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Edy Craig

Edy Craig ovvero la trasformazione non chiede il permesso!

|ENRICO PASTORE

Difficile soppesare i vantaggi e gli svantaggi nell’esser nata in una tale famiglia. Oggi si parla tanto di merito, spesso dovuto al censo e alla fortuna più che ai meriti propri. Nel caso di Edy Craig, prima donna regista d’Inghilterra, la questione si fa molto complessa, perché si intreccia con il talento, quel bene inestimabile e imponderabile, così difficile da trovare, da riconoscere, da preservare.

Difficile per lei non essere attratti dal maelstrom teatrale nel quale era stata deposta dal destino. Edy Craig non è stata solo figlia d’arte di una delle più famose dive dell’Impero Britannico, quella Ellen Terry, attrice già a otto anni, prima attrice bambina insieme alla sorella Kate, e che fece a tempo a divenire stella del cinema, Edy era anche sorella di uno dei più grandi innovatori del teatro, quel Gordon Craig i cui scritti e regie fecero discutere per decenni. Come se non bastasse: Bernard Shaw era amico di famiglia.

Nonostante questo ingombrante carico genetico, Edy aveva talento e seppe fare strada a sé tanto da divenire ella stessa una delle più grandi figure di quel nuovo teatro ribollente che nasceva insieme al secolo XX. L’essere donna fu il suo vero svantaggio, tale da farla rimanere nell’ombra della storia del teatro benché, forse, fosse più radicale del fratello (minore) Gordon e avesse altrettanti motivi per essere ricordata.

Il suo apprendistato fu molteplice: costumista e attrice al Lyceum Theatre di Henry Irving, dove recitava la madre, da cui apprese i segreti del mestiere, e in seguito costumista per le prime regie di Gordon, al quale era molto legata e scambiava un fitto carteggio di pensieri teatrali. Con Gordon condivise il gusto per l’essenziale e per le scene occupate solo da pochi e significativi oggetti. Inoltre fu un’ottima illuminotecnica finendo per adottare nelle sue regie soluzioni ardite e poeticamente efficaci.

Il salto verso la regia avvenne nei primi anni del secolo nascente, un approdo condiviso con il fratello e forse ispirato dalle protoregie di Irving e di Ellen Terry. Il profumo della nuova professione era nell’aria, un ruolo tutto da inventare e che dalla Russia all’Inghilterra, passando per Parigi e Berlino, stava già producendo frutti impensati e succosi.

Edy, prima regista dell’Impero Britannico, fu fin da subito radicale nelle sue inclinazioni tanto da spingersi in un territorio incognito, dove la ricerca estetica si univa in alleanza con l’attivismo politico. L’Inghilterra edoardiana era scossa dal movimento suffragista per l’ottenimento del diritto al voto e la pari dignità della donna. L’impero britannico, già sotto il regno della regina Vittoria aveva visto avanzare un disegno di legge a firma John Stuart Mill nel 1865, ma i tempi non erano maturi. I diritti si conquistano con fatica e con immensi sacrifici. Donne di ogni ceto sociale, all’inizio del secolo iniziarono azioni dimostrative anche violente. Molte vennero arrestate e per protesta iniziarono lo sciopero della fame. Vennero sottoposte ad alimentazione forzata. Qualcuna in questa battaglia perse la vita come Emily Davison nel 1913.

La posizione di Edy Craig si mantenne su posizioni più pacifiche benché non meno intransigenti, politicamente legate al fabianesimo ispirato alle teorie di Mill, una sorta di compromesso tra il socialismo e capitalismo in cui si propugnava la dottrina del laisser-faire e la difesa della proprietà privata. La novità di Edy fu di coniugare il New Drama di Shaw e Ibsen in cui si disegnava una donna nuova, dall’animo complesso e fuori dagli schemi svenevoli, angelici e demonici della tradizione, con l’azione politica suffragista che dal 1906 al 1914 dilagava in movimento di massa.

Il risultato fu un teatro anticipatore dell’agit-prop che di lì a qualche anno sarà protagonista nella Germania di Weimar e nella Russia Sovietica. Nel 1911, anno in cui Gordon pubblica il celebre The Art of the Theatre, Edy fonda The Pioneer Players una compagnia il cui assetto giuridico si configurava come una associazione privata i cui soci (ben 375 appartenenti per lo più a un ceto sociale benestante) versavano una quota di sostegno e partecipazione. Tale escamotage permetteva di aggirare la censura non sottoponendo i testi a verifica. Nel fondare The Pioneer Players, Edy Craig si proponeva due principali obiettivi: far emergere la soggettività femminile in ogni ambito della scena, dalla drammaturgia alla recitazione; supportare con l’attività artistica le battaglie dei movimenti suffragisti sostenendoli anche economicamente con le sottoscrizioni legate alle rappresentazioni.

Edy, nel fondare The Pioneer Players, scrisse: «Non ci lasceremo scoraggiare da deprimenti discussioni circa il fatto che ci sia o non ci sia posto per noi. Crediamo che esista sempre lo spazio per un’iniziativa che stimoli il pensiero e rafforzi l’azione del cuore». Insomma: non chiediamo il permesso. Un atteggiamento oggi perduto, dove non è più la necessità il motore dell’azione artistica ma la possibilità economica. Anche in questo The Pioneer Players si distingue per le proprie scelte antieconomiche dove per regie e allestimenti si stabiliscono principi da teatro povero, pensando al recupero di oggetti desueti, utilizzo di materiali modesti, riciclo di costumi e scenografie. Una condotta anticipatoria di ciò che avverrà nei decenni seguenti soprattutto negli anni ’60 e ’70.

L’attività artistica di The Pioneer Players si dipanò tra il 1911 e il 1925 e si manifestò immediatamente come una novità assoluta per il suo essere costituita da donne. Al vertice una triade formata dalla stessa Edy Craig, da Chris St. John, dramaturg, traduttrice e critica musicale, e da Gabrielle Enthoven, donna progressista e di grande cultura. La madre Ellen Terry, nella figura di presidente, oltre a contribuire con la sua arte all’impresa, garantì l’attenzione della stampa e del pubblico in virtù del proprio prestigio.

Edy Craig e le sue alleate e collaboratrici operarono in campo drammaturgico alcune scelte ardite e visionarie per il loro tempo. Innanzitutto drammatizzarono eventi di cronaca, portando all’attenzione del pubblico le ingiustizie sociali e le ferite che dilaniavano la società britannica soprattutto nei ceti bassi. È il caso per esempio di In the Workhouse (1911), in cui si descrive la condizione delle donne povere chiuse nelle workhouses perché impedite per legge ad uscire senza il consenso del marito, e di The Thumbscrew (1912) sul lavoro delle donne e dei minori nelle famiglie indigenti. In entrambi i casi presi in esame si procedette da un caso di cronaca e da un attento e preciso studio delle condizioni sociali, legislative ed economiche. In seguito la drammatizzazione prese la via di un naturalismo intenso, soprattutto linguistico, riproducendo la viva lingua del popolo e delle classi basse. Nel caso di In the Workhouse, lo spettacolo fece così tanto scalpore e il dibattito fu così acceso da costringere l’anno seguente (1912) il governo inglese a modificare la legge sulla tutela maritale. Sembra dunque di imbatterci in un teatro capace di mutare le condizioni sociali, un teatro di cui oggi è massimo fautore Milo Rau.

Ciò che fece Edy Craig e le sue sodali fu in pratica un’azione scenica sulle stesse linee d’azione del regista svizzero nel nostro presente. Quasi un reenactement in cui in uno spazio simile alle Workhouses, sette donne parlano e discutono le loro condizioni rappresentando diverse personalità di donne sfruttate. Ciò che fece Edy Craig fu di creare dibattito politico tramite l’azione artistica, una sorta di Interpellation, per usare un termine caro a Milo Rau, scatenando nella società una reazione che costrinse le autorità a intervenire per modificare l’assetto sociale.

Altro vettore innovativo fu la riscoperta, insieme a Chris St. John che ne curò la traduzione e pubblicazione, delle opere di Rosvita, la monaca sassone dell’ordine benedettino del decimo secolo, prima drammaturga del medioevo. I testi di Rosvita conformati per la messa in scena del suo tempo prevedevano poche didascalie e la dislocazione delle scene in luoghi e tempi diversi ignorando completamente le unità aristoteliche. Questo permise una libertà interpretativa impensata rispetto ai testi moderni innescando l’inventiva di Edy Craig.

In particolare in Paphnutius (1914), storia di una prostituta redenta, vediamo in atto alcune delle idee più innovative e radicali della regista inglese. Innanzitutto dislocò l’azione (in un primo tempo pensata per il King’s Hall di Covent Garden e in seguito, per un incidente, spostata negli spazi del Savoy Theatre) in tre diversi luoghi deputati sparsi all’interno del teatro: il palcoscenico diventò il bordello, i corridoi ospitarono le scene di strada e per l’azione del coro. Inoltre allestì un ring di box per rappresentare il deserto e le dimore degli eremiti. Lo spettacolo si presentava quindi come itinerante, riportando alla luce la modalità medioevale di fruizione.

Inoltre i cori vennero utilizzati come nell’opera lirica. Costituiti da trentaquattro elementi misti cantarono salmi gregoriani e antifone, inserendosi drammaturgicamente laddove necessari e non come semplice tappeto sonoro di sottofondo. Inoltre fece largo uso di un antinaturalismo scenografico scegliendo la povertà di mezzi e quindi l’utilizzo di sacchi di iuta, paglia e cesti di giunco, una semplice croce per il deserto. Per il bordello invece, pur recuperando teli e arredi dal sapore antico, sfoggiò una maggiore ricchezza, inserendo scene di gruppo e coreografie danzate, quasi contrappunto terreno alle scene più spirituali. Tale contrasto e l’utilizzo dei cori cantati restituirono la sacralità del rito al testo medievale, la cui lingua fu comunque resa fluida e attuale.

Terza direttrice, praticata soprattutto durante gli anni di guerra dal 1914 al 1918, dove la lotta politica suffragista firmò una sorta di armistizio e di pace tra i sessi per sostenere la nazione nel conflitto, fu quella di inscenare drammi in cui la questione femminile fosse primaria ma confinata nei territori teatrali attraverso la rivalutazione dei ruoli femminili operati dai migliori drammaturghi europei: Claudel, Shaw, Evreinov, Echegaray, Maeterlinck etc. Anche la scelta di utilizzare testi provenienti da tutta Europa è un chiaro segno politico volto al superamento delle divisioni provocate dal conflitto. Da sottolineare come la Suor Beatrice di Maeterlinck messa in scena da Edy Craig fosse in linea con le scelte estetica di Mejerchol’d quando realizzò lo stesso testo nel ai tempi della collaborazione con Vera Kommissaržèvskaja nel 1906: il palcoscenico sfruttato il lunghezza, gli attori impiegati in pose statiche come dei bassorilievi su pietra, un incedere ritmico lento, ieratico, sacrale, il grande utilizzo di scene corali.

Tra i numerosi meriti di Edy Craig fu inoltre il connubio scenico con i testi della drammaturga americana Susan Glaspell. Edy Craig nel mettere in scena i lavori dell’autrice americana, i cui testi riferiscono quasi sempre a esperienze di donne costrette ai margini, decise di utilizzare lo spazio scenico come luogo della femminilità circondato da un esterno invisibile, il fuori scena, come ambiente maschile e oppressivo. In Trifles il palcoscenico è una semplice cucina, ambiente simbolo di un universo femminile casalingo, e in The Verge una serra e una torre, luoghi di rifugio dal maschile.

Edy Craig fu una delle registe più importanti dell’inizio del Novecento. Una pioniera non solo in un mestiere nascente le cui regole dovevano ancora essere scritte, ma anche nel saper coniugare la lotta politica con la ricerca estetica. Oggi pochi ricordano la sua opera, le sue innovazioni, le sue lotte. Nella storia del teatro ha grande spazio il pensiero teatrale di Gordon Craig mentre a malapena si menziona il lavoro di Edy. È tempo oggi di rivalutare l’apporto delle donne nelle prime avanguardie teatrali del secolo ventesimo. Loïe Fuller, Cléo de Mérode, Vera Kommissaržèvskaja, Sada Yacco, Hanako, Leonora Carrington, Josephine Baker e molte altre donne coraggiose, ardite, indipendenti, capaci in un’epoca molto più pregna di pregiudizi della nostra di farsi strada e di ispirare e orientare l’azione artistica d’avanguardia. È tempo di riconsiderare la storia, riscriverla se necessario, facendo riemergere le grandi donne dimenticate che hanno saputo cambiare l’estetica e il pensiero sulle arti sceniche del loro tempo con grande e immenso talento.

Vachtangov Mejerchol'd

Mejerchol’d e Vachtangov: esperimenti drammaturgici tra tradimento e ammirazione

|ENRICO PASTORE

Il fallimento de Il Gabbiano di Čechov al Teatro Aleksandrinskij di San Pietroburgo il 17 ottobre 1896 può essere assunto come punto di partenza di una riflessione sul rapporto tra scena e drammaturgia nel corso della grande stagione teatrale che stava incominciando in quegli anni in Russia.

Dopo il clamoroso insuccesso, neanche a dirlo, Čechov dichiarò senza mezzi termini che non avrebbe mai più scritto né rappresentato suoi lavori. Per fortuna non tenne fede a quelle parole. Ma come era potuto accadere questo fiasco solenne?

La situazione nei teatri imperiali dell’epoca era nel migliore dei casi ingessata in vuote ritualità dove a farla da padrone erano gli attori mattatori. Il debutto de Il gabbiano naufragò proprio per i vizi insiti nel sistema produttivo dei teatri ufficiali: poche prove, grande spazio d’azione agli attori di grido, parti acquisite d’ufficio secondo l’importanza dell’interprete e non assegnate a seconda della coincidente sensibilità tra attore e personaggio. Poi c’era il fattore pubblico abituato a seguire i propri beniamini aspettandosi da loro rese drammatiche consuete e il testo di Čechov, con le sue tinte tenui, poco si adattava alle smargiassate comiche o alle ampollosità tragiche.

Non fu un caso dunque che l’unica attrice a brillare fu l’astro nascente Vera Kommissaržèvskaja nella parte di Nina. Vera mal soffriva il clima stantio dell’accademismo e il suo animo delicato, i suoi grandi occhi grigio-blu, era adatti per il personaggio immaginato da Čechov.

Quando Stanislavskij volle mettere in scena Il gabbiano e riuscì a superare le resistenze del drammaturgo, tutto cambiò. Ed erano passati a malapena due anni. Lunghe sessioni di prova, studio attendo dei personaggio (e non si pensi che il famoso “metodo” fosse già un corpus integro e formalizzato. Non lo fu nemmeno negli ultimi giorni di vita di Kostantin Sergèevic), attenzione ossessiva per gli arredi, i suoni, le suppellettili, le atmosfere. Soprattutto i silenzi, le famose pause espressive che fecero la storia e la fortuna del Teatro d’Arte. Da tutto questo scaturì un grande successo. A metterci del suo anche il pubblico moscovita che frequentava quel nuovo spazio teatrale seguendo con interesse quelle prime sperimentazioni sulla linea del nascente naturalismo e le illusioni della quarta parete.

L’inizio della nouvelle vague del teatro russo si misura tra questi due momenti opposti. A partire da questo istante e dalle regie cechoviane di Stanislavskij le cose iniziarono a muoversi in fretta. Dal sasso lanciato dal Teatro d’Arte si scatenò una frana destinata a riformare la scena russa ed europea negli anni a venire.

Facciamo scorrere la pellicola del tempo un poco più avanti e misuriamo un altro momento cruciale. E si parla di un altro fallimento dovuto ad altri fattori. Ma non anticipiamo i tempi. Siamo nuovamente a San Pietroburgo dove Vera Kommissaržèvskaja, scontenta dei metodi dei teatri imperiali e alla ricerca di nuove modalità più soddisfacenti per il suo talento d’attrice, decise di inaugurare un suo spazio nel 1904, il Teatro Drammatico, che visse solo due stagioni. Come regista chiamò Mejerchol’d, allievo eretico dei metodi del teatro d’arte. Vera Kommissaržèvskaja e il giovane regista, oltre al disgusto per le prassi consuete, nutrivano le loro perplessità sui metodi di Stanislavskij benché ne ammirassero i risultati. Da qui nacque la loro sintonia presto minata però dalle passioni di Mejerchol’d a quel tempo infervorato per gli esperimenti simbolisti.

In questa nuova temperie l’attore era schiacciato e sovrastato dai fondali dipinti, la recitazione aveva toni monodici, l’azione era spesso bloccata in fermo immagine per far risaltare il bassorilievo e il dipinto, e ovviamente il ruolo del regista cominciava a diventare preponderante rispetto all’interprete, ora irregimentato in una squadra e non più solitario fuoriclasse libero di spaziare dove il talento lo spingeva. Tutto questo infastidì pubblico e critica. Mejerchol’d fu bersagliato da un fuoco di fila. Lo si accusava di imbrigliare un talento immenso, e Vera Kommissaržèvskaja fu commiserata per essere caduta nelle mani di un dispotico carnefice.

Cominciò quindi la querelle mai sopita tra l’azione demiurgica del regista e la libertà creativa dell’attore. Inoltre l’orizzonte drammaturgico era cambiato: Čechov in Russia era già un classico e si guardava ai simbolisti: a Blok, Maetterlink, Crommelynch. E poi alla drammaturgia europea e nazionale volta allo scandaglio interiore: Ibsen, Claudel, Hauptmann, Wilde, Andreev. In pochi anni tutto cambiò e la storia scenica russa aveva in serbo altri rivolgimenti ancora più estremi.

Nel mezzo ci fu un altro clamoroso esperimento i cui risultati non furono pari alle attese. Anche Stanislavskij sentiva che l’aria stava cambiando e decise di invitare a Mosca Gordon Craig per dirigere l’Amleto. I progetti con gli screen e l’idea di un attore-marionetta mal si adattavano al Teatro d’Arte. In più motivi di budget e di spazio ridimensionarono l’esperimento. Sia Craig che Stanislavskij ne trassero una frustrante insoddisfazione, ma ciò che importa fu il tentativo di rinnovare la scena, di mettere in pratica nuove idee. Se una lezione può essere tratta si può riassumere così: come diceva Clausewitz i piani di battaglia funzionano fino al primo scoppio di cannone. E così due metodi si scontrarono con la realtà dei fatti: il teatro è luogo di adattamento continuo, nessuna regola resiste alla scena, Come diceva Mejerchol’d bisogna partire dal suolo. È quello l’elemento che detta le regole del gioco.

Con la Rivoluzione d’Ottobre la matassa si imbriglia ancor di più. Da una parte ci sono i classici, da riadattare secondo i nuovi dettami del socialismo, e dall’altra le nuove drammaturgie scritte pensando a un inedito teatro per nuovi pubblici per un mondo da costruire (da Majakovskij a Tret’jakov a Gor’kij, etc), e da ultimo le drammaturgie recenti, se non addirittura contemporanee, ma provenienti dall’Europa borghese e capitalista con cui confrontarsi. In questa atmosfera si delineano due elementi principali: da una parte i registi orientati a far parlare la scena con un linguaggio indipendente da quello della parola scritta, e quindi operatori di vere e proprie riscritture e riletture radicali; dall’altra l’influsso delle altre arti che andarono a modificare le concezione dello spazio e dei corpi. La pittura in primo luogo si assunse il ruolo di vera riformatrice dello spazio scenico (le impalcature nude e geometriche del costruttivismo, le geometrie suprematiste) e poi il cinema nella doppia natura di manipolante e manipolatore in questi anni in cui la settima arte ancora cercava un proprio codice di linguaggio e si confrontava con il teatro.

I confini sono labili, i dibattiti tra le arti sono accesi e le influenze agiscono dai tutti i lati. Il teatro si riempi di Charlot, di proiezioni e sottotitolature delle scene, mentre il cinema incamerava il Montaggio delle Attrazioni e nuove teorie dell’inquadratura. I ruoli di maestro e discepolo si scambiavano di continuo.

Certo è che il rapporto tra testo scritto e messa in scena in pochi anni si ribalta totalmente. Tra i tanti possibili esempi di questo processo di liberazione dalla soggiacenza dalla parola scritta ne sceglieremo tre che analizzeremo brevemente; ll Dibbuk e la Turandot di Vachtangov e Il revisore di Mejerchol’d.

Cominciamo da Vachtangov. I suoi inizi iniziarono sotto il segno di Stanislavskij e del suo discepolo più fedele Suleržickij. Questo santo pagliaccio, come veniva chiamato da Lunačarskij, era intimo di Tolstoj e anima candida dedita al vagabondaggio. Convertito al teatro da Stanislavskij egli cercò in ogni sua messa in scena di tirar fuori dai testi i buoni sentimenti, ciò che l’uomo, anche il più dissoluto, poteva aver di luminoso. In questo operava di scandaglio alla ricerca dell’anima del personaggio e incarnando quindi il”metodo” del suo maestro.

Vachtangov dopo tanta dedizione a tale prassi ebbe un moto di rivoluzione interiore e, come per reazione contraria all’azione di Suler, rivolgimento determinato dalla Rivoluzione d’Ottobre, eccolo trasformarsi in un regista antinaturalista alieno alle psicologie interiori e alla ricerca di una certa crudeltà alternata a momenti di gioiosa festa. Questo movimento pendolare è evidente nei suoi due lavori più importanti: il Dibbuk da An-ski (1922) e Turandot (1922).

Ne il Dibbuk Vachtangov partì dalla Bibbia e da lì trasformò il melodramma di An-Ski che tratta dell’amore infelice di Lea e Chanan, in un grande arazzo sociale nell’opposizione manichea tra ricchi e poveri, pregno di voglia di rivalsa dei diseredati, di bieco filisteismo degli agiati, di rabbia repressa. Dalle atmosfere dal profumo di incenso apprese da Suler, improvvisa si sente la puzza di zolfo di una crudeltà artaudiana ante litteram. Inoltre utilizzò accenti e parole ebraiche, una lingua dunque difficile da intendere per il pubblico russo, liberando il testo dal significato e realizzando quello Zaum incomprensibile caro ai Futuristi. Radlov dopo la visione dello spettacolo scrisse: «è la prova che il teatro è arte indipendente, distinta ed autonoma dalla letteratura, e che l’interprete può agire sul pubblico senza parole, con suono emotivo della sua voce e coi movimenti del corpo». In queste parole si vede quasi sovrapporsi alla figura di Vachtangov il fantasma futuro di Kantor.

Sia nella Turandot che ne il Dibbuk il regista russo ordì partiture gestuali per ogni interprete quasi a farne una coreografia più che una regia. E il testo divenne pretesto per invenzioni, danze, scene d’insieme. Lo psicologismo venne bandito in nome dell’artificio rappresentativo e se ne il Dibbuk i personaggi erano maschere infernali in Turandot si presentarono gli Arlecchini e gli Zanni (maschere di origine demonica lo ricordiamo) immersi in un Cina fiabesca, irreale.

In questo fraseggio furibondo o gioioso, l’azione non venne distaccata dal tempo presente: i riferimenti all’attualità politica, gli attacchi ai borghesi e ai leccapiedi, l’appoggio incondizionato ai deboli e agli oppressi. Inoltre non mancavano le citazioni come le imitazioni di danze alla Isadora Duncan. Quello che fu chiamato Realismo magico era un frullatore di influssi e influenze diverse di cui il testo di partenza si infarciva per diventare invenzione scenica e non interpretazione. Non ci si trovava di fronte all’ennesima messa in scena di una fiaba gozziana adattata ai tempi, ma all’invenzione di una nuova Turandot, così come il mondo di An-ski si trasformava in un luogo altro tra realtà e fantasia, tra gioco crudele e realtà aumentata.

Turandot, andata in scena in assenza di Vachtangov ormai sul letto di morte, fu visto da Stanislavskij che tra un atto e l’altro accorreva al capezzale del morente per fare i suoi più vivi complimenti. Il vecchio dunque più che al rigido Torkov, insegnate noioso e rigido tutto dedito al sistema da lui inventato, aveva le sembianze di Carmelo-Amleto quando afferma: “Metodo, metodo: che vuoi da me?”.

Interessante l’operazione di Mejerchol’d su Il revisore di Gogol (1926). Qui Mejerchol’d va oltre Vachtangov prendendo in considerazione non solo il testo originale 1835 senza le revisioni posteriori del 1842, ma l’intera opera di Gogol, da Le anime morte ai racconti. La sua regia è un montaggio cinematografico di quindici episodi di un universo gogoliano, quindici quadri la cui relazione fomentava nuovi sensi e nuovi sguardi. In ognuno di questi Mejerchol’d ricorse a tutto il vocabolario biomeccanico, dalle pantomime, alle danze, ai numeri circensi, imbastendo una tragedia buffa che criticava pesantemente la burocrazia nascente.

L’azione si sposta da un lontano governatorato di provincia a Pietroburgo e Chlèstakòv, colui che viene scambiato per il revisore, diventa una maschera anticipatrice del Wolan ne Il maestro e Margherita di Bulgakov, una sorta di demone pronto a scombinare il mondo e farlo cadere mettendo le fondamenta per una ricostruzione. Il revisore diventa una tragedia buffa e si comincia ad avvertire il sentore di un incancrenirsi della gioiosa macchina rivoluzionaria.

Tra fallimenti e trionfi il teatro russo dei primi tre decenni del secolo appare come un’immensa fucina di sperimentazione. Tutto era lecito per inventare un nuovo mondo e un nuovo teatro. Ogni tradizione, ogni tradimento. Che fosse un testo appena dato alle stampe o un classico inossidabile, era sempre il teatro a trionfare. Che si cercasse il vero psicologico del personaggio o lo straniamento più assoluto, era la scena con i suoi artifici a emergere. Nessun vincolo, nessuna restrizione. Almeno per qualche tempo. Poi subentrò la politica, l’ortodossia e spazzò via tutta una generazione di grandi poeti.

Oggi dobbiamo guardare a quella stagione di eroici furori creativi senza esaltazione e senza archiviarla come qualcosa di passato e vecchio. Si può trarre insegnamento dal quel vagabondare da un estremo all’altro, comprendere che non c’è regola, non c’è routine, se si vuole assistere a un grande teatro. Ciò che occorre è la curiosità infaticabile di uno Stanislavskij, insegnante e allievo dei propri discepoli, ribelle alle sue stesse regole e manie, come Bach, pronto a violare le sue stesse leggi. Come diceva Picabia: «se si vuole avere idee proprie, occorre cambiarle come le camice».

Bruno Schulz

GENERATIO AEQUIVOCA Piccole considerazioni su Il trattato dei manichini di Bruno Schulz

Ci sono dei testi che hanno il potere di parlare di teatro anche se l’intenzione dell’autore era alquanto distante dal trattare un simile argomento. Ne parlano, per così dire, involontariamente. Con noncuranza. E forse, proprio per questo motivo, risultano essere illuminanti. Senza averne l’intenzione emanano luce in luoghi impensati e imprevisti. Il trattato dei manichini di Bruno Schulz è uno di questi testi.

Il titolo è già di per sé evocativo. Teatralmente parlando al sentir parlar di manichini, si affaccia all’orizzonte tutta una genealogia di nomi che va da Kleist a Kantor passando per Gordon Craig. Ma non è di manichini che voglio parlare, bensì di oggetti, della loro natura, del loro possibile utilizzo sulla scena e del loro ruolo di mute filosofiche interrogazioni.

Il racconto si apre col resoconto di una battaglia. Adela, la domestica, pone fine in maniera drastica e violenta alle sperimentazioni ornitologiche illecite e contro-natura del padre, “solitario eroe” che: «senza alcun appoggio, senza alcun riconoscimento difese la causa persa della poesia». Queste sperimentazioni avvenivano in soffitta, lontano da occhi indiscreti ma, come diceva Deleuze: “Non vi lasceranno sperimentare nel vostro cantuccio”. La sconfitta del padre, la fine delle sue clandestine generazioni equivoche, ha come unica risultanza quella di far sprofondare la vita della casa in uno stato di “sonnolenza”, di “funebre grigiore”.

Le giornate invernali si susseguono monotone. I lavori nella grande casa procedono stancamente, come per forza. Le giovani sartine Polda e Paulina, nel pomeriggio portano avanti le commesse nella grande sala. La loro presenza e le loro attività cominciano lentamente a mobilitare forze imponenti e inquietanti. Innanzitutto entra in scena il manichino:

«Portata a braccia […] faceva il suo ingresso nella stanza una signora silenziosa e immobile, una dama di pezza e di stoppa, con una palla nera di legno al posto della testa. Ma pur abbandonata in un angolo, fra la porta e la stufa, quella tacita dama diventava padrona della situazione. Dal suo cantuccio, immobile, sorvegliava in silenzio il lavoro delle ragazze. Con aria critica e sgarbata accoglieva le loro premure ed i corteggiamenti con cui le si inginocchiavano dinanzi, provando pezzi di vestito imbastiti di filo bianco. Attente e pazienti esse servivano l’idolo silenzioso che niente riusciva a soddisfare».

Questa insoddisfazione diventa generatrice di un andirivieni continuo dal manichino alle macchine da cucire e viceversa, un lavoro frenetico testimoniato dal crescere “del mucchio dei ritagli, dei brandelli e degli stracci variopinti”. E proprio in ciò che viene scartato improvvisa si intravede una verità:

«i loro cuori, la rapida magia delle loro mani non erano negli uggiosi vestiti che restavano sul tavolo, ma in quelle centinaia di scarti, in quei trucioli frivoli e leggeri…»

In poco più di una pagina Schulz, con una lucidità implacabile, scoperchia un vaso colmo di questioni esiziali per l’arte del teatro.

Per prima cosa l’ingombrante presenza dell’oggetto. Il suo essere inquietante e presente anche se ai margini dell’azione e dello spazio, quel suo essere pregno di significati, di memorie, di funzioni, vero motore degli avvenimenti pur se privo di vita e di intenzione. Ma anche il rapporto tra l’oggetto e l’attore e come l’essere in scena dell’attore debba necessariamente piegarsi all’esigenza dell’oggetto e non viceversa. Kantor, nella sua Scuola elementare del teatro aveva colto questo aspetto con la sua consueta illuminante lucidità:

«Ci deve essere un legame stretto, quasi biologico, tra l’attore e l’oggetto. Devono essere inseparabili. Nel più semplice dei casi l’attore deve fare di tutto affinché l’oggetto sia visibile, affinché esista; nel caso più radicale l’attore con l’oggetto devono costituire un unico organismo».

Per far vivere l’oggetto bisogna come riverirlo, rispettarlo, non usare violenza su di lui, lasciare che esista. François Tanguy diceva che compito dell’attore è di far passare l’aria tra le cose, in modo che possano respirare. Togliere loro l’aria significa soffocarle, farle morire, e ciò provoca questa asfissia è l’ingombrante presenza dell’attore che calca la scena senza rispetto per un ambiente che va ad abitare abusivamente

In secondo luogo Schultz mette in evidenza la tensione continua tra il progetto (il vestito finito), e i tentativi falliti, le sperimentazioni ardite, le strade sbagliate (il mucchio dei ritagli e degli scarti) pieni di verità più dell’opera perfetta e finita. Il fascino posseduto dall’oggetto scartato, rifiutato per la sua incompiutezza, perché non finito, privo di bellezza e di utilità è quello della verità che traspare sotto la coltre della civiltà che ricopre di efficacia e funzione ogni cosa, nascondendo sotto il tappeto la precarietà della vita: nel territorio dello scarto si annida lo spettro della morte. Ai confini dell’utile si apre l’abisso che inghiotte ogni cosa e persona, il regno dell’insensato, della follia, della casualità, dell’incidente, del fallimento. Il vestito finito rappresenta solo ciò che possiamo dominare ma è il mucchio degli scarti che si staglia sulla scena con la sua presenza inquietante. Non a caso l’oggetto privo di utilità ha rivestito così grande importanza nel Novecento, dai readymade di Duchamp, alla realtà dal rango più basso di Kantor, alle sedie di Kossuth, alle scarpe di Van Gogh che tanto affascinarono Heidegger per la loro semplice presenza svincolata dall’utilità. Da ciò che è abbandonato e inutile appare la verità sulla vita.

Questa è la scena che prelude al ritorno del padre.

Dopo la sconfitta subita da Adela se ne erano perse le tracce. La famiglia quasi si è dimenticata di lui, vergognosa del tradimento perpetrato nei soui confronti per essersi compiaciuta della fine degli esperimenti ornitologici che :”gustavano sommamente, per poi declinarne con perfidia ogni responsabilità”.

L’entrata del padre è quindi improvvisa, inattesa e coglie le sartine un po’ alla sprovvista, in pausa, accaldate e un po’ discinte, quasi indifese. Non trovando in queste innocue lavoranti nessuna ostilità, ma bensì una sorta di innocente curiosità, il padre prende il controllo della situazione:

«vale la pena di notare come tutte le cose, a contatto con quell’uomo straordinario, risalissero in un certo qual modo alla radice della loro esistenza, ricostruissero la loro realtà fenomenica fino al nucleo metafisico, tornassero per così dire all’idea primigenia per distaccarsene poi a quel punto e volgere in quelle regioni dubbie, rischiose e ambigue che chiameremo qui, brevemente, regioni della grande eresia. Il nostro eresiarca si aggira fra le cose come un magnetizzatore, contaminandole e incantandole col suo fascino pericoloso».

Ne consegue un’innocente esplorazione dei corpi “ordinari” di quelle disponibili signorinette, quasi a saggiarne le possibilità e la consistenza, per trarne dei vaticini o esoterici insegnamenti:

«Com’è affascinante e felice la forma di essere che lor signore hanno scelto! […]Se, abbandonando ogni rispetto per il Creatore, volessi divertirmi a criticare la creazione, griderei: “Meno contenuto, più forma! Ah, quale sollievo sarebbe per il mondo questa diminuzione di contenuto! Un po’ più di modestia nelle intenzioni, un po’ più di sobrietà nelle pretese, signori demiurghi, e il mondo sarebbe più perfetto!»

Ma a interrompere queste esplorazioni corporee e le conseguenti elucubrazioni di questo “prestigiatore metafisico” subentra Adela. Per un istante si crede che una nuova sconfitta stia per abbattersi sul capo del padre ma, inaspettatamente, la domestica si dimostra tollerante e così, dopo una piccola e folle danza, il padre può lanciarsi in una serie di improbabili ed esoteriche conferenze approfittando della condiscendenza di questo piccolo e impreparato uditorio.

Quella che il padre inizia a elaborare è una sorta di demiurgia eretica, una sorta pericolosa di nuova genesi che conduce in territori ambigui dove le potenzialità di una materia “ondeggiante di possibilità” vengono clandestinamente esplorate.

La materia è posseduta da “un seducente potere di tentazione che ci spinge a creare”. Priva di vita cerca nell’uomo quel soffio che la possa animare e:

«Lascivamente arrendevole, malleabile come una donna, docile a ogni impulso, essa costituisce un territorio fuori legge, aperto a ogni genere di ciarlatanerie e dilettantismi, il regno di tutti gli abusi e di tutte le dubbie manipolazioni demiurgiche».

Ma questa disponibilità, questa arrendevolezza, contiene in sé altre temibili tentazioni: la cristallizzazione delle forme e la ricerca della perfezione:

«Non c’è nessun male a ridurre la vita a altre e nuove forme. L’assassinio non è peccato. Talvolta non è che una violenza necessaria nei confronti di forme refrattarie e cristallizzate dell’esistenza, che hanno cessato di essere interessanti».

Non è certo un invito al delitto. Dietro questa apparente bestemmia, si cela l’ossessione di Cage per la metamorfosi, al cambiamento che conduce alla scoperta di nuove forme e di nuovi linguaggi. Impedire che una forma o una lingua diventi canonica, che diventi legge inviolabile è il delitto necessario all’avvento di nuove creazioni. L’assassinio che si invoca è quello nei confronti di tutto ciò che in qualsiasi modo eserciti una forma di controllo sulla creazione che deve essere libera di esplicarsi ed esplorare tutte le strade: «perché anche se quei metodi classici della creazione si dimostrassero una volta per tutte inaccessibili, resterebbero certi metodi illegali, tutta un’infinità di metodi eretici e criminali».

Se la cristallizzazione tenta il creatore a una ripetizione ossessiva e ossequiosa della legge, tentazione inversa e e complementare ma altrettanto potente è quella della perfezione. Paralizzante perché irraggiungibile, bloccante perché impossibile, e quindi il padre, ormai potente e ieratico come un profeta veterotestamentario, invita ad abbattere l’idolo d’oro in favore di una seconda demiurgia, più sperimentale e futuristicamente sempre rinnovabile, superabile, rimpiazzabile:

«Troppo a lungo abbiamo vissuto sotto l’incubo dell’irraggiungibile perfezione del Demiurgo […] troppo a lungo la perfezione della sua opera ha paralizzato il nostro slancio creativo. Non vogliamo competere con lui. Non abbiamo l’ambizione di eguagliarlo. Vogliamo essere creatori in una sfera nostra, inferiore […] Noi non teniamo a opere di lungo respiro, a esseri fatti per vivere a lungo. Le nostre creature non saranno eroi di romanzi in più volumi. La loro parte sarà breve, lapidaria, i loro caratteri a una sola dimensione. Spesso, per un solo gesto, per una sola parola, ci prenderemo la briga di chiamarli alla vita in un unico istante. Lo riconosciamo apertamente: non insisteremo né sulla durata, né sulla solidità dell’esecuzione, le nostre creazioni saranno quanto mai provvisorie, fatte per servire una volta soltanto».

Per evitare una forma di concorrenza creativa con il Demiurgo il padre ricerca una sfera propria a questa seconda e instabile demiurgia. Cerca una zona franca in cui il potere totalizzante del Demiurgo non abbia ancora irrigidito le forme in qualcosa di consolidato, sacro e inviolabile:

«Il Demiurgo si innamorò di materiali sperimentati, perfezionati e complessi; noi daremo la preferenza alla paccottiglia. E questo semplicemente perché ci affascina, ci incanta il basso costo, la mediocrità, la volgarità del materiale. […] Questo è il nostro amore per la materia come tale, per la sua pelosità e porosità, per la sua unica, mistica consistenza. Il Demiurgo, grande maestro e artista, la rende invisibile, la fa sparire dietro il gioco della vita; noi, invece, amiamo la sua dissonanza, la sua resistenza, la sua maldestra rozzezza. Ci piace vedere dietro a ogni gesto, ogni movimento, il suo sforzo greve, la sua inerzia, la sua mite goffaggine da orso».

Non stupisce che queste pagine abbiamo ispirato Tadeusz Kantor, il creatore di spettacoli memorabili con oggetti di scarto, relitti pieni di memoria, ma ormai privi di utilità, resti di un mondo che è andato avanti e li ha abbandonati nel cassonetto dei rifiuti. Ma bisogna riconoscere che il potere del Demiurgo si è fatto più forte, ha allargato il suo potere di rendere invisibile la vera natura della materia: il dilagare dell’estetico, il proliferare dell’utile vero o presunto, il vintage, la moda dei rifiuti, quella del Kitsch, hanno reso sempre più esigue le possibilità di trovare materiali, oggetti, semplici cose che come le scarpe di van Gogh o il cesso di Duchamp, abbandonata la propria funzione, si possano stagliare con la solo propria esistenza e presenza, ponendoci domande scomode, interrogando in nostro essere nel mondo, mettendo in dubbio la realtà apparente. Se Cage agli inizi degli anni ’40 aveva possibilità di inserire nel mondo musicale rumori e silenzio, Rauschenberg poteva inserire una scopa in un quadro e Burri usare i sacchi di iuta, spostando la sfera dell’arte da una sfera più estetica a una più filosofica, oggi la sfida si fa più ardua perché questi gesti non hanno più niente di rivoluzionario ormai riassorbiti dallo sfruttamento economico del mercato. Questi gesti fanno ormai parte di ciò che è acquistabile in ogni negozio, sono perciò gesti concessi, processi legalizzati e facenti parte del “repertorio d’artista”. In ciò che è permesso non vi è nulla di scioccante ne di rivelante. Bisogna trovare nuovi territori illeciti. In una civiltà tesa a mascherare quanto più possibile la propria precarietà e inconsistenza, dove la poesia e il pensiero hanno margini sempre più ridotti d’azione, attuare questa seconda ed eretica demiurgia è sempre più difficile. Come nota tristemente Huellebecq: “ciò che cerchiamo di creare è un’umanità artificiosa, frivola, che non sarà mai toccata dalle cose serie né dall’umorismo, che vivrà fino alla morte in una ricerca sempre più disperata del fun e del sesso, una generazione di eterni kids. Ci riusciremo, ovviamente; e in quel mondo, non ci sarà posto per te”.

La demiurgia eretica del padre ha come oggetto la creazione di manichini, che in questa seconda genesi, vengono plasmati a immagine e somiglianza dell’uomo. Ma, come c’era da aspettarsi, questa successiva creazione ha, come la prima, dei risvolti tragici. La manipolazione della materia, l’operazione di dargli nuova vita e nuova forma richiede estrema serietà. È un’azione violenta, non innocente, necessita dunque di attenzione. Chi la compie deve essere preparato e conscio di star forgiando una nuova forma che si fisserà, darà alla materia un aspetto indelebile.:

«Non capite la potenza dell’espressione, della forma, dell’apparenza, il tirannico arbitrio con cui il dolore si avventa su di un tronco indifeso e se ne impadronisce, quasi ne fosse l’anima, tirannica e dispotica? Voi date a una qualsiasi testa di pezza e di stoppa un’espressione d’ira e la lasciate con quell’ira, con quello spasimo, con quella tensione una volta per sempre, chiusa in una collera cieca che non ha sfogo».

Creare è un’azione devastante che lascia tracce terribili e va affrontata solo in circostanze particolare perché spinti da motivazioni imprescindibili. Non si crea per scherzo. In gioco c’è la sostanza dell’essere, il suo divenire. La nascita di una nuova forma avviene sempre nella spasimo di un dolore:

«La folla ride. […]Dovremmo in effetti piangere sul nostro destino, signore mie, alla vista di quella miseria della materia, della materia violentata, contro la quale è stata commessa una spaventosa illegalità».

Anche se in questi passaggi si parla per lo più di manichini, di materia fatta a immagine e somiglianza dell’uomo, il discorso si può ampliare alla creazione in generale:

«Chissà quante forme dolorose, mutile, frammentarie della vita esistono, come quella artificiosamente incollata degli armadi e dei tavoli, legni crocifissi, martiri silenziosi della crudele ingegnosità umana. Orribili trapianti di razze d’alberi estranee e avverse, incatenate le une alle altre in un’unica e infelice individualità».

Dare vita a uno spettacolo, non solo a un singolo oggetto, è un’operazione estremamente dolorosa che necessita di tempo, di preparazione, di raccoglimento. Troppe volte si vedono sulla scena opere raffazzonate, mal provate, fatte non per un’esigenza intima che spinge i creatori a dar vita a un aspetto del reale, ma date alla luce per sfruttare l’argomento del giorno, l’anniversario o la ricorrenza. E così quest’anno per la I Guerra Mondiale e o lo Sbarco in Normandia. Non è quasi più questione di urgenze se non quelle di partecipare al bando o sfruttare la disponibilità degli amministratori a concedere piccoli finanziamenti per commemorare alla buona. Si fa per fare, per campare e tirare a campare, per sopravvivere in una professione che si ama ma non si riesce ad esercitare come si deve perché tutte le circostanze lo impediscono. E il primo sacrificio lo si compie proprio sul tempo di prove, sul raccoglimento necessario per affrontare un viaggio nel profondo dell’anima e delle cose. Eppure non bisogna dimenticare che costruire uno spettacolo è un’operazione altamente rischiosa se la si fa seriamente. Tocca corde profonde e nascoste e va affrontata con delicatezza e con prudenza. Come un’operazione alchemica, se fatta male, può avvelenare.

Sono questa serietà e questa prudenza che l’Occidente, nel suo perpetuo tramontare, non vuole più affrontare. Vuole un mondo ottimista e felice di poter consumare dei beni, un mondo alla ricerca di un nuovo acquisto che doni la felicità, senza dare importanza all’abisso che è ovunque intorno a noi. La crisi è solo crisi dei consumi, non dei fondamenti su cui si costituisce una società e tutto ciò che indaga la ragioni profonde del malessere che si nasconde alle radici dell’esistenza, deve essere nascosto, impedito. Artaud chiamava questi impedimenti: affatturamenti, la magia nera che la società attua al fine di soffocare lo spirito di coloro che indagano le radici dell’essere. Affattumenti che portarono Van Gogh al suicidio e che si coagulano, nella loro nera potenza, in quel: la folla ride. Quel riso sguaiato che svilisce, abbatte, neutralizza. Un riso che suona un po’ come una maledizione: Crepino gli artisti!

L’ultima conferenza del padre è la più esoterica. L’argomento è la vita segreta delle cose, vita che si manifesta lontano dagli occhi degli uomini, nascostamente, in solitudine.

Una generazione di forme spontanea, che anima gli oggetti abbandonati ma che non ha niente a che vedere con la vita organica. È più simile a una sorta di emanazione, di comunicazione tramite immagini e ricordi. Gli oggetti abbandonati e non visti, privi di funzione e di utilità, trasmettono possibilità, parvenze, larve di immagini. L’oggetto lasciato a sé, lontano dalle intenzioni dell’uomo anela a una segreta metamorfosi, in qualche modo provocata dai ricordi delle funzioni avute in passato, prima che il mondo andasse avanti. E questa tensione a proliferare, a produrre, avviene in segrete stanze abbandonate, in vecchi appartamenti dimenticati:

«Loro sanno, signore, che nei vecchi appartamenti esistono stanze di cui ci si dimentica. Trascurate per mesi, deperiscono in totale abbandono fra le vecchie mura, e accade che si rinchiudano in se stesse e, perdute per sempre alla nostra memoria, smarriscano a poco a poco la propria esistenza. Le porte che vi conducono da un qualche pianerottolo delle scale di servizio, possono sfuggire per tanto tempo agli occhi degli inquilini da penetrare infine, entrare nella parete, che ne cancella ogni traccia nel disegno fantastico delle crepe e delle fessure».

Lontano dagli occhi, in segrete stanze, fiorisce una sorta di “falsa e soave primavera”. Una generatio aequivoca che per essere osservata richiede come di sparire, di farsi invisibili. Richiede rispetto, attesa, pazienza. In quelle segrete stanze si accede con rispetto se si vuole che si manifesti in miracolo della generazione.

Non basta quindi solamente che l’attore in scena scacci da sé le intenzioni, si metta al servizio dello spazio e delle cose, né che il regista metta in moto processi creativi che mettano in luce non il suo punto di vista ma la vera natura delle cose, o per lo meno un suo aspetto rivelatore, quello che serve è anche un pubblico che entri in punta di piedi, con il rispetto che esige la violazione di uno spazio segreto e inaccessibile, e non con la boria di chi vuole essere intrattenuto e sa già cosa aspettarsi. Lasciare esistere queste segrete stanze è compito primario di chi fa teatro, perché il teatro è la stanza dei segreti qualora assuma su di sé la funzione di scoprire il mondo e lasciare esistere le cose di una loro propria vita lontana da ogni intenzione. E richiede la pazienza di scegliersi un pubblico che sappia vedere. Percorso difficile, se non difficilissimo ma che, se si vuole preservare o reinventare una funzione a quest’arte gloriosa, bisogna affrontare. Oggi è difficile conquistarsi qualsiasi tipo di pubblico e allora, se sforzi devono essere compiuti, che si facciano per scegliere un pubblico giusto, conscio, che condivida le istanze di base del fare e vedere teatro: ossia quello di permettere al mondo di manifestarsi. In fondo teatron è il luogo da cui si guarda.