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ARGO

ARGO: UN VIAGGIO CHE POTREBBE PORTARE LONTANO LONTANO

Una delle più avvincenti saghe della fantascienza degli ultimi anni è Il ciclo di Hyperion di Dan Simmons. Nel mondo immaginato dallo scrittore statunitense la terra è collassata e l’umanità si è divisa: da una parte l’Egemonia sparsa in centinaia di pianeti in alleanza con le IA del Tecnonucleo e che vive, bene o male, come prima della diaspora spaziale adattata a contesti differenti; dall’altra ci sono gli Ouster, umani mutati dall’adattamento della vita nello spazio profondo, unici ad aver accettato la sfida dell’evoluzione senza l’aiuto invadente delle IA: essi sono liberi, irriconoscibili, odiati, sconosciuti, eppure saranno loro a vincere la guerra.

Quello che sta avvenendo in questo lungo e difficile 2020 è probabilmente uno degli spartiacque fondamentali nella storia dell’uomo e non per la questione sanitaria ma perché la situazione è miccia e innesco per cambiamenti epocali in tutti i settori di attività e tali mutamenti avvengono in gran parte per e a causa delle tecnologie digitali.

La chiusura forzata dei teatri obbliga a riflettere, non solo sulla natura del proprio agire artistico, ma soprattutto sul ricercare nuove strategie di sopravvivenza, molte delle quali, già nella prima ora, si sono rivolte verso la terra di frontiera digitale, attualmente, a causa della lentezza legislativa rispetto allo sviluppo delle tecnologie, molto simile a un Far West. Questa musa fredda, fino a ora e a parte rari casi, è stata usata come in megafono o come una televisione, quindi in maniera sostanzialmente conservativa, replicando appunto la modalità di media conosciuti e, in qualche modo rassicuranti. Qualcuno però prova ad accettare la sfida dell’evoluzione e come gli Ouster tenta la metamorfosi per sopravvivere alle condizioni estreme dello spazio profondo.

Molto ci sarebbe da discutere se tale trasformazione sia o meno necessaria, se quello che ne verrà fuori sia ancora e sempre teatro, e via così, di domanda in domanda, ma resta il fatto che quando l’umanità inizia a usare uno strumento su larga scala difficilmente lo abbandona. Le cabine del telefono relitti negletti in qualche angolo di strada testimoniano questo processo. Indagare le funzioni del teatro in questo oscuro presente non è dunque questione di lana caprina né vuota osservazione di lanugini ombelicali ma un processo necessario per indirizzare la trasformazione obbligata in cui ci troviamo tutti immersi.

Un tentativo in questa direzione è il progetto ARGO. Materiali per un’ipotesi di futuro presentato il 19 novembre in video conferenza stampa dal direttore del Teatro Stabile di Torino Filippo Fonsatti, insieme ai partner istituzionali (Scuola Holden, Comune di Torino, Fondazione CRT e Fondazione Compagnia di San Paolo). ARGO è la nave che porta Giasone e gli Argonauti. Nel nome quindi l’idea del viaggio in terre sconosciute su una navicella dell’ingegno in cui il Teatro Stabile di Torino ha voluto imbarcare ben settanta artisti della città.

Gli scopi di ARGO sono molteplici: il primo è quello di creare sette oggetti digitali a partire da altrettanti temi base, oggetti volti a prefigurare il futuro e a discutere le funzioni della scena nel nuovo nebuloso contesto, oggetti con valenze politiche e non direzionati a una produzione artistica. Gli artisti chiamati sono i più significativi del territorio cittadino, un territorio fortunatamente ricco, e da cui sono stati esclusi coloro che già percepiscono fondi del FUS o hanno cariche e funzioni all’interno di istituzioni teatrali. Si è privilegiato dunque gli indipendenti. Oltre a questi di cui fanno parte Il Mulino di Amleto, Piccola Compagnia della Magnolia, Domenico Castaldo e il suo LabPerm, Giulia Pont, Asterlizze Teatro, Girolamo Lucania, Simone Schinocca, Giorgia Goldin, Davide Barbato etc, a titolo di esempio perché lungo sarebbe l’elenco, oltre a questi dicevamo partecipano, a titolo gratuito, sette senior Eugenio Allegri, Valerio Binasco, Emiliano Bronzino, Laura Curino, Valter Malosti, Beppe Rosso, Gabriele Vacis, al fine di stimolare un confronto generazionale nel dibattimento dei temi. Si è dunque voluto essere trasversali in quanto a range di età e di esperienza. Peccato che da questo confronto sia esclusa la danza e il circo, pur ben rappresentati in città, settori che avrebbero potuto dare un notevole contributo.

Il secondo scopo è sostenere il settore in un momento di grande difficoltà. Tutti gli artisti sono assunti regolarmente. Terzo obiettivo è rafforzare l’identità artistica del territorio torinese. Lavorare insieme a un progetto potrebbe creare connessioni per ora impreviste e rendere più unito un ambiente non sempre pronto a sentirsi categoria unita da problemi ed esigenze simili.

Ma veniamo ai metodi di lavori. I settanta partecipanti verranno divisi in sette tavoli ciascuno dei quali è presieduto da un leader e affiancato da ”un editor-facilitatore, che ha il compito di elaborare e sintetizzare le idee e i contenuti affrontati nel corso del lavoro”. A ognuno dei sette tavoli previsti gli artisti convocati dovranno immaginare e produrre degli oggetti concreti: un manifesto, una mappa concettuale che racconti non solo il passato ma anche il futuro, un appello alla nazione, una campagna di comunicazione, un gioco/esperienza, una fake identity frutto di riflessione sull’autonarrazione di sé che accompagna l’esperienza digitale e infine un podcast per esporre il punto zero da cui si parte. Tutti questi oggetti esplorano le funzioni del teatro nel contesto politico e sociale, oltre al confronto con l’ambiente digitale.

Potenzialmente ARGO. Materiali per un’ipotesi di futuro è un progetto che potrebbe avere un notevole impatto sul mondo teatrale italiano (paragonabile si spera a quanto avvenne a Ivrea nel 1967), sia per l’aspetto innovativo, sia nel generare un precedente di collaborazione fruttuosa e virtuosa tra mondo teatrale indipendente e Teatri Stabili. Dall’altra si rischia la nascita di un monopolio, e non lo diciamo per pregiudiziale diffidenza o sospetto ma solo come dato di riflessione. Da anni si assiste a questo fenomeno dove festival, formazione e innovazioni vengono assorbiti o nascono all’ombra dei Teatri Nazionali (un esempio sono gli esiti dell’ultimo Premio Scenario quasi tutti provenienti da scuole o progetti legati ai Teatri Nazionali, così come l’emersione di talenti come Liv Ferracchiati o Leonardo Lidi per fare due esempi). L’altra forza innovativa sono i Festival con le residenze, la possibilità distributiva e la visibilità offerta, forza però in possesso di molti meno mezzi rispetto agli Stabili e quindi sempre più ampia diventa la forbice nel panorama produttivo e distributivo italiano.

Il progetto ARGO. Materiali per un’ipotesi di futuro si muove dunque nella corrente di accentramento dei Teatri Stabili che già da anni si nota in un paese come il nostro in cui la cultura si è dimostrata sempre vitalissima proprio nell’essere policentrica, nel fiorire anche nella provincia più depressa e oscura, lontana dai centri di potere. L’accentramento quindi, se da una parte può essere fenomeno fisiologico, dall’altro genera dei problemi e solleva questioni. Speriamo dunque che ai tavoli di discussione tali temi emergano e vengano dibattuti, così come si spera che il Teatro Stabile di Torino e il suo direttore Filippo Fonsatti vogliano veramente battersi con e per i deboli e gli indipendenti per cercare di sconfiggere l’irrilevanza.

ARGO, come si è detto, è la nave degli Argonauti solido traghetto verso il vello d’oro, ARGO è una costellazione rappresentazione stellare del vascello mitico, ma ARGO, come racconta il film di Ben Affleck del 2012, è anche una mistificazione, certo volta a salvare dei reclusi da un destino ancora peggiore, ma pur sempre una manipolazione. L’augurio a tutti i partecipanti e attori di ARGO. Materiali per un’ipotesi di futuro è che non si avveri l’ultimo scenario ma il loro lavoro possa offrire a noi tutti dei materiali di discussione che pongano veramente le domande giuste, che obblighino i legislatori e chi si occupa del teatro italiano a porre mano a una riforma attesa da troppo e sempre più necessaria, che possano disegnare davanti ai nostri occhi un futuro meno fosco di quel che appare al momento.

Armonie dai confini dell'ombra

ARMONIE DAI CONFINI DELL’OMBRA: di LapPerm di Domenico Castaldo

In questi giorni nelle cripte dell’ex Cimitero di San Pietro in Vincoli, si svolge la performance a cura del LapPerm di Domenico Castaldo Armonie dai confini dell’ombra.

Non so se sia corretto definirla performance, ma sono a corto di parole adeguate nei confronti di un’esperienza che sfugge alle consuete ripartizioni di genere. Se dovessi in qualche modo confrontare Armonie dai confini dell’ombra con altre esperienze, direi che attiene più alla forma degli antichi misteri di Eleusi.

Nei riti misterici legati al dramma di Demetra e Persefone, gli iniziati esperivano la discesa nell’ombra della fanciulla Kore, rapita da Ade, e la sua riemersione nel mondo della luce a fianco della madre Demetra. Persefone/Kore, pendolo perenne in moto continuo tra la luce e l’ombra, è simbolo di ogni anima in viaggio in questo vasto mondo che respira.

La discesa nelle cripte dell’ex Cimitero di San Pietro in vincoli, il canto come esperienza uditiva, tattile, sensibile in cui non tanto il significato è da percepire quanto la materialità dei suoni e delle armonie ricreate nello spazio, il vagare tra una stanza e l’altra in varie gradazioni di luce, sono tutti elementi di un mistero laico che tende alla ricerca di un percorso spirituale.

Gli accordi delle voci, le loro modulazioni su ritmi tradizionali, il battere dei piedi, il vagolare delle voci nei corridoi, nelle volte, nelle segrete stanze all’interno della terra dedicata ai morti, sono tutti elementi che conducono lo spettatore verso un tempo separato, dilatato, non compromesso dalla rappresentazione.

Nessuno qui cerca di essere altro da sé, non c’è una vera e propria narrazione. Sono presenti solo gli elementi base per l’emersione di una forma sacrale, dedicata allo spirito qualsiasi sia il senso o il valore a cui ciascuno dei ventitré partecipanti attribuisce a tale termine.

Certo in Armonia dai confini dell’ombra c’è un filo conduttore, persino una drammaturgia (ma quale rito non ne ha una?), che però non si esplicita in un racconto quanto più in un sentiero di molliche di pane verso un altrove che per ciascuno è diverso. Le parole sono in questo contesto dei ponti verso il silenzio interiore.

Il silenzio come contenitore da cui emerge il tutto, il vuoto che è presupposto del pieno, quello zero che non è un nulla ma moltiplicatore esponenziale verso un infinito indefinibile.

Poco importa che quanto si avverte delle parole riporti a degli autori più o meno noti (c’è Nietzsche, Tarkovskij, e il teologo Pannikar e forse altri ancora che mi sono sfuggiti, nonché testi scritti dalla compagnia), ciò che diventa fondamentale è il risuonare di quelle armonie e melodie all’interno del nostro spirito che attende in silenzio ed esplora gli spazi che si trova ad attraversare.

I significati, come in ogni rito, non sono che maschere per un altro da sé. Conchiglie vuote in cui risuona un mare distante ma che in qualche modo ci appartiene, e qualora nulla si avverta, anche in questo niente c’è qualcosa che viene detto di noi.

In Armonie dai confini dell’ombra, non resta che ascoltare e seguire il percorso. Una volta tacitato il fragore delle voci che animano e lacerano il nostro spirito, che non è mai io, perché non esiste io, allora e solo allora un esperienza emerge e tocca a ognuno di noi verificarne il valore.

Alla fine di Armonie dai confini dell’ombra ci si ritrova nella stanza di partenza, gli stessi seppur diversi. Si beve una tisana in un silenzio che non è di imbarazzo quanto di raccoglimento. E poi ci si saluta. Ognuno ritorna al suo quotidiano agire/patire, le voci di dentro ricominciano a confabulare memori e nostalgiche di quel silenzio che tutto può contenere.

Armonie dai confini dell’ombra è dunque un’esperienza a tutto tondo, di sapore antico come di qualcosa che si è perso ma resta nelle nostre memorie comuni. Ma Armonie dai confini dell’ombra è anche un’esperienza vocale, della parola che si fa canto e sfugge al significato per colpire i sensi. Una vocalità che benché per una volta si trova svincolata dal dover dire, in qualche modo ci ricasca ma è sicuramente sulla strada giusta. É una ricerca preziosa, che va coltivata e che ci ricorda che l’arte performativa non è solo argomento per bandi, ma esperienza profonda che sfugge alle logiche e alle strategie. In qualche modo bisognerebbe preservare alle Live Arts questi spazi che nessun bando riuscirà mai a ospitare.