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Cubo Teatro

RESISTENZE ARTISTICHE: INTERVISTA A GIROLAMO LUCANIA

Con questa intervista a Girolamo Lucania, direttore del Cubo Teatro di Torino, si conclude il ciclo #ResistenzeArtistiche. In sedici puntate tra Piemonte, Lombardia, Liguria, Emilia Romagna, Sardegna, Umbria, Lazio, Campania e Basilicata, abbiamo provato a raccogliere testimonianze e resistenze nel tempo di pandemia.

Il ciclo di interviste dal titolo Resistenze artistiche si è prefisso l’obbiettivo di delineare, almeno parzialmente, quanto avvenuto nei due anni di pandemia in luoghi artistici situati nelle periferie delle grandi città o nelle piccole cittadine di provincia. Questi sono spazi di azione artistica in cui il rapporto con il territorio e la comunità è stretto e imprescindibile. Tale relazione nel biennio pandemico è stata più volte interrotta in maniera brusca, improvvisa e, per lo meno la prima volta, impensata. Tutti si sono trovati impreparati a quanto è successo in questo periodo e le incertezze sull’entità degli aiuti o nelle normative istituzionali di accesso e conduzione delle attività non hanno certo giovato a una serena laboriosità creativa. Nonostante il continuo richiamo a una normalità riconquistata, ciò che stiamo tutti vivendo, artisti, operatori e pubblico è quanto più distante dalla prassi pre-covid. È giusto quindi porsi una serie di questioni in cui, partendo dall’esperienza passata, provare ad affrontare e immaginare un futuro

Ci siamo chiesti: come si è sopravvissuti al distanziamento e alle chiusure? Cosa è rimasto al netto di ciò che si è perduto? Quali strategie si sono attuate per poter tenere vivo il rapporto e la comunicazione con i propri fruitori? Come è stato possibile creare delle opere in queste condizioni? Come lo Stato e la politica hanno inciso, se lo hanno fatto, sulle chance di sopravvivenza? Quali esperienze si sono tratte da quest’esperienza? Queste sono le domande che abbiamo posto ad alcuni artisti ed operatori dedicati a svolgere la propria attività sul confine dell’impero, non al suo centro, al servizio di un pubblico distante dai grandi luoghi di cultura e per questo bisognoso perché abbandonato.

Gli Orsi Panda di Matej Visniec Regia di Girolamo Lucania al Cubo Teatro di Torino

Puoi raccontarci brevemente come è stato abitato lo spazio (o attività artistica) che conduci in questi ultimi due anni a seguito del susseguirsi di lockdown, zone rosse e distanziamenti?

Sono stati due anni molto intensi e altalenanti. Siamo passati da una prima fase di shock in cui si è provato a fare creazioni online, anche internazionali. Poi una prima flebile riapertura estiva. Poi di nuovo la chiusura e un andirivieni di aperture e nuove chiusure, contingentamenti, mascherine, etc. Tutto ciò non ha consentito a nessuno un vero e proprio progetto, una direzione univoca. Siamo stati travolti da situazioni di cui non avevamo il controllo. Molto spesso, anzi oserei dire sempre, le azioni anche nobili che sono state effettuate da compagini e spazi si sono perse nel vuoto laddove in seguito e improvvisamente si è dovuti ritornare sui vecchi – traballanti – passi. Quando consentito abbiamo fatto ricerca. Il biennio è servito senz’altro a riflettere sull’esistente, a pensare al necessario. Di sicuro molte realtà hanno fatto lo stesso e hanno trovato la propria risposta, soprattutto in relazione al pubblico e ai cittadini, che sono il vero senso del nostro lavoro. C’è da valutare se istituzioni e finanziatori la pensano o la penseranno allo stesso modo, insomma se si daranno le stesse risposte.

Verso quali direzioni si è puntata la tua ricerca e la tua attività a seguito di questo lungo periodo pandemico che non accenna a scomparire dal nostro orizzonte?

Ovviamente c’è stato un susseguirsi di riflessioni. Non del tutto scontate, ma che in qualche modo hanno portato – almeno personalmente – a ritornare un po’ alle origini del percorso di vita che ha portato la creazione del nostro progetto artistico. Le riflessioni hanno prodotto 2 pensieri, che poi sono stati messi in sviluppo. Dal punto di vista della programmazione, a una maggiore valutazione e qualificazione di progetti legati al territorio, ovvero di artisti del territorio. Questo perché il nostro sistema cittadino propone delle fragilità notevoli nella ricerca, nella formazione e nella qualificazione di compagnie torinesi, che faticano a trovare spazio. Un percorso invece che mira all’ospitalità e alla cura di progetti del territorio può consentire una maggiore capacità di esportazione, e una migliore capacità attrattiva di pubblico, oltre che – ovviamente – una più sostenibile copertura economica. È chiaro ed evidente, insomma, che una compagnia torinese può sostenere più repliche rispetto a una pari compagnia esterna. Ciò ovviamente non vuol dire rinunciare a ospitare compagnie fuori Piemonte – anzi! – bensì concentrarsi maggiormente sulla qualità dell’importazione, che diviene così necessaria, e fare ricerca sui prodotti territoriali. La seconda riflessione ha portato a una attenzione maggiore al pubblico limitrofo, al rapporto con il territorio e con i cittadini del territorio, nel pensiero profondo che definisce la funzione di uno spazio come fondamento per il benessere di una civiltà fragile. Uno spazio, e le sue produzioni, devono volgere lo sguardo, tendere la mano, ascoltare chi abita il territorio. Per questo abbiamo intrapreso una strada che avevamo già iniziato tempo addietro, per poi interromperla: la costruzione di opere ed eventi per la gente e con la gente del territorio.

Le istituzioni come sono intervenute nell’aiutare la vostra attività in questo stato di anormalità? Non parlo solo di fondi elargiti, anche se ovviamente le economie sono una parte fondamentale, ma anche di vicinanza, comprensione, soluzioni e compromessi che abbiano in qualche modo aiutato a passare la nottata.

C’è stato un notevole scambio di idee e opinioni. A volte ascoltate, altre volte ahimé, no. È un peccato, perché spesso le decisioni prese dai sostenitori non hanno rispecchiato le esigenze delle realtà (compagnie o spazi), anzi a volte non hanno rispecchiato la natura delle stesse. Si è forse persa l’occasione di dialogare fra le parti, ascoltarsi, capirsi. Nessuno come gli operatori, i gestori di spazi, gli artisti, i tecnici, gli attori, nessuno come loro può sapere quali sono le esigenze reali del nostro mestiere. Si è però avviato un percorso di dialogo, con alcune realtà che hanno provato ad aprire un discorso. Noi come Fertili Terreni abbiamo ad esempio fatto un convegno dove abbiamo provato a mettere insieme tutte le parti del sistema, con grande partecipazione. Speriamo che questa, come altre iniziative, possano contribuire a un fertile e fervido dialogo. Insomma, sono ottimista.

Cubo Teatro interno platea

Quali sono le strategie messe in atto al fine di mantenere un legame con il tuo pubblico?

Dialogare con la gente del territorio. Questa è stata la prima azione. Dopodiché, costruire una base insieme ad altre realtà del territorio per fare fronte comune alla grande diffidenza e noncuranza che purtroppo caratterizza lo spettacolo dal vivo negli spazi piccoli. Bisogna ritornare all’essenza della narrazione.

Quali sono le tue aspettative per il futuro anche a seguito della pubblicazione del nuovo decreto per il triennio 2022-2024 dove non si contemplano più stati di eccezionalità legate alla pandemia?

Chi è già robusto diventerà ancora più robusto. Attenersi ai criteri sarà difficile per molti, soprattutto per quanto riguarda la distribuzione. Sembra che la pandemia sia terminata, mentre invece a quanto pare è lungi dall’essere finita e le difficoltà saranno ancora maggiori. Cosa ci si prospetta fra un mese? E fra tre mesi? Con questa precarietà è molto difficile riuscire a programmare e poi a mantenere ciò che si è prospettato.

Posto che il decreto è già uscito e quindi determinerà nel bene e nel male la vita della scena italiana per i prossimi anni, secondo la tua opinione, cosa non si è fatto, o non si è potuto fare, in questi due anni per mettere le basi per un futuro diverso per il teatro italiano?

Eliminare il parametro quantitativo come principale parametro. Pare evidente a tutto il comparto che esiste un problema di iper-produttività a fronte di una carenza di spazi. Dove vanno tutte le produzioni richieste? Quanta vita avranno? In questo modo non si riuscirà a dare sicurezza e stabilità a un comparto fragilissimo, e di conseguenza non sarà possibile creare operazioni d’arte utili, necessarie, posso dire? Belle. Manca il tempo, sussiste la paura. Bisognerebbe incentivare la qualità del tempo impiegato per produrre e creare: tempo di creazione. E stabilità: un’opera deve poter replicare stabilmente nel proprio territorio. Incentivare le produzioni territoriali, e le stanzialità territoriali. Incentivare il repertorio: un artista deve produrre un’opera quando sente di doverlo fare, e non perché deve. E se un’opera costruita nel tempo/spazio corretto è meritevole, deve poter vivere finché può.

Parsec Teatro

LA STORIA DEGLI ORSI PANDA DI MATEI VISNIEC E PARSEC TEATRO

Dal 12 al 16 gennaio nell’ambito della rassegna Fertili Terreni va in scena al Cubo Teatro Storia degli orsi panda raccontata da un sassofonista che ha un’amichetta a Francoforte un testo di Matei Visniec prodotto da Parsec Teatro per la regia di Girolamo Lucania.

Un ragazzo si sveglia e scopre una sconosciuta nel suo letto. Non ricorda assolutamente dove e come l’abbia incontrata. Accende una sigaretta e prova a ricostruire quanto accaduto la sera precedente. Non affiora nessun ricordo. Nemmeno se ha fatto l’amore con quella misteriosa ragazza nuda. Quando questa si sveglia prova a chiederle il nome: “Solange, Elisabeth, o come desideri”. Lei ha fretta, ha un appuntamento importante. Prima di uscire gli rivela qualche indizio che non svela ma complica l’enigma: l’ha conquistata suonando il sassofono e recitando Baudelaire. Il ragazzo è ancora più confuso: Baudelaire? Io? Ma sei sicura? E prova a chiederle un altro appuntamento, o almeno il numero di telefono. Lei è impaziente, non può fermarsi ma promette di tornare stringendo con lui un accordo: nove notti per conoscersi meglio. Da ultimo un avvertimento: attento potresti perdere tutto.

Inizia così un viaggio tra il buio e la notte, intervallato da messaggi in segreteria di amici e colleghi di lavoro. Il ragazzo non risponderà mai, né mai uscirà di casa. Ha promesso di restare sempre ad aspettarla. E nel chiuso di quelle quattro mura inizia un cammino verso mete sempre più lontane. Ogni notte la giovane donna rispetta il suo patto, e a ogni suo ritorno lo spazio e il tempo mutano, si allargano, si spalancano verso dimensioni insospettate. Chi sia quella giovane ragazza indecifrabile diventa chiaro con il finale. I suoi molti nomi nascondono un’identità molto più complessa e terrificante di quanto ci sarebbe aspettati. Quel volto giovane, innocente e sorridente è il volto che si vorrebbe non vedere mai ma che aspetta ciascuno alla fine del viaggio.

Matei Visniac, autore rumeno naturalizzato francese, racconta un viaggio che è per tutti destino, quell’incontro fatale che ciascuno cerca di dimenticare. Il linguaggio è semplice, evocativo, quasi di piccola fiaba che disegna il volo di una coscienza verso una nuova vita indefinita, eterea, inspiegabile eppur così reale nella sua ineluttabilità.

La messinscena di Parsec Teatro rispetta l’essenzialità del testo di Visniac, nato radiodramma, ma senza rinunciare al poetico. La stanza del giovane sembra un piccolo bosco, un giardino incantato e un poco disordinato. Una corona di piccoli alberi spogli, le foglie cadute a terra ai bordi del letto e del tavolino. Pochi oggetti d’uso quotidiano, un piatto, una bottiglia, dei bicchieri. Due riquadri a destra e sinistra a metà scena accolgono delle proiezioni, che gradatamente esorbitano dalle cornici riversandosi sul fondale.

La regia di Girolamo Lucania crea uno spazio scenico dove l’immagine completa il testo rafforzando la sua leggera e ironica surrealtà. La recitazione dei due attori Jacopo Crovella e Giulia Mazzarino. ha una naturalezza candida ed essenziale, seppur limitata quasi sempre a un medesimo tactus. Una messinscena trapuntata di piccoli stupori e meraviglie, quasi da storia di bimbi, dove il volto minaccioso della nera signora diventa quello di ingenua e giocosa fanciulla, felice di accompagnarci nell’ultimo viaggio.

Storia degli orsi panda raccontata da un sassofonista che ha un’amichetta a Francoforte è al suo debutto e come ogni opera alla sua prima presenta qualche difetto emendabile nelle repliche successive. Un finale troppo lungo e stirato, che vuol troppo dire, pochi cambi di ritmo nella recitazione così come un quasi costante colore emotivo delle singole scene. Nel complesso questa produzione di Cubo Teatro insieme a Parsec Teatro è gradevole nella sua delicatezza. Con pochi semplici elementi, senza voler strafare, riesce a dar corpo alla poesia evocata dal testo, emozionando con lievi tocchi, accarezzando la nostra inquietudine senza ammansirla, facendoci riflettere sulle ultime cose con sguardo sereno.

Sotterraneo

SUL PROMONTORIO ESTREMO DEI SECOLI: BE NORMAL di SOTTERRANEO

Ogni volta che mi trovo di fronte a uno spettacolo di Sotterraneo resto sempre meravigliato dall’ironica virulenza con cui aggrediscono la contemporaneità. Be normal, visto al Cubo Teatro di Torino il 18 dicembre nell’ambito della rassegna Fertili Terreni, graffia e incide, scuote e percuote domandando con soave leggerezza allo spettatore: è questo il mondo che vuoi?

La questione che vien posta ha uno e mille volti: quel demone che ci spinge verso il nostro destino, il daimon di Socrate risvegliato da Hillman, va ucciso perché non fruttifero ma solamente latore di passioni improduttive e che hanno l’unico scopo di farci sentire centrati e realizzati? Questo assassinio rituale è imposto da chi è venuto prima è ha codificato le leggi della produttività a ogni costo e della monetizzazione dei sogni e dei destini. Tali codici vanno rispettati? O andrebbero abbattuti? Uccidere il demone e vivere una vita normale, dove con tale aggettivo si intende accettata e riconosciuta, oppure schiantarsi seguendo la passione? Un terzo elemento pare non esserci. Nessuna conciliazione degli opposti. Si deve scegliere in quale campo stare. Come nei romanzi di Fenoglio: la neutralità non è un’opzione.

La piccola bara bianca, che avanza sulle note di Sound of Silence, è l’agghiacciante corteo funebre di più generazioni che in questo paese sono state sacrificate alle colpe di chi li ha precedute, ma è anche un monito: il silenzio uccide, così come l’ignavia crea quel corteo immaginario che segue, quello degli «sciaurati, che mai non fur vivi».

Lo spazio scenico è per Sotterraneo il luogo di interrogazione non di rappresentazione. Si gioca con il mondo facendolo a pezzi con le immagini, si cerca di capire come funziona per rimontarlo in altro modo. Ci si affanna su quel palco che si apre oltre le sue possibilità, nel dietro le quinte, nel retropalco, fuori le mura. Dilaga. Ciò che è dentro la scatola fuoriesce. È dappertutto.

Il linguaggio scenico è frenetico montaggio delle attrazioni. Bisogna dimostrare di fare, di lavorare. Bisogna riempire tutti gli spazi di tempo, che non si pensi giammai che l’artista si riposi. Ossessione del pieno in una gara senza vincitori a chi lavora di più, a chi produce di più. Così si crea un raccapricciante giardino delle delizie, dove in un’immaginaria giornata scandita dal procedere delle ore come nella serie 24, si passa da un colloquio presso un cartello mafioso, alla ragazza che nutre lo scheletro della madre bulimica benché defunta, al tirassegno per abbattere i vecchi (tra la regina Elisabetta, Hugh Heffner, Paperon de’ Paperoni, il vero nemico è Mario Rossi, pensionato generico).

Tutto appare falsamente lieve, in accattivanti toni neo-pop, quasi scenette da moderno avanspettacolo, eppure ogni immagine è scudiscio che dovrebbe farci trasalire di dolore. Dopotutto si mette in scena un catastrofico fallimento, quello di tutto e di tutti, senza speranza alcuna. Aleggia un rumore di schianto tra le risate. Si precipita nel buonumore senza accorgersi del suolo che si avvicina a tutta velocità.

Sotterraneo ci bombarda di oggetti e situazioni, quasi una saltar di palo in frasca, non lascia mai tregua, serrata mitraglia di informazioni, persino di grafici e statistiche sull’invecchiamento della popolazione per far emergere un affresco di una gioventù soffocata dal decrepito, dal trapassato che non vuol lasciar quartiere, quel paese di podagra che si vorrebbe morto dai tempi di Marinetti.

Be normal di Sotterraneo è spettacolo del 2013 ma pone domande che restano inevase. In quella bara bianca le generazioni si accumulano e niente si fa per impedirne il seppellimento anzitempo. Siamo una società votata al Götterdämmerung. Si aspira all’apocalisse. Si vuole consumare tutto e subito e del futuro chissenefrega.

Anche quando apparentemente si loda la gioventù, la si insignisce di premi e nomination in verità li si sbeffeggia. Non si creano le condizione ai giovani germogli per diventare pianta solida. Nel teatro per esempio, non sono gli Ubu e nemmeno la pletora di premi e premietti che fertilizzano la crescita, ma lo sarebbero il miglioramento delle condizioni produttive, una distribuzione efficiente in Italia e all’estero, la pluralità di fonti di finanziamento accessibili, la libertà di fare ricerca senza dover produrre ogni sei mesi un lavoro nuovo che diventa vecchio già a metà stagione.

Se si vuole veramente che il daimon dei giovani cresca florido, bisogna dar loro spazio, luce e tempo per svilupparsi. E invece bulimici li si consuma, li si osanna per gettarli nel fuoco appena diventano over 35. Sotterraneo con Be normal ci pongono delle domande urgenti: sarebbe il caso di cominciare a dare delle risposte prima che non ci sia nessuno a trasportar quella bara bianca.

Ph: @Emiliano Pona

(a+b)3 di Muta Imago

FORMULE MATEMATICHE DELL’ASSENZA: (a+b)3 di Muta Imago

Il 17 e 18 novembre al Cubo Teatro nell’ambito della rassegna Fertili Terreni è andato in scena (a+b)3 di Muta Imago produzione del 2007 con Claudia Sorace e Riccardo Fazi, fondatori del gruppo romano.

(a+b)3 è il cubo di un binomio, due elementi elevati alla terza potenza. In scena una coppia è racchiusa in un cubo di legno e stoffa. Vediamo i loro corpi, le loro ombre, le immagini riflesse. Una scatola che diventa wunderkammer, una stanza delle meraviglie, quasi attrazione di antica fiera, lanterna magica o primo cinema.

Una coppia la cui vita muta allo scoppio di una guerra. Lui parte, lei resta. Non tornerà più mai. Una lettera lo attesta in linguaggio burocratico. Non resta che l’immagine sfocata di un ricordo, un cammeo ritagliato da un’ambra su un muro. Lei resta e cerca di trattenere un fantasma che sfugge, un ricordo che si fa più labile ogni secondo di più.

Muta Imago dichiarano di confrontarsi con il mito di Orfeo e Euridice in quel discendere nel regno dei morti che la guerra porta con sé, nell’impossibile ricongiungimento di chi muore e chi sopravvive. La presenza/assenza di ciò che non è più, di un vuoto colmato dai simulacri, larve svuotate di ciò che era carne e sangue.

Un’altra suggestione viene evocata dall’azione. Il racconto di Plinio il Vecchio che racconta dell’origine della pittura quando una giovane donna, alla partenza dell’amato ne dipinge la figura sul muro ricavata dai confini dell’ombra.

Il binomio di una coppia elevato al cubo dunque, due immagini che si moltiplicano, si richiamano, rimandano una all’altra, si riflettono facendone scaturire nuove combinazioni impreviste. Tutto avviene semplicemente, con poche semplici azioni, figurine di carta proiettate su uno schermo, parvenze di corpi tremuli si disegnano sui teli e svaniscono come fumo nell’aria. Poche parole poetiche si innervano sull’azione, che è più performativa che rappresentativa, insieme a una fitta e calcolata partitura sonora.

Durante la visione di (a+b)3 di Muta Imago bussava prepotente alla memoria il ricordo del mito della caverna di Platone. L’occhio dell’osservatore puntato sulle pareti a rimirar il gioco di ombre di una realtà che sta alle spalle e altrove. Il pubblico riunito si trovava a fissare un ennesimo schermo, un altro filtro che non misura ma distorce. La condanna della nostra civiltà che guarda il mondo mai con occhi limpidi ma sempre attraverso un media e il velo non è mai troppo sottile né “il trapassar dentro leggiero”. L’azione non è mai se stessa ma rimanda sempre a qualcos’altro, una sorta di cornucopia di generazioni equivoche, che sfuggono al controllo e creano una realtà alternativa. Una proliferazione quasi cancerosa di significati che rimandano ad altri significati. Il performativo che ridiventa rappresentativo, ingabbiato nel simbolo e nella citazione, in quel cubo che si fa prigione.

In (a+b)3 di Muta Imago non si sfugge mai all’imperio dell’immagine. Per quanti schermi vengano strappati via, ne risulta sempre un altro a frapporsi e per quanto si cerchi di afferrare, qualcosa sempre sfugge e la platea si trova a condividere la condizione di quelle figurine proiettate sulla scena.

To be or not to be Roger Bernat

L’ABISSO DELL’IDENTITÀ: TO BE OR NOT TO BE ROGER BERNAT di Fanny&Alexander

La stagione di Fertili Terreni si è aperta al Cubo Teatro con To be or not to be Roger Bernat di Fanny&Alexander, frutto di una programmazione condivisa da Acti Teatri Indipendenti, Cubo Teatro, Tedacà e Il Mulino di Amleto. Dal mese ottobre fino a quello di maggio le quattro formazioni propongono una ricca e variegata stagione teatrale, sparsa sul territorio del Comune di Torino in tre luoghi teatrali (Bellarte, Cubo Teatro e l’Ex Cimitero di San Pietro in Vincoli) a cavallo tra le Circoscrizioni 4 e 7.

Lo spettacolo To be or not to be Roger Bernat di Fanny&Alexander, appare a prima vista come niente più che una conferenza su Amleto, ma in realtà si dimostra una trappola/dispositivo in grado di catturare performer e pubblico in una dinamica funzionale a interrogarsi sull’essenza dell’identità e, più in generale, sul ruolo del teatro stesso. Il conferenziere, il bravo Marco Cavalcoli, è e non è Roger Bernat, il drammaturgo catalano autore di alcuni tra i più interessanti dispositivi di teatro immersivo o rappresentativo come Pendiente de voto, Domini Públic e Numax-Fagor-plus.

L’oratore ci propone una riflessione su Amleto sfuggente già nell’idioma. Inglese, francese, spagnolo e italiano si alternano creando un continuo spaesamento nell’ascoltatore che non può accomodarsi in un ascolto semplice e passivo.

La figura di Amleto conduce chi parla e chi ascolta in un abisso profondo, un luogo in cui tutto è già avvenuto o è già stato deciso da altri. Non resta che interpretare una parte predisposta per noi. Questo processo è chiaro fin da subito quando il relatore si dispone a doppiare una puntata de I Simpson, parodia della celebre tragedia. L’immagine sullo schermo è già data, non resta che dargli voce.

Il pubblico viene presto chiamato all’azione. Una ragazza deve impersonare la regina ed entrando in scena le viene posta in capo una corona e fatta sedere dietro una scrivania, dove le viene richiesto di interagire con un dispositivo che potrà diffondere, a suo piacimento, nell’orecchio del conferenziere che si presta a un nuovo mirabolante doppiaggio nelle varie versioni vocali di Amleto, da Mel Gibson e Kenneth Branagh a Carmelo Bene.

Ma chi è veramente agito? L’attore, la ragazza o tutti e due? Obbedire alle regole del gioco non è forse di per sé stesso prova del fatto che la drammaturgia delle nostre azioni, così come quelle di Amleto, sono stabilite altrove? E ribellarsi è possibile oppure anche questa possibilità è già prevista? Il gioco prosegue e di cui non si conoscono le regole che si svelano solo partecipando. Si passa allo stadio successivo. Quattro persone del pubblico vengono chiamate sulla scena a dar vita alla pantomima in cui si rappresenta l’assassinio del re, quella che Amleto chiede agli attori di inscenare di fronte alla madre e al patrigno per scoprire se veramente essi si sono resi colpevoli dell’assassinio del padre.

Chi siamo noi, pubblico, adesso? Siamo noi gli assassini? Dobbiamo confessare la nostra colpevolezza? Il dispositivo messo in atto si espande a macchia d’olio, deborda dal palco alla platea coinvolgendo ogni cosa nel suo meccanismo. Le regole ci stanno imprigionando tutti nella loro ragnatela onnipervasiva. Quale scelta ci resta seppur ce ne resta una da compiere?

Roger Bernat scrive: «il prezzo che dovete pagare per agire sarà quello di far parte di un dispositivo che nelle prime battute vi sembrerà estraneo. Sarete immersi in un meccanismo di cui non conoscete gli obbiettivi e temerete la servitù. Dovrete obbedire o cospirare oppure obbedire cospirando. In ogni caso, dovrete pagare con il vostro corpo e impegnarvi».

Se durante il periodo barocco si parlava di Gran Teatro del Mondo, dove la scena rappresentava la vita come Teatro, il dispositivo di Fanny&Alexander ci avviluppa in un meccanismo spettacolare che fagocita, come pianta carnivora, ogni aspetto del reale. La spettacolarità ingorda ci trascina nelle sue reti e nello stesso tempo ci permea di dubbio. Quale il fine delle nostre azioni? Quale la sostanza delle nostre identità? Siamo noi ad agire? Siamo tutti attori che recitano un copione?

To be or not to be Roger Bernat di Fanny&Alexander si conclude con il conferenziere, avatar di Roger Bernat, che discorre con la testa, copia e ritratto di Roger Bernat, diventato a sua volta il povero Yorick. Le immagini e le identità si moltiplicano, ognuna fantasma di qualcos’altro che sfugge. In un’epoca in cui ciascuno moltiplica gli avatar di se stesso, creando immagini tutte ugualmente insincere, al teatro non resta che porre in dubbio la loro consistenza. Al luogo deputato alla rappresentazione di una realtà fittizia spetta dunque il compito di essere motore del disvelamento? La maschera è l’arma che sbugiarda l’inconsistenza della rappresentazione da noi stessi generata? Non siamo altro che tanti Amleto sospesi tra il dubbio e l’azione? Troveremo mai una soluzione soddisfacente? Forse è bene porsi la questione e cercare, se si può, una risposta.

Ph: Enrico Fedrigoli