfaldarsi a colpi di fucile. Dai tumulti e dalle stragi di Timisoara fino alla cattura a Targoviste, e al processo e fucilazione dei Ceausescu passano solo nove giorni, dal 16 al 25 dicembre del 1989. Quel che avviene in quei fatidici giorni è frutto però di un lento processo che porta i due al vertice e li precipita nell’abisso, ed è il processo di acquisizione del potere che viene prima di tutto indagato. La fine è una conseguenza di infinite azioni e reazioni. E poi c’è l’oggi. Dove ci ha portato quella liberazione?

La Compagnia Frosini Timpano ne Gli Sposi racconta la vita, mette in luce le contraddizioni di questi due oscuri personaggi divenuti emblema del male, li umanizza e martirizza, i loro corpi e le loro anime vengono sezionati e analizzati con la potente lente di ingrandimento dell’ironia.

Il gesticolare convulso con la mano di Ceausescu, il suo balbettare, l’influenza di una moglie inflessibile, i pugni socialisti levati al cielo quasi in pose di manifesto di propaganda in luce rossa, la fuga tremante, esitante, tragicomica in elicottero e poi in macchina, semplicemente evocata con rumori e piccoli gesti, tutto si trasforma nel racconto di una spaventosa dittatura la cui anima era costituita da due persone inette.

La maschera del dittatore viene sollevata e si scopre che ciò che vi si nascondeva non è una coppia di mostri eccezioni di natura ma uomini banali, insipidi in fuga come qualsiasi animale braccato. L’era degli eroi si è conclusa sotto le mura di Troia. Oggi restano solo gli uomini, uguali tutti nel condividere un destino miserevole.

La faccia del potere si sgretola, non rimangono che i corpi sul selciato, inerti, morti, svuotati. Il cadavere nella sua pura e inquietante oggettività non è che un vuoto guscio una volta ammantato degli emblemi di un terribile potere.

Gli sposi della Compagnia Frosini Timpano è una danza macabra contemporanea: la morte livella e ci mostra la vacuità di ogni agire/patire umano, svuota di senso anche il mostro più orribile. Forse è questo che aveva scoperto Odisseo quando, nel mito platonico, al momento di scegliere una nuova vita, optò per la più anonima di tutte.

Non solo danza macabra questi Sposi della Compagnia Frosini Timpano anche analisi sapientemente ironica della natura del potere, qualsiasi potere. Non si parla solo della Romania, ciò che viene raccontato non è solo un fatto non troppo lontano nella storia. Si parla di molto contemporaneo e dei molti ometti che si aggirano negli odierni telegiornali con in mano spaventosi poteri, a guidare nazioni, a decidere di vite umane.

Un saggio scrisse che per prevedere il futuro bastava studiare la storia. L’opera di Elvira Frosini e Daniele Timpano ci dice proprio questo: tutto si ripete, tutto è già avvenuto, e guardare il passato è affrontare il presente. Per questo il loro teatro apparentemente semplice e sbarazzino è oggi tanto necessario.