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TRENTESIMO di Roberta Bonetto

Un giovane, Vitangelo Moscato sale su un ascensore per raggiungere un colloquio di lavoro e rimane bloccato. Questa la vicenda. Un piccolo quadrato di luce nel quale un danzatore resta imprigionato suo malgrado. Nessuno viene a liberarlo e lui non può raggiungere il colloquio. Vitangelo comincia a esser preso dall’ansia di perdere un’occasione per cui si è preparato con così tanta cura e con così tanto tempo. Ma la prigionia è il colloquio stesso, la verifica da parte dell’azienda, delle capacità di sopportazione del candidato. Da questa situazione si sviluppano divertenti dialoghi tra il danzatore e la voce che proviene da un lontano ufficio dove si sta valutando le reazioni del candidato, che man mano che procede la prigionia, comincia a rivalutare il suo percorso e le sue convinzioni. Tutto questo studiare, aggiornarsi, scrivere curricula, in fondo a cosa serve? Tutto questo prepararsi, essere pronto a sostenere qualsiasi cosa pur di ottenere un lavoro e una carriera, sono veramente necessari? Questo ripensare, rivedere le proprie posizioni, così come l’ambiente claustrofobico, la costrizione, lo stress che la condizione di recluso forzato comporta, sono evidenziati da una danza sincopata, nervosa, costruita a partire da gesti quotidiani facilmente riconoscibili, una danza che è divertente e ossessiva nello stesso tempo.

Trentesimo è andato in scena ieri sera 10 marzo 2016 presso le Lavanderie a Vapore nell’ambito di Permutazioni un progetto di residenze creative promosso da Zerogrammi e dalla Fondazione Piemonte dal Vivo, ed è un work in progress e come tale presenta alcuni difetti e molte potenzialità. Tra i primi, una drammaturgia a volte farraginosa, inconcludente, e il finale decisamente in tono minore che non risolve la vicenda né lascia trasparire interrogativi forti. Tra i punti di forza l’interpretazione del danzatore Gabriel Beddoes che con spigliata comicità napoletana un po’ alla Troisi supplisce alle manchevolezze di una drammaturgia difettosa, troppo accusatoria e con volontà di dire troppo, tanto da assoggettare la libertà del corpo danzante a una significazione imprigionante, e senza alla fine risolvere i nodi essenziali. Il finale inconcludente lascia l’amaro in bocca, ma forse, essendo un work in progress, sarà, ci auguriamo, migliorato nel futuro.

Foto: Fabio Melotti

she she pop

SHE SHE POP: IL FASCINO OSCURO DEL MITO E I LUMI DELLA RAGION CRITICA

Testament e Frühlingopfer. King Lear e le Sacre du Printemps. I padri e le madri all’ombra di due miti potenti e oscuri. Materia difficile da maneggiare il rapporto con il padre e con la madre. Roba che rischia di finire in clinica. Il collettivo tedesco She She Pop invece tratta la materia incandescente con l’abilità e la perizia di un maestro vetraio di Murano.
In Testament è il Re Lear che viene preso in esame. In scena le attrici con i loro padri a esaminare con minuzia critica ciò che avviene nel testo di Shakespeare, come in una prova alla Stanislavskij, verificandolo alla prova dei fatti d’oggi: cosa vuol dire lasciare in eredità? E da vivi poi? E quel giochino oscuro che apre l’abisso della tragedia all’inizio? E così si procede atto per atto con padri e figli che si mettono nei panni di Lear e Cordelia, Regan e Gonerilla verificando passo per passo. I cento cavalieri di cui viene spogliato Lear diventano così libri da spostare in caso che il vecchio padre, ex professore universitario, passi il fatidico mese ospite in casa dei figli. Risultato: nessuno spazio vitale, rapporti tesi, affetti lesi. Ma i cento cavalieri sono irrinunciabili perché sono la dignità che rimane al padre, ciò che è stato e ha fatto, ciò che lo ha reso quello che è e perderli significa perdersi per sempre. E così si arriva alla tempesta, all’atto di spoliazione, all’abbandono nella solitudine. Per un attimo il ritorno di Cordelia fa intravedere una riconciliazione (un ascoltare seduti abbracciati con il vecchio padre una canzone, quella preferita e amata, quella che fa loro ricordar i vecchi tempi), ma in verità è solo un’illusione, in fondo alla strada per padri e figli c’è l’abisso della morte che vanifica ogni sforzo.
Con precisione crudele, con spietatezza lucida e inflessibile, come chirurghi si intaglia sul tavolo operatorio il mito, lo si esamina e lo si mette alla prova, scientificamente, con l’esperienza: si vive il mito, si esamina, si prova sulla propria pelle, ma senza patemi emotivi, guardando in faccia alla verità che ne esce qualsiasi essa sia. Non c’è clinica. Di nessun tipo. Anzi c’è l’ironia a illuminare la scena. Certo uno humor noir, quello che ha il potere di farci guardare in faccia la realtà del mito, il suo ciclico riaffacciarsi in ognuno di noi, senza scampo, senza possibilità che questo abisso si colmi o si riconcili. Si può sperare solo in preziosi e momentanei riavvicinamenti.
Tutto questo in una partitura precisa e puntigliosissima di gesti, segni, tempi. Non un movimento è lasciato al caso. Tutta la scena è significante. Interessante e intelligente l’uso di telecamerine che aprono spazi ulteriori alla scena, benché tutto quello che riprendono sia in fondo in scena e ben visibile. Ma è la lente di ingrandimento con cui si guarda il reale e il mitico. Le facce dei padri, quelle dei figli, il testo del Lear, la tomba che aspetta padri e figli alla fine del cammino.
Il testo poi del Lear, non è recitato. Nessuna retorica. Nessun intento interpretativo. Nessuna nenia emotiva, nessuna finzione di voler esser qualcun altro, quel fenomeno da Croce Verde di cui parlava Carmelo Bene e che troppe volte abbiamo visto sulle scene in queste Colline. Il testo viene letto. I rapporti che si enunciano sulla scena sono semplicemente detti, con distanza critica che rianima il miglior Brecht. Un metodo di sondare il reale con feroce lucidità che si riscontra in altri fenomeni visti nel corso dell’anno con Milo Rau o Ivo Dimchev. Qualcosa che a casa nostra latita pericolosamente. Noi ci cincischiamo a recitar sermoni dai palchi o con i drammetti borghesi. Ma c’è un motivo per cui questo avviene e ne parleremo alla fine di questo articolo. Ora passiamo ad analizzare l’altra faccia della medaglia di ciò che She She Pop ha presentato nella rassegna torinese: Frühlingopfer ossia Le sacre du Printemps di Igor Stravinskij.
Nel balletto tanto celebre si evoca un rito pagano: il sacrificio di una giovane adolescente, di fronte a un cerchio di vecchi saggi, affinché il dio conceda il ritorno della primavera. Il sacrificio. Un’altra immagina potente e ricorrente. Un qualcosa che ci perseguita dall’alba.
Questa volta più che il mito a essere sezionato è il rito. Madri e figli alla luce del sacrificio vicendevole che la civiltà richiede. Gli attori e le proprie madri diventano tutte le madri e tutti i figli. Anche in questo caso si esclude la clinica. Ciò che avviene sulla scena è universale come il rito che la divinità richiede per il ritorno della primavera, affinché il ciclo ricominci e si ripeta inflessibile. Il passato che chiede al presente di perdere una parte di se stesso per onorare ciò che è stato per permettere a ciò che sarà di palesarsi. Il racconto delle vite di madri e figlie, la figura della donna ieri e oggi, e la danza sacrificale ripetuta mentre risuona potente la musica di Stravinskij. Parole e musica, rito e analisi. Tutto concorre all’emergere del fondo oscuro che si ripropone in ogni vita dall’alba della civiltà a oggi. E ancora l’immagine in video ad aprire spazi e significati. In video le madri, sulla scena le/i figlie/i. Separati e distanti nello spazio, ma in qualche modo, con semplicità magistrale, le figure si sovrappongono, si compenetrano, dialogano e si scontrano. E ancora l’ironia a impedire la ricaduta nella psichiatria, nel dramma, nel senso di colpa.
Esecuzione perfetta, rigorosa, inflessibile. Un livello magistrale di ricerca. E tutto attraverso il linguaggio proprio del teatro. Nessun elemento ha rilevanza rispetto agli altri. Non la parola, non la musica, non l’immagine. Tutto è usato affinché sia la scena ad agire. Spazio, corpi in movimento, suoni, immagine nel tempo e fuori dal tempo.
Questo livello altissimo di costruzione e composizione raggiunto da questo collettivo tedesco mi da il là per aprire un discorso più ampio rispetto al teatro italiano.
I risultati raggiunti dalle She She Pop prevedono un modello produttivo sano che consideri la ricerca come fondamentale per il raggiungimento di alti risultati. La salvaguardia del tempo di ricerca, della professionalità di attori e autori. Il tempo segreto dedicato alla formazione e maturazione del lavoro. In questo modello produttivo si riconosce il ruolo, la funzione e la professionalità dell’artista di teatro. C’è inoltre attenzione alla programmazione, allo sviluppo di un futuro e di una pratica culturale che sia d’utilità a una società. In questo modello si preserva la cultura dallo scadere in enterteiment. È un modello di azione culturale proiettato verso un futuro e adatto a un presente, dove la realtà non sia esclusa ma avvinta, criticata, affrontata a viso aperto anche laddove dispiaccia.
In Italia invece il modello che appare evidente è quello in cui la ricerca sia sacrificata sull’altare del risultato certo, il tutto condito dalla scusa per ogni nullafacenza: non ci sono soldi. E così modelli vecchi e obsoleti si ripropongono, inadatti ad affrontare il mondo come si presenta. La ricerca non è considerata quasi mai. Per il modello italiano è tempo perso, come già denunciava Carmelo Bene nei lontani anni ’90. Il modello produttivo che propone il nostro paese preserva il consueto, il solito, ciò che accontenta il potere, l’abbonato e la pigrizia degli operatori culturali e dei direttori artistici.
In tutto questo si vede il ritorno di modelli ricorrenti e corrotti, che non ricercano nuove strade per il linguaggio teatrale, perchè questa ricerca proprio non è prevista. E la critica si accoda e acclama lavori che di interessante non hanno proprio nulla, Concede premi ad attori che seppur bravi navigano in acque conosciute o conosciutissime, e ricordiamo che le cose migliori vedute in Italia negli ultimi anni sono state agite sulla scena da barboni, malati di mente, carcerati, dilettanti. E questo sia detto non per sminuire la tecnica e la professionalità dell’attore, ma perché la scena richiede altro che attori con tecniche obsolete. Richiede interpreti che scelgano strade nuove al di là dei modelli proposti da scuole e accademie.
Il futuro delle arti richiede coraggio, capacità di osare e non acquiescenza di fronte a modelli inveterati e polverosi. E non è solo questione di soldi. È il pensiero che deve cambiare.
I due lavori delle She She Pop ci hanno mostrato con evidenza ineludibile che la ricerca, quando ben condotta e sostenuta, quando si ha il coraggio di affrontare le sfide che il presente storico ci pone, porta a risultati straordinari al di là dell’estetica, al di là della comunicazione, al di là della clinica lacrimevole e di facile successo.
Bisogna avere coraggio, credere nel lavoro necessario compiuto dalle arti, bisogna riformare i modelli produttivi. E questo è compito di politica culturale che non sembra nemmeno essere preso in considerazione. Affrontare percorsi rigorosi di ricerca sul linguaggio e le funzioni del teatro è cosa che compete agli artisti. Qui, sì, manca il denaro ma a volte anche la volontà. Ci vuole che istituzioni e enti preposti considerino che uno o due anni chiusi a lavorare non sia tempo perso, ma percorso fondamentale e irrinunciabile se si vuole ottenere risultati. Cosa che non ho detto io ma Carmelo Bene in quella Biennale dedicata alla ricerca che tanto fu insultata.
Come in altri campi, in questo paese si è rinunciato a pensare, programmare, immaginare un futuro. Si vivacchia. Si tira a campare. Si pensa all’aurea mediocritas del premietto d’oggi, al meno peggio. Non ci può essere futuro se si pensa solo all’odierno problematico, all’emergenza e non all’emergere. Questo ci insegna il lavoro delle She She Pop: un modello virtuoso di ricerca sostenuto da un sistema paese che considera la cultura e i suoi risultati come necessari e non decorativi. Non sto dicendo, badate, che è tutto oro quello che luccica. Se mancasse il talento il sistema produttivo, benché virtuoso sarebbe sterile. Diciamo però ma che questo modello virtuoso sia necessario affinché sorga il nuovo, affinché il talento possa trovare la propria strada e si raffini. Se in Italia non affrontiamo questo percorso, se artisti, politici, direttori artistici non si orientano a creare le condizioni, continueremo ad applaudire il meno peggio e ripeto, come diceva Carmelo Bene, “il meglio del peggio è il pessimo!”.

Virginie Brunelle

COMPLEXE DES GENRES di Virginie Brunelle

Tre corpi ibridi. Metà maschio, metà femmina. Avvinti in un amplesso danzante. Una danza classica, ironicamente parodistica con tanto di tutù, su questi corpi improbabili, di genere misto. E il requiem di Mozart a invocare un’altra congiunzione, divina e inquietante: Eros e Thanathos.
Al tema segue lo sviluppo con le sue infinite variazioni. I generi, maschile e femminile, in perpetua relazione che sia di scambio, d’amore, di comprensione o di lotta, ma sempre con la sensazione di aver perso qualcosa, di non aver raggiunto l’essenziale, in costante ricerca di una sostanza sempre sfuggente. Una danza delicata e espressiva nonostante l’audacia acrobatica delle forme, un’audacia velata sempre di profonda malinconia. Virginie Brunelle, nonostante la sua giovane età (nata nel 1982), possiede già una maturità espressiva e compositiva impressionante. Ma forse qui il problema è tutto italiano, in un paese dove un cinquantenne è una giovane promessa.
Come in un componimento di Mozart dove convivono molteplici invenzioni anche di segno opposto, in Complexe des genres, la complessità dei generi e il loro reciproco rapporto si sviluppa in figure animate da ritmi e respiri di battito differente: violenza e tenerezza, sensualità e algida frigidità, malinconia e gioia, classicità e barbarie. E infine la speranza che alla fine del percorso si trovi un modo per comunicare, per interagire senza ferirsi per infine capirsi o forse solo per convivere. Un volo di aeroplani di carta, di speranze lanciate verso l’alto nonostante la certezza della caduta. Eppur resta il tentativo, reiterato, motivato dalla fede in un’improvviso cambio di rotta che smentisca le leggi della fisica.
Virginie Brunelle tesse con abilità le forme ai linguaggi, intrecciando la musica ai corpi danzanti in un scaturire di sensazioni inaspettate. E così il neominimalismo della musica di Max Richter, nell’ossessivo ripetersi di sé richiama il continuo incepparsi della comprensione della coppia danzante che si seduce e si lascia incapaci di superare la differenza per un momento dimenticata nel flusso dell’attrazione. O come quando l’inno alla gioia è contrappuntato dalla violenza dello scontro, dalla violenza della separazione, dall’urto di uno scontro che è desiderio e repulsione. A volte invece il contrappunto diviene armonia come il notturno di Chopin vena di dolce malinconia il reciproco non capirsi. Una scrittura artistica senza incertezze che esalta l’arte antica della composizione.
Complexe des genres è uno di quei lavori che restano impressi, di quelli di cui ci si ricorda perché risuonano nell’animo per lungo tempo, perché evoca e non afferma, non dice ma contiene e rilascia, dona e non pretende nulla in cambio.

Peeping Tom

VATER (FATHER) – di Peeping Tom

Siamo in uno scantinato. Nessuna percezione del mondo esterno. Dalle finestre in alto e sul soffitto penetra una luce uniforme, sempre mortalmente uguale. Qui il tempo non passa mai. La moquette rosso vivo e le pareti azzurrognole ricordano un po’ un sogno di David Lynch. Un mondo sospeso per chi non è ancora morto, per chi è già definitivamente escluso dai vivi. Questo luogo è una scalcinata casa di riposo. Qui si sviluppa l’ultima avventura del padre. Abbandonato dal figlio vive tra i ricordi, le proiezioni dei propri desideri e le terribili consuetudini di questa clinica per vecchi, consuetudini portate all’estremo con feroce ironia, consuetudini che non paiono mai innocue.
Più passa il tempo e ci si addentra nella performance, più si comprende che il padre che si staglia sempre più al centro della scena, non è solo un padre, ma incarna Kronos, evirato perché depotenziato, non può fare ciò che vuole non può andarsene da questo Tartaro. Subisce dal figlio lo spodestamento venendo relegato sulla sedia a rotelle in balia di questi assurdi infermieri. Mantiene però suo malgrado la facoltà di ingoiare i figli, di condannarli alla sua stessa condanna, e benché questi lo escludano, lo sfidino, lo combattano, sono fatalmente destinati a subire la stessa fine: farsi cambiare i pannoloni, subire l’oltraggio di essere dipendenti da altri per fare i propri bisogni.
Quella creata da Peeping Tom è una piece di teatro danza piena di domande sospese, questioni irrisolte, di piani di esistenza problematici, di ineluttabili catastrofi affrontate con efferata ironia. In questa danza di corpi molli, schizoidi, incontrollati ci riconosciamo. Agiti come siamo dal tempo che fatalmente ci spinge verso la vecchiaia e alla decadenza del corpo che l’accompagna, avvertiamo il pericolo che si annida laggiù in fondo alla nostra esistenza: vivere di ricordi, aspettare la morte, subire le violenze dei giovani che non si curano di noi, battagliare per riuscire a fare il poco che ancora riusciamo a fare.
È una battaglia frenetica quella che si svolge sulla scena. Soprattutto contro un esercito di scope che costantemente appaiono e spazzano tutto ciò che vive sulla scena, oggetti o corpi che siano, comprese le poche tracce che lasciano. A un certo punto ne appare anche una gigante che pericolosamente minaccia il pubblico e si agita sulle sue teste. Nello spettacolo di Peeping Tom non vi è la rappresentazione della storia di un vecchio padre abbandonato da un figlio, c’è soprattutto l’evocazione di forze mitiche che minacciano la vita di tutti, perché tutti siamo condannati a divenir vecchi e a finire in quello scantinato.
Peeping Tom con ironia feroce evoca forze che vorremmo dimenticare, che si nascondono nell’ombra minacciando il nostro presente e il nostro futuro.

Ph: ©herman_sorgeloos

Jan Lauwers

JAN LAUWERS & NEEDCOMPANY THE BLIND POET

Certo non si può dire che il lavoro di Jan Lauwers e di Needcompany sia minimale. Tutt’altro. Non a caso si sono rispolverati termini wagneriani: gesamtkunstwerk. L’opera d’arte totale. Jan Lauwers più semplicemente usa tutte le frecce al proprio arco per fare dell’opera teatrale un qualcosa che aggredisca il reale con forza reclamando il diritto dell’arte di incidere sulla realtà, di non essere sciocco intrattenimento né stampella del potere. In un periodo di divisioni politiche tra i popoli in cui la migrazione massiccia risveglia temi che si pensavano sepolti, polemiche sterili tra i “puri” e gli “impuri”, Needcompany costruisce sette storie in cui i performers raccontano delle proprie origini risalendo fino al tempo delle crociate. Origini costantemente spurie e non sempre edificanti. Cattolici, protestanti, ebrei e mussulmani, vichinghi, mori, frisoni e fiamminghi. Popoli in movimento da nord a sud e viceversa, accompagnati da guerre, massacri, compravendita di schiavi, avventurieri in cerca di fortuna. Un eterno ritorno dell’uguale in cui le civiltà si scambiano di posto mentre la barbarie resta generata dall’incomprensione e dall’ignoranza degli uomini. E così mentre a Cordoba nell’XI sec. il poeta cieco Wallada Bint Al Mustakfi viveva in una delle città con la più grande biblioteca del tempo, un luogo in cui le donne godevano di pari libertà e il pensiero non era oscurato da integralismi religiosi, Carlomagno era imperatore illetterato in una Europa dominata da paure, invasioni, servitù e ignoranza. Tutto scorre, tutti partecipiamo della medesima eredità, affratellati in questo mondo che respira.
Sul palco convivono tutte le origini e tutte le lingue (a livello linguistico lo spettacolo è un vero scoglio: si parla fiammingo, francese, inglese, tedesco, norvegese, arabo, spagnolo), tutti condividono lo stesso spazio grande quanto l’ampiezza del mondo raccontando le proprie storie. È un mondo possibile, che si può costruire, che si può vivere. Non ci sono utopie in The Blind Poet.
La musica di Maarten Seghers performata dal vivo dagli stessi danzatori è potente, evocativa, commovente. Le scene sono maiuscole, intense. L’uso delle luci sapiente. Uno spettacolo che tiene inchiodati per tutte le due ore e mezza di durata.
Jan Lauwers è un grande maestro del teatro che della sua arte usa tutto il possibile per farne una piattaforma che mette in discussione il mondo e la realtà. Non rifugge i temi scomodi, non rifiuta di prendere posizione e scegliere una visione del mondo.
Come nel distico del poeta cieco siriano Abu Al’ala Al Ma’arri:
Quando la mente è incerta
viene sommersa dal mondo,
come un uomo debole baciato da una puttana.
Quando la mente è ferma
il mondo diviene una donna rispettabile
perché rifiuta i suoi abbracci d’amore.
Jan Lauwers e la sua compagnia hanno uno sguardo fermo di chi sceglie di convivere e condividere il mondo. Nonostante tutto. E il palcoscenico torna a essere il luogo da cui si guarda il mondo, la scacchiera in cui si giocano tutte le possibilità.

LE FOGLIE E IL VENTO di Mariachiara Raviola

All’inizio un piccolo fiore sorge sulla scena. Alla fine un piccolo fiore si schiude prima del buio. La danza di Shiva, che crea e distrugge i mondi, la danza dell’eterno rincorrersi delle forme. La morte, la vita e la metamorfosi delle forme che accompagna il loro gioco a rimpiattino. In questo piccolo spettacolo di Mariachiara Raviola andato in scena il 20 e 21 febbraio presso la Casa del Teatro Ragazzi di Torino, si assiste a un racconto lieve tra lo sbocciar di due fiori: si narra a un pubblico di bambini la storia di un albero e di una foglia, del loro intrecciarsi nelle stagioni, tra il sorgere e il calar degli astri, tra la notte e il giorno, da una primavera di gioco a un inverno che chiude un ciclo. La vita arborea, frutto del ciclo delle stagioni, racconta fin dall’epoca antica l’intrecciarsi inestricabile di morte e vita: l’anemone racconta l’amore della ninfa e di Zefiro, il cui alito di vento bacia la corolla e la schiude; il fiore d’Adone, il cui rosso violento colora i petali col sangue spiccato dal cinghiale e racconta il pianto delle dee che per sempre l’han perduto; e così il bianco narciso, e il giglio di purezza, e il chicco di melograno e il verde scuro dell’alloro. Quante vite arboree raccontano le morte e l’intrecciarsi dell’amore di uomini e dei. La meraviglia della vita e il suo struggente scorrer via come polvere al vento.
Le foglie e il vento è uno spettacolo coraggioso, che con lievità e una certa qual grazia racconta il costante trapassar delle forme ai bambini, ma anche la gioia di questo esserci finché è dato durare, un gioco nel tempo e nello spazio prima che un nuovo fiore apparirà a sostituir quello caduto e reciso.
La scena, gli oggetti, i danzatori son di bianco vestiti, e non a caso la Cina classica e l’India vedica in quel colore ravvisano la morte e il lutto. Eppure quella scena non inquieta, mette gioia e malinconia, rappacifica con la legge che incombe sulle forme, su tutte le forme. Con la leggerezza di un disegno orientale su carta di riso, i paesaggi e le cose passano e vanno, lasciando il posto ad altre stagioni, altri orizzonti prima che un nuovo fiore apparirà sulla scena.
Un delicato racconto, una danza lieve. Un solo difetto, quello di restar troppo fedele a un ritmo costante, laddove qualche scossone avrebbe ravvivato il racconto e la stasi suscitato maggior commozione. Nel complesso una semplicità che accarezza i giovani spiriti a cui è diretto, li accompagna soave alla comprensione dello struggimento che accompagna ogni trasformazione e ogni trapassare, senza scordar la gioia dell’esserci finché dura.

Le foglie e il vento

Ideazione e regia: Mariachiara Raviola
Coreografie: Mariachiara Raviola e Aldo Torta
Interpreti: Francesca Cinalli e Stefano Botti
Tappeto sonoro: Paolo De Santis
Scene e costumi: Elisabetta Ajani
Oggetti di scena: Gianni Cocomazzi
Abiti in carta: Sara Peretti
Produzione: Associazione Didee e Fondazione Teatro Coccia
Progetto La Piattaforma. Nuovi corpi, nuovi sguardi

TRUMPETS IN THE SKY di Collettivo T.I.T.S. (Norvegia)

L’inizio è da film horror. Musica elettronica ossessiva. Una figura allampanata vestita di bianco avanza a scatti inesorabile fino al proscenio nel semibuio della scena. Ondeggia. A destra e a sinistra, impercettibile come un lento metronomo che via via aumenta il ritmo, e scopre una seconda figura dietro alla prima, altrettanto inquietante. Questo Trumpets in the sky gioca insistentemente sull’inquietudine e sull’ansia. Senza pause, continuamente. Tanto che alla fine ci si immunizza, ci si stanca di questo persistere.
Il tema è l’esplorazione dell’Apocalisse, ma sembra un pretesto, per un gioco di visioni, di paesaggi e atmosfere. È un’Apocalisse che sa più di Ragnarok, la battaglia che si consuma nel crepuscolo e dove tutto viene ingoiato nella bocca vorace del lupo Fenrir. L’apocalisse di Giovanni è tutto uno sfavillare di luci abbaglianti, è il fuoco, è il sole bruciante, e l’abbagliante bianco delle vesti dell’Agnello, le stelle cadenti e il cielo che si accartoccia su se stesso. Invece siamo in una penombra da inverno boreale, dove si intravede l’azione, in una luce fredda e glaciale. Perfino nei materiali di scena c’è freddezza: tubi di alluminio, latte di conserva, biglie di vetro. Una continua tendenza al metallico anche nelle flebili luci: il led di una torcia, il neon balbettante, la tinta fredda dei fari al minimo di potenza.
Questo spettacolo del collettivo T.IT.S., giovane gruppo norvegese formato da H.Kornatova, Juli Apponen, Björn Hansson e Ann Sofie Godø, ospitato nella rassegna Permutazioni curata da Zerogrammi e Fondazione Piemonte dal Vivo, punta tutta sulla visione e sull’emozione. Paesaggi evocativi, come il freddo deserto di colonne di alluminio, o la città di barattoli invasa da legioni di biglie mentre una figura in angolo, come un sopravvissuto a una cataclisma, si nutre di pesche in conserva. Il problema di questo spettacolo è che non c’è altro. Le immagini che si specchiano sul pelo dell’acqua non nascondono un lago profondo, ma una pozzanghera creata da un’acquazzone estivo. Manca la profondità. E manca la capacità di cambiare ritmo. Tutto rimane fermo costantemente sul gradiente ansiogeno, spaventoso, come la quinta marcia in un viaggio in autostrada. Non c’è una minima variazione, un sussulto che per un attimo arieggi lo spazio asfittico della scena. Il risultato, ripeto, è che dopo mezz’ora si è stomacati e indifferenti.
Gli spazi sono ben congegnati rivelando quadri e paesaggi si sicuro impatto visivo. La luce è al limite del visibile e a lungo andare infastidisce questo dover scorgere a tutti i costi ciò che pare avvenire sulla scena. Nel complesso un lavoro con più difetti che pregi, nonostante l’ottima fattura dell’insieme, la precisione del gesto e della costruzione. Manca profondità, manca spessore e manca la variazione.

SOSTERRÒ LE RAGIONI DELLA LEGGEREZZA di Francesca Cola

Francesca Cola è un’artista che abbiamo molto seguito perché ha il raro pregio di evocare mondi toccando emozioni forti con delicatezza e raro senso del gusto. Nei suoi lavori l’immagine non si impone mai, non è mai dura, è qualcosa di flebile, debole come un ramo di salice che si piega al vento e alla corrente. Sorge sul palco e dalla scena umile e fragile come un germoglio. Compito dello spettatore è accogliere questa immagine, prendersene cura dentro di sé, lasciarla crescere. Ci vuole uno sguardo attento, accogliente. La sua arte non è un martello che si infrange sull’anima-incudine dello spettatore, è una carezza gentile, un bacio sfiorato, un sorriso sfuggente. In sosterrò le ragioni della leggerezza, per ora un primo studio in residenza nel progetto Permutazioni a cura di Zerogrammi e Fondazione Piemonte dal Vivo, non si smentisce questa attitudine, anzi, se mai, si accentua.
In scena un bambino e un adulto, una danza in erba e una formata. A lato una pietra, rotonda e pesante, grave. È un monito e un pericolo. È presente e minaccia una presenza. È una possibilità a cui sfuggire. Come la morte quella pesantezza può raggiungerci in ogni momento. Solo la fuga leggera, la danza veloce dei piedi che sfiorano la terra può darci la levità che è il sale della vita.
L’adulto e il bambino. La loro danza, l’adulto che fa volare il bambino, lo sostiene, lo libra nell’aria, ma può anche inavvertitamente farlo cadere a terra, tenerlo giù. È il pericolo della pesantezza e della gravità. E allora ci si muove, si danza, si scongiura questo pericolo nel danzare insieme, nell’essere motori di movimento gli uni degli altri, lasciandosi coinvolgere, accogliendo il movimento dell’altro, sostenendosi con leggerezza librandosi in un volo gentile.
Il bambino sta in equilibrio sulla pietra, precario, giocando con la gravità. Il bambino accoglie la pietra, la abbraccia e le sfugge allo stesso tempo. Il bambino consegna la pietra all’adulto. È lui che se ne deve occupare, è lui che deve spingere a lato della scena quel pericolo incombente.
Questa danza, piccolo saggio sull’arte della fuga dalla gravità, è accompagnato da silenzio e da musica, e quest’ultima non è mai accompagnamento ma segno ulteriore di questo gioco a nascondino con la pesantezza, come quando si spandono dolci e feroci le parole della poesia di Robert Pinsky When I had no father I made/ Care my father. When I had/ No mother I embraced order. Certo c’è anche questo nel piccolo studio di Francesca Cola, i genitori e i figli, un rapporto difficile che può far volare come schiacciare a terra. La pietra sulla scena incombe sempre. È il pericolo che sta a lato della vita di ognuno. È lì. Non si può dimenticare, bisogna sfuggirle, sempre in movimento, sempre attenti. Tempo fa intervistai Laurent Chétouane e mi colpì una sua frase:” la tragedia di essere umani si esplica nella guerra continua alla gravità”. Ecco questo è, penso, il senso ultimo del lavoro di Francesca, affrontato con profondo rigore e cura, con lo sguardo sempre rivolto ad evitare la durezza e la forza, in un elogio taoista alla debolezza, strumento principe per lasciar fluire l’azione del Tao.
C’è un solo pericolo in questo lavoro: che nello sviluppo futuro, nella lievitazione, assuma un carattere troppo zuccheroso, come un dolce troppo dolce. Come in un ottimo piatto, il segreto è il bilanciamento dei gusti, acidità e dolcezza, asprezza e salinità. Ma Francesca è un’ottima chef, saprà evitare il pericolo.

Uovo Festival si interrompe!

Una nuova e  ferale notizia si abbatte sulla fragile cultura italiana: anche Uovo Festival interrompe la sua programmazione. Speriamo che questa sia solo una sospensione, un inciampo nel percorso, perché la sparizione di questo festival, che in tredici anni di vita si era segnalato come un punto di riferimento nelle Live Arts contemporanee in Italia, sarebbe molto grave.

In forma di solidarietà con Uovo festival, a cui auguro di sopravvivere a questo momento buio, ripubblico la recensione e l’intervista a Michele Di Stefano fatta durante la scorsa edizione in occasione della ripresa dello storico spettacolo della compagnia MK E-ink.

E-ink di Mk
e
Sub di MK, Roberta Mosca, Margherita Morgantin, Lorenzo Bianchi Hoesch e Luca Trevisani
con intervista a Michele Di Stefano Leone d’argento alla Biennale Danza 2014

E-ink è uno spettacolo stupefacente. Pensare che ha ormai sedici anni, lo rende ancora più disorientante. Debutta nel 1999 e appare subito come uno dei lavori più innovativi della scena italiana e non solo. Oggi viene ripresentato a Uovo Festival sollecitato dalla sua recente ricostruzione per RIC.Ci Reconstrunction Italian Contemporary Choreography, e questo è un dono al pubblico che non ha potuto assistere, come me, al debutto. Trame sottilissime di gesti, che diventano icone, ideogrammi viventi in perenne formazione/trasformazione/metamorfosi. Proteiche soluzioni e dissoluzioni di gesti, ritmi, figure che disegnano lo spazio con precisione impeccabile. Ma non è un lavoro astratto, è pieno di vita, di forza, di capacità di comunicare anche se non si coglie il senso voluto dagli autori. È un’opera aperta nel senso che libera la mente dello spettatore invogliandolo a cogliere associazioni, a nutrirsi di immagini, a lasciarsi coinvolgere dalla scrittura segniche che i corpi disegnano sul palco. La musica di Paolo Sinigaglia è altrettanto potente, e si lascia tessere con agilità alle forme della danza. È autonoma ma perfetto partner per i due danzatori in scena. Un valore aggiunto.
E-ink è dunque un piccolo gioiello nella recente storia della danza italiana che giustamente viene riproposto. Certe opere è giusto che vengano conosciute dalle giovani generazioni, come è giusto ricordare ciò che di valente è stato fatto. Lo spettacolo oggi ha vita breve, se non brevissimo. Le cose appaiono come meteore e non sempre si è pronti a vederne il volo, seppur luminosissimo, perché le occasioni per osservare corpi celesti sono sempre più rare. Si fa fatica a vedere e a essere visti. Questa riproposta è preziosa perché propone alla memoria e alla conoscenza qualcosa di importante che è giusto tenere presente al fine di creare cose nuove che posseggano il rigore e la maestria di questo piccolo gioiello.
MK come compagnia presenta inoltre un’altra occasione di incontro con la propria attività alla Fondazione Adolfo Pini. Il progetto si chiama Sub ed è una forma di coesistenza performativa di diversi artisti e arti differenti in un contesto urbano decisamente borghese, uno spazio privato sebbene ospitale. In Sub Biagio Caravano, Roberta Mosca, Luca Trevisani e Lorenzo Bianchi condividono un luogo sebbene in spazi diversi. Permettono al pubblico di navigare in uno spazio sperimentando un percorso, farro di segni, di suoni e di corpi danzanti. Di molto impatto emotivo la coreografia di Roberta Mosca. Un danza piena di tensioni, di gesti secchi, di scatti anche violenti, di torsioni innaturali, di ritmi frenetici anche nella staticità sempre convulsa, mai riposante. Un esperimento non nuovissimo ma sempre interessante, perché porta a esperire in modo non passivo la performance. Quando si esplora, bisogna scegliere. Il viaggio costringe al montaggio della visione, dell’esperienza. Per ognuno è diversa, sicuramente più libera perché manca un punto di vista dominante è imposto.

Intervista a Michele Di Stefano
EP: Mi parli dell’origini di questo lavoro? Com’è nato? Quale è stato lo stimolo che ti ha portato a immaginare questa scrittura scenica?
MDS: Il lavoro è nato nel 1999 ed è stato il primo lavoro della compagnia che si è presentato ad un pubblico vasto. In realtà c’erano stati dei tentativi per elaborare dei sistema coreografico preciso e autonomo. E-ink nasce da questo desiderio di inventare un linguaggio. É stato costruito con un ricerca minuziosa dei dettagli corporei che potessero produrre dei sistemi di equilibri dinamici interni diversi da sistemi già preesistenti. Non si fa riferimento a nessun codice si cerca di inventarne uno. É stato un lavoro molto lungo anche se il pezzo dura 12 min. In realtà la costruzione è durata dei mesi e ci sono veri segreti nella composizione, ci sono anche delle vere e proprie tradizioni di frasi ritmiche, delle elaborazioni del rapporto dei due corpi che si intersecano in segni molto precisi. C’è bisogno quindi di un’esattezza e di una precisione molto spietata. Il contrasto è col fatto che il corpo in questo lavoro è immerso in un’energia pulsante che produce spaesamento. Il lavoro nasce proprio dal contrasto con questo desiderio di dettaglio e il desiderio di uscire in maniera sregolata nel corpo, e fa riferimento a un’immagine quella degli oracoli antichi, delle Pizie, delle Sibille che vaticinavano possedute dagli effetti di sostanze psicotrope, e in realtà quando producevano il vaticinio esso appariva metricamente esatto. Un contrasto quindi tra un bisogno di esattezza formale e un desiderio di perdita di controllo.
Ed è un lavoro che quando ha avuto il suo incontro con il pubblico ha scoperto la sua vena comica, per altro non voluta. È stata una sorpresa anche per noi. É una coreografia che ha lanciato il gruppo. È stato un lavoro seminale e ha avuto la fortuna di girare tanto. Ultimamente Marinella Guatterini con il progetto RIC.Ci Reconstrunction Italian Contemporary Choreography ci ha proposto di ricostruire il lavoro e io e Biagio Caravano abbiamo riscoperto nel corpo la stessa esattezza di allora che è riaffiorata in maniera naturalissima. Così abbiamo deciso che era il caso di riproporla almeno una volta. Il caso poi ha voluto che questo avvenisse nello stesso teatro (Il Franco Parenti Ndr.) dove avvenne il debutto, quindi con la stessa carica emotiva. Non ci interessa veramente un ritorno al passato perché non siamo veramente interessati a creare un repertorio, però era interessante riproporre il lavoro e farlo conoscere alle nuove generazioni.

EP: Adesso su cosa state lavorando? Quali sono i progetti che vi intrigano attualmente?
MDS: Adesso abbiamo deciso di lavorare su sistemi performativi che sono fuori dai teatri. È il caso di questa performance che facciamo qui a Milano (Sub I, II, III tenuta sempre in occasione di Uovo alla Fondazione Adolfo Pini ndr.) e del lavoro che faremo a Bologna alla prossima Live Arts Week. Sono lavori che di fatto sono una collezione di lavori di artisti differenti che rientrano in un discorso più ampio che formerà il film che sta girando Luca Trevisani. Ci muoviamo in un territorio molto ampio in cui ci sono delle emersioni performative, non dei veri e propri spettacoli, anche se poi la compagnia tirerà le somme di tutti questo periodo più informale per produrre una coreografia che debutterà qua a Milano al teatro dell’Elfo in ottobre.

EP: Ti pongo ora, come ultima domanda, una questione che ho sottoposto anche ad altri artisti presenti a Uovo: alcune pratiche performative tendono a riformulare, a ridefinire il rapporto tradizionale con il pubblico, a sovvertire la dinamica io agisco/tu osservi, affinché il pubblico possa fare esperienza dell’opera in maniera altra rispetto alle consuetudini. Tu pensi che si utile porre in questione questo rapporto?
MDS: É interessante. In ambito prettamente coreografico, che è il mio specifico, è interessante riuscire a creare una prossimità molto forte che non sia soltanto estetica, nel senso che il corpo, la qualità dello stare e dello stato, si riflette anche nello sguardo del danzatore nei confronti di chi lo guarda. È un oggetto molto interessante. Non a caso questa performance di Roberta Mosca è costruita su un tappeto con il pubblico seduto tutto intorno in un’estrema chiarezza di contatto, di sguardo nello sguardo. Questo tipo di intenzione prossemica mi interessa molto. Non mi interessa portare il pubblico in maniera didattica verso un nuovo modo di fruire. Il pubblico sa come fruire, sa benissimo che desideri vuole. A me interessa dargli delle possibilità. Delle possibilità di stare e di attraversare dei posti, di avvicinarsi molto al performer o di guardarlo da molto lontano. Quello che cerco è un tipo di fruizione più immersivo. Non a caso il lavoro che presentiamo qui alla Fondazione Pini, si chiama appunto Sub a richiamare una possibilità più immersiva. Il teatro, la danza, la performance si compie nell’appuntamento con il pubblico, quello è l’unico oggetto che abbiamo in comune: la durata, il tempo che stabiliamo per stare insieme. Trovare delle forme di arrotondamento dei reciproci desideri del pubblico e del performer è un’indagine molto interessante. Il tipo di spettacolarità creata e pensata fuori dai teatri pone immediatamente la questione del come, dove e cosa fare, ti porta a pensare a come fruire e far fruire la cosa. Troveremo delle risposte possibilmente a queste domande, spero.

M!M di Laurent Chétouane

Quella di Chétouane è una danza in cui protagonista è l’ambigua insita in ogni prossimità. Quanto poco ci vuole perché l’amicizia si trasformi nel suo contrario? Quanto sottile il confine tra amore e odia? Se si spezza il legame che tiene insieme un atomo, l’energia che si libera può essere devastante. M!M con delicatezza e grazia lascia intravedere il sorgere di tutte queste tensioni inerenti all’amicizia, non solo a livello di sentimenti, anche a livello pratico. Come condividere un spazio insieme? L’occupare uno spazio è gesto carico di tensioni. Un gesto semplice che porta con sé gravi implicazioni. Ogni volta che si muove un passo nello spazio che condividiamo con gli altri, corriamo un rischio: guerra e pace sono sempre dietro l’angolo.
Nato come una commissione all’interno delle celebrazioni dell’amicizia franco-tedesca, M!M riesce ad andare al di là dell’occasione istituzionale, insinuando, quasi con tenerezza, le gravi ombre che si nascondono dietro a un termine, amicizia, usato ed abusato. Le dinamiche tra i due bravissimi danzatori sono estremamente sottili nel camminare sul bordo, sulla linea del confine in cui ciò che è chiamato amico, può, da un momento all’altro tramutarsi nel suo contrario. Un camminare su un filo sottile, per la pericolosità, più una lama di un rasoio, dove un gesto un po’ più carico, un superare, anche di poco la soglia, produrrebbe un lavoro di cattivo gusto, esagerato, retorico. Invece Chétouane, con garbo e grazia, fa danzare letteralmente le tensioni, facendole apparire lievemente dietro il velo, quel tanto da percepirle e restarne turbati, senza calcare la mano e rendere il tutto evidente e scontato. Come negli affreschi del Tiepolo, campione dell’opera d’arte su commissione, l’essere tutto abbagliante di luce, l’essere tutto gloriosamente abbracciato da una luce meridiana e onnipresente non impediva di palesare l’ombra, l’inquieto agitarsi delle cose, così Chétouane diffonde su un paesaggio, quasi sereno, leggere increspature che fanno intravedere come sotto la superficie s’annidino i mostri.
Una danza a tratti ariosa e maestosa, a volte delicata, lievemente sentimentale, che dimostra, quando mai ce ne fosse il bisogno, che il gesto leggero, usato con maestria, è più potente dell’urlo e del grido. Come dicevano gli antichi taoisti, l’acqua è il più morbido degli elementi, ma frantuma la roccia più dura e resistente.

Intervista a Laurent Chétouane

EP: Che tipo di spettacolo è M!M? Qual’è lo stimolo che l’ha fatto nascere?
LC: M!M è un pezzo sull’amicizia, sulla relazione amicale tra Mikael e Matthieu (Matthieu Burner e Mikael Marklund, i due interpreti di M!M ndr.) non a livello privato ma in quanto uomini. E questo nasce in parallelo alla commissione che mi è stata proposta di creare un lavoro sulla relazione franco-tedesca nell’occasione del cinquantesimo anniversario della riconciliazione tra questi due paesi. M!M quindi nasce dalla coincidenza di un lavoro di commissione con un percorso di ricerca che volevo affrontare con i miei due danzatori. Amicizia tra due uomini, amicizia a un livello più politico, dunque un pezzo su amici, nemici, che cosa è prossimo? Che cos’è un amico? Il nemico è un amico con cui si è sbagliato qualcosa? Riflessioni che che fa Derrida nel suo libro Politiche dell’amicizia, opera che mi ha fortemente ispirato nella creazione di M!M.
Amico è un termine molto chiaro ma che allo stesso tempo è molto fragile.

EP: Ho visto una tua intervista rilasciata durante l’ultima Biennale Danza a Venezia durante la quale tu dici una frase che mi ha molto colpito: la tragedia di essere umani si esplica nella guerra continua alla gravità. È questa, forse, la natura della danza?
LC: Ma diciamo che la danza mi permette di confrontarmi con la gravità, una cosa essenziale contro cui ci si batte tutto il tempo senza saperlo. Si è sempre a un passo ma qualcosa vi impedisce di cadere, e poi, voilà, si cade. I vostri muscoli vi sostengono perché hanno imparato da soli le leggi e così, senza saperlo, siamo immersi in un conflitto costante con la gravità. Per me dunque la danza è un modo di relazionarmi con la gravità. D’altra parte è una cosa che è già stata fatta da sempre, la danza classica ha, in qualche modo, dominato la gravità, una danza più postmoderna come quella di Thisha Brown si diletta con la gravità, William Forsythe da parte sua dirà che è tutta questione di cadute, che danzare è, in effetti, un gioco con la gravità. É un modo di considerare la caduta nella sua totalità. Nel senso che non bisogna considerare la caduta come una decisione del corpo, della parte del corpo che controlla ancora ma sentirla a livello della verticale, quando siete giusto all’inizio: la caduta. Dunque ci sono sempre due direzioni nel corpo che danza. Ed è interessante questo non solo a livello estetico ma anche politico, nel pensare il movimento come un riparare alla caduta, come dire che il movimento è una reazione alla caduta.

EP: Questo tuo lavoro può essere considerato un lavoro politico? Oppure tutta l’azione artistica in fondo può considerarsi come un’azione anche politica?
LC: Io credo che l’arte e la politica siano due cose che si incontrano ma che sono, in effetti, separate. Credo, come Jean-Luc Nancy, che la politica sia l’arte che crea gli spazi dove l’arte può arrivare, e l’arte, ovviamente, deve interrogare la politica. L’arte deve disturbare e scombussolare la politica, il che non vuol dire assolutamente che l’arte fa della politica.