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Renée Falconetti

Renée Falconetti: il destino del fuoco

|ENRICO PASTORE

Quella di Renée Falconetti, più che la storia di una straordinaria attrice dimenticata, è piuttosto il racconto di una performance unica avvenuta nel segno del fuoco e delle lacrime, che ha rischiato di essere irrimediabilmente perduta proprio per una serie ripetuta di roghi, quasi fosse reclamata dalle fiamme. Renée Falconetti si identifica, nella storia del cinema e del teatro, nella Giovanna D’Arco di Carl Theodor Dreyer in quella che secondo il critico Alessandro Cappabianca è stato :«quanto di più vicino a una vera e propria reincarnazione si sia mai verificato su un set cinematografico».

Il film di Dreyer fu per molti versi un campo di forza dove non solo si manifestarono in tutta la loro potenza esplosiva le possibilità evocative dell’immagine cinematografica, ma in nuce, e forse per la prima volta, gli effetti di un teatro della crudeltà ancora da teorizzarsi. Antonin Artaud è, nelle vesti del monaco Massieu, protagonista nel film insieme alla Falconetti, ma come afferma Antonio Attisani resta: «accanto all’attrice come uno spettatore affascinato e confuso», e in quell’osservare rapito vi è probabilmente la comprensione di una potenzialità che gli fece prendere coscienza di una possibilità futura di teatro della crudeltà. Dunque per parlare di una prefigurazione di attore e di performance teatrale dovremo passare attraverso il cinema.

Dreyer giunse in Francia dopo il successo de L’angelo del focolare del 1925 e gli fu affidato il compito di raccontare le gesta di Giovanna D’Arco attraverso una produzione colossal per l’epoca. Il budget si aggirò intorno alla cifra, enorme per il periodo, di sette milioni di franchi. La sceneggiatura fu scritta da Michel Champion basandosi sul libro di Joseph Delteil e sugli atti originali del processo. Tutto accade in un solo giorno, il 30 maggio 1431, quando avviene il supplizio e l’esecuzione sul rogo di Giovanna in un gioco di sovrapposizioni con la passione di Cristo.

Benché Dreyer fece spendere un’enormità allo scenografo Hermann Warm (lo stesso del Gabinetto del Dottor Caligari di Robert Wiene), per la ricostruzione fedele del Castello di Rouen dove si svolsero i fatti, le riprese sono quasi esclusivamente limitate ai primi piani, usando prospettive insolite come a evocare le scene dipinte nei codici miniati medievali. Le riprese avvennero in un clima tutt’altro che agevole e sereno sotto una ferrea regola del silenzio, non risparmiando disagi fisici agli attori e soprattutto alla Falconetti, con scene ripetute ossessivamente alla ricerca della perfezione e attraverso una costante pressione psicologica. A tal proposito sorsero spontanee quanto fasulle leggende sulla crudeltà di Dreyer verso la Falconetti tanto da causarle disagi psicologici. In verità sembra che Renée condivise il metodo con il regista e si sottopose volontariamente alle ossessive ripetizioni, poi visionate e scelte insieme, sia alle disagevoli prove fisiche (come la rasatura dei capelli e la morsa ai piedi). Per quanto riguarda i problemi mentali ne fu affetta per tutta la vita. Stando alla testimonianza di Hermann Warm l’unica deroga alla verità e al realismo estremo voluto da Dreyer fu la scena del salasso, avvenuta sul braccio di una comparsa e non sulla Falconetti.

Renée giunse alla prova di Giovanna D’Arco dopo una brillante carriera teatrale avviata dopo gli studi al Conservatorio di Parigi nel triennio 1911-1914. Dopo l’esordio con L’Arlésienne all’Odeón si cimentò in commedie e drammi tra cui spiccano La dame aux camélias e Lorenzaccio di De Musset del 1928 anno in cui si incomincia a girare il film di Dreyer, A riprova delle mancate violenze psicologiche subite, dopo le riprese, non solo diresse il Théâtre de l’Avenue nel biennio 1929-30 e recitò in Phèdre nel 1930, ma si cimentò nuovamente in teatro proprio con il ruolo di Giovanna. Solo nel 1935 si ritirerà in Svizzera per l’aggravarsi di problemi mentali e inizierà il suo calvario doloroso che la porterà in fuga dalla guerra in Sud America, e infine al suicidio a Buenos Aires nel 1946.

Torniamo sul set di Dreyer e cerchiamo di capire in cosa consiste la straordinarietà dell’interpretazione di Renée Falconetti. Nell’osservare con attenzione l’immagine filmica della performance di Renée si nota in primo luogo una sostanziale differenza con gli altri interpreti, compreso lo stesso Artaud. Tale differenza si sostanzia in primo luogo attraverso una mancata recitazione sostituita da un agire/patire intenso e veritiero ottenuto grazie a una magistrale sottrazione di sé.

Ciò che osserviamo è un abbandono totale all’azione non attraverso una finzione, ma vivere mediante una maschera di una forza tale da costringere lo spettatore a interrogarsi sulla realtà di quanto scorre davanti ai propri occhi. Siamo al di là del recitare, è un vivere attraverso il corpo e un sentire mediante l’occhio, come disse Pasinetti: «mai attrice di teatro fu così poco teatrale». Citando Antonio Attisani possiamo dire, in maniera più profonda e mirata, che: «la protagonista […] tende a cancellarsi. Il suo volto, il suo corpo diventano un velario che lascia scorrere il caso, il tema al di là della persona, dimostrando concretamente cos’è la santità, il martirio dell’attore; gli altri sono testimoni di ciò che accade, testimoni imbelli, ma attraverso loro noi “vediamo la storia”: è questa la chance dello spettatore».

L’abilità di Dreyer è stata quella di saper evocare l’incarnazione del dolore e della sua trasfigurazione nel corpo attorico della Falconetti, attraverso le condizioni di lavoro e il realismo delle scene, utili solo all’immersione dell’attore nella materia più che all’occhio di chi guarda. Tutto avviene senza parole (se si escludono le didascalie), i visi sono naturali, senza trucco, solo quindi attraverso i corpi/ombre impressi sull’immagine crudele o, come la definisce Cappabianca, l’immagine estrema ossia quella: «che riesce a mettere in crisi, in senso quasi fisico, la nostra sicurezza […], quella che ci sconvolge perché non riusciamo più a credere che sia solo un’immagine». L’ombra si fa dunque più concreta della realtà, attraverso la maschera si palesa la dura realtà di un evento.

Forse con qualche azzardo potremmo paragonare la performance di Reneé Falconetti a quella di Ryazard Cieślak ne Il principe Costante di Grotowski, altro corpo di dolore capace di trasfigurazione e incarnazione.

Renèe Falconetti fu capace di far emergere il doppio, una Giovanna attraverso di sé e il proprio corpo, una Giovanna reale, in carne ed ossa, vivente, sofferente, morente davanti ai nostri occhi increduli. Come scrive Cappabianca: «amo la Falconetti, perché penso che in lei sia avvenuto, per una volta nella storia del cinema, una specie di miracolo della reincarnazione, e perché sento che, attraverso lei, Giovanna, guerriera contadina, mi guardi, guardi proprio me, indicandomi mestamente il destino del fuoco».

Queste parole riecheggiano potenti quelle di Artaud che, forse pensando proprio al martirio sul rogo di Renèè/Giovanna scrive ne Il teatro e il suo doppio: «la cosa veramente diabolica e autenticamente maledetta della nostra epoca, è l’attardarsi sulle forme artistiche, invece di sentirsi come condannati al rogo che facciano segni attraverso le fiamme». In verità Renée Falconetti colpisce nel segno, più che nella scena del rogo, nel calvario che la precede, in quegli sguardi come persi, rivolti dentro di sé, quel soffrire il dolore attraverso le lacrime, l’abbandono totale, il lasciarsi attraversare da ciò che avviene di lei e su di lei. Come dice Attisani: «Renèe Falconetti è una deità che […] incarna un sentimento di pietas, di compassione, di stupore per un mondo ridotto in cenere da una nefasta minoranza di ignoranti armati».

La crudeltà intravista da Artaud per mezzo della Falconetti è dunque una forma di rivelazione. Questa è una suggestione, seppur plausibile, e non una verità documentaria anche se è possibile che, come afferma Cappabianca: «l’esperienza del film di Dreyer e il rapporto con l’interprete di Giovanna, Renèe Falconetti, non solo abbiano segnato profondamente Artaud, ma che Dreyer abbia applicato, sul set del suo film, procedimenti e metodi da considerare, nel segno del rigore, come anticipazioni di quelli ipotizzati nel Teatro della Crudeltà». E tale svelamento avviene non tramite il realismo, ma tramite un’evocazione sinfonica di immagini espressive, che rendono reale l’ombra impressa nei singoli fotogrammi. Per questo il martirio di Renèe/Giovanna ci colpisce con tale forza d’urto e per usare le parole di Artaud: «in una parola, siamo convinti che nella cosiddetta poesia esistano forze vive, e che l’immagine di un delitto presentata in condizioni teatrali adeguate sia per lo spirito infinitamente più terribile della realizzazione di quello stesso delitto».

Se dunque in qualche modo Artaud mancò nel rendere attuabile la sua idea di Teatro della Crudeltà, attraverso Renèe Falconetti possiamo farci un’idea concreta di cosa intendesse. La storia però ha i suoi risvolti ironici nella tragicità del suo svilupparsi. Questa performance straordinaria all’interno di un film altrettanto extra-ordinario rischiò seriamente di essere niente più che un pallido ricordo annotato sulle recensioni di un’epoca lontana. Infatti la prima copia venne distrutta dal fuoco nel 1928. Dreyer provò a rimontarne una seconda con ciò che era rimasto del girato e con alcuni negativi dell’originale, ma anche questa pellicola andò in fumo nel 1929. Nel 1951 lo storico Joseph-Marie lo Duca scovò nei sotterranei della Gaumont una copia della seconda versione che sottopose a rimontaggio e applicando una colonna sonora la rese nuovamente di dominio pubblico. Per molti anni questa fu l’unica versione disponibile, finché nel 1981, ironia della sorte date le biografie di Falconetti e Artaud, fu ritrovata una copia non censurata in un manicomio di Oslo. Quest’ultima fu restaurata in Danimarca e riproposta finalmente al pubblico.

Renèe Falconetti morì a Buenos Aires, ormai dimenticata, per un probabile suicidio, ma ci ha lasciato in eredità una straordinaria prova d’attrice, in cui non vi è testo ma solo l’azione e, parafrasando ancora Attisani, la trasformazione di un corpo doloroso in un corpo glorioso. La possibilità che il corpo attorico senza l’ausilio del testo o della parola, possa essere parlante si sta facendo pallida nel teatro, in un tripudio di testi antichi, vecchi e nuovi, dopo un secolo, il Ventesimo che di tutto ha fatto per sganciarsi dalla sudditanza dalla parola scritta. Tale eredità sembra però essere stata raccolta dalla danza e dalla performance. Forse il miglior modo di ricordare un’attrice straordinaria come Renèe Falconetti e quella di recuperarne il lascito, rimparare a esprimersi col corpo più che con il logos.

La vida es sueño

La vida es sueño: la sacra rappresentazione dell’umana fragilità di Lenz Fondazione

Lenz Fondazione ha realizzato a Parma, nel monumentale complesso de La Pilotta La vida es sueño, un progetto site specific da l’auto sacramental di Calderon de la Barca. Nell’ala nord della Galleria Nazionale quindici performer, di età compresa tra gli otto e gli ottant’anni, hanno dato vita a una complessa drammaturgia composta da immagini e suoni che si contrappuntano con la riscrittura del testo di Calderon.

L’auto sacramental era una sacra rappresentazione di piazza le cui origini affondano nel Medioevo ma che conobbe il suo più alto splendore durante il Siglo de Oro. Forma spettacolare itinerante legata alla festività del Corpus Domini veniva preceduta da danze mascherate di tipo carnascialesco e avveniva su due carri a più piani trainati da buoi con le corna dorate su una piattaforma mobile, detta carrillo. Durante il Seicento i carri divennero prima quattro e poi otto a circondare una piattaforma fissa. Nella capitale Madrid era consuetudine che ciascun auto sacramental desse quattro rappresentazioni: la prima per il re e la corte, la seconda per il Consiglio municipale che ne era anche l’organizzatore e il produttore, e due recite per il popolo e la nobiltà minore.

I testi che venivano rappresentati erano di argomento sacro e dovevano illustrare, come le moralità medievali, singoli aspetti della dottrina cristiana. Gli autos però non disdegnavano in questo di unire argomenti mondani alle tematiche religiose.

Tra il 1647 e il 1681 a Madrid gli autos sacramentales rappresentati furono di un unico autore incaricato direttamente dalla corte reale di Spagna: Calderon de la Barca cui si devono probabilmente le principali innovazioni.

La vida es sueño come auto sacramental viene composto dopo il più noto dramma in cui si narra delle vicissitudini di Sigismondo, principe di Polonia, incatenato in una torre per le funeste previsioni astrologiche che gravano sul suo destino se avesse preso il potere, ma conserva alcune delle tematiche principali: il ruolo del libero arbitrio, la possibilità di cambiare i decreti celesti grazie alla volontà, la vita come sogno. Nonostante sia posteriore La vida es sueño possiede un ritmo e una modalità drammaturgica ispirato all’antico, dove i personaggi sono allegorie degli elementi (terra, fuoco, aria e terra) o delle forze che agiscono sull’uomo (l’amore, il potere, l’ombra, la luce,). Il testo contiene inoltre elementi distanti dall’ortodossia cattolica tra cui proprio l’idea della vita come sogno, concetto di derivazione neoplatonica e legato all’idea di reincarnazione delle anime (Cfr. A. Attisani, Breve storia del teatro).

L’auto sacramental è dunque un genere alquanto distante dal nostro consueto sentire, difficile e ostico a noi moderni lontani da qualsiasi idea di sacro. La messa in scena di Lenz Fondazione, curata da Maria Federica Maestri e Francesco Pititto, si sviluppa nell’intera lunghezza di una smisurata galleria occupata da tredici letti da ospedale. Le figure appaiono come i personaggi di un sogno dando vita a immagini precise seppure sfuggenti. Da un mucchio di stracci emergono il vecchio e il bambino legati dalla stessa catena di ferro; su una scala appaiono tre bambini mascherati, con il mano una chitarra giocattolo, sono Amore, Potere e Sapienza; il vecchio uomo incontra la donna dorata che gli porge un pomo d’oro che lo sveglierà dal sogno.

Le immagini scorrono con un ritmo ieratico e ipnotico, ci conducono per mano nel mistero e nel sogno, e ci fanno man mano prendere coscienza della fragilità dell’uomo e delle sue convinzioni. Tutto scorre inesorabile sotto le luci caravaggesche che intagliano le figure donando loro una strana e innaturale consistenza. Restano quei letti d’ospedale che accolgono vecchi e giovani uniti da una comune infermità legata all’umano agire/patire. L’auto sacramental si trasforma in una sorta di danza dei morti dove per ogni personaggio è comune il destino e la sostanza: l’essere nient’altro che l’ombra di un sogno.

Diverse le suggestioni pittoriche, prime fra tutte le proiezioni che campeggiano sulle pareti della galleria e che richiamano il quadro del pittore spagnolo Antonio de Pereda dedicato a Giobbe. La figura del vecchio patriarca con lo sguardo rivolto al cielo si sovrappone a quella di alcuni degli interpreti così come le sue sventure si sovrappongono a quelle di ciascuno di noi. Siamo ombre di un sogno già sognato da qualcun altro, di un’illusione che torna ancora e ancora, senza fine.

Quella tra Lenz Fondazione e Calderon de la Barca è una lunga frequentazione che parte proprio da una realizzazione de La vita è sogno del 2003, e passa attraverso Il magico prodigioso, Il principe costante, Il gran teatro del mondo, e proseguirà anche nei prossimi anni in cui è prevista una nuova versione del dramma di Sigismondo. Un lungo peregrinare tra le parole e le immagini di Calderon cercando di restituirci un’idea di teatro che tentava di rappresentare l’umano in ogni sua possibile manifestazione. Una visione dell’uomo universale alla ricerca del senso del suo agire, del suo dibattersi e lottare sulle assi instabili di questo palcoscenico in cui, nostro malgrado, ci troviamo tutti a recitare.