Prosegue
la nostra indagine su Lo
stato delle cose.
Questa settimana incontriamo Daniele
Ninarello
e come è ormai consuetudine abbiamo posto anche a lui le fatidiche
cinque domande: creazione,
produzione, distribuzione, funzioni della scena e rapporto con il
reale. Lo scopo di questi incontri lo ribadiamo è raccogliere le
idee e i pensieri di chi oggi è protagonista della giovane ricerca
scenica e cogliere dalle risposte alcune linee guida sugli strumenti
necessari per un vero rinnovamento nonché le possibili coordinate
verso la scoperta di nuovi paradigmi e funzioni per il teatro inteso
nel suo senso più ampio del termine.
Daniele
Ninarello
è danzatore e coreografo. Tra i suoi lavori ricordiamo Coded’uomo,
Man
Size,
Non(leg)azioni,
God
Bless You,
Bianconido,
Kudoku e STILL.
Il
suo ultimo lavoro Pastorale
ha debuttato alla Lavanderia
a vapore di Torino
nel novembre 2019.
Qual
è per te la peculiarità della creazione scenica? E cosa necessita
per essere efficace?
Mi
sono sempre interessato all’aspetto ritualistico della creazione, sia
nell’atto del creare sia nella sua condivisione con un pubblico. Per
me la creazione scenica deve articolarsi intorno a un problema, ad
una questione che parte con urgenza da chi la affronta, e si estende
in infinite possibilità di ricezione verso chi vi partecipa, autor*,
co-creator*, interpret* e pubblico. Amo quando una creazione mi
disturba in qualche modo, quando nella sua semplicità mi impedisce
di afferrare il segreto che ne tiene insieme i pezzi. Mi piace quando
un’opera mi lancia addosso un problema che chiede risoluzione anche
dentro di me. Credo sia necessario che essa guardi alle questioni
del nostro tempo, che spesso sono atemporali. Sento ancora fortemente
necessarie alcune tematiche che hanno attraversato i decenni passati
e che ancora si proiettano sul nostro presente. Sento forte la
necessità di partecipare ad un rito, di essere attraversato e di
attraversare. Penso che la creazione scenica debba denunciare,
portare con sè un pensiero critico sul presente, essere libera di
mostrare la sua natura per illuminare un po’ il buio in cui si
addentra. E’ necessario che si agganci all’anima di chi crea e che
proprio chi la crea faccia il più grande atto di rinuncia
scomparendovi all’interno.
D:
Oggi gli strumenti produttivi nel teatro e nella danza si sono molto
evoluti rispetto solo a un paio di decenni fa, – aumento delle
residenze creative, bandi specifici messi a disposizione da
fondazioni bancarie, festival, istituzioni -, eppure tale evoluzione
sembra essere insufficiente rispetto alle esigenze effettive e deboli
nei confronti di un contesto europeo più agile ed efficiente. Cosa
sarebbe possibile fare per migliorare la situazione esistente?
E’
vero oggi gli strumenti si sono evoluti, ci sono sicuramente più
possibilità di ottenere residenze e avere qualche fondo per le
produzioni. Ma non basta! Oggi più che mai credo sia necessario
pensare a quali siano le esigenze degli artist*, a come sostenere le
produzioni artistiche, riconoscendole come sistemi organizzativi
complessi, non solo finalizzate al confezionamento di un prodotto
finale, che non si esauriscono unicamente in sala. Vi sono molte
persone che circuitano intorno ad una creazione artistica, che
cooperano alla riuscita del progetto, senza le quali è difficile far
crescere e sviluppare le idee. Bisognerebbe lavorare ancora di più
tutt* insieme perché si possa riconoscere il valore economico del
lavoro di tutt* e perchè tutt* siano messi nella condizione di
mettere a disposizione il proprio talento, la propria vocazione.
Ovviamente questo risulta difficile quando operatrici e operatori
culturali non sono a loro volta messi nella condizione ottimale per
poterlo fare, soprattutto economicamente. In qualche modo queste
nuove strategie nascono dalla volontà di sopravvivere, di resistere
perché il valore del nostro lavoro venga riconosciuto. Questa
disfunzione ci ha portato nuovamente alla cooperazione. Il punto è
come utilizziamo queste possibilità, cooperiamo a distanza, o
torniamo ad interessarci da vicino. Non so cosa si possa fare per
migliorare la situazione esistente. Mi viene in mente che si potrebbe
veramente riconoscere la ricerca artistica come momento di
produzione di conoscenza e sapere, e non essere costretti a tempi
limitati. Credo nel valore della cooperazione tra le parti che
compongono il sistema culturale del paese. La crisi economica
culturale dilaga ovunque, il punto centrale è quanto siamo uniti di
fronte a questa crisi. Rispetto alla realtà di altri paesi osservo
come gli artist* siano più influenti verso il pensiero che orienta
il fare cultura.
D:
La distribuzione di un lavoro sembra essere nel nostro paese il punto
debole di tutta la filiera creativa. Spesso i circuiti esistenti sono
impermeabili tra loro, i festival per quanto tentino di agevolare la
visione di nuovi artisti non hanno la forza economica di creare un
vero canale distributivo, mancano reti, network e strumenti veramente
solidi per interfacciarsi con il mercato internazionale, il dialogo
tra gli indipendenti e i teatri stabili è decisamente scarso, e
prevalgono i metodi fai da te. Quali interventi, azioni o
professionalità sarebbero necessari per creare efficienti canali di
distribuzione?
Mi
riconduco alla domanda precedente, quello della distribuzione in
Italia è un tasto dolente. Esistono delle figure professionali sulle
quali bisognerebbe investire di più, e che dovrebbero avere la
possibilità di emergere, di essere messe nella condizione di pensare
un nuovo modo di fare cultura sostenendo il lavoro degli artist*, di
pensare e creare progetti intorno alla creazione. Esistono delle
reti, e ne nascono in continuazione, e nel mio caso hanno aperto
opportunità indispensabili per la crescita del mio lavoro. Conosco
realtà e partenariati che coesi risultano vincenti di fronte ad una
causa comune. Esistono alcuni bandi che nascono appositamente per la
circuitazione di artist*. Le reti funzionano quando mettono in
relazione, creano ponti, danno la possibilità di aprire un dialogo.
La difficoltà spesso sta nel rendere questo dialogo duraturo,
continuo. Nascono lavori molto validi che poi fanno fatica ad
emergere, a girare, a volte perché poco compresi nel loro momento,
altre volte fanno poche repliche e poi muoiono. Credo appunto che una
creazione nasca dalla sua prima intuizione ma non so dire quando si
conclude, e nel migliore dei casi resta eterna, forse possiamo
intervenire su questo. Quali interessi scorrono nelle relazioni tra
artist*, festival, teatri? Che tipo di dialogo abbiamo costruito
insieme? Quanto siamo vicino al lavoro che abbiamo deciso di
sostenere? Produrre una creazione potrebbe voler dire parteciparvi,
assistere come testimoni del suo divenire per conoscerla davvero, e
accompagnarla con fiducia sostenendo la sua possibilità di viaggiare
e incontrare diversi tipi di pubblico. Forse è davvero tempo di
rallentare, di non pensare ai numeri o di pensarci diversamente in
termini di alleanza. E’ tempo di coalizzarsi perché questo modo di
fare cultura smetta di sgretolarsi vorticosamente sulla spalle di
artist*, operatori e operatrici culturali, mettendo ognun*
nell’insopportabile posizione di doversi difendere con le poche armi
che ha a disposizione.
Assistiamo
ad una realtà che ci racconta quanto la distribuzione dell’arte
abbia ripercussioni positive sul vivere nei luoghi, contribuisce a
creare il loro clima e ad arricchire noi, con un ritorno positivo in
termini di partecipazione e di scambio continuo. Questo migrare
trasforma l’atmosfera della città, favorisce la circolazione di
saperi, crea connessioni fra i territori e culture che raramente si
incontrano. Una sorta di mescolarsi continuo a mio avviso di
un’importanza estrema, verso il quale si sta investendo e si può
continuare ad investire sempre di più.
D:
La società contemporanea si caratterizza sempre più in un
inestricabile viluppo tra reale e virtuale, tanto che è sempre più
difficile distinguere tra online
e offline.
In questo contesto quali sono oggi, secondo la tua opinione, le
funzioni della creazione scenica che si caratterizza come un evento
da viversi in maniera analogica, dal vivo, nel momento del suo
compiersi, in un istante difficilmente condivisibile attraverso i
nuovi media, e dove l’esperienza si certifica come unica e
irripetibile ad ogni replica?
Oggi
attraverso il virtuale assistiamo ad azioni in diretta pur non
essendo presenti fisicamente, e a volte tali azioni hanno una
ripercussione globale importante, basta pensare ai flash
mob
del gruppo femminista Chileno. Molto spesso il virtuale però ci
aliena, ci distrae dal luogo in cui ci troviamo dove accadono le cose
insieme a noi, vicino a noi, e i dispositivi sono una protesi del
corpo per essere in ogni luogo e forse da nessuna parte. L’oggetto
che ci introduce al virtuale è diventato a tutti gli effetti uno
strumento performativo, tanto da orientare il nostro esistere fra gli
altri. Penso però al fatto che il corpo esiste come luogo di mezzo.
Tra e tra. E’ una questione di presenza. Quello che lo attiva, che lo
informa e agisce sui suoi sensi è fuori dal corpo, intorno al corpo.
Quello che vedo e sento agisce su di me, attiva sensazioni, produce
pensieri e quindi azioni. Credo che il teatro, la danza, la
performance artistica dal vivo, abbiano un reale potere di investire
il corpo di chi guarda, e quindi di produrre pensiero, di informare e
direzionare menti, e che ci si debba assumere questa responsabilità
al di là del formato che si decide di usare. Penso alla creazione
come un dispositivo, e in quanto tale deve poter liberamente
usufruire di ciò che necessita per innescare il suo potenziale su
chi vi partecipa.
Credo
che andare a teatro sia una scelta precisa anche se spesso non del
tutto consapevole. L’evento performativo per sua natura esiste una
sola volta, è un’ occasione l’esserci oppure no. Personalmente non
posso rinunciare alla possibilità di esistere insieme all’opera, di
sapere che la creazione scenica ci convoca in un luogo preciso ad
un’ora precisa, chiunque decida di assistervi. I corpi in scena sono
cariche visive, sensoriali, veri e propri magneti di attrazione. E’
qui che attraverso i miei sensi posso incorporare e sentire,
piuttosto che proiettare. Un evento performativo dal vivo porta in se
l’unicità del fatto che dipenderà da tutte le presenze di quel
luogo e provocherà una reazione su tutt* i partecipanti. E’ qualcosa
che si consuma insieme, come un pasto da cui attingere tutt*. Confido
nell’evento teatrale, nei festival, nelle varie rappresentazioni come
momento unico ed importante per creare comunità.
D:
Con la proliferazione dei piani di realtà, spesso virtuali e
artificiali grazie ai nuovi media, e dopo essere entrati in un’epoca
che potremmo definire della post-verità, sembra definitivamente
tramontata l’idea di imitazione della natura, così come la classica
opposizione tra arte (come artificio e rappresentazione) e vita (la
realtà intesa come naturale). Nonostante questo sembra che la scena
contemporanea non abbia per nulla abbandonato l’idea di dare conto e
interrogarsi sulla realtà in cui siamo immersi. Qual è il rapporto
possibile con il reale? E quali sono secondo te gli strumenti
efficaci per confrontarsi con esso?
Sono
stato influenzato da grandi artist* che hanno raccontato e
interpretato il reale affrontando ciò che apparentemente reale non
è. Forse proprio per conoscere la realtà, per comprenderla. Nello
stesso tempo da artist* che hanno invece raccontato il reale,
occupandosene da un altro punto di vista. Ho scelto di veicolare
attraverso il movimento, il corpo, di dedicarmi profondamente ad
analizzare le sue capacità e la sua funzione di mediare le
informazioni proprio per conoscere e comprendere la mia realtà, che
non è il reale, ma la mia realtà. Il corpo è luogo di mediazione
sociale, dunque è politico, porta delle istanze che riguardano una
moltitudine, è medium. Quando il performer è attraversato dalla
verità allora sta trattando il reale. Il reale può apparire
attraverso il mistero. La danza, la ricerca di movimento hanno per
me questa peculiarità di poter parlare del reale attraverso la
presenza del corpo, attraverso un corpo che viene costruito mistero
che lo abita e lo orienta. Mi piace pensare che creare significhi
prendersi cura dell’opera nel suo nascere e formarsi, significa
amarla, questo per me è reale. Nel mio caso potrebbe essere reale
riuscire a far “scomparire” il corpo che danza per far emergere
la danza, per invocare un terzo oggetto di cui si fa portavoce, che
riguarda tutt* in maniera diversa, che affeziona la realtà di ognun*
in maniera unica. Riguardo al rapporto con la natura, come tu mi
suggerisci, John
Cage diceva che il compito dell’arte è “imitare la natura nel
suo modo di operare”. Da un po’ di tempo mi sono dedicato allo
studio dei moti della natura, e questo ha influenzato molto il mio
pensare la coreografia. Mi piace osservare come dai moti della natura
provengano suggerimenti di un’importanza centrale per comprendere la
realtà, soprattutto quella che costruiamo momento dopo momento. Il
nostro strumento è il corpo, la percezione e l’affezione le modalità
attraverso cui misuriamo la realtà. Mi chiedo dunque come si possa
abbandonare l’idea di interrogarsi sull’essere umano, sulla carne,
su come o su ciò che sentiamo e percepiamo, sulla natura,
sull’esistenza, sulla resistenza, in tutti i modi in cui desideriamo
parlarne.
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