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Deflorian/Tagliarini

Scavi di Deflorian/Tagliarini: il sublime gioco della composizione

Il 6 e 7 giugno alla Fondazione Merz durante il Festival delle Colline Torinesi è andato in scena Scavi del duo Deflorian/Tagliarini, performance che indica fin dal titolo una modalità di ricerca: i due attori/autori, affiancati in quest’occasione da Francesco Alberici, come archeologi riportano alla luce anfratti nascosti, sepolti, non noti del processo creativo di Deserto Rosso di Michelangelo Antonioni.

Attraverso quest’opera di scavo paziente e certosino si svilupperà Quasi niente, anch’esso presente nel programma del Festival delle Colline Torinesi (in scena l’8 e il 9 giugno al Teatro Astra), opera diversa e autonoma ma cresciuta attraverso l’attraversamento di un medesimo materiale di base (per la recensione dello spettacolo visto al Teatro dell’arte della Triennale di Milano rimando a questo link http://www.enricopastore.com/2019/02/27/quasi-niente-deflorian-tagliarini/ ).

Gli Scavi di Deflorian/Tagliarini non avvengono con ruspe e badili, ma con strumenti di precisione, delicatamente, in maniera da non graffiare o incidere ciò che appare sotto i detriti. Questo lavorio intenso e dolce è prima di tutto immersione nel materiale, un profondarsi all’interno discretamente, senza imporre le proprie idee e la propria persona, accostandosi, rimanendo in ascolto pronti a percepire ogni vibrazione risonante con ciò che emerge. Un esempio: la mania di pettinarsi dopo ogni scena di Monica Vitti che contrasta con le immagini del film dove è sempre sensualmente spettinata. Il disagio che traspare dai capelli, tutto in quella frase del film: “Mi fanno male i capelli” apre un percorso di risonanze: l’incontro tra Monica Vitti e la poetessa Amelia Rosselli, il brutto rapporto di Daria con i propri capelli e così via, quasi in gioco delle perle di vetro, dove le immagini, gli episodi, i sentimenti si concatenano a partire dal lavoro di scavo nel materiale.

L’azione di scavo è quindi strumento atto a riportare alla luce dei nuclei di senso pulsanti, come vivi muscoli cardiaci, che irrorano le personali esperienze degli attori le quali a loro volta smuovono quelle dello spettatore in un delicato effetto farfalla. Una valanga dolce che non precipita violenta e schianta, ma come polla d’acqua montana tenue e leggera scorre e irrora la terra che attraversa.

Tale delicatezza è frutto innanzitutto di un’abile composizione che dosa i toni e le sfumature e come in un quadro del Tiepolo, dove tutto è in luce anche l’oscurità e gli elementi emergono con forza gentile ma non meno potente. Il materiale di scavo si incastra con il ricordo, con il dolore, con la nostalgia e si riversa sul pubblico che a sua volta si rapporta intessendo le proprie emozioni con quelle narrate, facendo emergere un arazzo diverso per ciascuno. Ecco dunque il perché di quelle sedie sparse per lo spazio, ognuna orientata verso un punto diverso, labirinto visivo ed emozionale che si trasforma in caleidoscopio che a ogni tocco rifrange una diversa immagine. Gli attori attraversano e circondano il luogo scenico, i loro racconti sono vettori che catalizzano gli sguardi creando nuove diverse prospettive a ogni inserto narrativo.

Tramite questo processo il materiale, che potrebbe apparire a uno sguardo superficiale come frutto di una scelta intellettuale, si universalizza, diventa oggetto di incontro tra la platea e la scena, un condividere esperienze, pensieri e sensazioni, smossi proprio da un’immagine o un aneddoto legati al celebre film di Antonioni. Il tema che emerge con potenza è la fragilità, la friabilità della vita che a ogni istante può andare in frantumi o, per usare le parole di Antonin Artaud, che :”il cielo può sempre cadere sulla nostra testa”. In questo risiede la grande efficacia della delicatezza impiegata nello scavo, una sensibilità gentile necessaria allo svelamento, allo sguardo crudele sulla vita. Ci si arriva per gradi, senza violenza per esercitare un atto comunque feroce: quello di guardare senza paura le forze che insidiano la vita, che lavorano per dissolverla. In questo Deflorian/Tagliarini sono diventati dei maestri di composizione del linguaggio teatrale, quello fatto di gesti, parole e movimenti nel tempo e nello spazio, una lingua che parla della via e della morte ed è sempre più raro trovare oggi sulle scene a dispetto della sovrabbondanza di opere prodotte e rappresentate.

Romeo Castellucci

GIULIO CESARE, PEZZI STACCATI di Romeo Castellucci: sulla retorica e il potere

Sabato 2 e domenica 3 alla Fondazione Merz in scena al Festival delle Colline Torinesi Giulio Cesare, pezzi staccati di Romeo Castellucci. Non si tratta del remake o di una riproposta dello storico spettacolo del 1997 ma piuttosto di una serie di frammenti o, meglio, di pensieri e riflessioni su un tema che ancora è spina nel cuore o osso in gola che non riesce a essere digerito.

Il teatro di Romeo Castellucci è da sempre un teatro filosofico, un atto del pensiero che indaga la realtà attraverso i mezzi propri del teatro. Il modello letterario è quindi squartato, dilaniato, dissezionato per andare al di là e al di dentro, verso il cuore pulsante. Non è interpretazione né attualizzazione di Shakespeare, ma riflessione in azione su nuclei di pensiero attuali, resi incandescenti dal presente.

Nel nostro tempo di tribuni della plebe che vogliono uccidere il potere per conquistare il potere, a essere indagata è la retorica e la parola nella sua meccanica, nel suo funzionamento a cercare le cause della sua efficacia.

Romeo Castellucci estrapola un serie di immagini dallo spettacolo originario, in particolare tre momenti (la prima scena del ciabattino, i monologhi di Cesare e di Marco Antonio) in cui si esplica il potere della parola e della retorica.

Nella prima scena l’attore, nominato …vskij, inserisce un endoscopio dal naso fino alle corde vocali proiettate sulla parete. La parola si fa carne, vibrazione di corde vocali, pozzo buio viscoso di saliva e di umori. La meccanica del suono, la sua carnalità sporca, al di là dei significati, delle loro altezze o bassezze infiammate. Solo un cavo, carni tremule, boli salivari che scivolano sulle carni rosee.

Il monologo di Cesare, un vecchio tremulo, una deambulazione incerta e frale. I cui gesti sprigionano un fragore come di tuono. Solo gesti, quasi linguaggio di muto, e un suono senza significato. Cesare avvolto in un manto rosso che presto diventa sacca di cadavere, rimosso dalla scena.

Infine Marco Antonio che pronuncia l’orazione funebre. L’attore è laringectomizzato, emette il suo discorso con vibrazioni gravi, telluriche quasi incomprensibili. Si parla attraverso una ferita e una menomazione dall’alto di un pulpito su cui è scritta la parola Ars. Marco Antonio con un spugna greve di sangue sporca la sua bocca e le sue mani. L’assassinio avviene non tramite il coltello ma con le parole, protagoniste seppur assenti o menomate.

Quella di Romeo Castellucci è dunque una riflessione sul potere della parola mediante un linguaggio altro e più complesso, quello della scena e del teatro, che parla tramite immagini, movimento, ritmi, e parole fatte suono. Ma in quanto linguaggio anche il teatro è retorica, anch’esso è contagiato dalla volontà di essere efficace, di raggiungere i cuori e le anime, e quindi arma e non gioco.

Anche il teatro non è innocente. In qualche modo arringa, seppur con altri mezzi. Ma è ancora efficace? Questa riflessione giunge proprio dopo la presentazione della Trilogia dell’identità di Liv Ferracchiati, dalla quale emerge proprio il sacrificio del teatro al fine di far emergere chiaro e diretto come una frecce, il messaggio e la questione dell’identità. Non è forse appunto una forma di retorica? E nel nostro presente politico non siamo tutti presi al laccio della retorica dei tribuni da social network?

In fondo quello di Romeo Castellucci è un teatro che si è sempre mostrato come un’eccellente forma di oratoria scenica. Le immagini forti, ammantate di fulgida e inquietante bellezza gelida (pensiamo allo splendido cavallo nero che attraversa la scena bianca e sul corpo dipinto e iscritto). Immagini armi, taglienti come un bisturi, che sgranano un discorso. Immagini non tanto atte ad evocare quanto a indicare. Non siamo nel mondo di Kantor dove ciò che si vede apre le strade per dei mondi imprevisti e per ognuno unici, quanto più a indicare un percorso di pensiero che enuncia una tesi e la dimostra.

Con Romeo Castellucci siamo nel più fine mondo del simbolico, dove tutto è rispecchiamento e corrispondenza. Le immagini significano qualcosa di preciso, enunciano e proclamano. Nel teatro c’è anche un’altra via, quella degli oracoli, le cui parole possono dire tutto e niente. Non è il discorso o il significato che importa, ma la modalità, l’accezione, l’intruglio evocativo degli elementi. Un balbettio insignificante che apre la via a tutti i significati possibili.

Ph: @Andrea Macchia