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Biennale Teatro

BIENNALE TEATRO 2020: CHIAROSCURI VENEZIANI

Si è concluso in questi giorni il quarto atto della Biennale Teatro sotto la direzione di Antonio Latella. Dopo aver posto l’accento sulla regia femminile (primo atto), sulla questione: attore o performer? (secondo atto), infine sulla drammaturgia (atto terzo), Latella quest’anno ha voluto dedicare tutta la sua attenzione al teatro italiano, costruendo, e usiamo le sue parole, una sorta di “Padiglione Italia”.

Il titolo di questa edizione del Festival era Nascondi(no) a evocare due aspetti: da una parte il nascondimento di tanto teatro italiano, soprattutto nei confronti dell’estero (ma anche in casa propria aggiungerei), dall’altro una certa idea di censura, direi piuttosto cecità selettiva, in cui gli occhi degli operatori vedono solo un certo tipo di scena. Antonio Latella del nascondino evoca perciò l’aspetto giocoso del direttore che “fa la conta” prima di andare alla cerca degli artisti nascosti.

Pensiero lodevole ma il direttore, come chiunque si trovi nella sua posizione, vede ciò che vuole vedere, osserva lo spicchio di realtà che in fondo, consapevolmente o meno, predilige. È la responsabilità della direzione: scegliere uno o più idee di teatro che si reputa essere di particolare interesse nel momento storico in cui si vive, o che pare preannuncino tempi e modalità innovative. E così ha fatto Antonio Latella. Ha scelto, e non certo i “nascosti”, non i “sommersi” sebbene non certo i “salvati”. Anzi in alcuni casi possiamo tranquillamente parlare di sovraesposizione e non certo di nascondimento (per esempio il caso di Leonardo Lidi, Babilonia Teatri, Liv Ferracchiati e Fabiana Iacozzilli che in questi ultimi anni sono stati decisamente e meritatamente sotto i riflettori). Se si voleva veramente cercare il nascosto, secondo l’opinione di chi scrive, si doveva guardare altrove, ma si parlava di scelte e queste di certo sono state compiute con coscienza, serietà e trasparenza.

Altro luogo in cui si denota da parte del direttore una scelta precisa è laddove ha chiesto ai partecipanti di creare i loro lavori senza pensare al contesto distributivo. Un ricercare dunque una libertà creativa, spesso negata dai paletti inseriti nei bandi di finanziamento pubblici e privati e dal contesto stesso che tende a chiudere la visione entro confini ben precisi con parametri che si pensa accontentino lo spettatore o l’abbonato, molto più spesso gli stessi operatori. Quella che potremmo chiamare censura di sistema, per tornare al tema principale. Dietro questa libertà vi è però un pericolo insidioso: creare un’opera svincolata dal contesto produttivo e distributivo, può portare a molti nascondimenti proprio perché il mercato attuale, in modalità iperproduttiva da anni, non è in grado di assorbire tutte le nuove creazioni. Questa libertà rischia dunque di alimentare proprio quel sistema di “censura” che si vuole evitare. E il rischio è forte. Alcuni dei lavori presentati dovranno aspettare mesi prima di una ripresa e quindi l’esordio veneziano rischia di essere un isolato fuoco d’artificio. C’è da chiedersi dunque se veramente ci si possa permettere di ignorare le leggi vigenti di un sistema produttivo ipercapitalistico che non si intende mettere in discussione, restandone all’interno. Sembra piuttosto un episodio di voluta cecità, un volersi dimenticare per un momento dell’esistenza di un regime costrittivo e limitante. I giovani autori però se lo possono veramente permettere? Non sarebbe invece il caso di mettere in questione tale regime chiedendone a gran voce la revisione e mettendo in cantiere delle proposte alternative?

La grande vitalità del teatro italiano più volte evocata da Antonio Latella sembra invece qualcosa di simile gli spasmi di un malato che, come diceva Dante: “non può trovar posa in su le piume,/ma con dar volta suo dolore scherma”. Questi mesi hanno fatto emergere una volta di più la terribile fragilità e precarietà del teatro italiano, instabilità di certo non causata dal Covid, ma presente nell’ossatura del sistema da decenni. La mancanza di una storicizzazione della ricerca italiana nel corso degli ultimi quarant’anni è sotto gli occhi di tutti. Quanti gruppi sono sopravvissuti dagli anni ’90? e dai 2000? quanti sono diventati dei “maestri” tanto da passare la loro esperienza alle più giovani generazioni favorendo quel lavoro di bottega tanto necessario al teatro? E il metodo invalso da anni degli under 35 non ha favorito proprio l’elezione prima e decapitazione poi di molti artisti giunti alla fatidica data? Come può esserci vera vitalità in un tale contesto di spaesamento e di contrasto generazionale? Non è che la vitalità nasconda invece le poche, insufficienti e macchinose tecniche di rianimazione messe in campo? E il pubblico come rientra in questa equazione? Cosa stiamo condividendo con coloro che chiamiamo in teatro?

Queste le molte domande sollevate dalla Biennale Teatro a cui ci troviamo a dover dare risposta in tempi brevi prima che l’incertezza e instabilità recati in dono dalla presente pandemia non renda i problemi insolubili.

Veniamo ora alle opere visionate durante le giornate veneziane che, tra luci e ombre, hanno saputo darci un’immagine, seppur parziale, del nostro teatro attuale.

Liv Ferracchiati La tragedia è finita Platonov La Biennale di Venezia / ©Andrea Avezzù

Innanzitutto Liv Ferracchiati con il suo La tragedia è finita, Platonov (menzione speciale Biennale 2020) dove un giovane autore, regista e interprete ha saputo dar prova di una sua raggiunta maturità. Il confronto con il grande incompiuto di Anton Cechov si sviluppa attraverso un sottile e ironico confronto a prima vista metateatrale, tra il lettore e i personaggi. In realtà in gioco c’è il contraddittorio tra il proprio presente e il contesto passato evocato dalla vicenda di Platonov, in cui aleggia la domanda: come abbiamo potuto disperderci? Dove sono finite le nostre potenzialità? Così il destino di Platonov diventa non solo del lettore, o di Amleto, ma il nostro, di persone divorate dall’incapacità di agire in maniera veramente efficace, che si disseminano come stille d’acqua in arido terreno. Il testo elaborato da e per la scena da Liv Ferracchiati è poetico, ironico con venature tragiche e melanconiche, e si nutre e partecipa dell’abbondanza dell’originale cechoviano e necessiterebbe forse di un leggero ridimensionamento. Più incerta seppur nella solidità dell’impianto e solo in confronto alla dirompente forza drammaturgica, la resa scenica, dove il movimento, lo spazio e il tempo, così come il corpo attorico sono a volte compresse dalla sovrabbondante presenza della parola (notevole comunque la scena delle donne di carta, così come efficace il duello finale tra Platonov e il lettore). Ferracchiati è ora un artista maturo, con un chiaro progetto di scena e un solido impianto concettuale tale da far emergere con adamantina limpidezza le intenzioni del suo teatro arguto e intelligente.

Prova di maturità anche per Giovanni Ortoleva con I rifiuti, la città e la morte di Reiner Werner Fassbinder. Ortoleva dopo Oh, little man, e il Saul al debutto in Biennale Teatro proprio l’anno scorso, porta sul palco del Teatro Piccolo Arsenale una regia di grande respiro, che ricorda non solo lo stesso Latella ma un’Ostermeier prima maniera, e capace di far trasparire la poesia violentemente tenera dell’autore tedesco attraverso una recitazione che oscilla tra teatro epico e intimismo mimetico. Questo movimento di entrata e uscita dal mondo perverso evocato dal testo di Fassbinder, avviene con leggerezza, senza forzature, utilizzando tutti i registri della scena. I costumi pop e vintage, le musiche sempre segno e mai semplice tappeto sonoro (dal Lacrymosa del Requiem verdiano, ai corali di Hendel, alla musica elettronica), le luci a disegnare un paesaggio di forti contrasti emotivi, la presenza di attori capaci di dar corpo, con economia di gesti, alle potenti forze telluriche che abitano le parole e la vicenda. Giovanni Ortoleva è ora, nonostante la sua giovane età, un autore di comprovata solidità e maturità, pronto ad affrontare le prossime prove con autorevolezza, soprattutto se aiutato da un sistema che non sfrutti ma esalti le sue ormai chiare potenzialità.

Babilonia Teatri con Natura Morta prova a mettere in questione il travaso della nostra esperienza dalla realtà al virtuale del cellulare con un’opera che si svolge nella quasi totalità nel chiuso di un gruppo What’s up. I messaggi e le questioni che portano bersagliano il pubblico con violenza, costringendolo a farne i conti in uno spazio privo di illuminazione con l’eccezione delle luci degli smart phone. Un problema tecnico di rete ha interrotto lungamente l’esecuzione del processo. La risoluzione del disguido porta all’apertura della chat invasa ora anche dalle risposte del pubblico, a volte ironiche più spesso infastidite e subito censurate. Il progetto, per quanto chiare ne siano le intenzioni di interpellazione politica e civile su questioni scottanti, appare però un poco pretenzioso, chiuso nella sua volontà assertiva e moralistica. È come se da parte degli autori vi sia la certezza di essere dalla parte giusta della barricata. Inoltre per quanto chiaramente si metta in discussione la dipendenza da virtuale ormai acquisita, il progetto rimane ingabbiato proprio dall’incapacità di porci nella possibilità di reagire, di creare un vero dialogo, e il pubblico rimane così costretto nella parte del ricevente passivo.

Leonardo LidiLa città morta La Biennale di Venezia / ©Andrea Avezzù

Passo indietro per Leonardo Lidi al confronta con un riadattamento di testo dimenticato di Gabriele D’Annunzio, La città morta. Il pubblico si trova di fronte a una gradinata da stadio americano in un’atmosfera alla Greese. Per quanto si comprenda chiaramente la volontà di calare l’opera in un mondo defunto e trapassato, la scelta appare un poco stucchevole più che veramente significante. L’impianto registico è quanto mai tradizionale, dove le trovate sceniche si ispirano a un pop trito e ampiamente sfruttato che ricorda molto la “locura” tanto ben descritta dalla serie Boris: conservatorismo con un poco di pazzia. Ci si aspettava di più da un ragazzo che con Gli spettri e Lo zoo di vetro aveva pur dato prova di una complessità compositiva di maggior respiro.

Leonardo Manzan con Glory Wall (Premio miglior spettacolo Biennale 2020) prova a giocare con il tema della censura proposto dalla Biennale Teatro mettendolo in discussione. Ci si trova davanti a un invalicabile muro bianco, pagina su cui inizia il discorso si di esso proiettato: se lo spettacolo fosse veramente sulla censura, essa dovrebbe intervenire e proibirlo, visto che non succede è un controsenso parlare di censura; ma perché poi dovrebbe intervenire la censura visto che del teatro non importa niente a nessuno? Il muro diventa quindi un’autocensura, ma anche strumento di piacere (da qui il riferimento alla pratica sessuale), poi lapide su cui grandi censurati come Pier Paolo Pasolini, De Sade e Giordano Bruno discutono sul tema con le voci di persone tra il pubblico. Così di numero in numero si arriva all’intervista finale in cui l’artista cerca di radicalizzare la messa in questione del sistema teatro. Benché l’ironia del lavoro e molte trovate siano efficaci, questo gioco di critica appare di maniera, leggermente ruffiano, più strappa applausi che vera interpellazione su un tema di politica culturale. Soprattutto riprende operazioni simili già attuate nel passato (per esempio da Cattelan) ma con altra efficacia. Se è infatti vero che gran parte del teatro ha perso presa ed effetto sulla realtà, è anche vero che dirlo dal palco della Biennale, senza provare ad attuare una vera azione di contro tendenza generale, restando in posizione di scherzosa critica, appare ancora meno energico e utile. È un gesto che sa di rinuncia più che di ribellione.

Leonardo Manzan Glory Wall La Biennale di Venezia / ©Andrea Avezzù

Luci ed ombre quindi in questi debutti alla Biennale Teatro. In alcuni casi forse sarebbe stato più saggio presentarli come studi, produzioni provvisorie, processi in fieri, piuttosto che lavori chiusi e finiti. Questo vale per molti ma soprattutto per Fabiana Iacozzilli (Una cosa enorme), il cui lavoro sembra risentire di due temi distinti e non ben amalgamati, la paura della maternità e la cura dell’anziano incapace di badare a se stesso, così come per Babilonia il cui processo di relazione con il pubblico avrebbe forse bisogno di ulteriori indagini e aggiustamenti. Molti di questi lavori poi avranno sicuramente e purtroppo problemi ad essere distribuiti, con il Covid a complicare ulteriormente il panorama. L’intento di sostenere il teatro italiano passa anche attraverso la creazione delle condizioni per la circuitazione e il sostegno del futuro dei progetti. Farli venire al mondo non basta. La vitalità, sempre che ci sia, va coltivata se no si inaridisce e presto muore.

Antonio Latella

BIENNALE TEATRO 2018: INTERVISTA AD ANTONIO LATELLA

Si è conclusa la seconda edizione della Biennale Teatro sotto la direzione di Antonio Latella dedicata all’attore-performer. Ultimo atto del festival la premiazione di Leonardo Manzan, romano, 26 anni, vincitore del bando del College Registi Under 30. Menzione speciale a Giovanni Ortoleva, 26 anni, da Firenze.

Durante la prima settimana di festival abbiamo incontrato il direttore in quest’intervista per approfondire alcune delle questioni poste dalle opere e dagli artisti presenti nella rassegna.

Enrico Pastore: Antonio Latella perché ha sentito l’esigenza di porre la questione attore-performer?

Antonio Latella: «È una questione molto intima perché facendo il regista ti confronti sempre con gli esseri umani e non con una natura morta. Forse è l’unica arte dove alla fine tutto è consegnato agli uomini. Non sono filmati, non sono fotografati ma sono lì e agiscono per te. Per me il punto centrale resta sempre l’attore-performer perché senza di loro non può esserci il teatro e credo che per farlo abbia bisogno proprio di corpi e di vita per entrare in contatto con il pubblico.

Per questo penso che ci sarà sempre bisogno degli attori-performer. Per molti paesi europei, ma anche per gli americani, non c’è differenza tra attore o performer. Io non voglio dire se c’è o meno una differenza, però penso che, guardando gli spettacoli di questa Biennale, ognuno può farsi un’idea se tale condizione esista o meno. Se c’è è una differenza dello stare, non concettuale e l’essere in scena in quel momento e di quale tipo di contatto si cerca».

Enrico Pastore: Non pensa che si stia delineando di fronte a noi una nuova figura che non è un regista né un coreografo, quanto più un compositore della scena, un artista che compone con le modalità delle tre arti sceniche verso una nuova forma di teatro?

Antonio Latella: «Io non uso mai la parola artista riferendomi a un regista; eppure sempre più spesso ci troviamo di fronte a persone che vengono dall’arte figurativa e che scelgono come loro luogo d’azione il teatro. Questo crea già una scissione.

Finalmente, e lo dico anche contro me stesso che ho due piedi nel Novecento, è finita la figura dittatoriale del regista. Credo che la sua figura, come capitano che guida una nave sia finita. Il suo nuovo ruolo che emerge è quello che mi ha posto nella domanda: uno che ha la capacità di attendere ed è capace di portare al massimo i talenti di cui si circonda e fusi dal suo lavoro con delle meravigliose alchimie.

Il nuovo regista compie un atto creativo, e infatti, non si usa più la parola spettacolo quanto creazione. C’è una differenza sostanziale. Si tratta proprio di creare da zero, di scrivere per e con la scena. Questo permette una nuova dimensione di racconto.

Molti suoi colleghi si chiedono: ma dov’è la storia? In realtà c’è ma è diversa e pertiene a una modalità nuova di racconto, legata a una generazione esperta nell’uso delle nuove tecnologie di comunicazione e quasi non comunica più con le parole, non utilizza più gli scritti ma si basa su una divulgazione di simboli, di fotografie, una scrittura costituita dall’unione di immagini».

Enrico Pastore: Questa nuova figura possiamo dire che è già stata prefigurata dal Novecento. Pensiamo a Cage: un musicista che ha inventato l’happening e composto pezzi di teatro dove potevano agire danzatori, attori e performer. Stiamo andando finalmente contro le categorie di genere?

Antonio Latella: «Non esistono più le categorie. Ed è quello per cui personalmente mi batto da anni. Ci sono mille cose completamente diverse ma la categoria non esiste più. Io già inorridisco quando sento parlare di teatro di tradizione, di ricerca, teatro off.. Queste non ci sono più. Solo se siamo in grado di rimuoverle, riusciamo a rilanciare il teatro nella sua globalità. Se continuiamo a creare delle nicchie alimentiamo anche delle fruizioni di pubblico molto elitarie che non si fondono mai tra di loro. Credo, invece, che oggi l’atto politico importante, sia questa fusione del pubblico e non la sua separazione. Alcuni artisti riescono a farlo e posseggono questa abilità di scrittura trasversale».

Enrico Pastore: Quello che dice è giusto ma ci conduce a un punto dolente toccato dal convegno attore-performer: bisogna che le istituzioni si riformino e creino strumenti che superino le categorie. Questo non può essere delegato solo ai festival o ai teatri.

Antonio Latella: «Certo, c’è bisogno del lavoro delle istituzioni, ma credo sia fondamentale anche il lavoro del direttore artistico. Quest’ultimo, nonostante le trappole ministeriali, deve riuscire a essere coraggioso e capace di arredare la sua casa con diversi linguaggi e farli passare al pubblico. Il direttore artistico deve essere un po’ meno pigro. Spesso si accontenta di preparare una situazione da supermercato e non fa passare un pensiero. Se riesce, al contrario, a divulgarlo, farà in modo di coinvolgere anche il pubblico.

Ci sono casi in cui i primi due anni di mandato hanno addirittura svuotato teatri ma poi sono riusciti a creare nuovo pubblico. È vero che noi non possiamo essere competitivi dal punto di vista economico. L’Italia non è lo è da questo punto di vista. Le nostre risorse sono ridicole rispetto a quelle di altri paesi. Io però riesco a vedere delle forze che possono in qualche modo rilanciare e sono convinto che la cosa più interessante che sta accadendo, ora in Italia, siano proprio i festival. Si è compreso come rappresentino il luogo per un rilancio. E in qualche modo tra di noi c’è una competizione sana e creativa».

Enrico Pastore: Quale può essere il ruolo dei festival nel rilancio delle arti sceniche in Italia?

Antonio Latella: «Innanzitutto non competere con i grandi festival internazionali. Non ce lo possiamo permettere. Dobbiamo essere potentissimi nella proposta e nelle idee e riuscire a porre delle domande.

L’altro aspetto fondamentale credo sia il coraggio dello scouting. Noi lo stiamo facendo e altri festival è gia da tempo che perseguono questo ruolo. Dobbiamo concentrarci sul fatto che non si lavora solo per quelli che sono già affermati, ma soprattutto per quelli che hanno bisogno di essere mostrati. Se riusciamo a operare in questa direzione il lavoro diventa altruistico. In questo modo riusciamo a creare delle curiosità per il pubblico e per gli operatori».

Enrico Pastore: Quale pensa sia la funzione delle arti sceniche nel nostro contemporaneo?

Antonio Latella: «Ci sono due cose che mi emozionano molto. La prima è che, al di là di quello che ho sentito al convegno, ci sarà sempre bisogno degli attori. Sia un regista che un performer avrà sempre bisogno di loro. Fare questo lavoro oggi è una scelta decisamente eroica. Personalmente trovo sempre commovente quando dei giovani decidono di far teatro. Non è il futuro, non è Star Trek, è archeologia. Vedere dei giovani che si siedono davanti a un testo che esiste da quattro o cinquecento anni, non è come ha detto qualcuno, roba da dilettanti. Io lo trovo eroico. Cercare di capire, assorbire, lottare per far proprie parole non tue è un atto di eroismo. In questo senso c’è già un futuro.

La seconda cosa è che quanto penso per l’attore lo penso per il pubblico. Ancora oggi mi chiedo, nonostante questa velocità che abbiamo nella vita, perché lo spettatore scelga di andare a teatro. Non siamo noi artisti a fare la differenza, la fa chi viene a vederci. Io credo che lo faccia, nonostante ci sia il cinema, la televisione, internet, proprio per la presenza degli attori. Sceglie qualcosa che accade ora, in questo momento preciso, di assistere ad uno spettacolo, e lo fa per regalarsi del tempo, rispetto a chi decide sul suo agire. Andare a teatro mi regala del tempo per me.

Io non penso a qual’è il nostro compito. Io sento una responsabilità nei confronti di chi sceglie di venire a vedermi. In questo non c’è nulla di consolatorio. Non credo debba essere trattato con i guanti bianchi, anzi, il contrario: vuole essere messo in discussione. Io penso che se il pubblico non sente di essere provocato ma avverte che gli vengono poste delle domande, sta al gioco. Questo rapporto basato sul rispetto ha un aspetto propriamente politico.

Io non so se sia vero che il teatro sia il luogo in cui traspare la verità mediante l’artificio. Sono convinto sia l’unico luogo in cui si possano fare delle domande. La risposta poi te la dai tu, quando torni a casa e lo fai in modalità intima nel tuo privato».

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