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Ifigenia in Cardiff

IFIGENIA IN CARDIFF regia di Walter Malosti

Ifigenia in Cardiff di Gary Owen ricostruisce il mito del sacrificio della figlia di Agamennone tra le strade uggiose della capitale gallese, e come la Ifigenia greca, immolata sugli altari affinché la flotta achea possa salpare alla volta di Troia, la figlia di Effie è sacrificata dal sistema. Povera, squattrinata, sguaiata, Effie passa da una sbronza all’altra senza ritegno. Incontra un soldato reduce dalla guerra in Afghanistan di cui rimane incinta. Scaricata e ingannata, decide di tenere la bambina, che muore nel venire alla luce perché mal curata. Effie prova a far valere i propri diritti, ma alla fine rinuncia, sacrificando la figlia. Un testo crudo, forse a volte un po’ troppo retorico, ma che denuncia un sistema che poco si occupa dei meno abbienti, e li sacrifica sugli altari dei costi.

Ma questo è il testo e il testo non è teatro. Lo diventa nel momento in cui si trasforma in immagine in movimento, si plasma sulla scena, si fa corpo vivo. E la trasformazione è assolutamente e senza appello di qualità scadente.

La regia è inesistente. Due soli movimenti a segnalare l’incedere del testo: segnare il numero dei quadri su una lavagna, dove la polvere di gesso finisce per trasformarsi in utero che racchiude un numero nove che diventa feto; il voltarsi, spalle al pubblico, dell’attrice a ogni cambio di scena, gesto peraltro eseguito con eccessiva fretta e imperizia. Null’altro. Un buio tra una scena e l’altra sarebbe stato più elegante. Discutibile la scelta di usare dialetti regionali italiani, peraltro mal eseguiti, in una storia ambientata a Cardiff. Se proprio non si resiste alla tentazione almeno ambientarla tutta in Italia, perché una Leanne che parla romano, o una nonna gallese che parla siciliano fanno venire latte alle ginocchia. Per non parlare dell’avventore milanese o l’infermiere che slitta tra siciliano e napoletano.

La recitazione di Roberta Caronia lascia poi alquanto a desiderare, costantemente gridata di gola, eccessivamente nervosa nella ricerca di interpretare una sballata ubriacona, senza riuscirci pienamente. Il tono è poi sempre il medesimo. Pochi i cambi di ritmo, in una monocorde modulazione dei toni acuti e strozzati.

Poco anche il controllo del corpo in continua oscillazione tra piede destro e piede sinistro come un metronomo per tutta la durata della piéce. L’energia del movimento che parte sempre dalle spalle senza raggiungere le estremità, senza coinvolgere il corpo tutto. Il corpo è segno, e un’immobilità può dire molto di più che simulare un finto vomito. Così come un gesto misurato e controllato, può valere decisamente più che mille inutili sbracciamenti.

Non vale la pena soffermarsi di più su un lavoro decisamente non riuscito, immerso fino al midollo nell’interpretazione e rappresentazione più ovvia, tanto che le due giovani mascherine che si trovavano nell’ombra a fianco della mia fila giocavano a indovinare cosa sarebbe seguito riuscendoci ogni volta. La migliore critica possibile erano le loro risate silenziose e trattenute a fronte di ogni eccessiva e smisurata interpretazione che appariva sulla scena. Sconcertante la mole di applausi per un lavoro di così poco valore.