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SPECIALE INTERPLAY: L’AMORE, LA MORTE E IL TEMPO

Il sentiero artistico tracciato da questa 22ma edizione di Interplay, festival della nuova danza guidato con mano solida e sicura da Natalia Casorati, prosegue approfondendo temi da sempre scottanti: l’amore degli amanti pompeiani fuso e immortalato nell’ultimo loro istante dall’eruzione del Vesuvio del 79 d.C. ispira il duo ideato dal giovane e promettente Adriano Bolognino; da Oriente giunge una morte di bianco vestita raccontata da Nanhee Yook, coreografa sudcoreana di grande spessore artistico che ha già attirato l’attenzione degli operatori, non solo asiatici ma europei; Lorenzo Morandini indaga la possibilità di sfuggire alle definizioni; infine Guy Nader e Maria Campos, esplorano la dimensione rarefatta del tempo con Set of Sets.

Adriano Bolognino apre il programma della terza serata alla Lavanderia a Vapore di Collegno con Gli amanti, un duo di forte impatto visivo ed emozionale. Le danzatrici Rosaria Di Maro e Giorgia Longo interpretano una coreografia che prova a immaginarsi la vita degli amanti pompeiani nel tempo precedente l’attimo in cui i loro corpi diventano una scultura fusa dalla violenza delle ceneri incandescenti del vulcano. Il movimento oscilla tra due poli: da una parte le pose plastiche in cui i corpi quasi si cristallizzano in figure di bassorilievo, e momenti in cui la danza si scioglie in gesti a volte fluidi, più spesso con accelerazioni contrapposte frenate improvvise, in cui la vita degli amanti si manifesta in una tensione verso l’altro più che in un afflato erotico. L’emozione che scaturisce da questo fluttuare tra la staticità statuaria e l’accelerazione-decelerazione riguarda più la compassione, nel senso proprio di patire insieme, nel vivere insieme a quei due corpi, l’amore privo di qualsiasi risvolto terreno di chi si approssima alla morte, un amore assoluto rappreso e irrigidito nel suo ultimo istante. La musica scelta, caratterizzata da un’atmosfera ieratica e solenne, ci spinge in questa direzione: lontano dalle braccia di Afrodite verso quelle di Persefone.

Rosaria di Maro e Giorgia Longo in Gli amanti di Adriano Bolognino

Se Adriano Bolognino coglie l’amore che precede la morte, la coreografa coreana Nanhee Yook ci immerge nell’atmosfera luttuosa che accompagna sempre il suo passaggio tra i viventi. Il titolo del suo pezzo breve, Talk about death, non lascia adito a dubbi, così come il bianco dei costumi considerato nelle culture orientali il colore del lutto. La morte non è presente come elemento traumatico, piuttosto si indaga la malinconia, il ricordo, ciò che rimane di una presenza. La morte è dunque vista nel suo essere un momento nel flusso delle vite, un processo di trasformazione e di passaggio, non un termine ultimo, benché in chi resti permanga una sensazione costante d’assenza e di mancanza.

Lorenzo Morandini porta in scena Idillio, un breve solo incentrato sulla volontà di inventare nuove parole e nuovi significati. I gesti vogliono provare a essere altro rispetto al consueto, la danza tenta di sfuggire alla tradizione culturale che le preesiste. Il risultato di tali tensioni rimane incerto. Non si riesce a percepire una vera fuga, quanto piuttosto un permanere in un’orbita da cui non si riesce a sfuggire. Non si scappa mai alla propria cultura. Si può al limite tentare di cambiare le regole del gioco ma solo quando si conoscono perfettamente le regole. Si può variare il canone solo nel momento in cui si è padroni del canone. Idillio di Lorenzo Morandini non riesce quindi del tutto nel suo intento proprio perché ricade nello stereotipo da cui cerca di fuggire: gesti e atteggiamenti partono dal noto, ma non riescono quasi mai a raggiungere terre sconosciute.

Al Teatro Astra incontriamo Guy Nader e Maria Campos, coppia artistica consolidata e affermata anche nel nostro paese. Set of sets è un pezzo di insieme ipnotico e suggestivo incentrato su un’immagine del tempo come ritorno e ripetizione. Ciò che si dipana davanti ai nostri occhi è una sorta di planetario in cui i corpi dei danzatori costruiscono orbite e attrazioni gravitazionali in perpetua traslazione nello spazio.

Questo complesso meccanismo di rotazioni, rivoluzioni, ripetizioni e variazioni costruisce complicati congegni di precisione in cui i movimenti dei danzatori, anche quando apparentemente casuali, definiscono con precisione la meccanica. Davanti ai nostri occhi si materializzano orologi cosmici formati da corpi in continua interazione. Il tempo non appare mai lineare, cronologico, quanto piuttosto una spirale in perpetua evoluzione tra il pendolo del ritorno dell’uguale e il mistero quantistico della simultaneità.

La musica, eseguita in scena dallo stesso compositore Miguel Marin, è una multiforme tessitura di loop elettronici e sampling su cui si innestano i ritmi della batteria. La trama sonora è il battito su cui si vengono a formare i sistemi planetari, il disegno ritmico di campi di asteroidi in perenne fuga e attrazione reciproca. I corpi ruotano su se stessi, su e con gli altri corpi: si scontrano, si accarezzano, rimbalzano come palline di un biliardo. Se il tempo è il protagonista primario, l’antagonista è di certo la gravità da cui la danza cerca perennemente di sfuggire. I volteggi acrobatici, i corpi lanciati e catturati quando sembrano destinati a una rovinosa caduta, sono una aperta sfida all’attrazione gravitazionale. La tensione tra la fuga e l’inevitabile ricaduta è la vera fascinazione di quest’opera complessa e ipnotica.

Interplay

SPECIALE INTERPLAY: UN VIAGGIO TRA TRADIZIONE E INNOVAZIONE

Seconda serata di Interplay, Festival della nuova danza di Torino, diretto da Natalia Casorati, questa volta in scena alla Lavanderia a Vapore di Collegno. Il programma spazia tra Italia, Israele e Spagna, mostrando lavori che in qualche modo si posizionano sul confine tra innovazione e recupero della tradizione.

Si inizia con Jacopo Jenna con Alcune coreografie, lavoro in cui spicca un grande disegno drammaturgico volto a unire il linguaggio coreografico con il video e la partitura musicale. Alcune coreografie ricorda da vicino l’opera di Christian Marclay The Clock (2010) vincitore del Leone d’oro alla Biennale di Venezia. Se nel lavoro dell’artista svizzero, della durata di ventiquattro ore, si assisteva a un montaggio accuratissimo di immagini cinematografiche in cui protagonista indiscusso era il tempo nel suo scorrere ritmato da frammenti in cui ogni minuto della giornata era evidenziato da un orologio indicante ore e minuti in successione, montaggio intessuto su una partitura costituita di campionamenti e remix, nella coreografia di Jacopo Jenna, vediamo un incastonarsi di schegge e pillole di danze che perfettamente si incastrano e dialogano con ciò che la danzatrice esegue sulla scena.

La coreografia segue il montaggio video e traspone in un flusso innovativo ciò che le immagini, tratte da ogni genere di manifestazione danzata, colta o popolare, etnica o folclorica, spontanea o studiata, propongono alla visione dello spettatore continuamente portato a confrontare video e performance dal vivo. Così Pina Bausch, Trisha Brown o Merce Cunningham si alternano a Micheal Jackson, alla Haka degli All Blacks, i salti dei Maasai, il musical, le danze egizie di May Wigman, semplici video di You Tube in cui persone normali danzano prese dall’emozione.

Ramona Caia in Alcune Coreografie di Jacopo Jenna

Se l’opera si limitasse a questa carrellata video e al suo corrispettivo coreografico dal vivo, non sarebbe niente di più che un grande lavoro di montaggio. Tutto questo materiale non si limita a mostrarsi ma racconta un evoluzione di vita e morte e rinascita, di comparazione tra umano, animale e inanimato. Ogni cosa danza e manifesta il canto della vita a fronte della sua caducità. L’ultimo sguardo della danzatrice Ramona Caia, rivolto agli spettatori, lascia a noi la prossima mossa. Un invito a danzare la nostra coreografia.

Non solo. Ci troviamo di fronte anche a un confronto tra tradizione e innovazione, dove appare evidente che gli stimoli alla composizione possono venire da qualsiasi genere e materiale possibile, e come il calco genera sempre uno scarto dall’originale, un passaggio di testimone, una diffusione di stimoli che partorisce nuove forme a partire dalle vecchie. Un tema questo estremamente attuale in un periodo storico in cui sembra si sia formata una cesura tra le vecchie e nuove generazioni di artisti interrompendo parzialmente quel passaggio di tecniche e idee compositive donato da una generazione all’altra con il compito di apprendere e poi variare il canone ricevuto.

Altro tipo di confronto con la tradizione si assiste nel duo a firma Gil Kerer dal titolo Concerto per mandolino e orchestra in do maggiore di Vivaldi. Lo stesso Gil Kerer in coppia con Lotem Regev danzao il famoso concerto del Prete Rosso innestando sulla partitura ritmica della musica, una coreografia molto delicata seppur energica ed estremamente dinamica, fatta di sguardi e relazioni tra i due danzatori intervallati da momenti comici. Tra un movimento e l’altro infatti vi sono delle pause per riprendere fiato, sostenersi l’un l’altro nella fatica, bere acqua, momenti di autoironia in cui traspare tutta la fatica del danzare.

I due danzatori ci raccontano a parole, a modo loro, l’idea di base del concerto di Vivaldi volta a esaltare la difficile presenza del mandolino nell’orchestra. Strumento estremamente dolce e morbido, per esaltarsi in un ensemble orchestrale deve essere accompagnato per lo più dagli archi, dove quest’ultimi sono al servizio, come in ascolto, per permettere al loro compagno colmo di una poesia magica ma dalla voce flebile di poter apparire in tutta la sua forza espressiva. Un lavoro breve ma denso la cui essenza è costituita da un confronto sano e ironico con la tradizione sia danzata che musicale, proiettata non verso il passato, ma verso il futuro. L’opera è esaltata quindi da una drammaturgia pronta a parlare della delicatezza e del rispetto con cui andrebbero intessuti i rapporti umani affinché ciascuno possa far sentire la propria voce per quanto sommessa.

Gil Kerer e Lotem Regev in Concerto per mandolino e orchestra di do maggiore di Vivaldi

Chiude la serata il duo spagnolo formato da Carla Cervantes Caro e Sandra Egido Ibanez con il loro pezzo breve dal titolo Cuando somos. I corpi delle due danzatrici si fondono in unico essere ibrido formato da due entità distinte ma cooperanti. Una continua generazione equivoca in cui esseri intrecciati diventano insetti, creature mitologiche e favolistiche degne di apparire nei migliori bestiari medievali. Una visione del corpo che spinge a immaginarne di non convenzionali per ammirarne la meraviglia inaspettata e sorprendente. Un gioco di incastri, non solo ben studiato, ma poetico e ipnotico insieme.

Questa seconda serata di Interplay ci conduce dunque verso una esplorazione ragionata ed emotiva allo stesso tempo attraversando non solo il binomio tradizione e innovazione, ma soprattutto a volgere le nostre riflessioni sulla natura fragile dei rapporti umani da costruirsi con poeticità, delicatezza, decisione e ascolto estremo. Un secondo appuntamento perfettamente dosato in cui le tematiche e le tecniche si confrontano senza mai appesantire l’occhio dello spettatore. Una soireé che ci fa guardare, una volta tanto, con ottimismo al futuro dell’arte coreutica.

Daniele Ninarello

LO STATO DELLE COSE: INTERVISTA A DANIELE NINARELLO

Prosegue la nostra indagine su Lo stato delle cose. Questa settimana incontriamo Daniele Ninarello e come è ormai consuetudine abbiamo posto anche a lui le fatidiche cinque domande: creazione, produzione, distribuzione, funzioni della scena e rapporto con il reale. Lo scopo di questi incontri lo ribadiamo è raccogliere le idee e i pensieri di chi oggi è protagonista della giovane ricerca scenica e cogliere dalle risposte alcune linee guida sugli strumenti necessari per un vero rinnovamento nonché le possibili coordinate verso la scoperta di nuovi paradigmi e funzioni per il teatro inteso nel suo senso più ampio del termine.

Daniele Ninarello è danzatore e coreografo. Tra i suoi lavori ricordiamo Coded’uomo, Man Size, Non(leg)azioni, God Bless You, Bianconido, Kudoku e STILL. Il suo ultimo lavoro Pastorale ha debuttato alla Lavanderia a vapore di Torino nel novembre 2019.

Qual è per te la peculiarità della creazione scenica? E cosa necessita per essere efficace?

Mi sono sempre interessato all’aspetto ritualistico della creazione, sia nell’atto del creare sia nella sua condivisione con un pubblico. Per me la creazione scenica deve articolarsi intorno a un problema, ad una questione che parte con urgenza da chi la affronta, e si estende in infinite possibilità di ricezione verso chi vi partecipa, autor*, co-creator*, interpret* e pubblico. Amo quando una creazione mi disturba in qualche modo, quando nella sua semplicità mi impedisce di afferrare il segreto che ne tiene insieme i pezzi. Mi piace quando un’opera mi lancia addosso un problema che chiede risoluzione anche dentro di me. Credo sia necessario che essa guardi alle questioni del nostro tempo, che spesso sono atemporali. Sento ancora fortemente necessarie alcune tematiche che hanno attraversato i decenni passati e che ancora si proiettano sul nostro presente. Sento forte la necessità di partecipare ad un rito, di essere attraversato e di attraversare. Penso che la creazione scenica debba denunciare, portare con sè un pensiero critico sul presente, essere libera di mostrare la sua natura per illuminare un po’ il buio in cui si addentra. E’ necessario che si agganci all’anima di chi crea e che proprio chi la crea faccia il più grande atto di rinuncia scomparendovi all’interno.

D: Oggi gli strumenti produttivi nel teatro e nella danza si sono molto evoluti rispetto solo a un paio di decenni fa, – aumento delle residenze creative, bandi specifici messi a disposizione da fondazioni bancarie, festival, istituzioni -, eppure tale evoluzione sembra essere insufficiente rispetto alle esigenze effettive e deboli nei confronti di un contesto europeo più agile ed efficiente. Cosa sarebbe possibile fare per migliorare la situazione esistente?

E’ vero oggi gli strumenti si sono evoluti, ci sono sicuramente più possibilità di ottenere residenze e avere qualche fondo per le produzioni. Ma non basta! Oggi più che mai credo sia necessario pensare a quali siano le esigenze degli artist*, a come sostenere le produzioni artistiche, riconoscendole come sistemi organizzativi complessi, non solo finalizzate al confezionamento di un prodotto finale, che non si esauriscono unicamente in sala. Vi sono molte persone che circuitano intorno ad una creazione artistica, che cooperano alla riuscita del progetto, senza le quali è difficile far crescere e sviluppare le idee. Bisognerebbe lavorare ancora di più tutt* insieme perché si possa riconoscere il valore economico del lavoro di tutt* e perchè tutt* siano messi nella condizione di mettere a disposizione il proprio talento, la propria vocazione. Ovviamente questo risulta difficile quando operatrici e operatori culturali non sono a loro volta messi nella condizione ottimale per poterlo fare, soprattutto economicamente. In qualche modo queste nuove strategie nascono dalla volontà di sopravvivere, di resistere perché il valore del nostro lavoro venga riconosciuto. Questa disfunzione ci ha portato nuovamente alla cooperazione. Il punto è come utilizziamo queste possibilità, cooperiamo a distanza, o torniamo ad interessarci da vicino. Non so cosa si possa fare per migliorare la situazione esistente. Mi viene in mente che si potrebbe veramente riconoscere la ricerca artistica come momento di produzione di conoscenza e sapere, e non essere costretti a tempi limitati. Credo nel valore della cooperazione tra le parti che compongono il sistema culturale del paese. La crisi economica culturale dilaga ovunque, il punto centrale è quanto siamo uniti di fronte a questa crisi. Rispetto alla realtà di altri paesi osservo come gli artist* siano più influenti verso il pensiero che orienta il fare cultura.

D: La distribuzione di un lavoro sembra essere nel nostro paese il punto debole di tutta la filiera creativa. Spesso i circuiti esistenti sono impermeabili tra loro, i festival per quanto tentino di agevolare la visione di nuovi artisti non hanno la forza economica di creare un vero canale distributivo, mancano reti, network e strumenti veramente solidi per interfacciarsi con il mercato internazionale, il dialogo tra gli indipendenti e i teatri stabili è decisamente scarso, e prevalgono i metodi fai da te. Quali interventi, azioni o professionalità sarebbero necessari per creare efficienti canali di distribuzione?

Mi riconduco alla domanda precedente, quello della distribuzione in Italia è un tasto dolente. Esistono delle figure professionali sulle quali bisognerebbe investire di più, e che dovrebbero avere la possibilità di emergere, di essere messe nella condizione di pensare un nuovo modo di fare cultura sostenendo il lavoro degli artist*, di pensare e creare progetti intorno alla creazione. Esistono delle reti, e ne nascono in continuazione, e nel mio caso hanno aperto opportunità indispensabili per la crescita del mio lavoro. Conosco realtà e partenariati che coesi risultano vincenti di fronte ad una causa comune. Esistono alcuni bandi che nascono appositamente per la circuitazione di artist*. Le reti funzionano quando mettono in relazione, creano ponti, danno la possibilità di aprire un dialogo. La difficoltà spesso sta nel rendere questo dialogo duraturo, continuo. Nascono lavori molto validi che poi fanno fatica ad emergere, a girare, a volte perché poco compresi nel loro momento, altre volte fanno poche repliche e poi muoiono. Credo appunto che una creazione nasca dalla sua prima intuizione ma non so dire quando si conclude, e nel migliore dei casi resta eterna, forse possiamo intervenire su questo. Quali interessi scorrono nelle relazioni tra artist*, festival, teatri? Che tipo di dialogo abbiamo costruito insieme? Quanto siamo vicino al lavoro che abbiamo deciso di sostenere? Produrre una creazione potrebbe voler dire parteciparvi, assistere come testimoni del suo divenire per conoscerla davvero, e accompagnarla con fiducia sostenendo la sua possibilità di viaggiare e incontrare diversi tipi di pubblico. Forse è davvero tempo di rallentare, di non pensare ai numeri o di pensarci diversamente in termini di alleanza. E’ tempo di coalizzarsi perché questo modo di fare cultura smetta di sgretolarsi vorticosamente sulla spalle di artist*, operatori e operatrici culturali, mettendo ognun* nell’insopportabile posizione di doversi difendere con le poche armi che ha a disposizione.

Assistiamo ad una realtà che ci racconta quanto la distribuzione dell’arte abbia ripercussioni positive sul vivere nei luoghi, contribuisce a creare il loro clima e ad arricchire noi, con un ritorno positivo in termini di partecipazione e di scambio continuo. Questo migrare trasforma l’atmosfera della città, favorisce la circolazione di saperi, crea connessioni fra i territori e culture che raramente si incontrano. Una sorta di mescolarsi continuo a mio avviso di un’importanza estrema, verso il quale si sta investendo e si può continuare ad investire sempre di più.

D: La società contemporanea si caratterizza sempre più in un inestricabile viluppo tra reale e virtuale, tanto che è sempre più difficile distinguere tra online e offline. In questo contesto quali sono oggi, secondo la tua opinione, le funzioni della creazione scenica che si caratterizza come un evento da viversi in maniera analogica, dal vivo, nel momento del suo compiersi, in un istante difficilmente condivisibile attraverso i nuovi media, e dove l’esperienza si certifica come unica e irripetibile ad ogni replica?

Oggi attraverso il virtuale assistiamo ad azioni in diretta pur non essendo presenti fisicamente, e a volte tali azioni hanno una ripercussione globale importante, basta pensare ai flash mob del gruppo femminista Chileno. Molto spesso il virtuale però ci aliena, ci distrae dal luogo in cui ci troviamo dove accadono le cose insieme a noi, vicino a noi, e i dispositivi sono una protesi del corpo per essere in ogni luogo e forse da nessuna parte. L’oggetto che ci introduce al virtuale è diventato a tutti gli effetti uno strumento performativo, tanto da orientare il nostro esistere fra gli altri. Penso però al fatto che il corpo esiste come luogo di mezzo. Tra e tra. E’ una questione di presenza. Quello che lo attiva, che lo informa e agisce sui suoi sensi è fuori dal corpo, intorno al corpo. Quello che vedo e sento agisce su di me, attiva sensazioni, produce pensieri e quindi azioni. Credo che il teatro, la danza, la performance artistica dal vivo, abbiano un reale potere di investire il corpo di chi guarda, e quindi di produrre pensiero, di informare e direzionare menti, e che ci si debba assumere questa responsabilità al di là del formato che si decide di usare. Penso alla creazione come un dispositivo, e in quanto tale deve poter liberamente usufruire di ciò che necessita per innescare il suo potenziale su chi vi partecipa.

Credo che andare a teatro sia una scelta precisa anche se spesso non del tutto consapevole. L’evento performativo per sua natura esiste una sola volta, è un’ occasione l’esserci oppure no. Personalmente non posso rinunciare alla possibilità di esistere insieme all’opera, di sapere che la creazione scenica ci convoca in un luogo preciso ad un’ora precisa, chiunque decida di assistervi. I corpi in scena sono cariche visive, sensoriali, veri e propri magneti di attrazione. E’ qui che attraverso i miei sensi posso incorporare e sentire, piuttosto che proiettare. Un evento performativo dal vivo porta in se l’unicità del fatto che dipenderà da tutte le presenze di quel luogo e provocherà una reazione su tutt* i partecipanti. E’ qualcosa che si consuma insieme, come un pasto da cui attingere tutt*. Confido nell’evento teatrale, nei festival, nelle varie rappresentazioni come momento unico ed importante per creare comunità.

D: Con la proliferazione dei piani di realtà, spesso virtuali e artificiali grazie ai nuovi media, e dopo essere entrati in un’epoca che potremmo definire della post-verità, sembra definitivamente tramontata l’idea di imitazione della natura, così come la classica opposizione tra arte (come artificio e rappresentazione) e vita (la realtà intesa come naturale). Nonostante questo sembra che la scena contemporanea non abbia per nulla abbandonato l’idea di dare conto e interrogarsi sulla realtà in cui siamo immersi. Qual è il rapporto possibile con il reale? E quali sono secondo te gli strumenti efficaci per confrontarsi con esso?

Sono stato influenzato da grandi artist* che hanno raccontato e interpretato il reale affrontando ciò che apparentemente reale non è. Forse proprio per conoscere la realtà, per comprenderla. Nello stesso tempo da artist* che hanno invece raccontato il reale, occupandosene da un altro punto di vista. Ho scelto di veicolare attraverso il movimento, il corpo, di dedicarmi profondamente ad analizzare le sue capacità e la sua funzione di mediare le informazioni proprio per conoscere e comprendere la mia realtà, che non è il reale, ma la mia realtà. Il corpo è luogo di mediazione sociale, dunque è politico, porta delle istanze che riguardano una moltitudine, è medium. Quando il performer è attraversato dalla verità allora sta trattando il reale. Il reale può apparire attraverso il mistero. La danza, la ricerca di movimento hanno per me questa peculiarità di poter parlare del reale attraverso la presenza del corpo, attraverso un corpo che viene costruito mistero che lo abita e lo orienta. Mi piace pensare che creare significhi prendersi cura dell’opera nel suo nascere e formarsi, significa amarla, questo per me è reale. Nel mio caso potrebbe essere reale riuscire a far “scomparire” il corpo che danza per far emergere la danza, per invocare un terzo oggetto di cui si fa portavoce, che riguarda tutt* in maniera diversa, che affeziona la realtà di ognun* in maniera unica. Riguardo al rapporto con la natura, come tu mi suggerisci, John Cage diceva che il compito dell’arte è “imitare la natura nel suo modo di operare”. Da un po’ di tempo mi sono dedicato allo studio dei moti della natura, e questo ha influenzato molto il mio pensare la coreografia. Mi piace osservare come dai moti della natura provengano suggerimenti di un’importanza centrale per comprendere la realtà, soprattutto quella che costruiamo momento dopo momento. Il nostro strumento è il corpo, la percezione e l’affezione le modalità attraverso cui misuriamo la realtà. Mi chiedo dunque come si possa abbandonare l’idea di interrogarsi sull’essere umano, sulla carne, su come o su ciò che sentiamo e percepiamo, sulla natura, sull’esistenza, sulla resistenza, in tutti i modi in cui desideriamo parlarne.

pastorale Daniele Ninarello

UNO SPONTANEO SBOCCIARE: Pastorale DI DANIELE NINARELLO

Lo scorso 16 novembre ha debuttato alla Lavanderia a Vapore di Collegno Pastorale di Daniele Ninarello presentato in forma di studio nella recente scorsa edizione della NID Platform di Reggio Emilia.

È possibile descrivere quest’ultima creazione di Ninarello solo per approssimazione. Potremmo partire da un’immagine. Pensiamo alla superficie di un piccolo stagno in un uggioso giorno d’autunno. Una prima goccia increspa la superficie, le onde piccine perfettamente rotonde e concentriche si allontanano fino a scemare. Alla prima se ne aggiungono altre. Piove e lo stagno è ora crespo di onde che si rifrangono, partecipando ognuna del moto delle altre, disegnando mosaici e labirinti inestricabili sull’acqua sempre più mossa. Poi la pioggia scema, la calma ritorna, la superficie torna a essere uno specchio immobile, come se nulla fosse successo.

Di ogni goccia noi possiamo misurare tutto: il peso, la forza, la traiettoria, l’azione della forza di gravità, ma non dove cadrà la prossima. Ogni stilla caduta dal cielo ha un volo suo particolare, uno schianto nell’acqua che sarà suo e suo solamente, così come il modo in cui le onde generate si mescolano con le infinite altre. Ogni precipitare dall’alto genera un moto e un desiderio di fondersi e sciogliersi per far parte di quell’unico lago dal moto unisono con piccole onde a lambire la terra.

Pastorale di Daniele Ninarello è questa danza delle gocce, un intrecciarsi di semplice e complesso, un intimo abbraccio di prevedibilità e casualità. I quattro danzatori esplorano lo spazio con piccoli e semplici movimenti, ruotano come costellazione intorno a un asse generato dalla rotazione e rivoluzione dei singoli astri in un universo in continua espansione ed evoluzione.

Ogni corpo risponde agli altri, modifica il suo moto al mutare delle leggi di attrazione universale. Non c’è legge eppur c’è una regola. Ogni frase è frutto di ascolto, di rispetto, di reazione istantanea, alla ricerca di un’armonia perduta verso quella che lo stesso Daniele Ninarello definisce “nostalgia dell’unisono”.

Pastorale è come una grande tela di Rothko in cui far naufragare lo sguardo per perdersi oltre il suo orizzonte. È anche un rito, primitivo seppur modernissimo, a scoprire ed esperire la natura di ogni evoluzione, come di ogni convivenza possibile. Ogni moto generato ha il suo spazio e il suo tempo, si miscela con gli altri rimanendo se stesso, si modifica accogliendo gli stimoli, e pur rimane se stesso, resta individuo nel flusso delle miriadi.

John Cage diceva, seguendo i dettami del filosofo indiano Ananda Coomaraswamy, che il compito dell’arte è “imitare la natura nel suo modo di operare”. Daniele Ninarello in questa sua Pastorale, opera matura e specchio di un autore che ha ormai raggiunto la consapevolezza delle sue potenzialità e degli obiettivi cui tendere, riflette splendidamente questo principio. Ciò che stupisce è infatti la mancanza di artificio nell’artificio, ogni istante sembra frutto di un’imprevedibile fiorir di natura, un evolversi spontaneo di ogni gesto nel successivo. Ci dimentichiamo nel perdersi in questa danza che ciò che nasce sotto i nostri occhi è pur frutto di un lavoro artistico. Una costruzione minuziosa come un giardino orientale dove l’abilità dell’architetto sembra essere quella genuina e originaria di madre natura.

Visto alla Lavanderia a Vapore in prova generale il 15 novembre 2019

Interplay

SPECIALE INTERPLAY/19: tendenze poetiche e azione politica nella nuova danza

Interplay ha terminato la sua prima densa settimana di programmazione tra interventi di danza urbana nel tessuto cittadino, incursioni in gallerie d’arte e musei, spettacoli in teatri e convegni, un insieme da cui si è potuto desumere uno scenario a tutto tondo su quanto oggi sta avvenendo nel mondo della danza.

In questo ricco carnet vorremmo porre l’attenzione su due momenti particolarmente significativi. Il primo di giovedì 23 maggio alla Lavanderia a Vapore di Collegno serata in cui è stato presentato un programma quattro performance di danza con Don’t, kiss, duo a firma di Fabio Liberti, Ritornello solo di Greta Francolini, Forecastingdi Giuseppe Chico e Barbara Matijevic e infine Silver Knifedella compagnia coreana Goblin Party; il secondo venerdì 24 maggio al Polo del ‘900 con una giornata curata da Fabio Acca e Natalia Casorati dal titolo Antenne del contemporaneo, volto a dare un panorama sulle azioni e sul ruolo dei principali festival italiani di danza.

Cominciamo l’analisi di queste giornate a partire dalle performance.

Don’t, kiss di Fabio Liberti inizia con due uomini che a piccoli passi sincroni si incontrano al centro della scena, uno di fronte all’altro si guardano e infine si baciano. Da questo bacio si avvia una danza che apre un infinito ventaglio di possibili relazioni. “Cos’è un bacio?” chiedeva Rostand per bocca di Cyrano sotto il balcone di Rossana : ”Un giuramento fatto poco più da presso, un più preciso patto, una confessione che sigillar si vuole” rispondeva la voce alla domanda da lei stessa posta. Ma le variabili sono infinite. Un bacio può dare avvio anche a una dipendenza, a un attaccamento che strozza il sentimento e diventa costrizione, legame che conduce al disequilibrio e alla lotta. Tutto questo caleidoscopio di sensazioni e sentimenti si sviluppa da questo primo gesto naturale e poetico insieme, incipit da cui non si sfugge perché il bacio non viene più dissigillato fino al finale dove i due uomini, incontratisi in un fievole tocco di labbra, si allontanano per opposte direzioni. Questo pezzo breve di Fabio Liberti pone dunque interessanti quesiti sulla natura della relazione tra le persone a partire dalla sua più semplice origine.

Ritornello di Greta Francolini pone invece la sua attenzione sul mondo adolescenziale. La danzatrice svolge una serie di movimenti in loop da cui trasuda un senso di svogliatezza e noncuranza tipico dell’età di mezzo tra l’infanzia e la giovinezza. Una presenza a metà, un essere qui ma anche altrove nello stesso tempo, sempre in between tra due stati egualmente incompleti. Un ricominciare da capo qualcosa che gradualmente perde sostanza, ma nel ripetersi comunque si afferma e si solidifica, I loop o ritornelli sono dunque un luogo ibrido, una sorta di viaggio di formazione verso un orizzonte non ancora visibile, ma che sicuramente sorgerà e si configura come una sorta di ritratto oscuro di questa età indefinibile della vita,

Forecasting di Giuseppe Chico e Barbara Matijevic è performance di natura leggera quasi sbarazzina. Un laptop presenta una serie di tutorial presi da Youtube che insegnano a un vasto pubblico le più svariate attività: dal ricaricare e pulire una pistola, alle ricette di cucina, dal pulire le alici al sostituire un hard-disk. Il corpo della performer si interfaccia con quanto le immagini raccontano e i video diventano dunque un’estensione del corpo reale, così come il mondo digitale si travasa nel concreto. Forecasting, che ricorda molto la ricerca consimile della Compagnia 7/8 chili, si sviluppa su questa linea uniforme per tutta la sua durata senza porre reali interrogativi. Si resta sul margine, in una dimensione giocosa, quasi di scherzo che a lungo andare però annoia perdendosi nella ripetizione dell’effetto.

Silver Knife della compagnia sudcoreana Goblin party è un pezzo coreografico per quattro danzatrici di densità sorprendente che tratta della difficoltà della donna di affermare la propria identità. Il titolo si riferisce al tradizionale coltello coreano Eunjangdo indossato come simbolo di infedeltà femminile ma anche strumento per il suicidio rituale e per difesa contro i nemici. Silver Knife si sviluppa attraverso una danza precisa, molto intensa e colma di energia, che si nutre di riferimenti alla cultura tradizionale coreana come di una commistione con linguaggi più universali e contemporanei come l’hip-hop. Due gli elementi fondamentali di questa composizione: l’estrema varietà di ritmi insieme all’espressività dei corpi danzanti e il canto che si intreccia con il movimento, lo innerva e lo modella. Un viaggio intenso, emozionale, che descrive una realtà femminile ancora distante dall’ottenere una giusta e paritaria dignità, oppressa da ruoli non propri e imposti, ma che lotta strenuamente per la propria indipendenza e affermazione.

Le quattro performance che ci ha proposto Interplay rivelano come la coreografia contemporanea metta in questione il mondo che la circonda, non semplice ricerca estetica ma modalità di interrogazione, prassi di pensiero in movimento, che nell’incontro con il pubblico rivela la sua natura dialogica con la comunità che condivide i problemi e le istanze per una ricerca in comune di possibili soluzioni.

Che ruolo hanno i festival in questo processo di ridefinizione e rinnovamento della danza? Come si inserisce la loro attività di sostegno alla ricerca nel contesto produttivo-distributivo italiano? Questi sono alcuni degli interrogativi che si sono posti durante la giornata di riflessione Antenne del contemporaneo coordinata dal critico e studioso Fabio Acca.

Presenti al tavolo quattordici tra i più importanti festival del panorama italiano, dai più longevi come Oriente-Occidente, Inequilibrio e Fabbrica Europa, alle realtà emergenti e più giovani come Cross Festival di Verbania e Conformazioni di Palermo (inutile in questa sede elencarli tutti. Per chi volesse può trovare tutti i relatori a questo indirizzo http://www.mosaicodanza.it/date/interplay2019/giornata-di-studio-e-riflessione-sul-ruolo-dei-festival-del-contemporaneo/).

Attraverso la presentazione della propria attività i direttori di festival hanno fatto emergere una serie di tendenze e criticità che, purtroppo per ragioni di tempo, sono state solamente tratteggiate e che necessiterebbero di ulteriori momenti per un’approfondita riflessione. Ne indicheremo alcuni di particolare rilevanza.

In primo luogo si è ribadito che l’azione di un festival non è solamente artistica ma soprattutto politica, aspetto più volte sottolineato da Lanfranco Cis, direttore di Oriente Occidente. Le scelte di direzione comportano una visione politica e l’affermazione di una serie di valori che identificano la comunità che si viene a creare intorno a una manifestazione. L’attenzione alle categorie più deboli della società (richiedenti asilo, diversamente abili, anziani etc.), il dialogo con il territorio di appartenenza attorno a temi di comune interesse sono solo alcune delle modalità di intervento dei festival.

Questo tema si intreccia fatalmente con l’audience engagement e il bisogno di soddisfare l’ingordigia dei numeri dei finanziatori pubblici e privati. La questione meriterebbe intensi studi e non semplici accenni, soprattutto perché le parole stesse andrebbero riformate. Se come suggerisce qualche studioso si incominciasse a misurare quello che gli anglosassoni chiamano impact to society, la questione numerica assumerebbe una dimensione diversa. Quanto viene modificata una società da una pratica? Questa diviene dunque la domanda che non si misura nel tempo breve ma nel dispiegarsi di una strategia di medio periodo e consentirebbe di agire senza la ghigliottina dei numeri immediati. Infatti se misurassimo il successo dell’attività performativa di John Cage a partire dagli spettatori presenti al primo Happening al Black Mountain College di certo potremmo pensare che quel singolo evento non meritasse più di tanta attenzione. Se invece quantifichiamo il suo impatto sul pensare l’evento performativo e sul grado di innovazione portato nel corso degli anni in America e non solo, vedremmo la massiccia onda di piena che quel singolo evento portatore del pensiero del grande compositore americano ha portato alla storia dell’arte scenica nel Secondo Novecento e oltre.

In secondo luogo emerge l’attività di sostegno portata dai festival alla produzione e distribuzione dei giovani artisti che spesso non hanno altri canali per mostrare il proprio lavoro al pubblico e agli operatori. Inoltre il sistema delle residenze, con tutti i propri limiti, resta uno strumento necessario e quasi unico alla creazione. Come ricorda Emanuele Masi, direttore di Bolzano Danza, questi interventi mostrano anche i limiti del sistema italiano dove i festival in qualche modo suppliscono alle mancanze di una filiera incompleta e carente, soprattutto rispetto a quella di paesi, come la Svizzera o il Belgio, più evoluti sotto questo aspetto.

Quanto il sistema sia frammentario lo dimostra anche il fatto che la quasi totalità dei festival presenti sia residente nel Centro-Nord Italia, mentre il Sud si vede rappresentato solo dal giovane Festival Conformazioni diretto da Giuseppe Muscarello, che ricorda come la Regione Sicilia non abbia previsto per le manifestazioni festivaliere nessuno strumento a sostegno. Strumenti diversi a seconda delle regioni che pregiudicano a volte la capacità di intervento e risposta ai bisogni del proprio territorio.

Questi alcuni dei temi trattati in un’intensa giornata di confronto. Alcuni sono semplicemente stati enunciati, come per esempio l’intreccio sempre più consueto tra TRIC e festival, di cui ancora bisogna misurare la portata e gli effetti essendo un recente fenomeno in divenire. Resta la necessità di questi incontri, di approfondire la riflessione e la conoscenza reciproca al fine di poter inventare nuovi sistemi che possano favorire l’attività degli artisti e le loro opere senza le quali non ci sarebbe nulla di cui discutere.

L’opera e l’attività degli artisti sono il nucleo centrale che va salvaguardato e difeso per farlo crescere e fiorire. Edoardo Donatini, direttore di Contemporanea Festival di Prato ricorda come oggi le api, a causa dei cambiamenti climatici, mangiano il proprio miele per nutrirsi. Questo dobbiamo evitare, che i nostri artisti si consumino, per mancanza di nutrimento. Festival, teatri, critici, tutti gli operatori del settore devono interrogarsi su come sostenere l’attività fondamentale dell’artista affinché possano sviluppare i loro linguaggi di innovazione. Le opere d’arte, soprattutto quelle effimere come la danza o il teatro che vivono dell’istante dell’incontro con il pubblico, sono il vero tesoro da non disperdere, e necessitano di particolari condizioni di protezione per poter fiorire. Non solo soldi, ma spazio, tempo, sostegno alla distribuzione, reti che possano affrontare coproduzioni internazionali, strumenti che agevolino l’esportazione. Tutto questo non può essere demandato solo ai festival, ma questi ultimi possono però cercare, attraverso le loro azioni, di curvare e piegare un sistema refrattario al cambiamento.

Pina Bausch

PINA BAUSCH TRA DIFFERENZA E RIPETIZIONE

Alla Lavanderia a Vapore di Collegno (Torino) si è svolta la Maratona Pina Bausch curata da Susanne Franco e Gaia Clotilde Chernetich in collaborazione con la Fondazione Piemonte dal Vivo. L’evento, il cui sottotitolo è “danzare la memoria, ripensare la storia”, nelle intenzioni non era solo un omaggio alla grande coreografa in vista del decennale della morte (30 giugno 2009), quanto una riflessione sul suo lascito e su come la sua opera e le pratiche a essa congiunte vengano trasmesse alle nuove generazioni.

Il teatro e la danza sono arti fragili e antiche il cui sapere si tramanda ancora per la maggior parte attraverso l’insegnamento ad personam, da corpo a corpo, mediante l’oralità e la testimonianza diretta di chi ha visto. Solo in qualche caso anche grazie a degli scritti. A questi lasciti tradizionali, negli ultimi decenni, si sono affiancate la fotografia e il video che costituiscono materiale di eccezionale valore nello studio di un percorso artistico, eppure l’iscrizione nei corpi e nell’immaginario risultano ancora lo strumento fondamentale grazie a cui l’opera di un artista della scena si tramanda.

Pensiamo a Grotowski il cui pensiero, più che a scritti e documenti, è affidato al corpo di Thomas Richards. O a Stanislavskij: quanto dell’insegnamento del maestro ci è veramente giunto integro? E quanto delle alterazioni e difformità sono dovute al tradimento dei discepoli e ammiratori, agli effetti della storia, al mutamento delle condizioni socioeconomiche dell’ambiente in cui si è radicato il suo pensiero? La memoria e i gesti sono in quanto tali imperfetti, è e implicano sempre una diserzione e un’evoluzione. Differenza e ripetizione.

Queste domande sono basilari per lo studio della storia delle arti dal vivo e per comprendere l’influenza attribuibile a un maestro dopo la sua dipartita. Nel caso di Pina Bausch è possibile osservare gli effetti di come la sua eredità si diffonda e per quali canali essendo la sua scomparsa un evento recente. I suoi danzatori e il Tanztheater Wuppertal sono ancora in attività e molti testimoni delle sue creazioni sono tutt’ora in vita ma già si affacciano sulla scena le nuove generazioni che hanno potuto vederli solo attraverso i documenti o per averne misurato l’influenza attraverso l’opera di terzi.

La Maratona Pina Bausch si è concentrata su Café Müller di cui quest’anno ricorre il quarantesimo anniversario (20 maggio 1978). Attraverso la presentazione di tre spettacoli (Jessica and me di Cristiana Morganti, Rewind di Deflorian/Tagliarini e Oro di Foscarini/Lopalco), di libri e documentari, di una mostra fotografica di Ninni Romeo e Piero Tauro, seminari e un workshop di Julie Stanzak sulla Nelken Line, Susanne Franco e Gaia Clotilde Chernetich hanno cercato di compiere una disamina del fenomeno di trasmissione dell’eredità della grande coreografa tedesca.

I tre spettacoli rappresentano differenti veicoli di contagio attraverso cui l’eredità si diffonde nel contemporaneo. Cristiana Morganti è stata membro effettivo della compagnia di Pina Bausch per più di vent’anni e Jessica and me costituisce il suo tentativo di discostarsi dalla propria maestra alla ricerca di una cifra personale. Una lotta con il passato per conquistare un presente indipendente. La sincerità di questo faticoso percorso si manifesta con un’azione quasi alla Jerome Bel (pensiamo a Cedric Andriaux e Veronique Doisneau) in cui Cristiana Morganti si racconta con disincantata ironia, mostra i suoi pensieri durante l’esecuzione, si auto intervista.

Il duo Deflorian/Tagliarini presenta Rewind del 2008, spettacolo dedicato a Café Müller, lo storico lavoro che tutti gli appassionati e studiosi di danza hanno in qualche modo ben presente. La donna con la sottoveste bianca, le braccia leggermente protese in avanti con i palmi rivolti all’osservatore, quel suo camminare come sonnambula su uno spazio colmo di sedie nere sono icone che fanno parte di un immaginario mitico comune. Deflorian/Tagliarini guardano il video di Café Müller, visione negata al pubblico che ne percepisce solo i suoni attraverso un microfono. I due attori ce lo raccontano, con le parole e i gesti, ma nello stesso momento si fanno attraversare dall’opera e la trasformano.

All’inizio dello spettacolo ci viene presentata una sedia di cui si dice essere l’originale del primo allestimento del 1978, pagata cinquemila euro su Ebay. Subito appare una copia, identica, di quell’oggetto iconico. E poi una terza. All’occhio di chi ha visto almeno un filmato di Café Müller risulta evidente che quelle sedie non sono quelle originali. Il modello è diverso. Le sedie dunque manifestano già uno scarto, sono elemento che collega e diversifica. Questa scena dunque racchiude in sé il nucleo della riflessione di Deflorian/Tagliarini che si confrontano con il “metodo Bausch” – virgolettato perché in fondo metodo non è, per lo meno non in maniera formalizzata -, e ne fanno emergere gli elementi caratterizzanti: le domande, i ricordi, l’azione dei corpi. Un omaggio che è trasformazione e incorporazione, da cui necessariamente sorge una distanza e una differenza.

Oro. L’arte di resistere (2018) con la coreografia di Francesca Foscarini, la drammaturgia di Cosimo Lopalco e l’interpretazione dei Dance Well Dancers è invece una caso di trasmissione indiretta dell’eredità e dell’immaginario bauschiano. Francesca Foscarini lavora a Bassano del Grappa, (città medaglia d’oro della Resistenza) con anziani affetti da Parkinson e con i loro parenti e amici. Le azioni dello spettacolo nascono proprio dalla riflessione su temi legati alla città e al territorio: oro e resistenza, parole chiave da cui vengono declinate vere e proprie risposte corporee. Nonostante non vi sia una discendenza diretta, Oro richiama con forza lo spirito dei lavori di Pina Bausch, soprattutto Kontakthof, nelle atmosfere, nelle musiche e nella grande umanità che traspira dalla danza, come se l’immaginario legato alle opere del Tanztheater si fosse trasferito inconsciamente nel lavoro. Oro possiede inoltre il grande merito di condurre la percezione dello spettatore al di là della malattia, di non farci vedere degli anziani dilettanti ma dei veri danzatori che ci donano la grazia fragile dei loro movimenti.

Questa Maratona Bausch cerca dunque di misurare i confini su cui si proietta l’ombra della grande coreografa tedesca, tenta in qualche modo di mappare le radici che si dipartono dal suo corpo poetico per individuare i nuovi germogli. L’opera di un maestro è sempre in sé ambivalente, benedizione e maledizione, icona di riferimento e convitato di pietra. Tramandare e tradire, conservare e innovare il duplice volto della memoria che osserva con occhio severo sia chi sopravvive sia chi vien dopo quando ogni traccia vivente è ormai scomparsa.

Sorge alla fine anche una riflessione sul compito di noi che raccontiamo, che ci assumiamo la responsabilità di essere testimoni di quanto avviene sulla scena oggi. Quale sguardo è il nostro? Cosa riusciamo a cogliere di un evento performativo, del suo spirito, della sua fatica e a tramandarlo o comunicarlo? Quanto ci discostiamo da esso inserendo il nostro particolare punto di vista? Siamo creatori di documenti e al contempo dei traditori incalliti?

Maratona Pina Bausch vista dal 16 al 18 novembre alla Lavanderia a Vapore di Collegno Torino.

Ph: @Fabio Melotti