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Madeleine G

Madamigella Luisa e Madeleine G: le sonnambule danzanti

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|ENRICO PASTORE

Quando Franz Anton Mesmer, verso la fine del Settecento, divulgò la sua teoria sul magnetismo animale, mai avrebbe pensato alle influenze e ricadute nel campo dell’arte e della danza in particolare.

L’ipnosi, da lui pensata come effetto magnetico di un fluido universale, era da lui concepita come utile solo in campo medico come cura alternativa. E se tra i medici lo scetticismo prevalse all’entusiasmo, in campo artistico lentamente la sua teoria fece strada riportando al centro la questione del corpo espressivo.

Mozart, amico di Mesmer, ne Le nozze di Figaro, fa un breve accenno ironico al magnetismo, ma ancora non si rivela l’aspetto più inquietante e affascinante del fenomeno. Sarà Bellini nel 1831 con La Sonnambula a introdurre, seppur inconsciamente, la questione: Amina sonnambula è responsabile delle sue azioni? Quanto dell’anima si rivela in uno stato incosciente?

A palesare uno stato ancora più allarmante e perturbante sarà Edgar Allan Poe con due racconti che indagano la soglia della morte in stato ipnotico: se il corpo è morto, l’anima o la coscienza parlante dove sono? Corpo e anima sono una cosa sola? O come affermavano i meccanicisti da più di due secoli il corpo non è nient’altro che un orologio? Descartes diceva senza mezzi termini: «io non sono questo corpo». Ma non era l’unico: partendo da Vesalio autore del De humani corporis fabrica nel 1543, passando da Lutero a Pascal, da Hobbes a Newton, i grandi filosofi e scienziati dei secoli XVI, XVII e XVIII si prodigarono nella dimostrazione che nella coscienza risiedeva la natura umana e non nel corpo, semplice strumento la cui rottura non doveva commuovere più che quella di un aratro. Descartes per dimostrare il suo assunto si diede alla vivisezione di animali vivi asserendo che non avvertivano dolore non avendo coscienza.

Quello che filosofia e scienza volevano mettere in soffitta erano le credenze magiche, la possibilità di influsso dell’anima sul corpo, l’idea insomma che tra cielo e terra ci fosse molto di più. La natura e il corpo umano erano macchine prevedibili, comprensibili, studiabili, quantificabili. L’irrazionale e l’incomprensibile venivano banditi, per lo meno nell’alta società colta, mentre nei ceti bassi e rurali resisteva quello che potremmo chiamare, citando De Martino, il pensiero magico.

Mesmer e la sua teoria aprirono improvvisamente una porticina in questa fortezza inespugnabile di certezze, un pertugio di cui approfittarono prima i medici e poi gli artisti. Nell’Ottocento prima in Francia, poi in Italia e Germania, cominciarono ad apparire, nei salotti e in seguito nei teatri, strani spettacoli nati dalla giunzione di scienza e arte che furono causa di accesi dibattiti.

Un caso fu la coppia formata da Auguste Lassagne, ex-prestidigitatore, e la moglie sonnambula Prudence Bernard. Si esibirono in Italia nel 1850 prima creando scandalo in Torino, dove numerosi scienziati e medici, proposero con una scommessa di smascherare gli imbroglioni. Ovviamente la sfida andò a monte, ma in Milano, al Ridotto della Scala, lo spettacolo interessò nientemeno che il Manzoni, il quale ne fu così impressionato da tentare esperimenti in prima persona su una sua serviente ventenne nella sua villa di Lesa a cui assistette anche il Rosmini. Non solo: nella sua casa di Milano invitò a esibirsi la coppia Italiana formata dallo Zanardelli con la figlia Elisa.

Dai salotti fu breve il salto sui palcoscenici dei teatri. A partire dagli anni Cinquanta dell’Ottocento Francesco Guidi e Madamigella Luisa di esibirono in lunghe tournée tanto da approdare al Valle di Roma nel 1872. La loro esibizione constava di tre sezioni (modello desunto dai francesi e poi mantenuto dai successori): esperimenti fisiologici (catalessi, anestesia, abolizione dei sensi, etc.), esperimenti psicologici (chiaroveggenza) e un’ultima parte, la più importante per il nostro discorso, chiamata estasi musicale in cui Madamigella Luisa, accompagnata da musica eseguita dal vivo al pianoforte, si tramutava in statua offrendo al pubblico immagini di rara potenza emotiva. Si aprivano le porte al meraviglioso e a tutta una serie di interrogativi e questioni tutt’ora al centro del dibattito.

Prima di passare tali questioni in sommario esame, dobbiamo fare una necessaria premessa. Quello che emerge da queste esibizioni non importa fosse vero o fosse illusione premeditata. Per il pubblico e per gli osservatori l’effetto ammaliante era indiscusso e fortemente presente. Solo gli scienziati si affannavano a screditare tali spettacoli in quanto mettevano in crisi secoli di concezione meccanicista e razionalista del corpo e della medicina, anche se in effetti ci furono numerosi ciarlatani finiti sotto processo e di costoro se ne fecce beffe persino Petrolini.

Proviamo dunque a elencare i motivi di attrazione e di discussione, alcuni dei quali ritornano nei dibattiti odierni sul ruolo della donna. Innanzitutto il tema della bambola animata o dell’automa. La donna danzante sotto ipnosi suscita nel pubblico una fascinazione ambigua verso un corpo animato da fili invisibili in uno stato comatoso che ricorda la marionetta. Uno stato artificiale tra la vita e la morte di cui oggi troviamo traccia nelle IA o nei robot della nuova fantascienza in cui la vita sintetica è quasi sempre femminile, in quanto esempio di alterità fonte di inquietudine.

Secondo aspetto: la finta morte. Poe nei suoi racconti del mistero e dell’orrore esprime proprio questo aspetto nel ritrarre il signor Valdemar o in Rivelazione mesmerica. Se il corpo è morto la coscienza è viva? Cosa anima il corpo? Sembrano questioni dei massimi sistemi ma pensiamo alla temperie culturale della seconda metà dell’Ottocento e l’inizio del Novecento dove movimenti occulti, spiritisti, antroposofici si interessavano morbosamente di questi temi.

Ultimo: una danza o delle pose plastiche in cui l’anima, l’emotività si rivela nel corpo senza l’intervento di una ragione cosciente riportano alla memoria questioni che la scienza e la religione credevano aver sepolto per sempre. L’estasi musicale restituisce il ricordo dei culti misterici, delle pizie, delle baccanti, persino delle streghe. Un irrazionale magico in cui l’azione della psiche agisce sul corpo portatore del divino estatico. Il teatro, come scrive Clara Gallini, ridiventa il luogo del meraviglioso. Da sottolineare che tale emersione avviene, nella quasi totalità dei casi, attraverso il femminile. La donna e il suo corpo, pur se sotto la maschera imposta dell’isteria e della malattia mentale, torna a essere terreno fertile per l’immaginazione inconscia, la creazione istantanea del bello non razionalmente concepito. Purtroppo non dobbiamo dimenticare come in queste esibizioni vi fosse nel pubblico e nella critica un certo voyeurismo stimolato da una sessualità inibita soprattutto nel femminile.

La vera esplosione di interesse e le principali ricadute in campo artistico avvengono però nel Novecento quando sulle scene prima francesi e poi tedesche (dove esplode il fenomeno), fa la sua comparsa nei teatri il duo formato dal dottor Magnin e da Madeleine G., una giovane madre di due figli, di origine russa, con qualche rudimento di danza classica come ogni rampolla di famiglia borghese, e affetta da ricorrenti mal di testa. Magnin scoprì che sotto ipnosi Madeleine G. reagiva alla musica e alla poesia danzando in un modo spontaneo, ricco di emozioni, fuori da ogni canone estetico e tecnico allora praticato.

Proprio questa capacità coreutica estremamente emotiva, capace di esprimere l’inconscio con tale potenza, colpì come un maglio l’ambiente artistico mitteleuropeo dove già con il Simbolismo stava aprendo la porta verso il mondo del mistero, dell’irrazionale e dell’immaginazione. Quando Madeleine G. appare sulle scene di Monaco di Baviera nel 1904 si scatena l’ammirazione e la sorpresa. George Fuchs parla apertamente di ebbrezza dionisiaca, mentre molti critici affermano l’identità dello stato della giovane danzatrice inconsapevole con l’artista preso dal proprio mondo immaginativo e creativo.

Inoltre affascina il binomio, tanto caro a Thomas Mann, tra malattia e arte. Ma sarà soprattutto questa porta aperta verso l’inconscio a influenzare il nascente Espressionismo, per non parlare delle teorie della nuova danza, prima fra tutte quella di Rudolf von Laban e l’idea del Körperseele, del corpo vestito dell’anima. Nella comunità di Monte Verità ad Ascona, Laban, Charlotte Bara e Mary Wigman indagarono a lungo e profondamente questa emersione dell’irrazionale e dell’inconscio nella danza.

Una porta una volta aperta diventa un passaggio entro cui passeranno in molti. Pensiamo a Dada e al Surrealismo, dove l’inconscio e l’automatismo giocano un ruolo fondamentale nello scardinare gli accademismi imperanti. Nel Surrealismo poi la donna è protagonista, sia come musa ispiratrice (si pensi a Max Ernst) ma soprattutto ai contributi delle artiste portatrici di una visione magica, sciamanica, animale come Leonora Carrington, Leonor Fini, Frida Kahlo, Remedios Varo, giusto per fare qualche esempio.

Madamigella Luisa e Madeleine G. sono state pioniere inconsapevoli di un nuovo sentire, di un rapporto diverso con il corpo, di una visione innovativa dell’immaginario artistico nel secolo che stava iniziando. Dimenticarsi delle sonnambule danzanti significa rimuovere non solo un momento fondamentale nella storia delle arti, ma una scarto decisivo verso una liberazione della femminilità dai gioghi imposti dal maschilismo per secoli.

Probabilmente tutto questo non era nelle intenzioni di nessuno dei protagonisti di tali esibizioni. Illusione, meraviglia, mistero erano alla fine dell’Ottocento e all’inizio del Novecento, parte di una nascente spettacolarità, certo relegata ai margini del milieu culturale, ma presenti ed influenti. Non sempre un cambio di prospettiva nasce da un progetto. A volte le cose accadono perché i tempi sono pronti e perché è necessario.

Ricordiamo dunque le sonnambule e il ruolo da esse giocato nel ridefinire i ruoli della donna nella nostra società non ancora liberata dai pregiudizi, e dove la femminilità è ancora considerata qualcosa di alieno da possedere e dominare.

Trasparenze Festival

TRASPARENZE FESTIVAL: la volontà di muovere utopie

Dal 2 al 5 maggio, tra Modena, Castelfranco Emilia e Gombola, si è svolta la settima edizione di Trasparenze Festival, dal titolo: muovere utopie. Negli ultimi anni la parola festival, che indica una festa e una rassegna a tema culturale, ha assunto non tanto nuovi significati quanto un riassestamento delle sue funzioni, processo questo ben lungi dall’essere terminato.

L’idea tradizionale di vetrina di spettacoli seppur permane soprattutto nei grandi eventi, viene sempre più sostituita nelle manifestazioni medio piccole dal convincimento che il festival sia soprattutto un momento e un’occasione in cui il teatro e le arti performative incontrano le comunità che le ospitano e si relazionano con il tessuto sociale.

Il festival diventa quindi uno strumento per intessere relazioni, non nel senso delle public relations, quindi con un fine utilitaristico, quanto piuttosto un recupero dell’idea di agorà, di luogo aperto al confronto e al dibattito, dove le anime di una polis, non necessariamente geografica e stabile, ma anche temporanea, ideale, utopistica forse, si possono confrontare e pensare evoluzioni impreviste.

Tale evoluzione, come detto ben lungi dall’essere terminata, è stata causata da più fattori: l’evoluzione del pubblico, stanco di essere un semplice occhio passivo e desideroso di essere maggiormente coinvolto; la presa di coscienza degli operatori dello scollamento avvenuto tra la società e la cultura e quindi dell’inutilità di una proposta legata semplicemente alla visione, al mostrare senza affiancare una riflessione e un incontro che riavvicini la comunità al teatro, non inteso come luogo fisico quanto piuttosto come piano immaginario e sperimentale; infine la richiesta dei maggiori finanziatori, oggi le fondazioni bancarie, di pensare luoghi che coinvolgano sempre maggiori categorie di pubblico, riflessione questa non sempre disinteressata.

La società come comunità e la relazione tra artisti e cittadini diviene dunque il centro dell’interesse dei festival e le strategie messe in campo sono molteplici, non tutte sempre efficaci, non tutte sincere. Trasparenze Festival si distingue nel panorama nazionale per un’effettiva ricerca di uno spazio di incontro tra l’arte del teatro (termine inteso nel senso più ampio possibile) e il territorio in cui opera e la società che lo abita, soprattutto nei riguardi delle categorie meno protette: detenuti, anziani, richiedenti asilo, disabili. Inoltre Trasparenze Festival cerca di smuovere il pensiero e la riflessione all’interno della comunità teatrale stessa, cercando di ripensare le modalità di creazione, riflettendo sul significato dell’atto creativo in sé.

Ogni agire comporta pregi e difetti, pratiche emendabili e perfettibili, penso soprattutto al Progetto Cantieri che intende promuovere un periodo residenza creativa non finalizzata alla restituzione di un prodotto ma all’indagine del momento zero della creazione artistica e che potrebbe essere magari maggiormente espanso nel tempo e forse allargato al pubblico e alla critica in maniera più integrata. L’agire però si distingue nelle intenzioni, nel promuovere pratiche virtuose, perché oggi è proprio nelle pratiche che il fare artistico e culturale porta la sua diversità e le sue utopie, e sotto questo aspetto Trasparenze si differenzia per la responsabilità e sincerità.

Un esempio è il tentativo operato dal festival di attivare un progetto di residenze artistiche che coinvolge la comunità a rischio spopolamento della piccola frazione di Gombola, nel comune di Polinago sull’appennino. Purtroppo a causa di una tempesta di neve fuori stagione il programma previsto il 5 maggio, che prevedeva una camminata poetica accompagnata dalla voce di Ermanna Montanari, lo spettacolo di Abbiati Una tazza di mare in tempesta, La delicatezza del poco e del niente di Roberto Latini e l’incontro cantato del Collettivo Hospites di Mario Biagini è stato annullato ma certo rimane nelle intenzioni e speriamo che nelle prossime future edizioni del festival tutto ciò possa essere realizzato.

L’afflato utopistico di Trasparenze Festival e del suo direttore Stefano Tè si manifesta in tutta la sua luminosità soprattutto nel progetto Moby Dick, spettacolo urbano che si avvale della drammaturgia di Giulio Sonno e che coinvolge bambini, detenuti, richiedenti asilo, attori e musicisti professionisti. Moby Dick è una produzione più vicina agli allestimenti di un grande teatro d’opera e quasi impossibile per una compagnia indipendente come quella del Teatro dei Venti. Stefano Tè ha però fortemente creduto nella sua realizzazione ed è riuscito insieme ai suoi collaboratori a rendere reale questa immensa nave che diventa balena e abita le piazze.

Un carro palco enorme che, come il Pequod, la nave di Achab nel meraviglioso romanzo di Hermann Melville, diventa una comunità ideale che solca i mari sfidando la sorte per la realizzazione di un progetto impossibile. Come spiega Giulio Sonno, il libro di Melville è attraversato dalla crisi del trascendentalismo americano che vede minato il sogno della democrazia partecipata. Ecco dunque che lo scontro tra Achab e la balena bianca assume un significato politico, nel conflitto tra l’idea di democrazia e la società di massa prefigurata nel Leviatano di Hobbes.

Lo spettacolo vede la grande nave trainata in piazza. Sulla tolda l’equipaggio percuote le grosse botti vuote che ospiteranno l’olio di balena. La nave issa gli alberi e le vele, si trasforma in balena, diviene essa stessa mostro e si chiude in minore con il monologo di Achab rivolto direttamente alla testa del leviatano, testa attraversato da molte suggestioni testuali, dal Faust di Goethe, al Qoelet, al trentatreesimo canto del Paradiso dantesco.

L’azione scenica ci restituisce la vita di una nave, dove gli attori non fingono d’essere equipaggio ma sono equipaggio e con questo si intende comunità che non simula ma agisce. Il pregio maggiore di questo Moby Dick, che offre al pubblico un’epica e magnifica risoluzione del romanzo di Melville, è quella di saper coniugare una grande spettacolarità con una intensa profondità di senso. Il carro-palco stesso non è solo macchina di fascinazione ma diventa piano ideale per la sperimentazione di una società possibile, e la sua immagine si moltiplica e rimanda ad altre navi ideali che hanno solcato i mari, da quella dell’Antico Marinaio, a quella di Ulisse, a quella dell’Olandese Volante, perfino quella dei grandi navigatori da Colombo a Magellano in mare per scoprire nuovi mondi.

Moby Dick è quindi la migliore manifestazione possibile dell’afflato utopistico che anima il Trasparenze Festival. È l’emblema della sua azione politica volta a creare comunità prefigurando scenari magari improbabili ma decisamente possibili quando si è animati, come Fitzcarraldo da una grande fede.

Ph: @Chiara Ferrin