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I’LL BE YOUR MIRROR di Francesca Cola

” Videmus nunc per speculum in aenigmate, tunc autem facie ad faciem; nunc cognosco ex parte, tunc autem cognoscam sicut et cognitus sum “.

S. Paolo 1° lettera ai Corinzi 13, 12

“Per vedere chiaramente la nostra immagine, dobbiamo solamente pulire lo specchio”.

Detto Zen

La questione è urgente. Pressante. Le arti performative sono costrette ad un approccio diretto alla realtà? L’azione politica deve essere strettamente intrecciata all’azione artistica affinché la società/pubblico le riconosca un valore? Oppure è ancora possibile una manifestazione della creatività più intima, che abbia per oggetto i meandri più o meno oscuri dell’animo umano? E ancora: la bellezza è un valore superato? Una bella immagine è depotenziata dalla diffusione dell’estetico? Oppure ciò che è bello può avere ancora una funzione rivelatrice della natura della realtà?
Non di questo parla lo spettacolo di Francesca Cola, ma queste sono le domande che ha sollevato nel pubblico e tra gli addetti ai lavori.
Due donne. Opposte sulla diagonale del palco. Uguali e diverse. Sensualmente vestite come damine anni ’50, con una chitarra in mano. Questo il punto di partenza. Due corpi identici, vestiti con gli orpelli della civiltà, a cominciare un gioco di riflessi, sfasature e sfocature, differenze e ripetizioni in un processo di progressiva spogliazione dei corpi attraverso la metamorfosi delle immagini sempre o quasi sempre duplici. Alla fine, nella luce, due corpi nudi, quasi identici, che sfiorandosi appena, per un momento, diventano uno, e dopo quel breve attimo, intenso e struggente, quasi un sogno, si allontanano per sempre nell’oscurità. Un viaggio. Mistico e alchemico. Dove le immagini dispiegano la loro potenza evocativa. Apparizioni. Dove l’intimo diventa mitico, dove l’esperienza personale da cui l’artista attinge le immagini diventa in qualche modo universale.
Il processo a cui si assiste ricorda lo sforzo di Menelao che lotta con Proteo per ottenere che il dio dica la verità. Menelao affronta le metamorfosi, avendo il coraggio di afferrare il dio, costringendolo a terra per ottenere infine la verità su sé stesso. Lo specchio che rifrange le immagini contiene un mondo dentro di sé, ciò che riflette è il risultato di ciò che è riflesso. Ma è anche pericolo. Laddove il perdersi nelle immagini diventa perdita di se. Cadere nel mondo oltre lo specchio.
La qualità del lavoro è altissima. Ogni immagine è curata, la musica è potente alleata di ogni apparizione. Certo c’è qualche punto farraginoso, qualche imperfezione sempre presente in una prima assoluta, ma questo lavoro prodotto dal Performa Festival, è assolutamente da vedere e merita un destino roseo.
Certo è un lavoro che si pone in maniera scomoda per il modo in cui tratta l’approccio con ciò che è reale. Molti oggi intendono avantgard solo ciò che la affronta in maniera diretta e i problemi che essa pone. Arte come azione politica, come intervento diretto sul reale. Theatre documentaire, theatre du reél, ritorno all’agit-prop. Sembra che lavorare di cesello, in maniera laterale, su immagini evocate dalla realtà, non proprio direttamente attinenti alla contingenza politico/sociologica, trasformare ciò che è in un’icona mitica e mitizzante sia da considerarsi vecchio, superato, qualcosa di legato al mondo classico di concepire l’arte performativa. Certo la realtà di oggi,in questo momento in cui la civiltà occidentale si sfalda e niente ancora appare pronto a sostituirla, in questo momento tutto sembra spingerci a prendere posizione e partito. A scendere in piazza. Ma esiste solo quest’approccio? O è ancora possibile, perfino utile, una riflessione più distaccata, un pensiero artistico più concentrato grazie al potere evocativo dell’immagine/quadro? La Grande Bellezza può essere un atto di rivolta politica? Certo per anni si è cercato di uscire dalla rappresentazione, ma ci si è circondati di rovine, dopo aver profuso sforzi inutili, logorandosi e senza trovare alternativa. Ora è il momento di ricostruire. Ma come?
Io non so rispondere a questo. Come artista e come critico sono portato a credere che sì, oggi, ci sia bisogno di un approccio più diretto, più violento con la realtà, perché la realtà stessa ci aggredisce con immagini e situazioni di una violenza senza precedenti nella loro naturale e comune ricorrenza. Ma credo anche che ci sia bisogno di un necessario distacco, di una riflessione che allontani l’immediato/oggi su uno sfondo di ricorrenze mitiche, come a dire che ciò che accade oggi, è già accaduto in passato e sempre ritornerà. Un’ allontanamento dell’oggi, attraverso un’immagine/supporto, proiettata su uno sfondo, su un velo sottile là dove il trapassar dentro è leggiero. Un po’ come un cielo stellato: informe, eppure pieno di forme che raccontano l’eterna lotte delle forze che agitano l’universo.
I’ll be your mirror. La verità sta nel titolo: sarò il tuo specchio. La scena è specchio, doppio a sua volta. Riflette non proietta. Ciò che vedo all’interno sta a me. Mi dona la libertà di vedere. In questo c’è già un’azione politica: la libertà di vedere o non vedere alcunché. Forse non esiste azione politica più diretta di questa.

INTERVISTA A IRENE RUSSOLILLO

La prima volta che ho visto Irene Russolillo sono rimasto affascinato dalla sua danza graffiante, esuberante, in un certo senso istintiva. Oserei dire che in lei si realizza magnificamente l’ideale di “sprezzatura” definito da Baldassare Castiglioni: ”Da ciò credo io che derivi la grazia, perché delle cose rare e ben fatte ognun sa la difficoltà, onde in esse la facilità genera grandissima maraviglia…”.
Nei lavori di Irene Russolillo nulla è sforzato, tutto porta a una certa divina grazia, la grazia di una ninfa o di una menade, qualcosa da maneggiare con cura perché contiene in sé una parte oscura, inquietante che appena appare come un’ombra sotto la superficie di uno specchio d’acqua montano. E questa sorta di inquietudine nasce, a mio avviso, dal trovarsi sempre di fronte a qualcosa di veramente intimo, come di confessione segreta, qualcosa da udire con rispetto e conservare nel cuore. È il personale che si riversa e si apre verso il mondo in tutta la sua dirompente fragilità. Ma questo dato autobiografico è sempre distanziato da chi danza, c’è sempre uno scarto come fosse un doppio alchemico: è Irene ma non Irene (Le parrucche, la calotta che nasconde i capelli). Questo distanziarsi da sé, quasi farsi maschera del danzatore, permette che questo universo personale sia avvertito come proprio anche dallo spettatore. In qualche modo si riesce a condividere e a parteciparvi.
Per questo motivo ho deciso questo mese di dedicare una lunga intervista a Irene Russolillo, per parlare dei suoi lavori, dei suoi progetti e delle profonde motivazioni che si annidano nei suoi lavori.

EP: Cos’è per te la danza? E quale pensi sia oggi la sua funzione seppur ne ha una? E quale rapporto ti piacerebbe si instaurasse con il pubblico o un pubblico?
IR: Per me è danza potenzialmente qualunque situazione dinamica che abbia uno sguardo dall’esterno. Lavorare (con) la danza mi pone di fronte molti più elementi oltre al movimento e, rivelandone infiniti aspetti, complica inevitabilmente il significato stesso della parola e il concetto che esprime. La danza può facilitare lo scambio di sguardi e di pensieri tra persone. Inoltre fa venir voglia di accedere più volentieri al (con)tatto. Questo insieme di sguardo, pensiero e contatto può anche emozionare. In generale, attraverso le sue varie declinazioni, la danza può nutrire la ricerca personale e intellettuale di ciascuno, come individuo e come parte di una comunità.

EP: Quando hai capito che la danza poteva essere la tua vita?
IR: Finita l’università, completata in tutt’altro ambito, ho deciso di “provare”; durante l’adolescenza e fino a tutti gli anni universitari, il più delle emozioni provenienti dalla sala di balletto erano state frustrazione e sfiducia. L’incontro con la danza contemporanea e le sue sfumature, il fatto che avessi facilità ad entrare in connessione con certi maestri e che piano piano mi si formasse un gusto e una prerogativa professionale, mi hanno convinto a insistere ma è solo riscuotendo risultati positivi nelle audizioni e piano piano all’interno dei lavori che mi sono “ritrovata” danzatrice.

EP: Quale è stato l’incontro artistico che reputi essere stato il più importante nella tua formazione? C’è un artista che ti ispira, che è il tuo nume tutelare nascosto?
IR: Non ho mai avuto un nume tutelare ma prima di considerarlo un dato di fatto, mi è sempre dispiaciuto non avere un riferimento, un maestro, un “mito” . in seguito ho avuto molti maestri, dai libri e dai video, molti. dal vivo, tre incontri hanno segnato il mio percorso per ragioni molto diverse tra loro, quello con micha van hoecke, cesar brie e roberto castello. ma devo dire che ho avuto “rivelazioni” anche in incontri brevissimi.

EP: Qual’è il lavoro a cui ti senti più legata? E qual’è invece quello che ti ha fatto credere nelle tue capacità espressive?
IR: Il lavoro a cui sono più legata è il mio solo strascichi. c’è un prima e un dopo strascichi per me come artista e per me come persona. il lavoro che invece definisco la “psicoterapia” più efficace nella mia esperienza è stato carne trita di roberto castello, in cui ho “liberato la bestia” (soprattutto con l’uso della voce) e sono andata in territori espressivi ampi e per me nuovi.

EP: Parlando di Strascichi, un lavoro che ritengo molto toccante e graffiante nello stesso tempo, sembra, ma magari è una mia impressione, che l’autobiografia sia il motore importante del lavoro. E’ corretto? e se si, tale motore si limita a quel lavoro o parti sempre da elementi autobiografici che poi in qualche modo diventano opera e si distanziano da te?
IR: Non che abbia ancora un repertorio così vasto, tutt’altro. ho all’attivo 3 soli concepiti e realizzati; al momento sto lavorando su due progetti molto diversi tra loro, in collaborazione con altri artisti. per questi ultimi due andiamo a “pescare” ovunque, fuori e dentro di noi. a posteriori posso dire invece che tutti e tre i soli sono nati da spinte interne “vomitatrici” e inopponibili, quindi sì, decisamente autobiografici almeno nel loro punto di partenza.

EP: Qual è il ruolo che attribuisci alla voce e al canto nel tuo lavoro?
IR: La voce è uno degli elementi della scena. È un mezzo che amplifica possibilmente l’espressività e il senso di quello che faccio. Come strumento a sé e nel suo coesistere al movimento, è un terreno in cui indago e compongo con l’entusiasmo di una principiante, con molta curiosità e stimoli. Il canto è un desiderio, un piacere.

EP: Da quali elementi la natura del tuo movimento trae forza e nutrimento?
IR: Il mio movimento nasce dalla forza anche rituale che la scena mi da, dal momento in cui sono presente sulla scena e ho un pubblico. Da quando ho smesso di seguire un ideale di esecuzione, la mia danza è diventata la mia danza. Durante le prove ripeto le azioni ma è solo in scena che il movimento si nutre e si espande oltre me stessa e, talvolta, malgrado me stessa.

EP: vedendo i tuoi lavori ho sempre avuto l’impressione che l’autobiografia sia un punto di partenza, un elemento portante: se è così in che modo diventa materia nel tuo lavoro artistico? e come riesci a distanziare un elemento così vicino e incandescente?
IR: Nei soli Strascichi e A loan è stata molto importante la scelta dei costumi e del trucco. Cerco di far venire fuori un’immagine sostanzialmente distante dall’ “irene quotidiana”. È un “mascheramento” che serve innanzitutto ad “ingannare” me stessa, altrimenti imbrigliata in drammi esistenziali a cui rimarrei appiccicata. In altre parole, cerco di mettere a punto un piano formale rigoroso – oltre ai costumi, la musica, la danza, le luci, i testi – che faccia da “filtro” e diventi esso stesso contenuto. In seguito cercherò di capire come un mio punto di partenza personale possa stimolare anche altre persone.

EP: Mi parli di Ebollizione? com’è nato? Quale è stata la genesi e la sua fortuna e quale è stata la sua importanza nel tuo percorso artistico?
IR: Ebollizione è nato da una spinta esterna, a creare qualcosa di mio. Io che da tanto ormai stavo stretta nei soli panni dell’interprete, ho messo nel pezzo diverse delle cose che già da tempo avrei voluto fare. Ebollizione è nato nella totale solitudine, non avevo ancora il coraggio di coinvolgere qualcun altro. ne è venuto fuori uno sfogo anche divertente ma al quanto acerbo.

EP: Parliamo di A Loan. da cosa nasce l’esigenza di affrontare questo viaggio nell’oscuro e nella debolezza? E in cosa consiste “il prestito”?
IR: Rifletto spesso su quanto non ci sia scelta nelle relazioni umane se non accettare le parti oscure di ciascuno per stare in dialogo con gli altri, in primis le persone che ci stanno più vicine, anche se non le “capiamo”. Ho voluto dialogare con queste parti oscure che sono giudizi, desideri, paure, intenzioni, ricordi e a cui ho dato il nome comune di “fantasmi” ; nel farlo mi sono ritrovata di passaggio su strade probabilmente già tracciate o da risolcare che, in sostanza, non sentivo di possedere. Le parole di alcuni sonetti di Shakespeare sono state il motore scatenante di tutto il lavoro perché risuonano profondamente in me, non avrei potuto trovare altre parole e quindi mi sono concessa questo prestito dal Poeta.

EP: A Loan mi è sembrato un lavoro molto meno istintivo rispetto a Strascichi o a Ebollizione, un lavoro molto ponderato, riflessivo, solido ma fluido, come se per affrontare l’oscuro tu abbia in qualche modo messo un freno alla tua vitalità esuberante, come se ci volesse più circospezione, più prudenza. é una considerazione che vorrei che tu possa commentare, se lo vuoi.
IR: Ho cercato di comporre una formula con i vari elementi, in un lavoro al cesello. Parlando di “ciò che c’è, anche se non si vede” (v. fantasmi della domanda precedente) non potevo liberare l’energia né avere un potere liberatore su chi mi guarda. I movimenti sono muscolari e compressi, la calotta nasconde i capelli, la luce e la musica sono ipnotici. Per parlare di assenza avevo bisogno di nascondermi un po’.

EP: Verso quali orizzonti ti sta portando la tua ricerca?
IR: Non mi pongo grossi limiti, per me la danza ha molti sensi e varie misure. E, in generale, ho molti desideri.

DI ALCUNI GRAVI PROBLEMI DEL TEATRO ITALIANO

Qualche giorno fa è uscita la notizia che gli abbonamenti del Piccolo di Milano superano quelli di Inter e Milan. Questo ha fatto ovviamente scalpore convincendo alcuni a cantare il peana della rinascita culturale e del ritorno del pubblico a teatro. Non dovrebbe stupire. Ogni volta che un qualche dato confortante appare alle cronache o ogni volta che si vince una statuetta agli Oscar o un premio a Cannes, immancabili sui giornali l’apparizione di inni di lode. Si dimentica però che l’eccezione non fa sistema. Il sistema culturale italiano, soprattutto quello del teatro, e per esteso delle live arts, versa in grave crisi strutturale, e tale crisi, è vero che non impedisce che qualche volta l’eccelso appaia all’orizzonte, ma impedisce un buon livello generale e uno stato di salute terreno obbligato perché il mondo culturale possa mantenersi in uno stato florido.
Benché lo spazio di un articolo non permetta una disamina estesa del problema ci limiteremo ad accennare alcuni nodi cruciali di questa crisi strutturale del sistema cultura, lasciando ad altri analisi più sistemiche.
Partiamo dal Piccolo Teatro di Milano. Una gestione sana in un teatro è cosa rara, se non rarissima. Quasi tutti i teatri stabili e gli enti lirici italiani sono barche che affondano in un mare di debiti. I costi del personale in molti casi assorbono il 70% delle spese, e dietro queste spesso si nascondono privilegi e sprechi. La parte artistica non è la voce di spesa principale e questo non può che inficiare la qualità della proposta. Il Piccolo con la Fenice di Venezia costituiscono l’eccezione alla regola. Ma attenzione: far quadrare i bilanci non significa sempre qualità. Nel caso del Piccolo, benché molte proposte siano di alto livello, il repertorio (con questo intendo sia le riproposte di lavori storici sia la presentazione di testi della tradizione) sono la parte preponderante. La ricerca (che non per forza significa lavori distanti dal gusto di un potenziale pubblico) è spesso assente. Le scelte, benché di alto livello, comprendono nomi molto noti e di facile vendibilità (vedi Martone, Tiezzi, Philip Glass, Bob Wilson, Dodin). Il rischio è bandito proprio a causa degli abbonati che non vanno mai delusi. Questo comporta che anche i nomi giovani che si inseriscono nel cartellone sono comunque assimilabili a un insieme coeso, che non si discosta da una linea mediana. L’aurea mediocritas di beniana memoria. Certo siamo d’accordo che un cartellone di un grande teatro come il Piccolo non possa essere completamente dedicato alla sperimentazione, ma certo, sarebbe possibile la creazione di nicchie di programma che consentano alla vera ricerca di comparire e di essere coltivata. Una certa apertura viene ad esempio praticata dal Teatro Stabile del Veneto, ma sicuramente si deve fare di più. Gli Stabili potrebbero essere un volano di visibilità per giovani artisti e per la ricerca se solo lo volessero, perché hanno la potenza di comunicazione e le strutture per poterlo fare. Manca la volontà di rischiare, di approfittare della crisi economica e dei finanziamenti per osare scelte drastiche, e spesso questo freno è proprio lo strapotere dell’abbonato.
Parlando del Piccolo parliamo comunque del vertice di un sistema che nel complesso si limita all’ovvio, alla proposta scontata, al teatro vecchia maniera per l’abbonato geriatrico. Per la gran parte i teatri Stabili sono il simbolo della stasi e della palude, nonché di gravi dissesti economici.
Ma la crisi sistemica non è solo colpa dei Teatri Stabili e delle loro scelte. È il sistema produzione-distribuzione ad esserne la causa principale.
Partiamo dalla produzione: che non si sostenga la ricerca è cosa sotto gli occhi di tutti. Non solo nelle università e nella ricerca scientifica, nemmeno in ambito culturale si fa molto. Quasi tutti direbbero che è a causa della mancanza cronica di fondi, ma non è così. Questo potrebbe al limite rallentare il sistema, non metterlo completamente in crisi. Spesso in Italia ci si autoproduce, con pochi soldi, alla garibaldina. L’accesso ai fondi e ai bandi è in moltissimi casi fattibile solo per enti o compagnie che hanno già curriculum e struttura adeguata. Chi inizia è per molti versi tagliato fuori. Certo alcuni diranno c’è il sistema delle residenze, messo in campo da enti e festival per sostenere la ricerca, ma questo, come è concepito, è solo un palliativo. Concedere a degli artisti una settimana o due di residenza non risolve il problema. La ricerca ha bisogno di tempo. Il sistema di residenza dovrebbe essere esteso nel tempo, si dovrebbe prendere esempio dall’estero in cui a certi artisti meritevoli viene concesso lo status di artista residente per un periodo lungo, concedendo loro il tempo e il supporto per un vero lavoro di ricerca. Per molti quindi si sceglie l’autoproduzione con il crowdfunding, con sistemi precari a volte di grande inventiva, ma che non garantiscono risultati certi. Anzi spesso queste campagne non raggiungono l’obbiettivo oppure lo raggiungono in maniera parziale. Certo questo vuol forse dire che non meritavano, ma può anche voler semplicemente dire che con le poche forze di comunicazione che l’indipendente mette in campo è difficile se non impossibile ottenere un risultato decente.
Inoltre quello che latita nel sistema produttivo italiano è la coproduzione internazionale. Nei lavori degli artisti europei non è per niente inusuale, anzi potremmo dire che è abbastanza la norma, la coproduzione tra enti di diversi paesi. Questo garantisce tre cose fondamentali: la diminuzione dei costi di produzione, una migliore distribuzione e l’accesso ai bandi e ai fondi della Comunità Europea. L’Italia da questo punto di vista è decisamente assente. Molte sono le ragioni di questa latitanza. Per la maggior parte potremmo dire che è per insipienza, per altra per l’incapacità di molti lavori italiani di essere vendibili all’estero perché non pensati per un pubblico europeo ma per il mercato italiano interno.
Molti artisti italiani si limitano a trasferirsi all’estero, ma d’altra parte come dargli torto: è anche difficile trovare enti disponibili ad affrontare la difficoltà dei bandi europei, soprattutto perché vanno fatti in inglese!
Ma se latita la produzione, o comunque è ferma a modelli superati e obsoleti, quello che manca quasi totalmente è la distribuzione. Anche per gli artisti e i gruppi noti e di successo, fare venti date all’anno è un successo. Se prendiamo ad esempio compagnie come Fibre Parallele, inondata da Premi Ubu, o un gruppo storico come i cantieri Koreja, vediamo che i loro calendari di spettacolo sono meno della metà di gruppi esteri come She She Pop o Peeping Tom e soprattutto limitate al mercato italiano contrariamente ai colleghi stranieri che contano numerosissime trasferte in Europa e non solo. Certo ci sono le eccezioni come la Societas Raffaello Sanzio, ma ripeto le eccezioni non fanno sistema.
Ma la vera domanda è: ci sono effettivamente dei circuiti di distribuzione? Gli Stabili fanno quasi circuito a sé, i festival se ne creano degli altri, i piccoli teatri per lo più praticano scambi con altri enti così da dimostrare una certa mobilità delle produzioni. Mancano quasi totalmente le occasioni di mercato. I festival che potrebbero operare in questo senso invitando i buyers, italiani e esteri, non si specializzano in questa funzione limitandosi spesso a essere semplice vetrina. Certo qualcuno potrebbe obbiettare che ci sono dei circuiti come Anticorpi nella danza o il Premio Scenario, ma tali circuiti hanno un difetto: sono chiusi agli enti che li sostengono e ai loro satelliti, inoltre hanno una vita breve e limitata. Non ci sono occasioni continuative per presentate progetti. Nel campo cinematografico, soprattutto nei maggiori festival, la vetrina si accompagna al mercato, in ambito teatrale raramente. Molto si potrebbe fare in questo senso dando respiro a un mercato asfittico.
Ma i festival italiani devono affrontare un grave problema: i fondi per il loro sostentamento sono assolutamente instabili, rinegoziati anno per anno, soggetti a tagli improvvisi e spesso postumi, infine i soldi arrivano con un ritardo imbarazzante quando arrivano. Questo impedisce un’attività serena e una programmazione a lungo periodo che permetta una concorrenzialità con i festival esteri i quali godono molto spesso di finanziamenti a legislatura (è il caso di Svizzera, Belgio, Slovenia per esempio). Se i finanziamenti sono così incerti e spesso deliberati dopo l’evento (da direttore di festival ho avuto modo di subire personalmente questa pratica indegna) è quasi impossibile fare una programmazione veramente di qualità e creare occasioni di mercato che necessitano di iniziative continuate durante tutto il corso dell’anno e, inoltre, per lavorare con l’estero, si necessità di una certa stabilità, di una sicurezza che agevoli l’iniziativa di programmazione e coproduzione.
Da ultimo accenniamo alla mancanza di incentivi al finanziamento privato. Manca una seria legislazione sul tax shelter, e sulla donazione. Il finanziamento privato potrebbe supplire laddove manca o latita il pubblico, ma iniziative in tal senso sono carenti. Le fondazioni bancarie sono quasi gli unici enti a fornire bandi alternativi e spesso sono motivati all’intervento dal sostegno già dato dal pubblico. Non sono veri canali alternativi. Il sistema prevede l’accumulo non l’alternanza.
Questi alcuni dei motivi del dissesto del sistema cultura nell’ambito delle live arts, motivi semplicemente accennati e non esaminati a fondo come meriterebbero. Li accenniamo perché pensiamo sia necessario avere presente cosa affligge veramente la cultura italiana e non crogiolarsi in piagnistei inutili, né sperticarsi in falsi inni di giubilo. Se il sistema produzione-distribuzione è così precario e non funzionale, anche se ci fossero idee e lavori meritevoli, essi non avrebbero la vita e la visibilità che meritano. Inoltre un sistema sano non prevede che ci siamo solo i geni, ma anche un ottimo numero di lavori di buon livello. Se pensiamo alla produzione cinematografica degli anni ’60 e ’70 nel nostro paese ne avremo un esempio. A fronte di un gran numero di western, polizieschi, horror, commedie e commedie erotiche, che irroravano il mercato non solo italiano di prodotti da botteghino, (generi, lo ricordiamo, ora estremamente lodati da registi del calibro di Tarantino, ma non solo) il sistema poteva permettersi l’emergere dei Fellini, Pasolini, Scola, Leone, Monicelli ecc.
Oggi in ambito non solo teatrale, manca un sistema culturale sano che garantisca un livello standard di eccellenza da cui possano emergere i capolavori. Come diceva Carmelo Bene si è pensato alla mediocrità, si vivacchia puntando al meno peggio in arte come al voto. Non c’è un sistema ambizioso che guardi a mete elevate. Ci basta sopravvivere pensando che in fondo nella vita basta la salute.