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Festen. Il gioco della verità

FESTEN: VERITÀ E COMUNITÀ, RICERCA E POLITICA

Da quando i teatri hanno riaperto ho voluto cercare l’occasione giusta per ritornare in sala. Volevo uno spettacolo che mi risvegliasse il desiderio del teatro e riportasse a galla gli alti valori di quest’arte millenaria sopiti nel lungo intermezzo d’assenza e che nessuno streaming o zoom poteva in alcun modo impersonare se non nella mancanza e nell’inadeguatezza.

Festen. Il gioco della verità messo in scena da Il Mulino di Amleto al Teatro Astra di Torino, prima versione teatrale italiana del capolavoro cinematografico di Thomas Vinterberg, vincitore della Palma d’oro a Cannes nel 1998, mi sembrava l’occasione giusta per molti motivi ben rappresentati dalle parole chiave comprese nel titolo in testa a queste riflessioni.

La verità in primis. Veritas per i latini rimandava a una conformità di un’asserzione rispetto al reale oggettivo. Il termine aveva, etimologicamente parlando, anche una certa parentela con la fede, consanguineità rimasta nella vera nuziale (pensiamo anche alla religione cattolica dove si dice: Dio è verità). Per i greci d’altra parte, si parlava di Aletheia, ossia del non dimenticato, di un venire a galla attraverso uno svelamento, un apparire da un nascondiglio. Aletheia è velata ma sotto gli occhi di tutti, solo un’azione energica, coraggiosa, persino crudele, è capace di togliere il velo e farla apparire. Aletheia è appannaggio di Dike, dea della giustizia, perché ciò che rivela ci conduce lontano dalle false opinioni e dall’ignoranza. È dunque un’azione legata alla conoscenza, perciò è fluida, non granitica, mutevole secondo le circostanze e il contesto. Il teatro può essere una forma di conoscenza, laddove si allontana dallo spettacolino, per divenire dunque una sorta di prassi filosofica volta a far emergere ciò che di irrisolto resta nel nostro vivere, qui e ora.

Per dire la verità, intesa come Aletheia, bisogna percorrere strade tortuose. Per fare emergere ciò che è nascosto bisogna nascondersi a propria volta, usando la maschera, farsi parlare dalle voci, farsi attraversare dalle cose. Questo è il gioco della verità messo in atto da Il Mulino di Amleto: la festa a cui assistiamo, la vicenda di cui ci troviamo a essere complici (e vedremo in che modo), è la macchina di svelamento, il mezzo attraverso cui emerge il nascosto. Ulteriore strumento di emersione è il gioco tra ciò che avviene dal vivo e l’immagine filmica, in unico piano sequenza girato dagli stessi attori, proiettato sul telo trasparente che forma la quarta parete. Si può scegliere cosa guardare: la rappresentazione o la finzione, entrambe realtà parziali, frammenti di uno specchio da dover ricostruire ognuno a suo modo, e così scoprire il gioco di incastri, scambi e trucchi messi in atto davanti a noi per darci l’impressione della festa. Qui non siamo di fronte a un’ennesima applicazione della tanto sbandierata multidisciplinarietà, ma di un vero e proprio montaggio delle attrazioni in cui ogni linguaggio possiede una sua linea di significanza che si contrappunta con le altre a formarne uno più complesso da cui emergono i temi principali.

Da questo intreccio di forme diventa palese che il pretesto della vicenda, ciò che avviene tra i personaggi, non riguarda tanto e non solo l’istituzione famiglia, quanto piuttosto la lotta generazionale, l’oppressione dei padri sui figli, il liberarsi dei debiti ereditati, dalle catene imposte che negano una libera costruzione di un futuro diverso. La maschera e il montaggio delle attrazioni insieme rivelano un problema politico, soprattutto in questo paese, dove tutti abbiamo ricevuto in dote un fardello di cliché, debiti (pubblici e privati), automatismi e cattive abitudini da cui è molto difficile, non solo liberarsi, ma addirittura guardarle senza impallidire e distogliere lo sguardo.

In questo gioco di maschere e di scomodi svelamenti, una parte è affidata al pubblico. Ci scivoliamo dentro quasi senza accorgersene. Sembra un gioco per innescare la narrazione, una delle tante e vuote forme di coinvolgimento del pubblico, qualcosa per farlo partecipare all’opera. Ci viene fatto scegliere quale copione interpretare, se quello verde o quello giallo. E la festa comincia. Solo alla fine capiamo perché quando nel finale ci viene riproposto il meccanismo: scegliere la lettera gialla o quella verde. Da quella lettera si scopre il verminaio e noi pubblico, altro non eravamo che gli ospiti della festa, quegli invitati che di fronte agli scandali snocciolati davanti ai nostri occhi abbiamo taciuto, osservando interessati e incuriositi, ma senza intervenire. Come in Five easy pieces di Milo Rau dove nel terzo frammento ci troviamo tutti a essere Dutroux, anche in Festen tutti partecipiamo, con il nostro semplice osservare taciti, al tentativo di insabbiamento della verità. L’atto di svelamento avviene sul palcoscenico ma senza la nostra attiva partecipazione. Noi siamo i complici. Abbiamo visto ma taciuto continuando a partecipare da ospiti alla festa di compleanno. Questa è l’azione politica messa in atto da Il Mulino di Amleto: svelare la complicità di noi tutti nell’ignorare ciò che avviene sotto i nostri occhi, e di ciò farci prendere coscienza.

Art needs time

Il processo di svelamento mediante il dispositivo di rappresentazione è frutto di un lungo processo di ricerca che ha impegnato Il Mulino di Amleto per almeno due anni, processo di cui chi scrive è stato in parte testimone partecipando alle sessioni di lavoro del progetto Art needs time messo in atto dalla compagnia torinese durante il 2019 e bruscamente interrotto dallo scoppio della pandemia nel febbraio del 2020, quando proprio durante una sessione di lavoro fu annunciata la prima chiusura dei teatri. Durante quei periodi di intenso lavorio svincolato dalla necessità produttiva (un vero miracolo di questi tempi, soprattutto perché autofinanziato dalla compagnia stessa con estrema generosità) i materiali sono stati attraversati in molti modi: dal Manifesto Dogma 95, alla favole (Hansel e Gretel attraversa e si intreccia con Festen), e poi il Manifesto di Gent, Gli spettri e Un nemico del popolo di Ibsen. Un lungo lavoro con gli attori, i drammaturghi, la regia. Un processo reso possibile dalla grande coesione di un gruppo che sta crescendo insieme da anni condividendo l’evoluzione creativa sia del linguaggio registico, che delle scrittura e del lavoro dell’attore su se stesso, sulle tecniche e sui materiali.

Con troppa fretta in questi anni si è archiviata la modalità di creazione condivisa delle comunità teatrali, relegando il fenomeno a un momento storico concluso da cui non potevano maturare altri frutti. Eppure oggi si sente la mancanza di tale crescita comune, di coesione, discussione, lotta con la materia e con se stessi affrontata insieme in tutte le sue pericolose e tremende vicissitudini. Questa è la vera forza de Il Mulino di Amleto: l’essere un gruppo eterogeneo, unito, aperto alla sperimentazione e al confronto, con uno sguardo ampio e fiducioso verso il migliore teatro italiano ma soprattutto europeo. Questa forma comunitaria di agire, questa bottega artigiana abitata da molti, permette l’emergere della comunità proprio nel suo essere inclusiva anche del pubblico senza scomodare azioni forzate di coinvolgimento (avveniva anche nello splendido Platonov). È la forza dell’opera che ci permette, come pubblico, di essere parte in causa, di essere interpellati a viva forza e di essere quasi costretti, seppur gentilmente, a dire la nostra, a esprimerci. Ecco un’applicazione viva, non copiata, ma ispirata da quella che Milo Rau chiama Interpellation: il chiamare in causa il pubblico, scuotendolo, impegnandolo a dar conto delle proprie scelte e opinioni.

Ecco quindi le quattro parole che formano il titolo: verità, comunità, ricerca e politica intrecciate nella pratica di un gruppo che si impone sul panorama nazionale per il rigore con cui riafferma le funzioni più alte dell’azione teatrale: prassi filosofica, forma di conoscenza, luogo di confronto, farmaco delle ferite che ci attraversano come società.

Fin qui ho parlato de Il Mulino di Amleto come unita compatta, ma questo corpo unico e fortemente unito ha diverse anime che è giusto ricordare: a partire da Marco Lorenzi, uno dei registi di maggior spessore in questi anni, affiancato da Lorenzo De Iacovo alla scrittura e dalla dramaturg Anne Hirth, e quindi gli attori Roberta Calia, Yuri D’agostino, Elio D’Alessandro, Barbara Mazzi, Raffaele Musella, Angelo Tronca, a cui, in questo ultimo lavoro si affiancano Roberta Lanave, Danilo Nigrelli e Irene Valdi.

Giunti alla fine qualcuno potrebbe obiettare che in questa recensione vi sono molte riflessioni ma pochi riferimenti alla storia. Avete ragione. La storia non è importante. È il pretesto per mettere in piedi un atto di conoscenza. Se si è interessati alle storie bisogna rivolgersi verso altri lidi, cercare l’intrattenimento, laddove tutto si basa sul plot. Il teatro, quando è grande teatro, è pensiero in atto, un ragionamento fatto d’azione, parole, movimento. È presa di conoscenza del mondo in cui si vive, ognuno dal suo punto di vista, sempre diverso nel tempo e nello spazio.

FESTEN. IL GIOCO DELLA VERITÀ

DI THOMAS VINTERBERG, MOGENS RUKOV & BO HR. HANSEN


ADATTAMENTO PER IL TEATRO DI DAVID ELDRIDGE


PRIMA PRODUZIONE MARLA RUBIN PRODUCTIONS LTD, A LONDRA


PER GENTILE CONCESSIONE DI NORDISKA APS, COPENHAGEN

VERSIONE ITALIANA E ADATTAMENTO DI LORENZO DE IACOVO E MARCO LORENZI

CON DANILO NIGRELLI, IRENE IVALDI E (IN ORDINE ALFABETICO) ROBERTA CALIA,
YURI D’AGOSTINO, ELIO D’ALESSANDRO, ROBERTA LANAVE, BARBARA MAZZI,
RAFFAELE MUSELLA, ANGELO TRONCA

REGIA MARCO LORENZI
ASSISTENTE ALLA REGIA NOEMI GRASSO
DRAMATURG ANNE HIRTH
VISUAL CONCEPT E VIDEO ELEONORA DIANA
COSTUMI ALESSIO ROSATI
SOUND DESIGNER GIORGIO TEDESCO
LUCI LINK-BOY (ELEONORA DIANA & GIORGIO TEDESCO)
CONSULENTE MUSICALE E VOCAL COACH BRUNO DE FRANCESCHI
PRODUZIONE TPE – TEATRO PIEMONTE EUROPA, ELSINOR CENTRO DI PRODUZIONE TEATRALE, TEATRO STABILE DEL FRIULI VENEZIA GIULIA, SOLARES FONDAZIONE DELLE ARTI
IN COLLABORAZIONE CON IL MULINO DI AMLETO

DEBUTTO 31 MAGGIO 2021 – TEATRO ASTRA, TORINO
PRIMA ASSOLUTA ITALIANA

DURATA 110 MIN

The Repetition

Milo Rau e la rappresentazione del reale: The Repetition Histoire(s) du Theatre(i) a RomaEuropa Festival

Milo Rau torna in Italia a RomaEuropa Festival con la sua nuova creazione The Repetition Histoire(s) du Theatre(i) in scena al Teatro Vascello in prima nazionale dal 9 all’11 novembre. RomaEuropa ha presentato anche The Congo Tribunal, già in programma nella rassegna di cinema curata da Massimiliano Maltoni al Consolato di Svizzera a Venezia nello scorso mese di marzo.

Prima di affrontare un’analisi di The Repetition è necessaria una premessa: difficile, se non impossibile, analizzare un’opera di tale complessità in uno scritto breve. Questa creazione meriterebbe un saggio approfondito che non solo cerchi di comprenderne le intenzioni, ma approfondisca anche le modalità di costruzione della drammaturgia, il lavoro con gli attori e infine metta in connessione quest’ultima opera con le precedenti al fine di comprendere l’evoluzione del pensiero di Milo Rau.

The Repetition andrebbe, in primo luogo, messo in relazione con il Gent Manifesto (https://www.ntgent.be/en/manifest), in cui il regista svizzero non solo dichiara le sue intenzioni rispetto alla direzione artistica dell’NT Gent ma anche nei riguardi della concezione della produzione e distribuzione del teatro tout court.

Tale compito è a dir poco impossibile nella forma articolo e di conseguenza cercheremo di delineare dei vettori attraverso cui mappare, anche se in modo incompleto, la sua attuale ricerca.

Il primo passo ci conduce necessariamente al Gent Manifesto, datato 1 maggio 2018, in cui Milo Rau delinea una modalità di azione sia come direttore artistico che come regista, ma cerca anche di stabilire anche una modalità produttiva e distributiva. Cerca innanzitutto di superare l’opposizione teatro di ricerca/teatro stabile attuando una terza via in cui il teatro si affermi come un’istituzione di processi creativi in grado di coinvolgere la cittadinanza al fine di non ritrarre il mondo ma di cambiarlo. Secondo le parole del Manifesto lo scopo “non è quello di rappresentare il reale, ma di rendere reale la rappresentazione stessa”.

L’intenzione non è dunque quella di essere specchio ma strumento di riflessione, un recupero quindi della funzione originaria del teatro – luogo in cui la comunità riflette sulle crisi che la attraversano, ricercando delle soluzioni fattuali alla loro risoluzione. Lo spettacolo quindi non si presenta come un prodotto da consumare ma come un processo da vivere. Tale dichiarazione di intenti, come si può comprendere, integra tradizione e innovazione, recupero della finalità originaria della scena proiettata in un contesto contemporaneo.

Per giungere a questo sono necessarie alcune modalità produttive e distributive capaci di rendere concreto il raggiungimento del fine prefisso: il coinvolgimento delle persone, l’utilizzo di attori professionisti e non, l’apertura pubblica della fase creativa, prove condotte anche all’esterno dell’edificio teatrale (e questo non significa solo la fase attoriale ma anche quella di ricerca e di creazione drammaturgica), una distribuzione capillare che faccia conoscere il lavoro al di là dei confini cittadini. Questa partecipazione modifica sostanzialmente l’applicazione dell’audience engagement: non marketing finalizzato ad avere più pubblico in sala ma inserimento della fase creativa nel tessuto stesso della comunità.

A questo si aggiunge una decisa presa di posizione con la drammaturgia, innanzitutto con i testi preesistenti la creazione. Lo spettacolo non è un riferire qualcosa di già detto e fatto, ma un riflettere su una condizione, una circostanza, un evento. Per questo l’utilizzo di un testo non dovrà superare il venti per cento del totale rappresentato. Una limitazione che è un invito ad andare al di là del riferire per indagare, scoprire, ragionare.

Il Gent Manifesto è la premessa necessaria a The Repetition cui è sottesa la domanda cruciale: cos’è la rappresentazione? Quale la sua finalità? Prologo ed epilogo dello spettacolo pongono l’accento proprio su questa fondamentale questione.

Cos’è il lavoro dell’attore si chiede all’inizio? Per rispondere si usa una metafora ironica: è come il fattorino che porta la pizza. A essere importante è la pizza non chi te la consegna. L’attore quindi è colui che si fa da parte, si fa veicolo di voci che lo attraversano. Il suo compito è portare alla comunità. Anche in questo si recupera l’etimo dell’origine in cui l’hypokrites, (dal greco ypo=sotto, krinein=spiegare) era colui che evocava, con voce e gesto, situazioni e sentimenti.

Ma tale azione è inutile se dall’altra parte non c’è una collettività atta a ricevere. Nel finale un cappio scende dall’alto, l’attore vi infila il collo. Se la sedia cadrà ci sono solo due soluzioni: o il pubblico lo sostiene o lui morirà. Si spengono le luci. Cosa facciamo? In questa metafora ecco ancora un mito dell’origine: lo sguardo di Kore/Persefone, la Pupilla che guarda l’azione di Ade e la rende concreta e possibile. È l’occhio di Persefone che rende reale il ratto di Ade così come è l’occhio del pubblico a donare efficacia all’azione dell’attore. Il pubblico completa e definisce la rappresentazione.

Un’altra domanda è sottesa a The Repetition: è reale ciò che è rappresentato? Domanda complessa, fondamentale per l’esistenza stessa del teatro nel contemporaneo. La risposta sembra essere la costruzione di un meccanismo in cui il reale viene scomposto in multipli rappresentativi, che non produce una copia ma un doppio molteplice che sezionano il fatto di cronaca facendone scaturire tutti i significati possibili.

In The Repetition si vuole rappresentare il brutale assassinio di Ihsane Jarfi, giovane omosessuale, ucciso a botte, torturato e abbandonato agonizzante, nudo in un campo. Il fatto è avvenuto a Liegi il 22 aprile 2012. In cinque atti, come in una tragedia classica, si analizza l’evento in tutte le sue implicazioni. Come in una Crime story, si indagare il movente, il contesto, la vittima e gli assassini. I sei attori, professionisti e non, ricostruiscono l’accaduto investigando nello stesso tempo la rappresentazione in se stessa.

Durante la visione non si può fare a meno di pensare all’opera di Joseph Kossuth One and Three Chairs del 1965, in cui una sedia, la sua definizione e una foto che la ritrae sono accostate nello stesso spazio. Tutte rappresentano l’oggetto ma in quanto opera d’arte non sono una sedia. Il regista ci rappresenta l’omicidio di Ihsane Jarfi raccontandolo a parole, rappresentandolo in scena, mostrandone una versione diversa e complementare in video. Un multiplo rappresentativo che è e non è il reale. La rappresentazione è uno strumento per la sua comprensione ma è pur sempre una finzione. Ceci n’est pas une pipe. Come a rappresentare il dolore dei genitori, la loro ansia per la scomparsa di Ihsane? Un letto vuoto illuminato sul fondo della scena, due attori nudi su delle sedie, un filmato in cui gli attori nudi a letto impersonano i genitori e recitano un dialogo in cui esprimono la preoccupazione per un figlio che non riescono a contattare. Questa scomposizione di ciò che è accaduto impone all’occhio del pubblico una ricomposizione che segue alla riflessione.

The Repetition è dunque un passo avanti rispetto al semplice reenactment. Milo Rau, in Hate Radio, presentava una ricostruzione di un fatto storico, le due ore di trasmissione di Radio Mille Collines durante il genocidio dei Tutsi a opera degli Hutu. Si osservava qualcosa che era avvenuto nello stesso modo in cui era avvenuto. Ora l’evento di cronaca è sottoposto a un processo molto più complesso in cui attraverso la frammentazione del rappresentato o, meglio, la sua moltiplicazione, si attua nell’occhio del pubblico una messa in questione di ciò che avviene sulla scena e quindi della realtà stessa. Lo spettacolo dibatte anche l’origine del Male, visto come qualcosa di casuale, non premeditato, capace di materializzarsi in un istante. Una banalità del male che avviene nella quotidianità più inaspettata, durante la festa di due compleanni: uno degli assassini e quello a cui partecipa la vittima. Un’occasione di festa che si tramuta in tragedia senza quasi sapere il perché e capace di portare ad un’altra questione: la morte. Kantor diceva che il teatro parla sempre della morte. E in Milo Rau sembra che questo assunto sia più vero che altrove, una morte sempre commista con la violenza cieca, brutale, banale.

Come spiegato all’inizio non è possibile fare una disamina completa di uno spettacolo che, per coglierne tutte le implicazioni, andrebbe peraltro visto più volte. Analizzare la costruzione drammaturgica, frutto non solo di un lavoro di ricerca sul campo ma anche di un incastro di tasselli letterari (la poesia della Szymborska o le parti di Amleto), il rapporto tra attori professionisti e non (come già in Five easy pieces per esempio). Abbiamo cercato di delineare delle linee capaci di far emergere un quadro della ricerca di un regista che è sicuramente il più grande ed efficace pensatore della scena contemporanea.

Le questioni che pone al teatro contemporaneo sono urgenti. Necessitano di riflessione e dibattito perché affrontano il tema non solo della necessità di quest’arte antica ma anche la sua evoluzione nel futuro prossimo. Quale funzione per il teatro? Come si può rendere necessaria la rappresentazione dal vivo? Quale il rapporto tra società e teatro? Tali domande sono necessarie, soprattutto in Italia, dove sembra esserci un ritorno prepotente della rappresentazione classica. Ed è necessario inoltre il dibattito, magari anche acceso. Le idee per evolversi esigono di una vivacità per ora assente dal panorama, dove ogni posizione diversa dalla propria viene accolta come un attacco personale.

Ph: @Copyright Hubert Amiel

Milo Rau

EMPIRE di Milo Rau ovvero la coscienza delle funzioni del teatro

Ho incontrato per la prima volta Milo Rau qualche anno fa al Festival de la Batie a Ginevra. Mi ha subito colpito la sua lucidità e la sua coscienza di cosa fosse il teatro, le sue possibili funzioni, la sua valenza politica e sociale.

Recentemente l’ho incontrato a Venezia nella sede del Consolato Svizzero per la presentazione del suo The Congo Tribunal, in anteprima nazionale, e ancora una volta abbiamo avuto una lunga conversazione sulle funzioni della scena.

Per Milo Rau il teatro è una forma di indagine dei punti critici e focali della nostra civiltà occidentale. Esplorando i limiti della scena sonda le criticità della nostra società. La crisi affrontata dalla scena, con i mezzi propri del teatro, insieme alla comunità/pubblico che è chiamata a prendere posizione.

Questo avviene non solo nei suoi lavori in cui si richiama esplicitamente la forma tribunale, e mi riferisco a The Moskow Trials oltre che a The Congo Tribunal, ma anche in Five Easy Pieces, Hate Radio, The Breivik’s Statement, Le 120 giornate di Sodoma e, ovviamene, in Empire, in questi giorni in scena al Festival delle Colline Torinesi.

Questo utilizzo del teatro come strumento di analisi di una crisi richiama da una parte la tragedia greca (non dimentichiamo che l’Orestea sancisce la nascita di un tribunale) e il teatro antico e rituale, dall’altra la tradizione di teatro politico di matrice tedesca non solo brechtiana.

Certo la formazione sociologica e antropologica di Milo Rau lo indirizza su questa strada, ma nell’adottare la forma teatro cerca di applicare all’etimo antico una funzione attuale e moderna. Il luogo da cui si guarda, il teatro, è un supporto insostituibile di analisi sociale e politica delle crisi. Innovazione che si innesta nella tradizione.

La coscienza di Milo Rau di una funzione fondante del teatro è premessa necessaria alla sua efficacia e qualità. Materiali e tecniche si adoperano per esaltare una funzione che è sempre politica e non solo artistica o estetica. Analisi della realtà per essere in grado di agire sulla realtà. Presa di coscienza della crisi per superare la crisi.

Empire è esattamente questo. A cosa è dovuta la migrazione? Chi è colui che giunge alle nostre frontiere e quali storie porta con sé? Quattro attori, un siro-curdo, un siriano, una rumena di origini ebraiche, un greco e quattro situazioni estreme: la guerra civile in Siria, la Romania di Ceausescu, la Grecia della Dittatura dei Colonnelli. Tutti e quattro sono attori e tutti sono emigrati da una situazione critica, di guerra o di regime dai propri paesi d’origine.

L’esperienza teatrale e l’esperienza di vita dei quattro attori sono lo specchio con cui guardare alla storia e al fenomeno migrazione. Quando una persona lascia il suo paese cosa e chi abbandona? Cosa lo spinge a un gesto estremo di sradicamento? Cosa avviene al suo arrivo in un nuovo contesto che spesso è ostico alla sua integrazione? Cosa trova al ritorno dall’esilio?

Queste le domande che vengono formulate in Empire, questioni che vengono affrontate con i racconti delle proprie esperienze di vita. L’astrattezza della guerra civile siriana che ci appare con immagini di incredibile e insostenibile violenza alla TV sono distanti e digitali. Le vite dei testimoni sulla scena è reale, presente, vera e vitale.

La cella della prigione di Palmira dove Remo è stato incarcerato, la voce dell’ultimo messaggio della madre di Rami, morta senza poter essere abbracciata per un’ultima volta, i ricordi degli spari sulla folla durante la rivoluzione rumena che ha portato alla caduta di Ceausescu, sono elementi di realtà che stanno di fronte a noi e che ci obbligano a una riflessione sul fenomeno dei migranti al di fuori di una pericolosa astrazione.

Ma vi è anche una sorta di distacco brechtiano. Quando Rami ci mostra le foto dei morti torturati nelle prigioni di Bashar Al Assad tra cui gli sembra di riconoscere il fratello Abdo scomparso da anni, avviene una sorta di transfert con il pubblico. Quel fratello non può in fondo essere anche nostro fratello? Quello che è avvenuto a Rami non potrebbe avvenire anche a noi? Quell’incertezza nel riconoscere un congiunto è straziante ma anche significativa. L’esperienza di Rami potrebbe essere anche la nostra.

Così come il ritorno a casa di Agamennone dopo la guerra di Troia, parole tratte dall’Orestea e che chiudono Empire. L’eroe greco ringrazia gli dei per la vittoria e il ritorno, ma non sa che un fosco destino si sta addensando sul suo capo. Dopo quelle parole, inizia la tragedia. Nel lontano passato come oggi il cielo potrebbe caderci in testa in ogni momento. E se non vi è più un fato inviolabile, certo resta la colpa della responsabilità dei crimini e delle guerre, e di come noi trattiamo le vittime dei conflitti che cercano aiuto e asilo dopo aver tutto perduto.

In questi giorni dove sembra che le masse anonime dei migranti non siano altro che un fastidio da eliminare, si perde di vista che una massa è fatta di uomini, che il loro partire è generato da dolore, sofferenza, perdita, distruzione, e che accogliere l’ospite è dovere di ogni uomo perché in lui potrebbe essere nascosto un dio.

Milo Rau esplora la scena sondandone i limiti. Ci conduce verso l’estremo con una delicatezza non priva di fermezza. Ci obbliga a guardare l’orrore, a prenderne coscienza e a prendere partito. Non si può restare indifferenti. Bisogna agire e scegliere.

Il teatro di Milo Rau è teatro del reale che incide sul reale. È uno dei pochi artisti in Europa che ha questa capacità di incidere che deriva da una coscienza delle possibilità e delle funzioni del teatro. Conosce il suo mezzo e sa come assoggettare le sue leggi affinché possa parlare al mondo del mondo in maniera efficace.

La sua non è una fredda analisi. È qualcosa di dirompente che tocca l’animo e porta a una commozione struggente. Quella madre che muore, quel fratello torturato, quella famiglia che si è perduta potrebbe essere la nostra. È la nostra. Ne siamo responsabili. Quei migranti su una nave non sono in crociera. Scappano da un orrore che è causato dal nostro benessere.

In The Congo Tribunal questo è palese. Le miniere di Coltan sono la causa dei conflitti e dei massacri. Ogni volta che mandiamo un messaggino su What’s up dovremmo esserne coscienti. Il rischio è perdere l’umanità. Milo Rau ci porta a riflettere su questo, ci fa prendere coscienza, ci induce a ritrovare l’umanità che stiamo perdendo.

Ph: @Marc Stephan

Milo Rau

INTERVISTA A MILO RAU: la scena come sguardo critico sul mondo

Ho conosciuto Milo Rau al Festival de la Batie a Ginevra nel 2015. Avevo appena visto Hate Radio lo spettacolo dedicato al genocidio in Ruanda. Lo intervistai nella hall del suo albergo e lui si dimostrò molto disponibile e generoso. Avevo mille domande perché il suo teatro ha una forza tale da scuotere l’animo di chi guarda da renderci confusi. Il teatro di Milo Rau interroga le nostre coscienze e lo fa essendo radicalmente prossimo all’etimo della parola: Teatron il luogo da cui si guarda.

Da quel giorno ho seguito il suo lavoro con attenzione particolare convincendomi sempre più della necessità di questo tipo di opere che spesso toccano l’estremo e vengono difficilmente digeriti da pubblico e critica. Faccio soprattutto riferimento al suo ultimo lavoro presentato in Italia per esempio, Five easy pieces, in cui i bambini raccontano la vicenda di Dutroux il mostro di Marcinelle e che ha vinto il premio Ubu per miglior spettacolo straniero.

E sono ancora più curioso di vedere il suo ultimo lavoro Le 120 giornate di Sodoma ispirato dall’ultimo lavoro di Pasolini nonché dall’opera del Marchese De Sade e messo in scena con ragazzi down.

Il teatro di Milo Rau è sempre un’esplorazione dei limiti della scena, di cosa è possibile fare, di cosa ci si può spingere a dire o mostrare attraverso il dispositivo di rappresentazione.

L’incontro con Milo Rau da cui scaturisce questa intervista è avvenuto a Venezia a palazzo Trevisan degli Ulivi sede del Consolato di Svizzera dove si svolgeva la rassegna Cinema Svizzero a Venezia organizzata dall’amico Massimiliano Maltoni all’interno della quale è stato proiettato in anteprima nazionale il film The Congo Tribunal del 2017.

Enrico Pastore: Come si inscrive la tua attività cinematografica nel quadro più complesso del tuo progetto teatrale?

Milo Rau: c’è indubbiamente una relazione ma è presente anche una notevole differenza. Ho già lavorato sia per il cinema che per la TV realizzando dei documentari tratti da miei spettacoli. In particolare The Congo tribunal è nato come un lavoro live realizzato tra il Congo e la Germania nel 2015. Come ben sai una performance teatrale è legata al qui ed ora, si svolge una volta sola o per un tempo limitato. La versione cinematografica del progetto è diventata quindi uno strumento per far sì che coloro che non potevano fisicamente partecipare all’evento potessero in qualche modo accedervi attraverso un documento riproducibile ovunque.

Enrico Pastore: Parlando di The Congo Tribunal: in che modo il film ha interagito o influito sulla realtà dei fatti di questo paese così ricco e così travagliato?

Milo Rau: Il tribunale che prende vita come performance e in seguito come film è simbolico. Benché ci sia un vero giudice della corte dell’Aja, vi sia un vero procuratore e le vittime siano reali, il tribunale non ha un vero potere perché non formalmente istituito. In Congo vengono compiuti decine di massacri legati allo sfruttamento incondizionato delle sue risorse naturali e noi ne abbiamo scelti tre particolarmente significativi perché compiuti proprio a causa di motivi economici. Abbiamo raccolto testimoni e vittime e gli abbiamo chiesto di partecipare alla messinscena di questo tribunale simbolico. Il film realizzato è stato poi fatto vedere varie volte in Congo e ha sempre generato molto scalpore nell’opinione pubblica che ha sempre attribuito le responsabilità di questi crimini alle multinazionali. A causa di queste montanti proteste si sono dimessi due ministri del governo e questo sta a testimoniare l’incredibile potenza e l’enorme impatto che l’arte può avere sulla realtà.

Enrico Pastore: Benché sia un film documentario assume la forma teatro. Vi sono i giurati, i testimoni, la corte e il pubblico: ognuno ha la sua parte e partecipa al rito del teatro e ognuno indossa la maschera che ritiene gli sia confacente. In qualche modo pensi che il tuo film sia anche un documentario sulla forza del teatro come sguardo sul mondo che permette a una comunità riunita di confrontarsi con le crisi che si trova ad affrontare?

Milo Rau: Quello che ho cercato di fare con questo film sono essenzialmente due cose: da un parte cercare di avere un impatto sulla realtà politica ed economica; dall’altra descrivere la realtà. Com’è possibile realizzare un film o una performance che parli delle guerre in Congo? E com’è possibile fare un film che tratti allo stesso tempo anche lo sfruttamento delle miniere in Congo? E come dare in un film spazio alle vittime per raccontare le loro storie? Il Tribunale diventa quindi un format in cui è possibile trattare tutti questi argomenti, farli interagire, vedere come un aspetto sia legato all’altro, perché tutti i protagonisti sono riuniti in un unico luogo: il tribunale/teatro. E questo ovviamente si ricollega alle origini proprie del teatro greco antico dove si può riscontrare la nascita della forma tribunale. Pensiamo a l’Orestea o ad Antigone, dove le vicende degli eroi sono legate indissolubilmente alle questioni che riguardano la legge e la sua applicazione. Il tribunale nasce a braccetto con il teatro in qualche modo.

Enrico Pastore: Nel tuo teatro cerchi sempre in qualche modo di sperimentare i limiti di quello che si può fare in scena e di quello che il pubblico potrebbe sopportare, Penso soprattutto a Five easy pieces e a Le 120 giornate di Sodoma. Cosa ti spinge a forzare questi limiti? Il teatro dee essere un gesto estremo per essere significante?

Milo Rau: Sia Five easy pieces che Le 120 giornate di Sodoma hanno un ruolo chiave nel mio percorso creativo. Sono due lavori che sondano i limiti e si pongono la questione di come superarli, ma soprattutto indagano la questione su cosa sia la catarsi al giorno d’oggi. Ne Le 120 giornate di Sodoma ci sono in scena dodici ragazzi portatori di handicap e affetti dalla sindrome di Down che subiscono delle autentiche torture. Ma questo accade anche nella vita quotidiana in virtù della loro condizione a causa di una società che non considera pienamente i loro diritti e le loro esigenze. Allora sorge una domanda: com’è possibile che non tolleriamo vedere certe cose sulla scena eppure le sopportiamo tranquillamente nella vita di ogni giorno? Cosa dice questo di noi come spettatori e come società civile? Cos’è veramente scandaloso? E lo stesso discorso si può dire anche per Five easy pieces dove sono i bambini a raccontare la vicenda di un noto pedofilo, ma più in generale affronta il tema della violenza che gli adulti esercitano sull’infanzia.

Enrico Pastore: Nei due ultimi tuoi lavori teatrali Five Easy Pieces e le 120 giornate di Sodoma lavori con attori non convenzionali, bambini e ragazzi down, per trattare temi estremamente forti e sconvolgenti. Come hai lavorato con loro durante la creazione, che tecniche hai utilizzato?

Milo Rau: Five easy pieces è stato il mio primo lavoro in cui ho lavorato con dei bambini. Nelle opere precedenti avevo sempre lavorato con attori professionisti o con esperti di procedure legali nel caso dei processi (Es. The Moskow trails). Lavorare con i bambini è molto difficile in quanto fanno fatica a concentrarsi, non sanno veramente cosa sia recitare né che tipo di relazione instaurare con il pubblico. Ci sono voluti mesi di prove molto lunghe nei fine settimana per riuscire a creare un metodo che fosse efficace. E tutto questo lavoro mi ha fatto pensare molto a cosa vuol dire essere un regista, cosa sia una regia teatrale e cosa sia la recitazione. La regia in qualche costruisce relazioni di potere e di abusi per poter raccontare una storia e questo non ricorda in qualche modo ciò che fa un pedofilo? Five easy pieces è un lavoro che pone molte questioni sulla regia e le sue modalità.

Dopo aver affrontato il lavoro con i bambini e in seguito con i ragazzi down ne le 120 giornate di Sodoma penso che il mio modo di dirigere sia cambiato e questo proprio a causa delle domande che mi sono posto durante la lavorazione di queste due opere per me così importanti.

Enrico Pastore: Perché hai deciso di confrontarti con Le 120 giornate di Sodoma? e in che modo ti sei confrontato con l’ultimo lavoro di Pasolini?

Milo Rau: Sono da sempre un grande estimatore dell’opera di Pier Paolo Pasolini. Ricordo quando ho visto il film Le 120 giornate di Sodoma. Ero a Parigi come studente e lo vidi una domenica pomeriggio. Rimasi scioccato dalla sua modalità quasi mistica di raccontare il fascismo.

Pasolini aveva una visione molto democratica della recitazione utilizzando nei suoi lavori attori professionisti come la Magnani o Totò a fianco di attori non professionisti. E in parte è questo che ho cercato di fare.

L’opera di Pasolini descriveva anche una società e le sue modalità, e io nel rapportarmi con il suo ultimo lavoro ho voluto in qualche modo porre la questione di che tipo di società siamo diventati.

Ho deciso di affrontare Le 120 giornate di Sodoma con dei ragazzi down perché nella società borghese svizzera e tedesca sono come dei feticci. Sono adorati quanto sono su un palco o in un film, ma sono sostanzialmente ignorati nella vita reale.

Milo Rau

FIVE EASY PIECES di Milo Rau

Five easy pieces di Milo Rau, ieri in scena alla Teatro dell’Arte della Triennale di Milano, è opera tra le più complesse perché pone l’osservatore nelle condizioni di dover affrontare molti livelli di lettura venendo investiti da questioni scomode di fronte alle quali è difficile non prendere posizione. Inoltre, dato l’argomento (la storia del pedofilo belga Marc Dutruox) e il fatto che a raccontarlo siano dei bambini, non può che colpire e far sorgere domande cui è diffile se non impossibile rispondere.

È assolutamente necessario rendere evidenti le varie questioni che pone Milo Rau con Five easy pieces prima di procedere a una recensione. Iniziamo con ordine. Innanzitutto la vita di Marc Dutroux che ha segnato la storia recente del Belgio in maniera indelebile, diventando una sorta di mito nazionale negativo. La vicenda di Dutroux è diversa da quella di qualsiasi altro pedofilo/serial killer proprio per aver scosso un’intera nazione ponendola di fronte a se stessa con una forza senza precedenti. Il fatto che Dutroux abbia potuto operare così a lungo proprio a causa delle divisioni interne al paese (rapiva le ragazze nelle Fiandre e le segregava in Vallonia rendendosi sicuro e quasi intoccabile come se passasse un confine); le accuse di incompetenza alla polizia, inefficiente a causa proprio di queste divisioni; l’evidenza che la storia familiare di Dutroux sormonti alcuni dei passaggi critici della storia nazionale belga (l’indipendenza del Congo nel 1960 dove la famiglia Dutroux viveva, l’azione del mostro a Marcinelle, zona mineraria tristemente nota a noi italiani, le differenze linguistico nazionali etc.), tutto questo fa sì che l’affaire Dutroux abbia un impatto assolutamente unico rispetto a vicende simili e abbia scosso una nazione ridefinendo l’immagine che aveva di se stessa.

Questo è un primo livello di lettura: la vita di Dutroux come catalizzatore di profonde inquietudini e divisioni nazionali, l’essere un mito demonico di un intero paese tutt’ora diviso, e teso a rimuovere un passato di violenze coloniali terribili (non dimentichiamo che il genocidio in Ruanda dipende per molti fattori dalla politica coloniale belga che divise Tutzi e Hutu creando odio insanabile tra le due etnie).

C’è poi l’evidenza che a raccontare la storia del Mostro di Marcinelle siano i bambini. Sono loro che rimettono in scena la vicenda in cinque piccole piece. I bambini inscenano la storia di uno dei peggiori pedofili della storia europea, che seppellì viva una sua vittima, un’altra la fece morire di fame e le altre schiavizzò, torturò e stuprò. È giusto? Potremmo chiederci. È eticamente corretto? Quali le conseguenze per questi piccoli attori? È sfruttamento? È anche questa una forma di violenza? Tutte domande legittime. E il fatto che la produzione e le prove siano state seguite da psicologi e dai genitori dimostra che un pericolo c’era, che se ne era consapevoli, che si è cercata una forma di protezione e che si è deciso che il rischio doveva essere corso.

In Five easy pieces di Milo Rau i bambini non fanno ciò che solitamente ci si aspetta da loro all’interno di uno spettacolo teatrale. Certo recitano ma si interrogano e ci interrogano su una vicenda mostruosa, sulla morte, sulla violenza, sulla natura del male e ci fanno comprendere che loro capiscono e percepiscono più di quello che si crede. La loro innocenza è meno ovvia di quanto si pensi (nello spettacolo si chiede loro se hanno mai ucciso e le risposte sono inquietanti, rilevano un certo fascino della e nella violenza che appartiene all’umano fin dalla più tenera età, come il gusto di incendiare formiche e vespe, o l’uccisione di un gattino per sbaglio che però fa nascere una sensazione strana di potenza). Il teatro è crudele. Lo si dice senza mezzi termini come risposta alla domanda di un bambino. Il teatro non è giusto perché non è il suo compito. È Teatron, è il luogo da cui si guarda e se quello che si guarda non piace non è colpa del teatro.

Infine Milo Rau si interroga sulla rappresentazione in sé, sui suoi scopi, sulla sua necessità. Quando i bambini si chiedono: cosa significa recitare? O quando viene loro chiesto: cosa saresti disposto a fare per il teatro? O come affronti il fatto di essere guardato? Di fatto ci si chiede cosa sia la rappresentazione, a cosa serva, come ci relazioniamo con questa finzione che rivela la verità.

Molti sono dunque i livelli di lettura che si declinano in maniera diversa a seconda del pubblico, della nazione, del luogo in cui avviene la rappresentazione. Un’operazione così complessa che si interroga sulla natura perversa dell’umano agire non può che essere scomoda, difficile, ostica, emotivamente provante, graffiante e non solo perché l’apparente sicurezza di questi bambini sul palco rivela una sconcertante fragilità del concetto in sé. La sicurezza tanto invocata dalle nostre società occidentali è una maschera, una falsità perché in ogni momento l’orrore può toccarci e colpirci, e questa prossimità con il male diventa assolutamente insopportabile se a renderla evidente sono dei bambini.

Five easy pieces sono cinque momenti della vicenda Dutroux: il padre dell’assassino che vorrebbe cambiare nome, che vive solitario e negletto per i peccati del figlio e che racconta del Congo, dei primi anni in Africa, di Lumumba di cui vorrebbe acquisire il nome per abbandonare quello detestato di Dutroux; il poliziotto che ha svolto le indagini, che racconta di come la polizia fosse detestata dalla popolazione, di come in quei giorni girare in divisa fosse pericoloso; dei genitori che attendono una telefonata e che vengono messi al corrente dell’orribile morte della figlia; della vittima che recita una sua lettera durante la prigionia; infine il funerale di una delle vittime. In scena la simulazione dei bambini che inscenano gli eventi inframmezzata dalle domande che essi si pongono e che vengono a loro poste. In video il doppio identico simulato dagli adulti.

In Five easy pieces i momenti di pathos, di commozione intensa e perfino di disagio sono innumerevoli (il passaggio in cui l’attore in scena chiede alla bambina di spogliarsi per affrontare la scena della vittima invoca tutta la perversione di un atto pedofilo, rende evidente il potere di costrizione/persuasione di questi soggetti, nonché mette il pubblico nella spiacevole posizione di osservatore di un atto potenzialmente scellerato).

I bambini non solo rappresentano il dolore che gli appartiene, ma si rendono interpreti anche di quello degli adulti e questo è sconcertante. Le parole colme di angoscia e sofferenza di un genitore che ha perso un figlio diventano devastanti se recitate da un bambino.

Five easy pieces dimostra una volta di più la capacità di Milo Rau di interrogare la società europea su quanto avviene al suo interno: Milo Rau affronta la realtà, la cronaca degli ultimi anni e ogni volta fa discutere e divide critica e pubblico. Che sia la vicenda di Brejvick, che sia la morte di Ceausescu, o il processo alle Pussy Riot, o il genocidio in Ruanda, ogni volta ci obbliga a fare i conti con noi stessi, a prendere posizione, ci invita a togliere il velo che continuiamo a calare sulla natura della nostra civiltà. Vogliamo crederci buoni, giusti e non lo siamo e dobbiamo necessariamente confrontarci con questa natura ipocrita che ci appartiene. Brejvick o Dutroux sono parte di noi, sono mostri partoriti da ciò che siamo come società, sono eruzioni vulcaniche che portano alla luce il magma che teniamo nascosto sotto la crosta di illusione di essere migliori e diversi.

Quello di Milo Rau è un teatro scomodo che possiede una grande potenza eversiva, ed è un teatro politico che obbliga ad affrontare la realtà. E’ uno sguardo lucido e tagliente come un bisturi. Si può essere d’accordo o meno con gli strumenti che utilizza ma non si può negare la necessità e l’utilità di questo teatro.

Ph: ©PhileDeprez