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TRENTESIMO di Roberta Bonetto

Un giovane, Vitangelo Moscato sale su un ascensore per raggiungere un colloquio di lavoro e rimane bloccato. Questa la vicenda. Un piccolo quadrato di luce nel quale un danzatore resta imprigionato suo malgrado. Nessuno viene a liberarlo e lui non può raggiungere il colloquio. Vitangelo comincia a esser preso dall’ansia di perdere un’occasione per cui si è preparato con così tanta cura e con così tanto tempo. Ma la prigionia è il colloquio stesso, la verifica da parte dell’azienda, delle capacità di sopportazione del candidato. Da questa situazione si sviluppano divertenti dialoghi tra il danzatore e la voce che proviene da un lontano ufficio dove si sta valutando le reazioni del candidato, che man mano che procede la prigionia, comincia a rivalutare il suo percorso e le sue convinzioni. Tutto questo studiare, aggiornarsi, scrivere curricula, in fondo a cosa serve? Tutto questo prepararsi, essere pronto a sostenere qualsiasi cosa pur di ottenere un lavoro e una carriera, sono veramente necessari? Questo ripensare, rivedere le proprie posizioni, così come l’ambiente claustrofobico, la costrizione, lo stress che la condizione di recluso forzato comporta, sono evidenziati da una danza sincopata, nervosa, costruita a partire da gesti quotidiani facilmente riconoscibili, una danza che è divertente e ossessiva nello stesso tempo.

Trentesimo è andato in scena ieri sera 10 marzo 2016 presso le Lavanderie a Vapore nell’ambito di Permutazioni un progetto di residenze creative promosso da Zerogrammi e dalla Fondazione Piemonte dal Vivo, ed è un work in progress e come tale presenta alcuni difetti e molte potenzialità. Tra i primi, una drammaturgia a volte farraginosa, inconcludente, e il finale decisamente in tono minore che non risolve la vicenda né lascia trasparire interrogativi forti. Tra i punti di forza l’interpretazione del danzatore Gabriel Beddoes che con spigliata comicità napoletana un po’ alla Troisi supplisce alle manchevolezze di una drammaturgia difettosa, troppo accusatoria e con volontà di dire troppo, tanto da assoggettare la libertà del corpo danzante a una significazione imprigionante, e senza alla fine risolvere i nodi essenziali. Il finale inconcludente lascia l’amaro in bocca, ma forse, essendo un work in progress, sarà, ci auguriamo, migliorato nel futuro.

Foto: Fabio Melotti