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Filippo Michelangelo Ceredi

BETWEEN ME AND P. di Filippo Michelangelo Ceredi

Pietro scompare come Majorana senza lasciare tracce nel luglio del 1987. Filippo Michelangelo Ceredi aveva cinque anni. Ma se suo fratello sparisce senza tracce evidenti in lui una traccia resta, seppur sepolta per 25 anni, e poi esplode nel ritrovamento di un cassetto pieno di lettere, foto, registrazioni di Pietro.

E così si riapre ciò che era stato sepolto e sommerso. E Filippo Michelangelo Ceredi incomincia a scavare, grattare la superficie, per far affiorare un’immagine, quella di Pietro e dei suoi tormenti, delle sue inquietudini e delle sue insicurezze.

In una penombra si vede il performer seduto alla tastiera di un computer. Sullo sfondo uno schermo su cui cominciano a scorrere fotografie, video, testimonianze, ritagli di giornali. Lentamente dal buio si delinea l’immagine di Pietro, e tutto ciò che lo turbava tanto da decidere di scomparire al mondo. Disagi intimi e familiari, difficoltà di trovare un luogo definito, un approdo nella tempesta.

Un uomo di molti talenti Pietro, studioso quasi monacale, indagatore del mondo e dei suoi mali da cui sempre essere morbosamente attratto (lo si intuisce dai ritagli di giornale che conservava, di assassinii, di guerre, di macabri fatti). Le sue foto sono inquietanti e terribili, in un bianco e nero opprimente, dove nel soggetto appare la sua immagine riflessa senza volto, oscurata da un casco o dalla macchina fotografica. Presente/assente, convitato di pietra, lui si aggira nella scena come una horla di Maupassant. Ma non è tanto Pietro che inquieta quanto Filippo che nella penombra della sala si aggira e ricostruisce una sorta di altare, con i libri disposti nello spazio, le musiche di Pietro, le immagini di Pietro, la voce di Pietro e dei familiari, le lettere degli amici.

Una performance in cui non c’è catarsi nel pubblico ma solo del performer in scena che si affanna a comprendere e metabolizzare, ferito da una presenza, lacerato da questa scomoda scomparsa. Si è testimoni di una sorta di macabra rappresentazione dove l’immagine del vivo e quella dello scomparso si sovrappongono senza mai coincidere. Si annusa un respiro di malattia, di insanità.

Si prova inquietudine di fronte a questo scorre di una vita interrotta alla storia, senza morte, senza presente eppur presente. Tempo fa provai l’esperienza di Pietro, un amico decise di sparire fuggendo da un matrimonio senza lasciare traccia né spiegazione. Nessuno sa dove sia finito. Mi piace pensare che se la stia godendo e ridendo di noi ingabbiati nelle dinamiche del mondo. Eppure so che in fondo sia tutti dei Mattia Pascal e per quando fuggiamo nella nebbia, porteremo sempre dietro noi stessi e le nostre miserie nascoste nel profondo dell’animo. La presenza di questi scomparsi, fantasmi magari vivi e vegeti, magari morti e seppelliti è ingombrante. Tremendamente.

Ma c’è un però. In arte anche la più profonda ferita diviene materiale e nel compiere questa trasformazione deve avvenire un distacco, una proiezione in un luogo algido e distante dove poter osservare e operare. Come chirurghi come artisti non si deve considerare il materiale come un paziente che soffre ma come un problema da risolvere. E questo nel caso di Filippo Michelangelo Ceredi non avviene. Si sente la sua commistione con il materiale, si sente il suo disagio che impedisce al materiale di divenire universale, di toccare le corde degli altri oltre una seppur partecipe empatia.

Vi è troppa clinica in questo lavoro per farmelo apprezzare sul serio, nel modo che considero giusto dal mio punto di vista. La storia particolare di Pietro/Filippo è troppo distante, troppo personale, per toccare delle corde che risuonino a lungo, e forse a causa di Beppe Marchetti in me un po’ più a lungo di altri. Manca uno scarto vero verso un qualcosa di totalmente universale e condivisibile. Come diceva Primo Levi nelle grandi tragedie si può distinguere tra i sommersi e i salvati: i primi senza parola non raccontano storia alcuna se non con il loro esserci stati, i secondi sono comunque dei privilegiati che sopravvivono con il senso di colpa. Ecco in fondo sulla scena accade questo, c’è un sommerso e c’è un salvato, il secondo, Filippo Michelangelo Ceredi, troppo addolorato dall’immagine di chi è scomparso e che si aggira e si affanna per far emergere l’immagine di chi ha deciso di non essere più.

Chiara Bersani

GOODNIGHT, PEEPING TOM di Chiara Bersani

Chiara Bersani si ispira a una leggenda. E dalla leggenda scaturisce il gesto erotico/politico della sua performance.

Lady Godiva cavalca nuda per le strade di Coventry e Tom il sarto sbircia dal un forellino nella persiana. E come chi osa guardare il sole troppo a lungo, il povero Tom, per sempre Peeping Tom, perde la vista. Cieco per aver voluto vedere.

Buona notte Tom, ora puoi guardare, senza tema di pericolo, affrontando il pericolo. Puoi riposare, Tom, non più guardone illecito, liberato nel tuo vedere puoi guardare Lady Godiva a tuo piacimento, che essa cavalchi un bianco destriero o un cavallo di ferro su ruote. Tutto ti è lecito al tuo voler guardare, non più oscuro scrutare, solo vedere ed esser visto. Nella piccola palestra della Scuola Elementare Pascucci di Santarcangelo cinque spettatori attendono nel lungo corridoio di potersi palesare come novelli Peeping Tom. È questo il pubblico: un guardone che scruta dal buio della sala i performer sulla scena. Guarda i loro corpi muoversi e agire/patire sulla scena del gran teatro del mondo. Guarda protetto dalla distanza. Scruta voglioso e invidioso, scava con gli occhi impunemente, e diviene cieco al vero vedere che è frutto di scambio di sguardi, di seduzioni reciproche, di occhiate fugaci. Eros cieco permette a Psyche di vedere finalmente, senza tema di anatema, di far danzare gli occhi suoi ridenti e fuggitivi sul corpo del desiderio e ricevere in cambio lo sguardo. E non è forse nello sguardo di Persefone, la pupilla greca, rapita da Ade, in quello sguardo fisso nel proprio rapitore, che sta il segreto di Eros nascosto tra i cavalli del cocchio del re dei morti, per intrufolarsi nel regno proibito, unico tra tutti gli dei a signoreggiare in ogni angolo del creato?

E così semplicemente, si entra in cinque nella palestra occupata dai quattro performers, e comincia un gioco di sguardi, quelli tanto amati da Casanova, e il semplice guardare si carica di significati erotici, politici, semplicemente esistenziali. É sfida, è seduzione, è esserci per l’altro e l’altro ricambiare. Il modo sta al singolo. Non c’è legge o trattato che insegna a guardare. Se lo fai in modo indecente sta a te, se lo fai carico d’amore, sta a te, se lo fai pudico o lubrico sta sempre a te. Come dice un adagio tibetano, ognuno è autore della propria miseria. Si può rintanarsi in un angolo a guardare senza voler partecipare, si può giocare con gli sguardi e bearsi di questo gioco semplice, fatto di silenzi, finalmente liberi dall’oppressione del dire.

In uno sguardo ci può esser più d’ogni dire, e nell’occhio umano c’è più deriva politica di ogni manifesto. L’occhio non sa mentire come la bocca, l’occhio è estraneo al mentire, non si può nascondere dietro un sorriso di circostanza. Se guardi accetti il dialogo, se sfuggi lo neghi e riveli di te più di quello che vorresti. MA si può anche offendere con uno sguardo, si può ferire ed essere feriti, si può accusare, si può denigrare, e si può amare infinitamente.

Un divino gioco è quello che sviluppa Chiara Bersani, novella Lady Godiva invita noi tutti Peeping Tom a non nasconderci dietro la persiana, ma a farci audaci, ad avere il coraggio di Persefone e scandagliare il rapitore che ci guarda con occhio rapace. Se si vuole si può addirittura guardarsi a due, nella scatola di legno che campeggia nell’angolo della palestra, si può fare un privé di sguardi. Si può accettare o no. In quell’ora che si passa con Chiara Bersani e i suoi performer, si sperimenta la croce e la delizia dello sguardo, si misura con l’occhio il corpo e le pulsioni che scatena, si può toccarsi, sfiorarsi, persino provare a scandalizzare, sedurre, provocare. E si può anche semplicemente stare, godersi il momento, fare niente del tutto, semplicemente vedere ed essere visti e provarne piacere.

Premio Scenario

PICCOLE CONSIDERAZIONI SUL PREMIO SCENARIO 2017

Appena conclusa l’edizione del trentennale di Premio Scenario, uscito accaldato dal teatro e con ancora nelle orecchie l’eco degli applausi per i vincitori, passeggiando per le stradine di Santarcangelo di Romagna mi si sono affacciate alla mente alcune considerazioni.

Innanzitutto i vincitori: Valentina Dal Mas con Da dove guardi il mondo? Scenario Infanzia, Shebbab Met Project con I Veryferici per il Premio scenario per Ustica, The Baby Walk con Un eschimese in Amazzonia e Barbara Berti con Bau#2 per il Premio Scenario 2017.

I lavori dei partecipanti a quest’edizione del Premio Scenario si sono distinte per un alto livello sia drammaturgico sia esecutivo/performativo. Lo testimoniano le molte menzioni di merito affiancate ai vincitori dei tre premi previsti (Scenario Infanzia, Scenario per Ustica e Premio Scenario), con un ex equo per il premio principale, per un totale di 8 su 15. E questa è senz’altro una buona notizia. Il proliferare delle menzioni nasce da una volontà della giuria di dar maggior luce possibile ai talenti emersi. Una decisione giusta, e benché una menzione sia solo una medaglia di latta, è pur sempre una medaglia.

Due vincitori su quattro provengono dalla danza (Valentina Dal Mas e Barbara Berti) e questo testimonia la vitalità di un’arte che negli ultimi anni sta sfornando giovani talenti. La danza, a mio avviso, ha un vantaggio: il corpo viene prima della parola, la ricerca sul corpo in movimento nello spazio e nel tempo precede la parola, il voler dire e significare, e questo rende i lavori più potenti, più specificatamente scenici. Il corpo che si muove dice senza asserire, senza proclamare, è canto della presenza, del corpo e del suo dislocarsi nello spazio. Il lavoro di Barbara Berti è un esempio palese. Se la parola affianca il movimento lo fa senza dire niente, avviluppandosi in un nulla fino a scomparire nel nulla e nel buio, dove solo il suono del corpo che si muove rende evidente che qualcosa sta accadendo sulla scena. E al suo riapparire c’è solo movimento, aggraziato e fluido, un movimento che non ha nulla da dire e lo sta dicendo e questa, parafrasando la celebre frase di John Cage, è tutta la poesia che gli serve. Nel lavoro di Valentina Dal Mas è il movimento che genera il processo che porta la bambina di nove anni che non sa scrivere, la bambina dai pezzi mancanti, a poter scrivere il proprio nome. I movimenti che lei preleva dai suoi amici, la precisione di Spigolo, la determinazione di Fischietto, la caoticità di Vortice diventano rette, curve, spirali che portano alla scrittura del nome, le lettere generate dal movimento, la parola nasce dall’agire e dall’imitare.

Un’altra piccola considerazione: il mondo esterno appare nello specifico di due grandi macro argomenti: la minorazione, intesa sia in senso fisico mentale, che in senso di genere sessuale, (Valentina Dal Mas Da dove guardi il mondo? e The Baby Walk Un eschimese in Amazzonia) e l’immigrazione, l’emarginazione sociale (i Veryferici, ma anche Abu sotto il mare di Pietro Piva, menzione speciale, e L’isola di Teatro dei Frammenti). Per il resto, a parte Ticina de il Teatro del baule di Napoli, che tratta il tema della morte in un lavoro per l’infanzia e vincitore di una menzione speciale, si preferisce l’intimità del sentire e mènage familiari da antico teatro borghese. E nel trattare tali temi si sceglie quasi sempre il tono leggero, ironico, il riso al pianto, il tono comico, quasi da stand up comedy, da teatro di varietà. E questo non è detto che sia un male. Lo riporto come dato: si preferisce la leggerezza allo schiaffo, il sorriso all’urto. Quello che invece un po’ mi preoccupa è la limitatezza dello sguardo, forse anche un po’ pilotato dai temi di call e concorsi che si accavallano nella vita della comunità teatrale italiana e europea. Non si parte più da un’esigenza intima personale, da un’urgenza insopprimibile, quanto da un’occasione per lavorare, per trovare spazio al proprio agire scenico. Ovviamente non voglio generalizzare, non tutti i casi sono uguali (per esempio The Baby Walk Un eschimese in Amazzonia dove il tema del genere sessuale è sicuramente urgenza personale, come per I Veryferici), il mio è solo un invito alla riflessione.

Per molti lavori, benché ben eseguiti e strutturati drammaturgicamente, e benché ovviamente ancora in work in progress (ricordo che alle finali si presentano solo venti minuti di un lavoro), si denota un deficit di pensiero fondante, di ragionamento sulle funzioni di un lavoro scenico dal vivo, sul perché si fa e perché è necessario farlo. Dai lavori presentati traspare un’urgenza di visibilità, di affermazione, un reclamo all’esistenza e alla considerazione sicuramente dovuto alle difficili, se non proibitive condizioni produttive e distributive, e questo comporta un tralasciare la riflessione sulla funzione del lavoro. Certo è che se affoghi, se tutto minaccia la tua sopravvivenza come artista, quello che importa è salvarsi, non il come salvarsi. Nonostante tutto è necessario tornare a riflettere su questi temi, a elaborare pensiero che investa la funzione delle live arts oggi, in questo contesto, in questo tempo.

Si perché la domanda che sorge è questa: che destino avranno i vincitori? Quelli delle passate edizioni l’hanno detto più volte: vincere è niente, il dopo è più difficile, dopo inizia la vera battaglia, e nel dopo c’è la cronica mancanza di un sistema produttivo e distributivo degno di questo nome. Se il Premio Scenario ha il merito di far emergere nuove generazioni di talenti (e nel passato ne sono stati scoperti di illustri come Babilonia Teatri o Emma Dante per fare due nomi), e di farli emergere dal basso (tra i soci, fondatori e sostenitori, mancano le grandi istituzioni teatrali, il Ministero poi ha abbandonato il progetto e questo è gravissimo), e se è vero che alcuni festival hanno il merito di dar visibilità ai vincitori, Santarcangelo su tutti, è vero anche che dopo c’è l’abisso dell’auto produzione e dell’auto distribuzione. I talenti non vanno solo indicati al pubblico, non basta al seme lo sbocciare dalla terra, è necessario per la sua vita e crescita, che sia costantemente innaffiato e bagnato dal sole e se questo sole si oscura la vita di questi giovani germogli rischia di dimostrarsi drammaticamente breve.

Premio Scenario in questi trentanni di attività ha molti meriti, e in un paese come questo dove tutto sembra degenerare verso un indecoroso menefreghismo, una dolorosissima mancanza di attenzione verso i valori culturali, la sua azione di resistenza è encomiabile. Purtroppo come più volte ribadito tale azione necessita di un sostegno, di un sistema sano o che provi almeno lo sforzo di diventarlo. E non è questa la situazione. Siamo lontani anni luce dal costituire un sistema cultura efficiente. Il talento e la sua emersione non bastano, perché la sua dispersione è il peccato più grave che si possa compiere.

Macbeth

MACBETH di G.Verdi regia di Emma Dante

Macbeth è una caduta nel più profondo degli abissi. Un franare precipitoso, senza pause, senza indugi, in accelerazione costante fino allo schianto. Così in Shakespeare, parimenti in Verdi. E per seguire il precipitare sia il Bardo che Verdi sacrificano la forma, diventano spicci, si corre all’omicidio, alla strage, alla caduta.

Macbeth è tragedia nerissima del potere, ché pien di misfatti è il calle della potenza. Tragedia perché il fato spinge Macbeth verso l’abisso, par quasi che non abbia scelta, eppur c’è sempre una scelta, ma Macbeth è cieco, così come la sposa sua crudele. Non vedono alternative. L’immaginazione loro li spinge in alto e a fondo, a immergersi in un fiume di sangue e delitto. E se Macbeth dubita, lei lo pungola e lo sfida e ogni paura si smaga e svanisce. Se tra i coniugi infernali in Shakespeare c’è un rapporto di simbiosi, per Verdi/Piave, è Lady Macbeth (incarnato dal soprano Anna Pirozzi in un’ottima interpretazione) colei che detiene il potere nella coppia. Macbeth è burattino nelle mani della sua Lady e del destino.

Nell’oscura notte di questa tragedia, dove solo le nebbie e le funeste brame dei potenti si agitano, dove il sonno pare proibito, terzo personaggio plurimo come sciame, sono le streghe, popolo a parte, paria del mondo civile, ma di esso motore e stimolo.

Mondo di istinti e desiderio, orribile, mostruoso e deforme, è colmo di fascino, misterioso e sensuale. Attrae Macbeth come tela di ragno, lasciandolo invischiato, sempre più impossibilitato a mosse libere, sempre più prossimo allo scacco matto e alla perdizione.

E la musica di Verdi coglie appieno questo oscillare e fremere di mondi adiacenti. Le arie non sono mai completamente bel canto, le marce da bel mondo civile si affiancano ai toni cupi e notturni. Effetti di contrasto, percussioni e trilli. Si toccano gli estremi, perché nulla di medio avviene in questa tragedia. Si beve il calice della violenza fino all’ultima goccia: si apre la scena nel sangue della battaglia, si chiude su Macbeth trafitto da mille lame. Sangue chiama sangue, si cade senza paracadute.

È un continuo oscillare anche nella regia di Emma Dante in questo allestimento andato in scena al Teatro Regio di Torino. A scene molto riuscite, seguono altre più meccaniche, farraginose, di movimento schematico.

Suggestiva la scena iniziale dove un telo ribollente di vita oscura rivela le streghe, moltiplicate in legione. Molto riuscita la marcia del primo atto, dove ballerine da carillon, un giullare, soldati da opera di pupi, conducono come in processione il re Duncano verso il suo fatal destino. Come se tutto fosse stordente fiera, una macabra burla. E così la scena successiva dove Macbeth si sdoppia, diventa duplice, un doppio generato dalla sua immaginazione prolettica ma ancora dubitosa. E così il delitto si moltiplica prima nella finzione e poi nella realtà. Si reitera fino al compimento.

La messinscena acquista toni religiosi quasi da deposizione cristica nel ritrovamento del cadavere del buon re Duncano anche se nel reiterarla si perde un poco di potenza.

Ottima la scena del sonnambulismo di Lady Macbeth, dove il sonno negato viene reso per contrasto da un proliferare di letti d’ospedale, in autonomo movimento, lenti ma inesorabili all’assedio dell’inferma regicida sotto una stellata di lumini, anch’essi multipli della candelina shakespiriana.

Meno riuscite le scene del sabba delle streghe, in un moltiplicarsi di parti osceni, quasi un deporre di uova di malefico sciame. E quel cumulo di neonati forse un po’ troppo sopra le righe e fuori dal seminato, sebbene simbolo di una reazione malvagia, quella che si scatena nel percorrere il sentiero del delitto. Anche il finale della foresta di Birnam in mossa contro il tiranno, fatta di pale di foglie di fico, come il movimento dei soldati in accerchiamento di Macbeth a spade sguainate. Troppo meccanica, in movimento forzato e schematico benché molto potente nella sua chiusa con decine di spade a confluire sul corpo del malvagio caduto.

Riuscita nonostante un certo addensamento claustrofobico la scena del banchetto, dove Macbeth in preda alle visioni del fantasma di Banco, si inerpica in una scala di troni che lo vedono prigioniero sul gradino più alto. Per scendere non può far altro che gettarsi nel vuoto. E quelle corone, quasi inferriata di prigione, fatte di lance, lo costringono sempre più detenuto dei suoi desideri.

Un Macbeth riuscito, potente ed espressivo, in cui la regia di Emma Dante conferisce, nonostante alcune forzature e piccoli difetti di movimento, a conferire un surplus di corpo alla possente visionarietà della musica verdiana.

metropolitan art

METROPOLITAN ART – REACTION di Stalker Teatro

Metropolitan art – Reaction è il nodo che risulta dall’incontro di multipli percorsi. Ciascun sentiero porta alle Officine Caos dove Stalker Teatro tira ciascun filo e rende evidente il nodo.

Da principio ci sono le opere d’arte contemporanea nella collezione del museo del Castello di Rivoli, e gli artisti che con il loro gesto, non più estetico ma filosofico, le hanno create e hanno parlato del loro mondo, del nostro mondo.

Poi ci sono i performer che, tramite una serie di workshop, hanno rielaborato quelle immagini per far sorgere altre immagini, questa volta in movimento, fatte di carne e sangue. Un gesto artistico generato da un segno precedente, immagini generate da immagini in un atto d’amore costituito da azione e reazione, gesto da gesto.

Infine il pubblico, che in un primo momento esperisce le opere al Castello di Rivoli e in seguito incontra le immagini di Reaction nella performance di Stalker Teatro.

Immagini viste, e quindi immaginate, e poi nuove immagini da quelle sorte e con le altre raffrontate. Un incontro che si fa caleidoscopio, dove ogni immagine si rifrange in un disegno composito, generato per reazione chimica per contatto e soluzione.

Ecco i nodi e i percorsi, sviluppati nel tempo e nello spazio, da pubblico, artisti e performer (ricordiamo che i partecipanti allo spettacolo avevano provenienze ed estrazioni diverse, dalle ragazze africane richiedenti asilo, come gli abitanti del quartiere delle Vallette, come artisti professionisti).

Reaction è quindi uno spettacolo che vive di questi percorsi che si innervano nella sua struttura. Il suo senso sarebbe molto ridotto se prima non si fossero esperite le opere di Cattelan, Paolini, AI Wei Wei, Cadere, Fabro, Steinbach, Boetti, De Maria, Pistoletto e altri. Ma anche le opere si nutrono della visione dello spettacolo e delle immagini sorte da questo lavoro di rifrazione. Si ripensa alle immagini e ai materiali, si fanno nuove associazioni, si scatenano nuove reazioni.

Pensiamo alla scena delle uova. Da una parte le uova in maiolica nell’opera di Steinbach, congelate nell’immagine dalla rigida fragilità del materiale, e dall’altra le uova che rotolano sulle bianche lenzuola, lanciate in aria, una cade, si rompe, e le rimanenti vengono lanciate verso il pubblico ma sono di plastica. Fragilità a confronto, la sorpresa che si rinnova, niente è scontato e l’esperienza si trasforma.

Pensiamo anche al quadro in cui il bastone sciamanico di Cadere, composto da anelli di colore, ricomposto in scena da performer e pubblico, nominando i colori, associando ricordi, facendo rivivere l’opera di Boetti, dove il colore diventa ricordo, diventa luogo. Tutto ricircola, diventa esperienza, non è rappresentazione, non è immagine che si mostra, non è rebus da risolvere, ma è arte che si associa alla vita come strumento di comprensione del reale.

Vorrei analizzare ancora due quadri per rendere ulteriormente evidente il percorso di sviluppo e di intreccio. Il primo quadro, dove le costrizioni delle opere di Cattelan (Charlie don’t surf e Novecento), ritornano nei performer legati alle sedie, vestiti di nero, con le maschere, tutti intrecciati tra loro con animali di peluche stretti nelle braccia. Gradualmente si liberano dalle maschere e dai legami mentre scende dall’alto una neve impossibile che rimanda alla fragilità e impermanenza dell’opera di Laura Favaretto, Solo se sei mago, composta di milioni di coriandoli bianchi pressati, compressi ma destinati a liberarsi, a sciogliere i legami.

E infine l’ultimo quadro dove il tempio costituito dall’enorme telo giallo, fatto di pezze diverse come il manto di un Arlecchino monocolore, realizzato dalle ragazze africane rifugiate, fa risuonare le opere di Olafur Eliasson Stanza per un colore (giallo appunto) e Frammenti di Ai Wei Wei, tempio costruito da frammenti di templi cinesi abbattuti.

Piccoli esempi in cui risulta evidente la reazione chimica tra opere e azioni. Ogni persona del pubblico si fa custode della propria reazione generata dal percorso e dall’incontro con le opere e le pratiche. Reaction è quindi il risultato di questo risuonare tra cose, azioni e persone, non potrebbe vivere senza. È decisamente frutto di un incontro possibile tra pubblico, teatro di ricerca e arte contemporanea, uscendo dallo schemino didattico o rappresentativo.

Metropolitan art – Reaction è anche frutto di una sinergia istituzioni, enti e artisti, per una volta non forzato e futile. Si è proposto un modo per esperire le arti in maniera vitale, partecipativa, fruttuosa. L’arte diventa relazione tra persone e territori, genera esperienze, genera ricordi, non è qualcosa di ostico e lontano da capire e risolvere, ma riassume la sua funzione di prisma con cui vedere il mondo con occhi diversi.

Euripides Laskaridis

INTERVISTA A EURIPIDES LASKARIDIS

Euripides Laskaridis è un artista di grande spessore e di straordinaria ricchezza visiva e immaginativa. I suoi lavori hanno la rara capacità di non lasciare mai indifferente il pubblico. Le immagini che crea nei suoi spettacoli colpiscono ed emozionano, fanno riflettere, lasciano il segno sulla retina e nell’animo. E questo senza bisogno di parola, solo corpo, suono, movimento. Con grande generosità e disponibilità Euripides Laskaridis mi ha concesso questa intervista, breve seppur densa, fatta via mail in inglese. Ho deciso di non tradurla per non rischiare, nel passaggio da una lingua a un’altra, di interpretare, o fraintendere quanto scritto da Euripides Laskaridis, che ringrazio vivamente per aver impreziosito questo spazio virtuale con la sua presenza.

Per chi volesse approfondire (www.euripides.info)

Enrico Pastore: What is Titans for you?

Euripides Laskaridis: TITANS is just a title for me. My generation was brought up hand in hand with TV and the TV series we would watch back then had these one or two word titles that seemed to encapsulate so much more than what was actually going on in reality. It is in this manner that I come up with the titles of my works. Another way of stressing how precise meaning and categorizing is overestimated in our society. I fight for a more open world where TITANS doens’t only mean the mythical creatures but also each and every one of us at the same time.

EP: How you create a performance? What’s the starting point for the drammaturgy?

EL: My starting point is always a wish. A wish to bring a creature or two into life. This time it was a tall skinny creature with a big forehead and a bit pregnant. In Relic I wanted to embody a voluptuous creature that felt like a pigeon. Then there is a wish to create a world of materials so I look for objects and textures here and there. The light, the sounds, the music have to be all handy during the creating process from day one. The drammaturgy comes much later. Only a few ideas in my head show a direction if the piece will be domestic or celestial, if it is going to be bright or dark but then as the characters come to life and small scenes are created the performance is being revealed to me in time and the dramaturgy will keep on being revealed to me the more I perform the works.

EP: Which is/are the technic you use to create and to assemble the images?

EL: There is no technic and no specific method. I just need a space to work in with materials in hand, the lights and the sounds. Then the team starts to create. Each one of us from their post. The images are created out of the use of specific objects and materials with the light and the set elements. If an image is ticklishness to me I am more inclined to play with it for many rehearsals and see if it can stick to be part of the show or not.

EP: It’s correct my view upon the similarity between your work and the visual structure of the greek sacred icons? or is it my personal suggestion ?

EL: There is one scene that is absolutely inspired by the Byzantine style on sacred icons, I have admired them since a kid.

EP: Why in your performance there’re always deformed bodies?

EL: Transformation for me is not a purpose in itself. It just frees my imagination. When a non-existing creature is manifested on stage then I can see all humanity in him/her.

EP: Why you don’t use any speech or word? Images are more communicative than any kind of speech?

EL: I am not convinced yet that words are the best conveier of meaning. I use a language as I don’t believe in mute spectacles as well but the communication of feelings and sentiments is left upon the events that take place on stage. It is the performers that have to make things work, it is them that have to energize the space and through them the meaning may be shared to the audience. But never one closed meaning. An open meaning is the goal. An open poem – without actual words.

EP: Your work, in my point of view, is beyond any genres, is not really dance, is not really theatre, is not really performance art, but in the same time is all of this. To create something new and powerful we had to live in border between the known languages?

EL: I was never looking to create something new. I was just looking to create a language I would wish to see in the theatre and I kept not seeing. It is true that I hate categorization and I am happy my work seems to all the more be recognized as uncategorized. I like open forms, I think they are much more organic and true to life.

EP: Which is/are the performance functions in your point of view?

EL: Energizing the space with any means you have and taking risks to fail at every step of the way.

photograph by Julian-Mommert

so little time

SO LITTLE TIME di Rabin Mroué

La storia di Dib al Asmar è incredibile e surreale. Eppur vera. Lina Majdalanie la racconta in So little time con grazia e precisione, senza aggiungere orpelli, elencando i fatti in tutta la loro stupefacente evoluzione.

Siamo nel 1968 quando avviene il primo scambio di prigionieri tra Libano e Israele, tra questi anche il corpo del giovane studente Dib al Asmar morto in combattimento mentre cercava di infiltrarsi. La stampa, il popolo di ogni confessione religiosa, la nazione tutta inneggiò a Dib al Asmar, viene perfino eretta una statua a sua memoria, e intitolata una piazza. La famiglia orgogliosa raccoglie tutti i ritagli stampa nel ricordo del giovane figlio. Ma avviene un fatto incredibile. Dopo qualche tempo, in un secondo scambio di prigionieri ecco che torna Dib al Asmar: vivo! Ma come? E adesso? Dib al Asmar si scopre primo martire vivente, orgoglioso del suo primato visita la sua statua, ma insiste che si scriva sulla lapide: martire vivente. Incontra Arafat, viene ricevuto dalle più alte cariche. Ma comincia a domandarsi: devo tornare a combattere? Ora che sono martire, non devo completare quanto ho cominciato? E soprattutto: chi è che è sepolto nella mia bara?

E così si riesuma il cadavere, che nessuno vuole e così per far dispetto a Israele viene sepolto nel cimitero ebraico. I tempi però cambiano. Scoppia la guerra civile in Libano e la statua viene fatta saltare. Dib al Asmar la fa restaurare a sue spese, la porta all’università che la usa come modello per le lezioni di scultura. Dib al Asmar prende le copie fatte dagli studenti e le distribuisce per Beirut. Viene multato e incarcerato. Da eroe a delinquente.

Ma aver perso la sua identità e l’immagine eretta a sua memoria gli fanno perdere la ragione: Dib al Asmar diventa statua di se stesso, va in giro per la città, si dipinge di bianco e si mette in posa. Ma i tempi cambiano ancora, e con essi la personalità di Dib al Asmar e il suo rapporto con l’immagine e la statua. Si sposa, si affilia a Hezbollah, va a combattere in Siria dove difende le statue del padre di Assad quando incomincia la guerra civile, viene preso per una spia sionista, sparisce dopo un bombardamento dell’Isis. La storia di Dib al Asmar è piena di colpi di scena, incredibile nel suo sviluppo, una storia che racchiude tutte le contraddizioni e i conflitti del Medio Oriente.

Lina Majdalanie la racconta in arabo e francese, con pacata ironia e storica precisione. Non aggiunge niente, si limita a dire e raccontare i fatti. E la sua narrazione si intreccia a una serie di semplici azioni: inserire sue vecchie fotografie in una vasca di acidi dove le immagini sbiadiscono poco a poco fino a scomparire del tuttp; appendere le immagini a uno stendino; riflettere la propria immagine su questo mosaico di fotografie sbiancate; scomparire nel buio. É così che ogni storia nasce e scompare, le immagini nella memoria e nella realtà sbiadiscono, assumono altri significati, infine vengono dimenticate, spariscono nel buio lasciando spazio ad altre storie.

So little time è costituito da un semplice processo che si affianca alla narrazione, e le due procedure si intrecciano come trama e ordito di un disegno. Entrambe sono precise, semplice esecuzione, semplice narrazione. Non c’è indulgenza verso la rappresentazione, quello che interessa è quanto la storia di Dib al Asmar racconti del mondo e non solo del Medio Oriente, quanto la sua immagine diventi storia delle immagini, diventi parte di un processo che riguarda tutti: ogni storia, ogni racconto si modifica nostro malgrado fino a svanire nel nulla per quanto la nostra fama possa essere o divenire fulgida.

So little time è una delicata ma esigente azione filosofica, che pone domande sul mondo e su di noi, e lo fa senza l’arroganza di fornire risposte pret-a-porter.

Acqua di colonia

ACQUA DI COLONIA INTERVISTA A ELVIRA FROSINI E DANIELE TIMPANO

Enrico Pastore: Come è sorta in voi l’esigenza di occuparvi della sventurata avventura coloniale italiana?

Elvira Frosini: È iniziata un paio di anni fa perché è un argomento tanto sconosciuto. La parola giusta è rimosso. Ci occupiamo spesso di storia ma sempre in funzione del presente, di come la storia ha determinato quello che stiamo vivendo, e ci siamo resi conto di come questo argomento fosse sconosciuto. Anche noi stessi ne sapevamo poco. E abbiamo capito che era un argomento che in qualche modo era stato volutamente messo da parte e non portato alla luce di una coscienza nazionale. Ci siamo subito messi a studiarlo e dal primo momento lo abbiamo messo in relazione con il presente, con queste migrazioni, che non sono direttamente e meccanicamente un prodotto del colonialismo, ma sono comunque strettamente ad esso legate. Abbiamo quindi riscontrato che la posizione scomoda in cui ci troviamo tutti quanti nell’affrontare l’altro che arriva, è in che posizione mettersi e cosa pensare, soprattutto in Italia, e questo deriva dal fatto che non abbiamo quasi coscienza di cosa è avvenuto prima di noi. Della nostra storia e della loro storia. Fondamentale è stato anche l’incontro con Igiaba Scego e la lettura del suo Libro Roma negata che ci ha aperto gli occhi sull’argomento. Il libro contiene anche numerosi documenti fotografici di Rino Bianchi su Roma e su tutte le tracce nell’urbanistica romana che riguardano l’epoca coloniale sia di epoca fascista, quella più conosciuta, sia di quella dell’epoca precedente. Ci siamo resi conto quindi che noi tutti viviamo immersi in questi segni ma non li vediamo perché non li conosciamo. Siamo partiti quindi dall’assunto: nessuno conosce niente. Si studia pochissimo e male a scuola, non ci si interroga veramente sulle conseguenze, insomma è un argomento, ripeto, rimosso. Così abbiamo incominciato a leggere, a studiare per un paio d’anni. Studio non solo storico, ma comprensivo del panorama culturale.

EP: Acqua di colonia infatti è uno spettacolo che utilizza una enorme quantità di materiali provenienti da ambiti culturali diversi: dall’avanspettacolo, al fumetto, alla ricerca storica, una commistione di cultura alta e bassa. Come avete proceduto alla selezione e al montaggio di questo materiale?

EF: Questa è una bella domanda. Noi abbiamo accumulato, come hai già detto, una quantità enorme di materiale di tutti i tipi, dalla barzelletta al libro di storia, dalla pubblicità al romanzo, al fumetto, alla canzone. Poi ci siamo resi conto che il materiale era sterminato e che era necessaria una decantazione e, in seguito, una selezione dei materiali. Tu hai visto abbiamo usato canzoni come Sanzionami questo, Adua liberata, Topolino in Abissinia, ma ce n’erano molte altre. Abbiamo selezionato quelle che più rispondevano al nostro discorso, che rendevano la direzione verso cui stavamo andando. Dobbiamo dire che lo spettacolo ha due intenzioni principali: la prima è fare una sorta di riassunto storico, che abbiamo voluto tenere, perché abbiamo constatato che nessuno ne sa niente, una parte quindi leggermente didattica benché fatta in una certa maniera; dall’altra c’era l’intenzione di sfatare la vulgata comune che il colonialismo è stato solo fascista, e invece ha attraversato tutta la nostra storia dall’unità d’Italia. Il colonialismo italiano non è stato solo Mussolini e l’Etiopia ma qualcosa che ci è appartenuto da subito. Volevamo quindi rendere chiaro da subito questo punto. Tripoli, bel sol d’amore del 1911 è importante, l’abbiamo messa per questo motivo. Marchiamo una differenza di percezione oggi tra questa canzone e Faccetta nera, quest’ultima innominabile perché fascista, Tripoli no. Tripoli la possono cantare e suonare tutti, anche la banda dei Bersaglieri, come canzone patriottica quando invece è una canzone colonialista d’aggressione. Il rimosso dentro il rimosso. I materiali quindi sono venuti a galla piano piano, abbiamo ridotto, tagliato, condensato. Abbiamo tenuto quei materiali che si avvicinavano al discorso che volevamo fare, da Topolino in Abissinia al discorso di Montanelli fino a Pasolini, avvicinandoci gradualmente all’oggi. Perché nel nostro spettacolo c’è sì il colonialismo passato ma anche la domanda: oggi cosa siamo? Perché quel pensiero eurocentrico, occidentale centrico di superiorità, di paternalismo è insito in noi ancora oggi in maniera più o meno inconsapevole.

EP: In che modo è avvenuta la costruzione scenica di Acqua di colonia?

EF: le immagini nascevano durante la scrittura. Come hai visto la prima parte è più un evocare, un’evocazione, se vuoi, anche postdrammatica, – faremo questo, non sappiamo niente e così via -, e non a caso questa prima parte è chiamata zibaldino africano, in cui appunto evochiamo cose che c’entrano e magari anche cose che apparentemente non c’entrano come la torta africana dall’artista svedese di origine africana Makode Aj Linde. In questa prima parte è come se noi facessimo un disegno, uno schizzo a matita, e poi nella seconda parte lo coloriamo, lo rendiamo vivo, lo incarniamo. Mettiamo in scena alcune delle cose che abbiamo evocato nella prima. La messa in scena della seconda è avvenuta durante la scrittura, poi è chiaro che nelle prove si ritocca, si taglia, si cambia. Anche il testo stesso perché quando lo incarni nascono altre esigenze non pensate durante la scrittura. Ci sono anche molte scene che abbiamo tagliato, tipo quella della stele di Axum che parlava diventando personaggio. Avremmo potuto fare anche Audrey Hepburn e Bob Marley che evochiamo solo nella prima parte. La seconda parte quindi è un’incarnazione, una realizzazione nel vero senso della parola, della prima parte. La facciamo accadere e scivoliamo dentro questi piccoli personaggi. Queste evocazioni diventano noi e noi diventiamo loro. In questo senso abbiamo voluto fare intendere che tutti, noi compresi, noi per primi, siamo dentro il problema. Acqua di colonia non è uno spettacolo che ha una tesi da dimostrare. Spero che emerga che c’è tutta una complessità che non è facilmente districabile, che anche nel politically correct c’è una buona dose di paternalismo. Non è quindi tutto bianco e nero, semplice semplice. Noi stessi per primi siamo in questa complessità.

EP: In Acqua di colonia ho apprezzato tantissimo la vostra abilità di mettere il pubblico di fronte ai propri pregiudizi, per esempio quando li invitate a cantare Faccetta nera, che tutti conoscono almeno per le prime due rime, ma che nessuno osa cantare; o quando mettete a raffronto il numero Angeli negri di Tognazzi/Angus con la replica Pasolini/Davoli. É senz’altro una modalità scomoda e difficile, ma anche utilissima perché toglie i veli alle nostre bugie consolatorie. Come siete giunti a mettere in atto questa modalità?

EF: In realtà questa modalità fa proprio parte del nostro percorso e del nostro linguaggio. Anche negli spettacoli precedenti utilizziamo questo metodo che fa parte del nostro modo di scrivere e pensare il teatro. Un modo in cui sia l’attore che lo scrittore non sono depositari di una verità da rivelare allo spettatore, semmai sono in una posizione pari allo spettatore incarnando tutta una serie di contraddizioni. Anche negli spettacoli precedenti come Aldo Morto e Zombitudine ci sono sempre queste piccole deflagrazioni di posizioni sia metodologiche che attoriche. Ci mettiamo in posizioni talmente diverse che non è chiaro se siamo noi che parliamo o il personaggio, e questo obbliga lo spettatore a porsi la domanda: ma io cosa penso? Pasolini per esempio che appare in Acqua di colonia. Pasolini è un grande intellettuale del nostro tempo, un intellettuale che è stato sottoposto a un processo di santificazione, quasi di mercificazione, ecco anche in lui, anche nel nostro pensiero migliore è presente la contraddizione. Le radici di queste posizioni paternalistiche sono presenti anche nei migliori intellettuali, quindi stiamoci attenti, guardiamole bene, le usiamo anche noi quando parliamo o quando pensiamo. Se non ci rendiamo conto di questo è una cosa, ma se cominciamo a vederla allora magari si apre uno spiraglio verso qualcosa di diverso.

EP: Qual è secondo voi la funzione dell’evento scenico nel nostro contesto culturale e sociale? Dove e in che modo acquista importanza incontrare il pubblico?

EF: Questa è una domanda da un milione di dollari. Una domanda difficilissima. Noi ce la poniamo tutti i giorni e non è che abbiamo una risposta. Abbiamo la nostra risposta. Secondo noi la funzione non è tanto quella di sovvertire o cambiare il reale, anche perché oggi il teatro è talmente una nicchia che non riguarda masse di spettatori tali da poter operare un cambiamento nella società. Parliamo di piccole folle. Però questo incontro dal vivo con le persone è, secondo noi, una delle poche cose rimaste che accade realmente. Per noi il teatro è mettersi nella stessa condizione dello spettatore, che per noi è sempre presente. Non lavoriamo senza l’idea di uno spettatore che ti sta ascoltando. Il teatro è fare accadere delle cose che ci riguardano. Se c’è ancora una funzione è proprio questa: far accadere delle cose, ma cose che ci riguardano. Qualcosa che ci parla, che dialoga, che ci fa venire in mente un desiderio o un dubbio. Sono d’accordo con te: la domanda sulla funzione bisogna tornare a porsela, soprattutto in questo momento di depauperamento della cultura. Oggi sentendo la notizia di Armando Punzo che abbandona il Festival di Volterra ho pensato: verso cosa stiamo andando? Fra qualche anno che panorama avremo intorno a noi?

Daniele Timpano: volevo aggiungere una cosa. In questa Italia dove la fruizione culturale e dell’informazione appare sempre più o calata dall’alto, o delegata all’individuo che in maniera sempre più frammentaria, individuale, secondo la propria curiosità, ricostruisce delle informazioni, ecco in mezzo a queste due polarità, mi pare che il teatro sia uno dei pochissimi posti dove rimane in vita quello che un tempo si chiamava diritto di associazione. Parlo proprio delle prime costituzioni e carte dei diritti di fine Settecento. Ecco il teatro secondo me è depositario di queste modalità.

Titans

TITANS di Euripides Laskaridis

Titans. Gli dei primordiali e selvaggi. Senza legge, senza regole. Eccessivi, abnormi, osceni, fuori scala, condannati al Tartaro dall’azione regolatrice di Zeus. Scellerati, brutali, delittuosi, estremamente ribelli, ma capaci di eccessi d’amore come quelli di Prometeo, i Titani sono i Vinti, sono gli dei senza culto, mitici e arcaici, ma nell’essere vicini all’Arké essi partecipano della natura originaria delle cose. Nei loro eccessi vi è qualcosa di profondamente contemporaneo, atomi e molecole primitive che si sviluppano nella nostra linea temporale. Questo furore creativo e distruttivo, gli scontri tettonici tra masse opposte, questa dirompente energia vitale che continuiamo a seppellire nel profondo del Tartaro, nel buio del boschetto delle nostre fantasie e perversioni, imprigionata dalla catene potenti delle leggi di Zeus.

In Titans di Euripides Laskaridis queste forze camminano latenti sulla scena, eppur presenti nella loro ingombrante deformità e mostruosità non priva di grazia. Corpi deformi e oscuri, sessualmente non definiti in continua oscillazione tipica delle nature ambigue, costruzione e distruzione, controllo e sfrenato eccesso. Non c’è niente di definito, non siamo nel manicheo separare bene e male, luce e ombra. È continua metamorfosi che oscilla tra estremi e partecipa di tutte le nature. Ogni tanto un aspetto diventa enormemente prepotente, si sfoga, fuoriesce come fuga di gas, per tornare ad essere riassorbito, dopo aver tirato la volata ad altro che prontamente eccede e sostituisce.

In Titans siamo nel caos magmatico di una terra non ancora formata, nessun paesaggio è stabile, nessuna forma di vita è sicura di una duratura evoluzione. Tutto cambia e permuta, ma in ogni variazione di questo straordinario caleidoscopio, appare un frammento di noi, della nostra vita, delle forze pulsanti che la attraversano e che tentiamo di relegare alle catene nel buio delle profondità.

Titans è anche un trionfo della scena e delle sue immense possibilità espressive. L’azione che si sviluppa nello spazio è portatrice di suono e di luce, come nelle sante icone di Grecia. La luce non si posa sull’azione, è quest’ultima a scaturire dal movimento, dall’operare di corpi e oggetti. Promana dall’evento che si genera abnorme, misterioso, non privo di grazia e passione. E così il suono, mai articolato in parola di senso compiuto, sempre balbettio, vocalizzo infantile, senza senso eppur partecipe di ogni senso. Ogni azione genera suono, che diventa voce in questa sinfonia dell’essere in movimento.

Non serve cercare di interpretare le azioni che si svolgono. Dar loro un senso sarebbe privarle di altri innumerevoli significati. Ognuno può nuotare nel mare di significazioni che esplodono dalla scena. Bisogna rifuggire dalla tentazione del simbolico che cerca a tutti i costi di essere svelato, rivelato. Non c’è identità, non c’è punto di vista, tutto si scuote, tutto diviene, tutto è possibile. Quella donna/uomo deforme, eppur sensuale, che sulla scena agisce,- insieme all’ombra oscura che lavora di soppiatto quasi invisibile eppur visibile -, porta luce e confusione, non ha identità alcuna, è molteplice, è legione.

Euripides Laskaridis è artista potente e sopraffino, dotato della rara, se non rarissima, abilità di esser padrone di ogni potenziale linguaggio scenico che sfrutta in ogni registro possibile. Sacro e profano, rituale e prosaico, divino e infero. Non conosce paura di affrontare il grottesco, il deforme, l’abnorme, l’osceno, donando a questi registri connotazioni di sublime grazia ed eleganze equivoche. Altissima la qualità del suo lavoro che sfugge a ogni inquadramento e a ogni qualificazione. Non è teatro, non è danza, non è performance, ma partecipa di ogni natura. È genere al di là dei generi e questo agire nel limine del definito e definibile, è azione politica di grande impatto. In questi giorni in cui noi tutti abbiamo come l’ossessione di essere qualcuno o qualcosa, di appartenere a questa o quella tribù sessuale, politica, lavorativa, sociale, questo non essere definibili, questo sfuggire all’identificazione, ci indica una strada verso una natura che pur ci apparteneva: una natura equivoca e polivalente, un essere plurimo e non diviso, un essere pieno e includente.

photograph-by-Julian-Mommert

Acqua di colonia

ACQUA DI COLONIA di Frosini e Timpano

Ogni nazione costruisce un’immagine di sé lontana dalla realtà, un’immagine in cui vengono rimossi con perizia tutti gli elementi ombrosi che possano sporcarla o appannarla. Un’immagine falsa e rassicurante che lava la coscienza e serve alla propaganda. Per l’Italia questa immagine è costituita della frase: italiani brava gente! In Acqua di colonia del duo Frosini e Timpano si smonta con graffiante e impietosa ironia questa falsa immagine: nelle colonie dell’Africa Orientale l’Italia ha commesso i suoi peggiori crimini di guerra. Il massacro di Sciar al Sciatt, lo sterminio e deportazione delle truppe del Muktar, l’uso dell’iprite e del fosgene in Etiopia, il massacro di Debra Libanas, i bombardamenti degli ospedali della croce Rossa. L’elenco sarebbe lungo e non ha senso riportarlo qui, basta un piccolo accenno però a far intendere quanto poco realistico sia il motto: Italiani brava gente.

Ce lo siamo costruiti poco a poco, soprattutto per distinguerci dai cattivi nazisti tedeschi nostri alleati. Noi non le abbiamo mica fatte le porcate, eravamo i buoni dalla parte sbagliata. Non è così. Appena riconquista la libertà dall’occupazione Austroungarica ci siamo lanciati nell’avventura coloniale. Il passaggio da oppressi a oppressori si consuma in appena 8 anni nel 1869 con l’acquisto dall’armatore Rubattino della baia di Assab e si conclude nel 1960 quando a Mogadiscio viene ammainata la bandiera italiana e la Somalia torna a essere unita. Quasi cento anni di occupazione coloniale eppure nessuno, o quasi, lo ricorda.

Acqua di colonia di Frosini e Timpano mette in luce anche il secondo aspetto insito nel motto: la rimozione del ricordo di essere stati colonialisti. In fondo non siamo mica la Francia o l’Inghilterra. Eppure lo siamo stati, abbiamo aggredito popoli che nulla avevano fatto contro di noi, li abbiamo occupati e sfruttati, abbiamo compiuto atti criminali che ci siamo sempre rifiutati di far giudicare, compiuto stupri, massacri, deportato popolazioni, gasato i nemici. Documento sconcertante è Topolino in abissinia (per chi volesse o non credesse ecco il link su Youtube https://www.youtube.com/watch?v=n8xsJMJG1Ho ), dove il volontario Topolino sbarca in Abissinia con il gas nella borraccia e il mitragliatore sulle spalle, pronto a uccidere negri e inviarne la pelle ai suoi che stanno a casa.

La scuola non tratta se non di sfuggita la questione, dalla storia patria i fatti son rimossi, arriviamo addirittura a intitolare a Graziani, macellaio degli arabi, un mausoleo ad Affile nel 2012! Eppure le nostre vie, le nostre strade conservano la memoria: a Roma via dell’Ambaradan, piazza dei 500 (quelli uccisi dagli etiopi, perché le abbiamo anche prese in Etiopia), quartiere Africano a Roma, e qui a Torino piazza Massaua, piazza Bengasi. Ma chi sa dove si trovano questi posti? E siamo al terzo punto della questione: siamo ignoranti della nostra storia, e ignoranti della geografia della nostra storia. E questa ignoranza ci porta al quarto e ultimo punto: oggi, quando in parlamento si parla di Ius soli, quando si tratta di decidere se il figlio di un immigrato nato in Italia debba o meno essere considerato italiano, quando sulle nostre coste arrivano i barconi carichi di immigrati, ci ritroviamo a essere molto lontani dal concetto di: italiani brava gente. Siamo ignoranti e razzisti, e ci nascondiamo dietro a mille misere scuse: c’è la crisi, non ce n’è per noi italiani figurati per questi e così via.

Questi in sunto i punti toccati da Acqua di Colonia di Frosini e Timpano utilizzando ogni genere di materiali dalla cultura alta a quella bassa, dal fumetto (il già citato Topolino in Abissinia), alla rivista (il numero di varietà di Tognazzi/Angus Angeli negri che costituisce il tormentone dello spettacolo), Faccetta nera e l’Aida, Buti e Di Stefano. Si inizia ricordandoci che Adua o Massaua non sappiamo neanche dove siano, ma che ce frega poi? Si domanda. È roba vecchia, perché dovremmo sentirci in colpa? Perché siamo colpevoli noi adesso di quello che è stato fatto allora? Però in fondo affiora la verità: siamo colpevoli perché rimuoviamo, perché reiteriamo gli atteggiamenti.

E così il duo Frosini e Timpano si chiede come raccontarci gli italiani in Africa Orientale e si incomincia ad immaginare la scena: potremmo riempire il palco di animali di peluche, giraffe, rinoceronti, tutti morti e noi entriamo in scena con un bel controluce giallo e le maschere antigas con le orecchie di Topolino, prendiamo ‘sti peluche, li mettiamo nel sacco nero, e ce ne andiamo, il tutto mentre Di Stefano canta Addio, sogni di gloria. Questa sarà l’immagine che chiude lo spettacolo, ma per il momento continua la ridda di soluzioni immaginarie su come raccontare l’Africa degli italiani. E ci si accorge che sulla scena c’è anche una donna di colore, seduta su uno sgabellino, muta presenza a ricordare il rimosso.

E dopo tanto immaginare si incomincia utilizzando un sapiente montaggio delle attrazioni e si costruisce una narrazione che demolisce pezzo a pezzo la menzogna, le difese culturali, i miti intellettualistici: e per far questo compaiono in scena Ninetto Davoli e Pasolini, quasi a replicare il tormentone di Angeli Negri; e Stanlio e Ollio, Indro Montanelli che racconta della sua sposa somala di dodici anni. Spassosissimo il momento in cui frasi di triviale razzismo si scopre essere state pronunciare sia dal barista sotto casa, o dalla cugina, ma anche da Kant, Hegel e Benedetto Croce, perché il razzismo è condiviso, non risparmia nessuno.

Acqua di colonia di Frosini e Timpano è un portento ironico che con l’arma del dileggio stralcia il velo pietoso delle menzogne patrie su una delle pagine più nere della nostra storia. Ma l’ironia, come nel bellissimo Train de vie, arriva giusto a un passo dal traguardo. Il finale dei due Topolino con la maschera antigas in controluce giallo mentre Di Stefano canta Addio, sogni di gloria, è atroce e terribile, e ci ricorda che per quanto ci possiamo ridere sopra abbiamo commesso crimini orribili. Non siamo brava gente, ricordiamolo sempre.