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Marco Chenevier

LO STATO DELLE COSE: INTERVISTA A MARCO CHENEVIER

Per la sesta intervista per Lo stato delle cose risaliamo la penisola fino alle pendici del Monte Bianco dove incontriamo Marco Chenevier. Abbiamo posto anche a lui le cinque domande su temi importanti quali creazione, produzione, distribuzione, funzioni della scena e rapporto con il reale. Lo scopo di questi incontri è di raccogliere le idee e i pensieri di chi oggi è protagonista della giovane ricerca scenica e cogliere dalle risposte alcune linee guida sugli strumenti necessari per un vero rinnovamento nonché le possibili coordinate verso la scoperta di nuovi paradigmi e funzioni per il teatro inteso nel suo senso più ampio del termine.

Marco Chenevier è coreografo fondatore dei Teatri Instabili di Aosta. Tra i suoi lavori ricordiamo Quintetto, Questo lavoro sull’arancia e Saremo bellissimi e giovanissimi sempre. Inoltre Marco Chenevier è direttore artistico del Festival T*dance dance et technologie di Aosta.

D: Qual è per te la peculiarità della creazione scenica? E cosa necessita per essere efficace?

Credo che oggi la peculiarità della creazione artistica sia entrare in contatto con le verità nascoste, per cercare la felicità.

Per essere efficace deve riuscire ad attivare chi ne fa esperienza facendogli venir voglia di voltarsi, per vedere il mondo cui lo specchio si riferisce.

D: Oggi gli strumenti produttivi nel teatro e nella danza si sono molto evoluti rispetto solo a un paio di decenni fa, – aumento delle residenze creative, bandi specifici messi a disposizione da fondazioni bancarie, festival, istituzioni -, eppure tale evoluzione sembra essere insufficiente rispetto alle esigenze effettive e deboli nei confronti di un contesto europeo più agile ed efficiente. Cosa sarebbe possibile fare per migliorare la situazione esistente?

Stanziare più fondi: qualunque buona iniziativa naufraga se non ha le risorse economiche sufficienti, e la coperta, in Italia, è comunque troppo corta.

Iniziare a fare controlli seri: anche se i fondi ci sono, se non viene controllato NON solo burocraticamente, ma realmente, il lavoro di chi viene finanziato, molte risorse vengono inevitabilmente sprecate.

Combattere la gerontofilia, rinnovare le strutture legate al teatro tradizionale, creare nuove strutture agili e capillari sul territorio con le dovute coperture economiche.

Uscire dalla logica dei parametri quantitativi: non ha fatto che spingere le compagnie a fare dannose fusioni in cui sempre e solo i vecchi e grossi ci guadagnano, e schiaccia i piccoli inibendo possibilità di sviluppo. Inoltre spinge all’iperproduzione, in un momento di saturazione del mercato, e alla produzione di dati falsi: il re è nudo. L’arte, se deve essere finanziata, non deve esserlo solo perché “crea lavoro”.

Creare un welfare adatto ai lavoratori dello spettacolo, non solo dal vivo, su modello dell’intermittenza francese, canadese o belga. Il lavoro dell’arte è intermittente, necessita di vuoti, tali vuoti devono essere sostenuti. Non riempiti di altro lavoro.

D: La distribuzione di un lavoro sembra essere nel nostro paese il punto debole di tutta la filiera creativa. Spesso i circuiti esistenti sono impermeabili tra loro, i festival per quanto tentino di agevolare la visione di nuovi artisti non hanno la forza economica di creare un vero canale distributivo, mancano reti, network e strumenti veramente solidi per interfacciarsi con il mercato internazionale, il dialogo tra gli indipendenti e i teatri stabili è decisamente scarso, e prevalgono i metodi fai da te. Quali interventi, azioni o professionalità sarebbero necessari per creare efficienti canali di distribuzione?

In Francia la media di distribuzione degli spettacoli di danza è… una. Una replica. (fonte DRAC). Insomma: il problema non è solo italiano e si iscrive in una dinamica complessa, che tocca molti settori ed attività umane.

In ogni caso c’è chiaramente, in Italia, una posizione di potere di produzioni desuete e di baronati che si autoalimentano escludendo e proteggendosi da ricambi generazionali e sociali. Molto lavori di produzioni indipendenti e legate alla creazione contemporanea sono escluse da circuiti ufficiali, vengono relegate a circuiti distributivi alternativi, dove mancano mezzi a tutti i livelli: economici, tecnici, organizzativi. Inoltre le opere non vengono valorizzate e rischiano di perdersi ancor più. Credo che ci sia un lungo, complesso, delicato lavoro da fare, ma sicuramente bisognerebbe cominciare a sbloccare certi fortini inespugnabili, e capire perché, per dire, Teatro Sotterraneo o Marco D’Agostin non potrebbero fare un mese di repliche in uno Stabile, e debbano essere condannati ad una dimensione festivaliera perenne, che implica continue trasferte, poca visibilità, continui montaggi e smontaggi e grande dispendio di risorse ed energie.

D: La società contemporanea si caratterizza sempre più in un inestricabile viluppo tra reale e virtuale, tanto che è sempre più difficile distinguere tra online e offline. In questo contesto quali sono oggi, secondo la tua opinione, le funzioni della creazione scenica che si caratterizza come un evento da viversi in maniera analogica, dal vivo, nel momento del suo compiersi, in un istante difficilmente condivisibile attraverso i nuovi media, e dove l’esperienza si certifica come unica e irripetibile ad ogni replica?

Credo che non si possa dare davvero un limite all’evoluzione dei mezzi tecnologici. Chi può dire se in un futuro vicino o lontano non sarà possibile virtualizzare completamente l’esperienza teatrale (e intendo teatrale nel senso più ampio del termine). Magari un giorno sarà possibile collegarsi ad un software che ci faccia vivere ogni più piccolo particolare sensoriale dell’esperienza fisica e reale dell’andare a teatro.

Se parliamo di funzioni, però, mettiamo in relazione almeno tre domini: il mondo, le sue verità nascoste e la creazione scenica, l’esperienza del soggetto con il suo carico esperienziale. La peculiarità dell’esperienza della creazione scenica per me oggi è il fatto che è un’esperienza vera. Per questo mi interrogo sulla necessità di limitarla alla creazione di oggetti di linguaggio da esperire passivamente, cosa di cui posso far esperienza anche con altri dispositivi artistici… una proiezione, ad esempio.

D: Con la proliferazione dei piani di realtà, spesso virtuali e artificiali grazie ai nuovi media, e dopo essere entrati in un’epoca che potremmo definire della post-verità, sembra definitivamente tramontata l’idea di imitazione della natura, così come la classica opposizione tra arte (come artificio e rappresentazione) e vita (la realtà intesa come naturale). Nonostante questo sembra che la scena contemporanea non abbia per nulla abbandonato l’idea di dare conto e interrogarsi sulla realtà in cui siamo immersi. Qual è il rapporto possibile con il reale? E quali sono secondo te gli strumenti efficaci per confrontarsi con esso?

Assolutamente. Oggi credo che sia quasi ridicolo imitare la natura. Ma non vedo opposizione tra l’abbandono di processi di imitazione della natura e la spinta ad interrogarsi sulla realtà.

Le derive nichiliste, almeno personalmente, sono dietro l’angolo. Per me l’ancora di salvataggio è il reale inteso come politico.

Interrogarsi sui rapporti di potere, sui rapporti economici e sulle influenze metalinguistiche anche nel campo dell’arte, in un complesso sistema neocapitalistico, sono alcuni degli strumenti che mi permettono di confrontarmi con il reale.

Ma, essendo appunto in un’epoca complessa e contraddittoria, l’incoerenza e la contraddizione sono dietro l’angolo, ad ogni passo, ad ogni pensiero. Anche la frase che ho scritto, se la rileggo, ho voglia di cancellarla. O forse no.

dare forma al caos

DARE FORMA AL CAOS: ESPERIMENTI PERFORMATIVI E NUOVE DRAMMATURGIE

Il senso del mio operare è che io immagini come un poeta e ricomponga in uno ciò che è frammento e enigma e orrida casualità. E come potrei sopportare di essere uomo, se l’uomo non fosse anche poeta e solutore di enigmi e redentore della casualità!

Nietzsche, Della redenzione in Così parlò Zarathustra

In questo ultimo torno di tempo si sta certificando una crescente attenzione verso una nuova drammaturgia teatrale, sia da parte degli operatori teatrali che da parte di giovani autori nel tentare questa difficile strada. Si scrive molto per il teatro e insieme a questa prolifica e abbondante nuova produzione, si riscontra altresì un ritorno del repertorio della tradizione classica (Shakespeare, Moliere, Goldoni, Ibsen,) quanto della più recente produzione del ‘900: da Cechov a Jon Fosse. In molti casi queste scelte di rivalutazioni hanno condotto, da una parte a nuove forme di regia collettiva o condivisa, dall’altra a un recupero del teatro di regia come è stato conosciuto fino all’inizio di questo nuovo secolo. Spesso non si può che constare il ritorno della semplice messa in scena di testi drammaturgici, e questo è invero più sorprendente in quanto lega ancor più strettamente il linguaggio scenico alla parola scritta, quasi un ritorno a un passato che si credeva abbandonato. Anche dalle nuove generazioni che tradizionalmente dovrebbero essere più rivolte alla ricerca di un nuovo tutto da scoprire.

A cosa si deve questo ritorno prepotente dello scritto teatrale, laddove quasi tutta la migliore tradizione rinnovatrice del teatro del Novecento si è affannata a sancire un’indipendenza di linguaggio del teatro rispetto alla letteratura, soprattutto in un periodo dove tutto spinge alla commistione dei linguaggi e alla sperimentazione verso un decisa multimedialità? Cosa è cambiato in questi ultimi anni che ha condotto alla necessità di riscoprire il bisogno di una nuova affermazione della parola letteraria sulla scena?

Per comprendere appieno questo fenomeno bisognerebbe in realtà affiancargli, come una cartina tornasole, un altrettanto proficuo e dirompente, seppur minoritario, filone di ricerca basato su strategie mutuate dall’agire performativo nelle arti visive che conduce alla creazione di eventi scenici condivisi e concreati con il pubblico partecipante dove la parola è quasi, se non del tutto, assente e ha una semplice funzione tecnica e procedurale, quindi mai poetica o assertiva.

Da una parte dunque abbiamo una concezione classica dell’evento teatrale, dove la parola è centrale e si configura come oggetto a cui assistere, mentre dall’altra si propone un’esperienza performativa a cui partecipare dagli esiti incerti e con la parola spesso niente più di una semplice regola del gioco. Sono due macrocategorie con concezioni molto distanti ma che si originano da una stessa esigenza: avere ragione della caoticità di un mondo frammentario con l’intento di trovare un linguaggio o una modalità che possa in qualche modo avere ragione della pluralità contraddittoria del reale. Tra questi due estremi utili per a focalizzare la questione vi sono ovviamente infiniti gradi mediani che commistionano le due tendenze tra alleanza e conflitto.

Con la caduta delle grande ideologie viviamo un mondo in cui il relativismo dei valori è dispiegato come mai accadeva prima. Sono venuti definitivamente a mancare dei sistemi di pensiero in grado di racchiudere in una qualsiasi teoria la complessità della realtà e, anche se ci fossero, tali sistemi sarebbero esposti su uno scaffale di supermercato virtuale; con eguale importanza a un consumo utilitario a seconda delle esigenze mancando comunque alla loro finalità di spiegare in maniera definitiva il mondo che stiamo vivendo. La contemporaneità ci espone a una terribile quanto insostenibile precarietà e nulla di più, dall’arte alla filosofia, dai credi religiosi alla stessa scienza, è pronto a offrirci una ricetta per dominarla, spiegarla o al limite renderla accettabile.

Il fenomeno a cui si faceva accenno all’inizio è dunque forse da ascrivere a questo spaesamento, di fronte a una realtà complessa e fluida al punto da non essere più spiegabile e tale sguardo abissale ha condotto la ricerca teatrale, per opposti motivi, a cercare di dare ragione di questo spiazzamento.

Il ritorno alla tradizione, a mio avviso, si può vedere come una reazione al caos ipersperimentale riuscendo ad attraversare il Novecento, dalle avanguardie storiche alla postdrammaturgia, una sperimentazione volta soprattutto a svincolarsi dai canoni naturalistici e descrittivi; al fine di condurre l’arte scenica a una sorta di filosofia in azione o di atto filosofico, quindi prodotti per lo più opachi, complessi, nati da un bisogno volto a costruire un linguaggio tra i linguaggi con una propria dignità, autonomia e funzione. Il recupero del teatro di parola, secondo canoni più o meno tradizionali, è sintomo di una necessità di riappropriarsi di nuove storie che diano invece ragione del mondo sfuggente di oggi; raccontandolo e fornendo delle chiavi di lettura con il potere di dar luce a un abisso che si fa sempre più minaccioso. Inoltre è come se, in questo tempo di crisi del teatro e dei suoi valori, non trovando delle nuove soluzioni realmente efficaci, alla temperie in cui si vive, constatando il fallimento a fornire risposte di quella circostanza sperimentale, ci si volesse ancorare, provando a reinventarla, a una tradizione possente, comunque capace di dar ragione della turbolenza del mondo benché in tutt’altre condizioni storiche, sociali ed economiche.

Il ritorno alla drammaturgia o al repertorio tradizionale è dunque una risposta in grado di puntare sul recupero del potere della parola e dimostrare di avere ragione del precario e dell’abissale. Una fiducia umanistica e classica nel verbo capace di poter dominare il caos sotto la rassicurante coperta della civiltà, di creare ancora un luogo in cui l’uomo ha ancora la capacità di governare l’indicibile e l’insondabile.

L’opera di Milo Rau si situa tra i vertici di questo filone di ricerca, uno dei punti più alti di questa fiducia nella parola come chiarificatrice dei conflitti e del teatro inteso, in senso classico, come agorà, luogo privilegiato dalla comunità per la composizione della crisi tramite la pratica de l’iterpellation, ossia di una questione stringente posta con forza al pubblico; e su cui quest’ultimo deve prendere posizione al fine di sanare la crisi in atto almeno prenderne coscienza al fine di cercare delle soluzioni possibili.

Quando però anche la parola vacilla, l’artista si rifugia nell’io e nella propria esperienza personale, come l’ultima frontiera di certezza attraverso cui si cerca di dare ragione della fragilità e dell’inspiegabile: l’io come misura di tutte le cose, ultima propaggine del tentativo del cogito cartesiano di affermare una qualche certezza nell’oceano sterminato e infinito del possibile. Infatti dove tutto sembra venire a cadere non resta che aggrapparsi al proprio io per cercare di affermare una seppur fragile concretezza. Laddove il presente nega all’artista la possibilità di farsi compositore della crisi o per lo meno interprete della stessa, anziché abbracciare questo infinito permutare delle cose si cerca di governare la frammentazione affermando il sé della propria esperienza. Tra gli esempi migliori di opere nel tentare di affrontare il problema con questo taglio si possono citare Cock, Cock, who’ s there?di Samira Elagoz, in cui l’artista cerca di cogliere gli effetti su sé e sugli altri dello stupro subito, e nello stesso tempo di analizzare le origini di un atteggiamento maschile dominante e aggressivo. Come in Between me and P di Filippo Michelangelo Ceredi, in cui l’artista attraverso i lasciti documentari ritrovati tra gli effetti abbandonati dal fratello scomparso negli anni ’80, cerca di scoprire le ragioni del suo gesto e di affrontare il trauma dell’abbandono.

Attraverso questi esperimenti in realtà non si fa che acclarare l’incapacità dell’io di controllare le cose della vita. È il naufragio dell’uomo come dominatore del mondo e degli eventi. Il tentativo di guarigione dal caos della sperimentazione, ossia l’ancorarsi a una modalità che nel passato aveva dato ottime risposte, con il mutare dei tempi e delle condizioni finisce per essere nient’altro che la manifestazione dell’impossibilità di tale guarigione.

D’altra parte la modalità performativa aperta e non preordinata rinuncia a dar ragione degli interrogativi e delle incertezze del presente, anzi ne abbraccia totalmente la caoticità e la propone come esperienza da vivere insieme al pubblico al fine di prenderne coscienza ed elaborare insieme delle modalità di sopravvivenza.

Questi processi prendono le mosse anch’essi dallo sperimentalismo novecentesco soprattutto dalla performance nata nel campo delle arti visive. Il primo a proporre un evento performativo in cui l’intento primario fosse l’esperire il mondo nella sua complessità è senz’altro The Untitled Event, atto di nascita dell’happening costruito da John Cage al Black Mountain College nel 1952. Per il grande compositore americano lo scopo vitale dell’arte, mutuando il pensiero del filosofo indiano Ananda Coomaraswami, era quello di imitare la natura nel suo modo di operare. Per giungere a questo risultato si doveva sottrarre l’ego dell’artista. Una rinuncia totale non solo a farsi portavoce di uno o più punti di vista da comunicare allo spettatore, ma anche e soprattutto dell’idea classica dell’autore creatore e demiurgo. L’opera d’arte doveva diventare un processo di scoperta del reale e non la comunicazione di un pensiero preesistente che l’oggetto artistico incarnava. Per Cage l’artista doveva essere niente di più che l’artefice di un contesto in cui le cose potessero accadere liberamente, un luogo in cui fare delle scoperte e fare esperienze impreviste di ciò che ci circonda.

Il suo pensiero influenzò, non senza polemiche, l’azione dei performers dagli anni Cinquanta, dal prima caotica corrente dell’happening, passando per il movimento Fluxus, giungendo fino ai giorni nostri. Non è un caso che tutti i performers oggi si affannino a dichiarare che il loro agire nulla ha a che fare con la rappresentazione teatrale, che nulla di quanto avviene è provato o preordinato, e scopo del loro operare è condividere con il pubblico un’esperienza. In queste continue e costanti dichiarazioni non solo si cerca di prendere le distanze dal teatro, posizioni oggi spesso pregiudiziali in quanto non tengono conto del mutare delle pratiche nel corso del tempo, ma soprattutto un prendere le distanze dall’idea di opera chiusa semplicemente posta di fronte all’occhio dello spettatore. Quello che si cerca nella performance è innanzitutto la condivisione e il proporre un’esperienza in grado di illuminare una questione critica sebbene non fornisca chiavi di lettura capaci di esorcizzarla.

D’altra parte il teatro ha mutuato proprio da queste pratiche alcuni concetti base (uscita dalla rappresentazione, processo invece di un progetto, azione anziché interpretazione o rappresentazione) provandole in campo teatrale.

Contrariamente alla tradizionale messa in scena di un testo, dove tutto è più o meno preordinato, lo sviluppo previsto (anche quando vi sono grandi margini di improvvisazione dell’attore), e allo spettatore non resta che scoprire lo svolgimento e decidere da che parte stare, una volta scoperto il finale, nel processo performativo partecipato vengono semplicemente poste le condizioni per lo sviluppo di una procedura; i cui effetti sono imprevedibili e in base alle premesse enunciate tutto può accadere persino il proprio sabotaggio e fallimento. La caoticità e contraddittorietà del mondo vengono accettate divenendo i mattoni su cui costruire l’esperienza. Le condizioni incerte sono condivise tra performer e pubblico e insieme se ne fa esperienza. Nell’evento nulla è scritto e niente è predeterminato anche quando sono previste stazioni di transito nel percorso perché tutto può accadere anche la ribellione e la catastrofe.

Ad esempio in Questo lavoro sull’aranciadi Marco Chenevier, dove nei vari passaggi che prevedono le torture ai danzatori, differenti pubblici hanno opposto diversissime reazioni: passano dal sadico infierire alla supina obbedienza agli ordini e alle regole date, giungendo fino al boicottaggio e all’aperta ribellione. In M2 dei Dynamis dove la coabitazione e occupazione della piccola zolla di terra da parte dei sette volontari, nonostante i passaggi siano preordinati in una sorta di narrazione, quanto avviene può cambiare radicalmente volta per volta. P Project di Ivo Dimchev l’artista pone dei compiti molto generici al pubblico (fa eseguire una danza di tre minuti, dare un bacio o simulare un atto d’amore nudi per cinque minuti, dietro una ricompensa in denaro), ma quanto avviene in quel modulo temporale è scelta dei partecipanti: l’atto d’amore simulato può essere una tenera carezza come un gesto pornografico. Tutto può accadere realmente e l’artista pone solo delle condizioni affinché si possa fare un’esperienza in qualche modo illuminante: la mercificazione di ogni nostro agire. Chi partecipa a tali eventi avverte immediatamente questo stato di imponderabile e imprevedibile precarietà e benché scelga di non parteciparvi attivamente non si sente al sicuro seduto alla sua poltrona. Inoltre il teatro performativo, partecipativo o cooperativo, si pone fuori anche dal concetto di ripetizione in quanto ad ogni nuovo incontro con lo stesso dispositivo, gli esiti e le problematiche emergenti mutano sensibilmente con il variare della composizione del pubblico, tanto da far nascere risultati che nulla hanno a che fare con le esperienze precedenti.

In conclusione è utile citare alcuni lavori che si collocano in una vasta zona mediana tra questi due estremi enunciati ma condividono la necessità di conferire una qualche ragione all’agire/patire di cui tutti facciamo esperienza e fatichiamo a fornire di senso. Quasi niente e Scavi di Deflorian/Tagliarini esplorano la frammentarietà del ricordo e dell’esperienza degli attori, appartenenti a diverse generazioni, nel confronto con il personaggio di Giuliana, protagonista di Deserto Rosso di Michelangelo Antonioni, e del malessere che lei vive. Il disagio del vivere, la mancanza di risposte di fronte a ciò che ci rende fragili, si affronta tramite i frammenti, i brandelli e le schegge di racconti personali a confronto con gli episodi tratti dalla celebre pellicola e la cui ricostruzione in un presunto mosaico spetta a ogni singolo spettatore, come il riconoscersi o meno con quanto viene riferito e narrato.

Tra le nuove generazioni possiamo ricordare Oh, little man di Giovanni Ortoleva, dove una drammaturgia controllata e scritta a priori, interpretata da un attore in uno schema di regia riconoscibile. Narra del naufragio di un capitalista speculatore tra i peggiori e nel finale si trasforma in un evento partecipato conferendo al pubblico la responsabilità di salvare o meno il naufrago. A seconda della scelta effettuata non solo cambia la conclusione dello spettacolo ma si prefigurano diverse risposte a un fenomeno che ci vede tutti più o meno partecipi come vittime o carnefici.

Si è cercato di delineare due tra le principali correnti che attraversano il nostro teatro (due estremi come sottolineato molto fluidi e permeabili e tra i quali vi sono infinite vie mediane), e di evidenziare come entrambe cerchino di dar conto di questo tempo di crisi e di incertezza, con il recupero di una tradizione che cerca nella parola e nel racconto un principio unificante e chiarificatore dell’estrema frammentazione del reale, ma anche l’abbraccio di tale caotico fluire ricreandolo; facendone esperienza al fine di poter desumere delle chiavi di lettura per quanto precarie. Entrambi sono tentativi di dare una nuova funzione al teatro per tornare ad essere un luogo in cui la comunità cerca di metabolizzare tutto quanto la perturba, inquieta e scuote senza dare certezza alcuna.

Dynamis

PICCOLI CRUDELI GIOCHI SPAZIALI: M2 di Dynamis

Dynamis, collettivo artistico romano, concentra la propria attività su quel labile confine tra teatro e performance, ma è sul margine della frontiera che le cose succedono, laddove tutto è ibrido e permeabile. M2 è un esempio di questa loro ricerca e per la natura partecipativa del suo manifestarsi sulla scena è accostabile ad analoghi esperimenti quali Questo lavoro sull’arancia di Marco Chenevier o a P Project e I cure di Ivo Dimchev.

M2 è andato in scena in questi giorni (31 gen.-2 feb.) in uno dei luoghi cardine della ricerca scenica nella capitale, le Carrozzerie N.o.t, guidate da Maura Teofili e Francesco Montagna, che a Trastevere svolgono un’intensa attività di alto profilo non solo con la stagione proposta, ma soprattutto nel sostegno alla produzione e nella formazione, inserendosi nel tessuto sociale del quartiere non come corpo alieno ma come luogo di necessità vitali.

Come possiamo descrivere M2? Mejerchol’d diceva che in teatro tutto parte dal suolo e i Dynamis sembra che lo abbiano preso in parola avendo costruito un intero evento teatrale su una semplice domanda: cosa si può fare in un metro quadrato di spazio? La banale questione pratica sembra in sé inoffensiva. Pare un problema per architetti, arredatori, ingegneri Ikea pronti a progettare mobili componibili per abitare angusti monolocali. Niente lascia sospettare che la domanda nasconda insidie velenose e quanto mai urgenti e attuali.

Poco prima che inizi lo spettacolo i Dynamis cercano tra il pubblico del foyer sette volontari che prendano parte alla performance. Una volta costituito. il piccolo gruppo viene condotto sulla scena e istruito sulla natura dell’esperimento dal tutor/performer Francesco Turbanti. Poche semplici regole: non si deve recitare ma semplicemente essere se stessi nel risolvere i problemi; utilizzare gli oggetti contenuti negli zaini di diverso colore quando vengono richiesti dalla voce fuori campo; seguire le indicazioni. Sembra tutto molto rassicurante e facilmente eseguibile.

Il pubblico entra in sala e ha inizio l’esperimento guidato dal tutor e dalla voce fuori campo (del regista Andrea De Magistris). La performance si sviluppa come un gioco collaborativo: i sette volontari devono risolvere dei compiti che via via diventano sempre più complicati e rivelano la vera natura della questione. Come ci ricorda la voce: non vi è luogo più pericoloso della scena teatrale.

La zolla d’erba di un metro quadrato è circondata da acque profonde, è un ambiente ricco e confortevole. Uno alla volta i volontari devono occupare questo territorio che si fa via via più angusto. Con l’aumentare della popolazione si complicano le dinamiche di coabitazione. Sorgono la religione e la politica con le loro conseguenze; esercizio del potere, collaborazione, convivenza, discriminazione, esclusione, ecologia.

Il metro quadro si pone tra due diverse comunità: quella delle cavie che si affannano per rivolvere i compiti assegnatigli, e quella degli spettatori che comodi osservano quanto accade in quel piccolo quadrato di spazio. In un solo caso le due popolazioni possono scambiarsi di ruolo. Si può provare sulla propria pelle cosa vuol dire abitare quel luogo saturo di persone e sempre meno confortevole man mano che la performance procede.

Come nello spettacolo di Woland ne Il Maestro e Margherita di Bulgakov i numeri di magia diventano trappole che ingabbiano lo spettatore e rivelano la natura di una società, così in M2 le varie prove, all’apparenza divertenti giochetti, palesano le faglie oscure che attraversano il nostro presente. Il tutor nel frattempo assume ruoli sempre più ambigui: assistente dell’implacabile voce fuori campo si dimostra essere non tanto un alleato delle cavie, quanto una sorta di Azazello provocatore, un distributore di false informazione, un torturatore, un sorridente lestofante.

L’esperimento performativo dei Dynamis non possiede certo il rigore di uno studio sociologico o antropologico. È teatro pur nel significato ampio del termine che oggi assume la parola. Si pongono questioni, si suggeriscono delle problematiche ma soprattutto non si sostengono tesi né si danno soluzioni. Si evoca una crisi di fronte e insieme alla comunità/pubblico. Il luogo teatrale diventa osservatorio del reale tramite l’esercizio del meccanismo performativo. È esperienza e partecipazione di una comunità mediante il mezzo della rappresentazione.

M2di Dynamis è un dispositivo di teatro partecipativo che possiede il grande pregio di affrontare temi spinosi e delicati con grande leggerezza e ironia. Se oggi quest’ultima si trova sempre più depotenziata, non arma corrosiva ma disinnesco di ogni criticità, nel caso di Dynamis essa è invece ingrediente fondamentale senza il quale l’esperimento performativo si ridurrebbe o a volgare e inutilmente crudele esercizio di potere, oppure a freddo meccanismo pseudo scientifico. La truffaldina leggerezza invece riesce a sollevare il velo evocando contesti ben più foschi di quelli che si osservano su quella zolla d’erba al centro della scena.

M2di Dynamis, è performance molto coinvolgente e che solleva interrogativi pressanti e necessari, con un linguaggio fresco che riesce a parlare al pubblico che riunisce intorno a sé. Certo il meccanismo non è perfetto, qualche aggiustamento sarebbe forse necessario (per esempio quando il tutor evidenzia infrazioni alle regole da parte dei volontari che in realtà non avvengono, così come l’esercizio di piccole crudeltà simulate che generano a loro volta simulazioni da parte dei partecipanti, momenti in cui si giunge a quel recitare che invece si voleva evitare), Sono piccole regolazioni da apportare al meccanismo perché risulti pienamente funzionante ed efficace, un congegno scenico peraltro che dimostra una laboriosa, accurata e sincera ricerca. La partecipazione del pubblico infatti oggi è molto invocata e abusata. Diventa spesso pretesto. Nel caso di Dynamis si sente la necessità della sua presenza che trasforma la scena, in maniera leggera ma intelligente, in una piccola agorà dove la comunità si trova ad affrontare le crisi che la attraversano.

Ph: @Elisa D’ippolito

Tdanse

Speciale Tdanse: cosa ci aspettiamo dall’occhio che guarda? Piccole riflessioni intorno all’audience engagement

Si è conclusa ad Aosta la terza edizione di Tdanse, Festival internazionale della nuova danza, diretto da Marco Chenevier e Francesca Fini in scena alla Cittadella dei giovani dal 14 al 21 di ottobre.

Benché nel nome Tdanse sembri rivolgersi esclusivamente all’arte coreutica, la sua programmazione propone una scena declinata secondo tutte le sue molteplici possibilità di espressione. È sempre più difficile, o forse inutile, distinguere le varie arti che sempre più si offrono ibride all’occhio di chi guarda.

La scena sfugge e sfida sempre più le definizioni tanto che viene da chiedersi se siano veramente necessarie. Mi sembra anzi questione oziosa e priva di importanza.

A mio avviso non è tanto il linguaggio utilizzato a essere importante quanto le funzioni che la scena assolve nel contesto sociale. Perché trovarsi in un luogo e partecipare a uno spettacolo dal vivo? Cosa propone di irrinunciabile il teatro, inteso nel senso più ampio possibile, che altre esperienze non possono dare? Che tipo di esperienza si vuole condividere con il pubblico sempre più ricercato e chiamato ad assistere?

Oggi la parola chiave di ogni progetto è audience engagement ma pochi si chiedono invece cosa sia necessario a questo pubblico tanto ambito quanto il regno del Prete Gianni. Si cercano i numeri e poco ci si interroga su cosa questi numeri dovrebbero trovare nello spettacolo dal vivo. Le strategie messe in atto dai singoli festival, anche quelle più efficaci, non sempre sembrano porsi queste domande. Tdanse in questo mi pare un’eccezione.

La Valle d’Aosta è un territorio difficile, definito dal Ministero regione “teatralmente disagiata”, priva di un Teatro Stabile, ma questo forse è un bene, e anche priva di compagnie di produzione riconosciute da Roma. Regione defilata, quasi isolata nell’angolo Nord-Ovest, chiusa dalle sue splendide montagne, difficilmente raggiungibile a meno che non si abiti a Torino o Milano. Inoltre la Valle d’Aosta si è resa colpevole di abbondanti tagli alla cultura in misura più significativa che nel resto del nostro paese.

In questo contesto il pubblico valdostano si è trovato orfano di un’offerta culturale e si è abituato a stare senza. Presentare un festival che si occupa esclusivamente di scena contemporanea è quindi una sfida difficile che rischia di naufragare se non si tiene in debito conto lo scenario in cui si viene a operare. Le strategie di incontro con il pubblico diventano fondamentali.

Tdanse cerca in primo luogo di creare una comunità costituita da artisti, pubblico e operatori e per ottenere questo risultato ha scelto intelligentemente di operare su tre livelli: l’inclusione delle nuove generazioni, inserimento nell’attività del festival delle categorie deboli della comunità come i disabili e i migranti, e l’ospitalità diffusa tra gli abitanti di Aosta che aprono le loro case private ad artisti e operatori.

Le azioni di maggior successo mi sembrano quelle rivolte ai giovani. Spesso gli studenti delle scuole sono utilizzati come l’ovatta per riempire i vuoti, deportati della cultura il cui unico scopo è aumentare la quota pubblico per nascondere il disinnamoramento dal teatro. A Tdanse questo non avviene perché si è costruito un rapporto, si è voluto che il festival fosse loro e non solo per loro. E i ragazzi rispondono con entusiasmo, non solo riempiendo il teatro, ma prendendosi carico della sua organizzazione.

Fin dalle prime ore del pomeriggio, liberamente, i ragazzi prendevano possesso della Cittadella chi aiutando i tecnici nella costruzione delle scene o nel reperimento materiali delle performance, chi partecipando ai lavoratori, chi ad aiutare lo staff nell’organizzazione e chi, semplicemente, veniva a incontrare gli artisti.

Tdanse tenta di ricostruire il rapporto con la scena partendo dai giovani, valorizzando la loro esperienza e il loro apporto. Il merito di questa operazione non va solamente allo staff del festival ma anche alle docenti del Liceo Artistico di Aosta che hanno sposato il progetto e hanno saputo coinvolgere i ragazzi nella giusta maniera.

Molta strada è ancora da fare perché la risposta della città di Aosta resta intermittente e discontinua. Molti settori di pubblico, soprattutto gli adulti e gli anziani restano in gran parte latitanti. Inoltre Tdanse si concentra quasi esclusivamente tra le mura della Cittadella dei Giovani e avrebbe bisogno di una maggiore apertura e diffusione sul territorio cittadino. La strada intrapresa è comunque quella giusta e darà frutti proficui negli anni a venire se perseguita con lo stesso entusiasmo ed energia.

Come abbiamo detto tutte queste operazioni di audience engagement tendono a raccogliere una comunità intorno agli spettacoli proposti e qui, dopo aver analizzato alcuni spettacoli, vorrei proporre alcune riflessioni.

Overload di Sotterraneo è un lavoro ad alto grado di interattività con il pubblico, costruito a cavallo tra la sfida e la complicità sulla questione dell’attenzione. A cosa siamo attenti? A quello che ci distrae e ci conduce a un continuo movimento di fuga da un argomento a un altro oppure a ciò che ci focalizza sul particolare escludendo il quadro d’insieme?

Overload si costruisce nel suo farsi, a seconda se il pubblico segue il racconto di David Foster Wallace o attiva i contenuti extra proposti dai performer. Ma scegliendoli veramente si è disattenti? Oppure l’attenzione si focalizza più sull’azione che sul discorso? É veramente interessante e degno di attenzione ciò che dice il finto David? Overload è una cornucopia di domande sulla nostra realtà e sul bombardamento di informazioni e stimoli a cui siamo quotidianamente sottoposti, gragnola di questioni che sorgono proprio secondo il grado di risposta del pubblico.

Melting pot di Marco Torrice, coreografo italiano residente a Bruxelles, propone un evento performativo in cui i confini tra esecutore e pubblico vengono resi permeabili. Come fosse un pezzo jazz, Melting Pot si compone di vaste aree di improvvisazione danzata che si intrecciano a linee più codificate e composte in cui il pubblico può inserirsi, scambiando esperienze di danza, liberando le proprie energie in comunione con i danzatori. Un evento che sta tra la performance danzata e una festa, non struttura solida ma fluida.

La compagnia 7/8 chili formata dal duo Davide Calvaresi e Giulia Capriotti presenta Ciak, gioco scenico a sfondo cinematografico sull’interazione figura-video. Una telecamera riprende in falsa prospettiva piccoli oggetti e l’azione della performer. Lo spettatore vede nello stesso tempo l’azione sulla scena e il suo risultato filmico, ne valuta lo scarto, si fa avvincere dalla malia della trasformazione. Inoltre in un caleidoscopio di citazioni filmiche, ironico e divertente, l’occhio dello spettatore riconosce e si riconosce. Il gioco non è limitato alla sola scena ma travalica in platea dove il pubblico stesso si trova a essere personaggio in questo vorticoso montaggio tra reale e immaginario.

In From Pierced Darkness flowers grow di Paul Carter ci si trova di fronte a una grande struttura nera, quasi piramide dal cui vertice emerge solo la testa dell’artista. Al pubblico viene chiesto di esprimere un pensiero sorto da questa architettura nera, di legarlo a un lungo palo di legno e di configgerlo nel cuore dell’edificio. Nella seconda parte il pubblico viene invitato a entrare nel monolite. Ci si trova di fronte al corpo dell’artista ricoperto d’oro, su un tappeto erboso trafitto dai bastoni alla cui base il pubblico può piantare dei fiori simboli di rinascita. La performance trae origine da un’esperienza dolorosa dell’artista che attraverso un’azione simbolica condivisa dal pubblico cerca di trasmutare il piombo in oro, quasi operazione alchemica passaggio tra la nigredo e l’albedo. L’azione di Carter utilizza il pubblico come strumento per una propria trasfigurazione senza veramente attivare un proficuo meccanismo di condivisione.

Nella sua seconda performance No man is a island: swim to me, il materiale della prima performance è sottoposto a trasformazione. L’artista è racchiuso in un fascio di legni neri e circondato da un cerchio di terra su cui sono poste le piantine di violette. Un lungo ombelico nero unisce la sua struttura con il pubblico. L’artista cerca faticosamente di distruggere la gabbia nera mentre gli spettatori grattano con coltelli e raschietti l’ombelico portando alla luce il bianco sottostante.

Pual Carter nel tentativo di liberarsi dalla sua gabbia di legni cade, fatica a rialzarsi, è evidente la sua sofferenza. Molte persone del pubblico entrano nel cerchio per aiutarlo ma l’artista rifiuta il loro soccorso. Con questo diniego fatalmente il rapporto con lo spettatore si frantuma e l’artista viene lasciato solo a continuare la sua performance. Quell’uomo rimane un’isola al di là dell’intenzione dell’opera.

Questa lunga descrizione mi conduce al nocciolo della riflessione che vorrei proporre. L’apertura o la chiusura di un canale di scambio e comunicazione diventa fondamentale nell’esperienza del pubblico. Laddove la possibilità di condivisione si chiude, il pubblico rifiuta di essere un semplice organo ricettivo. La complicità, la partecipazione, l’inclusione diventano i nuclei su cui misurare la necessità di un lavoro. Il pubblico non vuole più sentirsi spettatore ma desidera prendere parte a un processo.

L’azione di audience engagement di un festival si interseca quindi fatalmente con quella dell’artista che a sua volta propone delle regole di ingaggio allo spettatore. Se il rapporto con l’opera si esplica in una semplice visione passiva, se non vi è una strategia di inclusione o condivisione, il pubblico resta nella migliore delle ipotesi freddo, distante. Quindi l’efficacia delle strategie di un festival vanno a braccetto con quelle dell’opera e dell’artista? Devono venire in qualche modo integrate? L’una soggiace a quella dell’altro?

Forse il problema risiede proprio, come in Overload di Sotterraneo, nella nostra incapacità di prestare attenzione se non quando siamo iperstimolati. Forse invece è cambiata la percezione dell’opera d’arte da parte del pubblico che vuole condividere il processo artistico. Resta comunque la questione soprattutto quando il pubblico è composto da giovani o giovanissimi pronti a rifiutare una modalità di partecipazione passiva allo spettacolo dal vivo.

Tdanse ci ha dunque offerto un viaggio esplorativo delle dinamiche di partecipazione dell’opera d’arte dal vivo. Ci ha posto delle questioni che dovranno essere esaminate con attenzione, perché riguardano il futuro delle live arts e le sue funzioni nel nostro contesto sociale. Che tipo di esperienza ci chiede il pubblico? Cosa vogliamo veramente condividere con lui?

In conclusione vorrei riportare la risposta che mi hanno dato i ragazzi che in questi giorni ad Aosta hanno partecipato al mio laboratorio di critica alla domanda: cos’è per voi il teatro? Alcuni di loro mi hanno risposto: un luogo per discutere i problemi. Mi ha sorpreso. Una risposta del genere è rara persino tra gli artisti. Ma se è questo quello che veramente i ragazzi percepiscono forse dovremmo tenerlo in considerazione. Per discutere dei problemi bisogna essere in due. Se uno parla e l’altro ascolta non si dà un dialogo ma un monologo. Forse il dialogo lo dobbiamo costruire. Pensiamoci.

Tdanse

Speciale Tdanse: Aline Nari e Fabio Ciccalè ovvero l’elogio della semplicità

Ad Aosta è iniziata una nuova edizione di Tdanse, Festival internazionale della nuova danza diretto da Marco Chenevier e Francesca Fini.

Dal 14 al 21 di ottobre, per una settimana, la Cittadella dei Giovani di Aosta viene abitata da artisti, pubblico e operatori, comunità che si incontra e scambia esperienze su un orizzonte scenico a cavallo tra danza, teatro e performance art.

Tdanse dipana il suo ricco programma tra incontri, conferenze, spettacoli, performance e momenti di dialogo e discussione. Un festival dunque aperto al confronto non solo tra le diverse arti, ma soprattutto tra le componenti della collettività che si riunisce intorno alla scena.

Nei primi tre giorni di festival due spettacoli mi hanno particolarmente colpito per la loro semplicità francescana. Alla parola semplice si è ancorata come una muffa o un parassita una certa aurea dispregiativa, come se l’essere candidi, comprensibili ed essenziali sia una sorta di difetto. Ci si dimentica che le acque limpide permettono di vedere le profondità, le asperità di un fondale quasi sempre nascosto dall’opacità ritenuta, troppo spesso, caratteristica fondamentale dell’atto artistico.

Semplice non vuol dire ingenuo né banale. Ha più un’attinenza con l’essere sostanziali, precisi e lineari come una freccia, focalizzati su una questione specifica, esposta con candore ma minuziosamente.

È il caso de Il colore rosa di Aline Nari e Indaco. Un colore per un danzatore di Fabio Ciccalé. Due spettacoli con finalità diverse e dirette a pubblici distinti. Aline Nari rivolge la sua favola danzata ai più piccoli, mentre Fabio Ciccalé condivide la sua esperienza di vita a una comunità/pubblico più allargata.

Aline Nari, affiancata da Gabriele Capilli e Giselda Ranieri, riflette sulla formazione dell’identità di genere al di là degli stereotipi per mezzo del colore rosa. È un colore da femmine? I maschi in rosa sono disdicevoli? E la luna, o la playstation o la sedia sono maschi o femmine? La loro e nostra natura sono veramente così incasellate, bloccate dai significati loro attribuiti nel tempo?

La ricerca di un proprio colore rosa, della personale sfumatura di tintura è ricerca non solo di un genere ma di un’identità individuale che è nostra solamente. Il colore rosa di Aline Nari è un viaggio fiabesco verso la riappropriazione del senso di sé al di là dei giudizi degli altri e degli stereotipi sociali.

Il linguaggio è quello della favola, i personaggi sono semplici schermi su cui proiettare la propria esperienza e ricerca. Il tono dello spettacolo è leggero, venato di ironia garbata di chi non si prende troppo sul serio anche quando tratta temi importanti e capitali. Le luci sono suggestive ed evocative, con molte piogge, controluce e tagli bassi che disegnano immagini nette di un mondo fantasioso in cui “il velo è tanto sottil che il trapassar dentro è leggiero”.

Il colore rosa è uno spettacolo di teatro danzato comunicativo ed empatico, non privo di inquiete ombre affrontate con serenità, in cui i bambini si sentono a proprio agio e partecipano e intervengono, prima e dopo la rappresentazione.

Indaco di Fabio Ciccalé è invece un viaggio o, per meglio dire, un percorso di formazione attraverso varie esperienze di vita. Una scena vuota, fiocamente illuminata da un faro basso a terra a tagliar la scena in diagonale. Una luce diffusa senza gelatina pronta solo a illuminare quanto basta.

Il palco, luogo di attraversamento e formazione, viene mano a mano illuminato da neon disposti sul perimetro, accessi gradualmente mentre nello spazio si dipanano brevi episodi di danza. Gli stili cambiano, i toni si fanno ironici, drammatici, intimi, sofferenti, malinconici e sereni. Il gesto da cui si forma la danza è spesso quotidiano, banale, come il grattarsi la nuca, o lavarsi un’ascella, ma è anche sensuale, erotico, o crudele. Un mondo interiore ed emotivo di forte empatia, offerto con modestia, quasi in sordina, come a dire non fateci troppo caso, non sto parlando veramente sul serio.

Una vita danzata e condivisa, senza filtri e sovrastrutture complicate, quasi nuda e indifesa e perciò potente, perché fragile, delicata, lontana da ogni aggressività egocentrica e quindi condivisibile. Un viaggio che termina in un mare di barchette, un semplice telo con figurine di carta da gioco di bimbi illuminato dall’indaco, colore associato alla maturità. Una vita che forse alla fine, recuperando quel poco di fanciullino sopravvissuto alle peripezie della vita agra, può affrontare quella notte che vien per tutti, alla fine del viaggio che compiamo inesperti e deboli nonostante tutte le nostre vanagloriose velleità.

Due spettacoli efficaci, di grande empatia, diretti e comprensibili, non affetti dalla volontà di voler troppo dire, docilmente offerti e condivisi, ma non per questi privi di profondità e pienezza di senso. Entrambi affrontano il mondo e la difficoltà che l’accompagna, ma senza pesantezza. Piccole domande bisognose di risposta, quesiti che tutti conserviamo nella nostra anima afflitta, che troppo spesso con cieco cinismo lasciamo inevase, quasi vergognandoci della nostra comune fragilità.

Indaco e Il colore rosa sono efficaci proprio perché risvegliano in noi delicatamente quel domandarsi chi noi siamo e che ne sarà di noi, maschi o femmine, forti e deboli in questo viaggio che ci troviamo a percorrere e al termine del quale ci aspetta la notte.

Marco Chenevier

SPECIALE TACT FESTIVAL: QUINTETTO di Marco Chenevier

Il 23 maggio al TACT Festival di Trieste è andato in scena Quintetto di Marco Chenevier. Lo spettacolo prende spunto dalla polemica di Emilio Fede che coinvolse, suo malgrado, Rita Levi Montalcini in seguito ai tagli alla ricerca scientifica e dai clamorosi tagli alla cultura in seguito alla crisi economica, tagli che nel caso della Valle D’Aosta hanno raggiunto percentuali insostenibili dell’80%, e che in media nazionale sono state pari al 35%.

La realtà irrompe sul palcoscenico senza mezzi termini. Non siamo nella rappresentazione, né nella simulazione, siamo di fronte piuttosto a un’operazione critica attraverso le armi della rappresentazione.

Quintetto di Marco Chenevier si palesa fin dal suo apparire in scena come un gesto politico e insieme artistico. Nel raccontare la vicenda di Rita Levi Montalcini, protagonista evocata dallo spettacolo e impersonata dallo stesso Chenevier, si illustra la grave situazione del mondo culturale italiano i cui stipendi, causa i tagli, si vedono ridotti dell’80%. Cosa comporta? Che un quintetto è insostenibile, così come il tecnico luci e audio. Chenevier è dunque solo in scena.

Cosa possiamo fare dunque visto che ormai un biglietto è stato pagato. Proviamo a farlo insieme. Il pubblico è chiamato in scena a collaborare a un’improvvisata messa in scena. Chenevier racconta la sua idea di coreografia, che vuole rappresnetare gli effetti dei tagli alla ricerca scientifica sul corpo vetusto della Montalcini, agli spaesati volontari che non solo devono intervenire sulla scena, ma gestire i cambi luci da mixer, scegliere le musiche di accompagnamento e diffonderle al momento giusto. Cosa può succedere?

Tutto e il contrario di tutto. Errori esilaranti, incomprensioni, gaffe clamorose, perfino momenti commoventi, inaspettati, fulminei come un temporale estivo.

Marco Chenevier si mette nelle mani dell’imponderabile, niente è sotto il suo controllo, nemmeno i suoi assoli che si trovano a coesistere con luci imprevedibili e una colonna sonora alquanto bizzarra (si passa dai Carmina Burana alla colonna sonora de Il Signore degli anelli). Il tutto è ovviamente esilarante, dirompente e soprattutto azione politica efficace, in quanto vengono palesati gli effetti dei tagli alla cultura e la reazione che l’arte sa opporre per la sua perpetua rinascita.

Marco Chenevier in Quintetto, non piange sul fiume di Babilonia, reagisce, risponde colpo su colpo. Utilizza il dato drammatico, che permane, per costruire un meccanismo intelligente e fine di rivolta politica ed eccellenza artistica.

Gli errori dovuti alla mancanza di danzatori professionisti e di tecnici qualificati diventa materia significante, comica, dirompente. L’errore non è più tale, è segno, è resistenza, è sberleffo, è l’arte che trova sempre il modo di sopravvivere anche di fronte all’estremo.

Attenzione: non è che si dica che il finanziamento pubblico non sia necessario, che si vive anche senza. Se così fosse sarebbe solo un gesto infantile, non artistico-politico. Quintetto è un gesto di reazione che grida una necessità e in cui si utilizza quello che il dato di realtà pone davanti all’artista, capace di trasformarlo in azione efficace e significante nonostante tutto. E tale operazione è anche una presa di coscienza del pubblico di quanto il dato di realtà pesi sull’azione culturale, e come questa sia capace di mantenersi viva e vegeta, il tutto attraverso l’arma tagliente dell’ironia dissacrante.

Si ride in faccia al potere che misconosce l’utilità e l’azione dell’arte, considerandola superflua e quindi sacrificabile. L’arte è una necessità imprescindibile nell’uomo che si è evoluto anche e soprattutto grazie alle storie che ha saputo creare.

Vedendo Quintetto di Marco Chenevier sul palco del Teatro Stabile Sloveno di Trieste ho potuto apprezzare una volta di più l’incisività dell’agire scenico di un artista che non scinde mai l’arte dalla politica, e come questo non sia mai il classico lamento all’italiana ma sempre azione propositiva, positiva, irriverente. E soprattutto, in un ambiente che non si schiera quasi mai, la sua è una scelta di parte.

Come il Partigiano Johnny di Fenoglio sceglie un fronte di combattimento, anche a costo di trovarsi in the wrong sector of the right side. L’azione culturale non sempre è oppositiva ma lo è spesso. È quasi una necessità il prendere posizione perché è la realtà in cui viviamo che è in gioco. Anche quando l’autore scompare dietro la sua opera essa si staglia sempre come gesto politico. Per quanto Shakespeare non si schieri con o contro Riccardo III, il discorso è sempre politico e mette in scena il potere e la lotta per il trono.

Quintetto di Marco Chenevier, nonostante tutto va in scena, e lo fa in un certo modo, con quello che c’è a disposizione. La pochezza di mezzi non è però scusante e diviene motore e protagonista di resistenza efficace. Come nella migliore commedia di Moliere ridiamo delle miserie della nostra società, ma quando la risata è finita siamo costretti a farci i conti e a prendere una decisione da che parte stare. Non possiamo esimerci. Fare nulla è già fare qualcosa. È già una scelta di parte.

Ph: @Alex Brenner

Marco Chenevier

SPECIALE INTERPLAY: Salvo Lombardo, Luna Cenere, Marco Chenevier

Martedì 22 seconda giornata di Interplay e al Teatro Astra di Torino vanno in scena tre artisti, Salvo Lombardo, Luna Cenere e Marco Chenevier, che presentano lavori estremamente diversi per natura e metodo compositivo.

Apre la serata Present Continuous di Salvo Lombardo, prodotto dal Festival Oriente Occidente e Versiliadanza, con il sostegno di Teatri di Vita, Did Studio di Ariella Vidach e Anghiari Dance Hub.

Il lavoro di Salvo Lombardo è una caccia al gesto quotidiano da riutilizzare come elemento compositivo. Viene spesso usato, per la ricerca di Salvo Lombardo, il termine ready made gestuale ma questa definizione mi lascia perplesso. Il ready made presuppone un andare al di là del gusto, sono oggetti né belli né brutti, anonimi, schiacciati dall’indifferenza dell’uso e svincolati dalla loro funzione quotidiana. Non credo sia possibile applicare questa definizione alla gestualità in quanto un movimento del corpo non è mai anonimo, rivela sempre un’intenzione, un’appartenenza, qualcosa di chi lo esercita anche quando sfilacciato dall’abuso. Inoltre in questo caso il contesto d’uso permane. Si tratta per lo più di una rielaborazione.

Inoltre la ricerca sui gesti quotidiani, estrapolati e rielaborati non è nuova nelle arti sceniche, non solo nella danza. E penso soprattutto a Kantor, dove la definizione di ready made gestuale è decisamente più calzante.

Il campo di ricerca di Present continuous di Salvo Lombardo è il club, o discoteca. I gesti vengono osservati, catturati e imitati sul campo, in seguito ripresi e rimontati in sequenze che vengono nuovamente imitate sulla scena. I quattro danzatori sono in un quadrato-arena delimitato da un nastro rosso. Nell’angolo in alto a destra una console dietro un bancone. Colonna sonora: musica elettronica da club. I danzatori si aggirano in torno all’arena con un bicchiere da cocktail, chiacchierano intorno alla console. Quando entrano nell’arena iniziano a danzare presto imitati dagli altri. I gesti si scambiano, vengono elaborati insieme benché ognuno alla sua maniera. Siamo dunque ancora nella rappresentazione, si simula il contesto di origine e semplicemente si rielabora un materiale.

Present continuous di Salvo Lombardo per quanto interessante sulla carta, ripropone qualcosa di già visto. Un tributo al club che torna ciclicamente sulle scene. Tutto è ampiamente prevedibile dopo pochi istanti. Unico momento veramente interessante dove alla musica da club si sostituisce quella da balera romagnola, e dove i gesti catturati e la danza che ne deriva sono in un contesto simile benché diversissimo e l’azione diventa ironica e perturbante insieme. Benché anche in questo caso non ci si trovi di fronte a qualcosa di imprevisto o inaudito.

Certo oggi non è che sia necessaria per forza la novità. Anche solo un estraniante rimescolamento delle carte sarebbe sufficiente, ma purtroppo ci troviamo di fronte solo a un lavoro noioso, puramente intellettuale, che non aggiunge o toglie niente a quanto già visto sulle scene.

Kokoro di Luna Cenere è un pezzo breve che ho già avuto modo di vedere due volte lo scorso anno, sempre nella sua versione incompleta e ogni volta mi è rimasta la curiosità di vederlo nella sua versione integrale.

Il corpo nudo della danzatrice è in una posizione innaturale. La testa in basso le gambe distese oltre la testa, le braccia a terra. Da questa posizione lentamente il corpo assume nuove pose e questo muoversi come in un acquario emette sempre nuovi immaginari. La luce a pioggia, tenue, fioca, disegna ombre mobili sulla muscolatura che si tende, gonfia, si rilassa o distende. La nudità, spesso abusata, diventa materiale duttile per l’emersione di nuove immagini che in qualche modo, contro la nostra volontà, ci portano a vedere altro.

Il corpo assume sempre nuove pose e dalla verticalità iniziale che si innalza o immerge come danza di medusa, si passa a uno strisciare a terra, dapprima lento poi sempre più convulso e faticosamente ci si innalza a una posizione eretta, in cammino verso un esterno. Quasi un prontuario dell’evoluzione da organismi acquatici, ad anfibi striscianti fino all’uomo. Un lavoro molto raccolto e concentrato in questa prima opera da autrice di Luna Cenere già molto apprezzato tanto da entrare nel circuito Anticorpi XL e nella vetrina Aerowaves.

A chiudere la serata Questo lavoro sull’arancia di Marco Chenevier che ho già avuto modo di recensire lo scorso dicembre dopo averlo visto, proprio insieme a Luna Cenere sul palcoscenico di Exister a Milano, per cui per la recensione rimando a questo link http://www.enricopastore.com/2017/12/04/lavoro-sullarancia-marco-chenevier/

In questa sede mi limito ad alcune osservazioni. Marco Chenevier è artista che ama mettere in scena dei dispositivi inclusivi delle azioni del pubblico, e tali dispositivi sono sempre trappole che obbligano a un pensiero. Nel congegno sadico e violento, seppur ironico e divertente, che Questo lavoro sull’arancia mette in opera, ogni scelta, seppure una non-scelta, diventano un marchio che si attaglia su ciascun membro del pubblico. Osservare senza nulla fare è prendere parte, assumersene una. La cosa non riguarda solo chi decide di prendere parte, chi decide di torturare o farsi torturare per cinque euro. Tutti siamo coinvolti nessuno escluso.

Questo lavoro sull’arancia ci rivela come società, ci denuda per quello che siamo. E ogni volta, cambiando il pubblico, muta la percezione che si ha di noi stessi. Le scelte si modificano, le azioni si fanno più o meno incisive. E ogni volta ogni accadimento diviene scenario politico e specchio di una comunità.

Tra la versione milanese e quella torinese la temperatura, l’incidenza delle azioni, la partecipazione, tutti i parametri in gioco sono mutati e ricombinati dando un esito totalmente diverso tanto da rendere il dispositivo uno strumento di indagine sociologica e antropologica più che artistica, o forse tali ed efficaci proprio perché si esplicano attraverso l’azione artistica.

E l’altra considerazione è che Questo lavoro sull’arancia di Marco Chenevier, sia un saggio sulla potenza dello sguardo e sulla sua azione tagliente e mai neutra. Chi guarda spesso non fa nulla, guarda e basta, ma in quel far niente agisce in maniera indelebile tanto da modificare la realtà. Guardare il danzatore che, nonostante l’intolleranza, è costretto a bere un bicchiere di latte, dice molto di noi stessi. Noi che non interveniamo e vediamo come va a finire, siamo attori esattamente come il volontario carnefice. Non esiste posizione neutra. Tocca una scelta. Va fatta perché anche non agire è decidere da che parte stare.

Marco Chenevier

QUESTO LAVORO SULL’ARANCIA di Marco Chenevier

Sabato 2 dicembre alla Dancehaus di Milano nell’ambito del festival Exister è andato in scena Questo lavoro sull’arancia di Marco Chenevier con Alessia Pinto, spettacolo di estrema intelligenza e acume, che presenta la danza non come oggetto da ammirare ma piuttosto come esperienza che interroga, filosofia in azione, prassi del pensiero attraverso il corpo in movimento.

Questo lavoro sull’arancia di Marco Chenevier comincia con la distribuzione di un welcome kit. Contiene vari e semplici oggetti: un’arancia, un foglio di carta A4, una pallina di carta, una galatina. Si intuisce subito che non si sarà spettatori passivi ma che in qualche modo si finirà per partecipare, ma è difficile prefigurare quanto sta per avvenire.

Questo lavoro sull’arancia di Marco Chenevier si configura da subito come un dispositivo di crudeltà. A partire dalle due scene propedeutiche una voce spiega le regole del gioco al pubblico che ha il potere di fermare o meno quanto avverrà sulla scena. Il danzatore tirerà uno schiaffo alla danzatrice a meno che voi non lo fermiate col dissenso. A partire da questo punto il percorso diventa chiaro: è necessario prendere posizione, perfino l’astenersi è di fatto un gesto attivo e politico, una scelta.

Il pubblico è immerso in una trappola, è preso al laccio, diventa vittima e carnefice, dall’istante in cui accetta di restare e partecipare all’esperienza.

Questo lavoro sull’arancia di Marco Chenevier contiene già nel titolo un indizio ulteriore per mappare questo territorio che via via, scena per scena, si sta costruendo davanti a noi: un’arancia, un bicchiere di latte, l’amatissimo Ludovico Van e una bella dose di ultraviolenza. Non serve lambiccarsi troppo il Gulliver per capire che l’universo evocato è quello di Arancia Meccanica e capire che quello che stiamo per subire è un vero e proprio trattamento Ludovico.

Una voce anonima da navigatore ci guida passo per passo verso un’escalation, proponendo nuove e più atroci prove: una serie di volontari sale sulla scena. Si trovano davanti a una scelta: il danzatore è intollerante al lattosio è ha in mano un bicchiere di latte. Si può fermarlo o farglielo bere per intero e in questo caso si vincono 5 € (poi 10€ fino a 20€). C’è chi lo ferma e chi no.

Altre prove si accumulano seguite da intermezzi in cui sempre la voce indica regole e procedure di intervento. Possiamo fermare la scena quando vogliamo lanciando pallette di carta o aereoplanini. Se uno solo lo fa vince dei soldi, se più di uno nessuno vince nulla. E anche in questo caso scatta una forma di crudeltà: si permetterà all’uno di vincere il danaro? Oppure proveremo a impedirglielo?

Ma arriviamo al finale in modo da non svelare tutto il processo di accumulo che In questo lavoro sull’arancia di Marco Chenevier porta ad accrescere la partecipazione e a alzare l’asticella di intervento del pubblico su quanto andrà ad avvenire sulla scena. Si allestisce un ambiente: una piccola piscina, un tavolo, vari bidoni di latte, dei secchi che vengono riempiti di latte, del ghiaccio in cubetti che viene gettato nei secchi di latte. Tutto bianco ospedaliero e luce abbacinante.

Si chiede al pubblico nuovi volontari disposti a spogliarsi in intimo ed entrare nella piscina. Il primo per 5€, il secondo per 10€ fino a 50€. I volontari si prestano, si spogliano ed entrano nella piscina e il pubblico può sempre scegliere se farglieli vincere oppure no. I danzatori a loro volta eseguono azioni sui malcapitati. Cosa sei disposto a fare per 5€? cosa sei disposto a fare per non farli guadagnare?

E infine la tortura finale. Un’urna, nella quale all’inizio dello spettacolo vengono raccolte delle offerte per la grande estrazione finale, viene portata in scena, così come un coltello e un cesto di arance e un piccolo cerchio nero di non più di un metro di diametro che viene posto in proscenio. Chi vuole vincere il danaro deve mettere il suo nome nell’urna e spremere negli occhi della danzatrice, legata e imbavagliata, il succo dell’arancia. Inoltre il danzatore versa su di lei i secchi di latte ghiacciato (chiaro il riferimento alla violenza sulla donna). Chi vuole impedire l’atto violento deve entrare nel cerchio e lì rimanervi dopo aver lanciato sul danzatore l’arancia contenuta nel welcome kit. Dopo sedici centri l’azione crudele si interrompe e nessuno vince; oppure può lanciare nella piscina il suo aereoplanino di carta, ma sono necessari sessantacinque centri per interrompere l’azione. Altre scelte sono possibili: stare a guardare e godersi lo spettacolo, oppure reagire infrangendo le regole.

E avviene di tutto: si fa la fila per spremere negli occhi della danzatrice inerme le arance, si viola le regole lanciandone più di una sul danzatore (azione inutile che non porta al blocco dell’azione), c’è chi entra in scena e sottrae degli oggetti per sabotare il carnefice. C’è chi seduto in scena urla consigli, inneggia, oppure inorridisce impotente. I più cercano di lanciare gli aereoplanini nella piscina non riuscendovi per la grande distanza, e quanto è inutile l’atto in sé di fronte a tanta violenza. E pure inutile aver lanciato l’arancia e restare impotenti e pigiati sul disco nero.

C’è un’opzione non considerata da nessuno: impedire l’azione con una scelta consapevole.

In questo lavoro sull’arancia di Marco Chenevier si costruisce un meccanismo di tortura che mette in scena la banalità del male. Tutti partecipano, tutti costruiscono il dispositivo, tutti in qualche modo sono complici del suo svolgimento, in quanto anche la ribellione in qualche modo viene disinnescata dall’inutilità dell’atto in sé. E infine si compie un percorso di mercificazione, si viene pagati per soffrire e far soffrire, si stabilisce un patto economico per subire o partecipare a un atto scellerato. Il tutto è condito da una forte dose di ironia e dimostra ancor di più che si può ridere e sorridere ed essere dei furfanti non solo in Danimarca.

Esperienza e non oggetto questo spettacolo, erlebenis che porta a galla, fa emergere dal profondo le nostre nature violente. E pone quesiti, domande scomode su se stessi e sulla società in cui si vive, società dello spettacolo in cui in massima parte esposta è la violenza e la crudeltà, violenza generata e provocata in prevalenza dal mercato.

Carnefici e prostitute, osservatori voyeur disgustati seppur eccitati, vittime condiscendenti. Meccanismo sadomaso, specchio bisturi dell’anima nera di tutti noi, Questo lavoro sull’arancia di Marco Chenevier è spietato, non concede facili assoluzioni seppur non esprima giudizi. È semplicemente Teatron, il luogo da cui si guarda il mondo e se il mondo non piace non resta che cambiarlo, se l’immagine disgusta basterebbe distogliere lo sguardo da quello di questa scena medusa che anziché pietrificare scatena.

Questo lavoro sull’arancia di Marco Chenevier ricorda esperienze analoghe messe in atto da Ivo Dimchev (penso ad esempio a P Project), performer geniale che chissà perché frequenta pochissimo le scene italiane, e pone interessantissime questioni riguardo le funzioni e le modalità della scena. Superato il concetto di oggetto si giunge a un processo immersivo, in cui quanto avviene in scena è scelta non solo dell’autore ma anche del pubblico che non solo partecipa ma agisce. È esperienza che conduce all’emersione di una consapevolezza di sé, è specchio che restituisce l’immagine che noi vogliamo proiettarvi, è teatro crudele che scatena la peste, che incide il bubbone, è danza di Dioniso dio di tutte le contraddizioni.

Ph.@Stefano Mazzotta

Prometeo - Oltre il fuoco

Prometeo – Oltre il fuoco. Dialoghi coreografici

Giovedì 30 novembre alla Casa Teatro Ragazzi di Torino si è svolto un interessante e fruttuoso incontro di giovani coreografi che hanno intessuto un dialogo di stili coreografici sul tema Prometeo – Oltre il fuoco.

Su invito di Raphael Bianco e della fondazione Egri per la danza, si è assistito alla presentazione in prima assoluta dei lavori di Patricia Apergi, Marco Chenevier e Salvatore Romania che oltre allo stesso Raphael Bianco si sono confrontati sulla figura del titano Prometeo che per amore dell’umanità si immolò per essa.

Terzo appuntamento di una Trilogia della Civiltà, i cui primi appuntamenti sono stati dedicati a Faust e Orlando, Prometeo – Oltre il fuoco è stata una vera occasione di confronto tra quattro coreografi diversi per stile e pensiero che hanno dialogato tra loro e con il pubblico attraverso il linguaggio della danza.

Il mito del dio che amò gli uomini e fu inviso agli dei ha ispirato interpretazioni diverse dimostrando una volta di più, e qualora ce ne fosse bisogno, l’universalità del mito e la sua capacità di parlare dall’abisso del tempo al presente odierno.

Patricia Apergi, coreografa greca maestra nell’intessere intricatissime trame di contrappunti ritmici su scottanti temi politici, si interroga, quasi rabbiosamente su chi siano i ribelli oggi. Il fuoco e la luce passano di figura in figura, nella ripetizione e variazione dei temi sapientemente intrecciati. Una danza che scuote e quasi aggredisce con repentini cambi di ritmo, sincopi, accelerazioni improvvise, accumulo e rilascio di forze esplosive.

Marco Chenevier attraverso accumulazione di plastiche figure ispirate alla statuaria greco-romana, ma che ricordano anche il Voguing degli anni ’90, affronta tematiche di genere. La montante tensione di cui si caricano i danzatori nei lenti spostamenti e nelle stasi sfocia in un bacio universale che unisce uomini e donne in tutte le possibili varianti e sfocia infine in un bassorilievo di corpi nudi e ribelli.

Raphael Bianco si ispira alla figura di Aung San Suu Kyi e presenta la sua versione del sacrificio di Prometeo attraverso il corpo della donna che diventa strumento di libertà contro l’oppressione, ma anche capro espiatorio, corpo tragico che ispira alla ribellione.

Salvatore Romania, infine, attraverso una danza fortemente ispirata, a mio avviso, da quella di Roberto Zappalà, rappresenta un’umanità oppressa dallo strapotere di Zeus, un’umanità che si dibatte a terra come insetti, sciame oppresso e forse non più ribelle, ma colma della necessità di una nuova rivolta alla ricerca di un uomo nuovo.

Al di là degli stili e dei risultati estetico-artistici in questo Prometeo – Oltre il fuoco troviamo una danza viva, aperta al confronto con se stessa e con il mondo. Una danza che parla varie lingue e dialetti ma che non teme il dialogo e l’incontro. Grande merito a Raphael Bianco per aver costruito insieme alla Fondazione Egri per la danza questa occasione. Con umiltà e dedizione ci ha offerto una serata in cui si è potuto ammirare la forza esplosiva ed eversiva del corpo in movimento. Una compagnia che attraverso i suoi interpreti, si è calata nella dimensione dell’ascolto e del confronto, rendendosi strumento dell’epifania del linguaggio danzato.

Un continuo e proficuo traslare in diversissime manifestazioni del movimento e della composizione coreografica, non tralasciando l’apertura verso il mondo che troppe volte manca. Apertura che non significa per forza quotidianità e cronaca, ma la capacità di far risuonare entrambe le corde della scena e della platea. C’è da augurarsi che consimili occasioni capitino più spesso, momenti in cui la danza attraverso il suo specifico linguaggio, attraverso le contaminazioni fruttuose che può continuare ad avere e nell’ibridazione con le altre arti dal vivo, parli al pubblico senza proclami ma con l’azione incisiva della pratica artistica e con il linguaggio vivo e sempre attuale del corpo in movimento.

Tdanse

TDANSE occasioni di dialogo sulla nuova danza ad Aosta

Dall’11 al 15 ottobre ad Aosta si è svolto un piccolo evento che racchiude in sé molti elementi che possono ridefinire in modo significativo la funzione un festival nel contesto culturale di un territorio. Parlo di Tdanse festival internazionale della nuova danza a cui ho avuto il piacere di partecipare.

Festival è parola di ascendenza antica, nel cui significato si annida il concetto di festa popolare, a indicare un momento ricorrente nel tempo e nella comunità in cui celebrare e festeggiare. Oggi il termine indica per lo più rassegne e vetrine di opere che siano danza, musica, cinema o teatro. Al significato di festa, legato quindi alla condivisione e alla partecipazione, si è sostituito un senso e una modalità legata più al mostrare e al vedere, funzione che si è un po’ incancrenita in questi ultimi anni. Non basta più presentare delle opere. Alla finalità passiva di assistere manca uno stimolo, un’esigenza, una necessità e questa mancanza ha costretto, chi più chi meno, festival grandi e piccoli, a cercarsi un ruolo e un senso che non sia solo quello di proporre un menu di spettacoli. Chi ha virato verso la costruzione di un mercato per agevolare la distribuzione dei lavori, chi ha portato l’attenzione sulla creazione di momenti di dibattito che portassero al confronto e al dialogo, chi ha cercato strategie per portare nuovo pubblico alla fruizione di produzione culturale, quello che oggi si chiama audience engagement, connubio di parole in sé un po’ vuote e prive di reale significato. Tutti questi tentativi sono spesso accompagnati da una nota di forzatura, di estraneità al contesto in cui si opera, oppure di creazione di una sorta di ambiente asettico e riservato agli esperti del settore. Nel peggiore dei casi c’è palese la sensazione di inganno, di rispettare dei canoni al solo fine di poter accedere ai bandi di finanziamento. Difficilmente vi è un’integrazione in un ambiente comunitario preesistente.

Questo avviene per molte ragioni. Prima fra tutte il fatto che l’arte e la cultura hanno perso esse stesse una funzione nel tessuto della società. La creazione contemporanea si è un po’ slegata dalla vita e dai problemi del contesto sociale, mantenendo sì dei legami, ma che si fanno sempre più sfilacciati, forzati, privi di un vero slancio, di riflessione vera, di militanza politica. E capire quali sono i motivi che hanno portato a questo meriterebbe non certo un articolo ma un saggio corposo. Le ragioni sono innumerevoli e si annidano in molti settori, dall’educazione all’informazione, dall’arte all’economia. Quello che conta nel contesto di questo piccolo scritto è segnalare che un festival ha la necessità per sussistere di riscoprire o inventarsi una funzione che lo leghi al tessuto sociale che ne garantisca perciò la necessità. Il tessuto sociale che ospita un evento deve sentire il bisogno e l’utilità senza la quale si entra nell’artificio scollato da un corpo che lo ospita come un virus o un parassita, e questo avviene soprattutto quando i festival operano in piccoli centri di provincia generalmente lontani dai grandi focolai culturali dove vi è già un pubblico pronto a riceverli.

Le piccole realtà provinciali sono spesso disabituate ai fenomeni culturali legati ai linguaggio contemporanei, ma sono anche i luoghi più atti a ospitarli anche solo semplicemente per ravvivare dei percorsi turistici. Molti dei più importanti festival di Live Arts italiani risiedono in provincia (pensiamo a Santarcangelo, a Polverigi, a Kilowatt, Centrale Fies o InArmonia solo per citarne alcuni) e altrettanto spesso vi è una sorta di frizione tra comunità locale e evento culturale. Tutti cercano di allentare questa tensione, di cercare un modo di comune convivenza, di instaurare un rapporto di reciproco interesse.

Tdanse è festival interessante, da questo punto di vista, perché nei suoi due anni di vita in un contesto come quello di Aosta e della sua magnifica Valle, territorio decisamente abbandonato da fenomeni culturali legati al contemporaneo degni di nota, ha attuato delle strategie che con il tempo porteranno buoni frutti se la sua direzione sarà lasciata libera di lavorare.

Innanzitutto Tdanse recupera decisamente il concetto di festa popolare nel senso più nobile ossia quello di riunire una comunità per condividere dei valori. La prima impressione che si affaccia all’animo raggiungendo la Cittadella dei Giovani di Aosta presso l’imponente e massiccio Arco di Augusto, e quello di calda accoglienza e di volontà di condividere un’esperienza insieme. Chi partecipa al festival viene ospitato da cittadini di Aosta, nelle loro case; i momenti di dialogo e incontro tra pubblico, artisti, operatori, critici sono innumerevoli. Tdanse crea innanzitutto relazione. Partecipare significa, nel caso di Tdanse, soprattutto incontrare, conoscere, dialogare.

Conseguenza primaria all’incontro e alla conoscenza, è il confronto. Artisti di diversa provenienza e pubblico discutono e apprendono. La questione culturale diviene necessità di conoscenza reciproca. Quindi non solo l’opera, ma la pratica, la creazione, il lavoro, le esigenze vengono discusse, esaminate, confrontate. E questo ripeto non solo tra artisti, che risiedono in Aosta per tutta la durata di Tdanse e non solo per il momento della propria performance, ma insieme con il pubblico.

Quest’ultimo è decisamente giovane. Una media di età molto bassa e questo è un bene assoluto. Di fronte a pubblici geriatrici a Tdanse si respira aria di freschezza grazie a un’accorta politica di dialogo con le scuole e con i giovani. Si costruisce il pubblico di domani e un radicamento dell’affezione sul lungo periodo.

La direzione artistica di Marco Chenevier e Francesca Fini ha dunque cercato di radicare l’evento in un tessuto sociale difficile, disabituato agli eventi e in una regione, la Valle D’Aosta, che ha tagliato più di ogni altra i fondi e i finanziamenti alla cultura. Tdanse sta investendo sul futuro e i frutti si vedranno decisamente negli anni a venire se verrà concesso loro di lavorare.

Certo vi sono dei piccoli difetti, come la presentazione dei Q&A, decisamente un po’ forzati e inquisitori. Andrebbero costruiti in maniera più rilassata e libera. Ma sono dettagli che sicuramente verranno emendati nelle prossime edizioni. La direzione è quella giusta

Tdanse è anche programmazione legata alla danza e alle nuove tecnologie. Attenzione primaria rivolta ai giovani artisti sia italiani che europei. Tra quelli visionati segnalo la Compagnia 7/8 chili con Display, un ironico gioco tra reale e virtuale in cui l’identità si frantuma nei due spazi adiacenti creando ironiche possibili congiunzioni; Mariella Celia con Sleep elevation, un sogno tutto al femminile in cui con grande leggerezza e comicità ci si confronta letteralmente con i propri scheletri nell’armadio; Darran McLoughlin con The Whistle, uno spettacolo tra danza e giocoleria in cui un fischietto e alla complicità del pubblico si crea una visione e una narrazione. A questi lavori si affiancano quelli di nomi decisamente più affermati come Roberto Castello con il suo toccante In Girum imus nocte et consumimur igni, e Stalker Teatro con Steli. Inoltre una personale di Francesca Fini che presenta una serie di lavori quali Skin/Tones, Fair and Lost e Bodyquake, quest’ultimo insieme a Oriana Persico e Salvatore Iacoresi.

Agli spettacoli, destinati alla fascia serale, si affiancano nel pomeriggio masterclass, incontri con il pubblico e conferenze. Tra quest’ultime decisamente interessante quella con Alberto Cossu ed Emanuele Braga di Macao, in cui tramite l’esempio di Santarcangelo dei Teatri dove sono stati invitati ad attuare uno studio di fattibilità, si è indagata le possibilità di creare insieme ai festival delle economie alternative. Interessante l’incontro tra il Collettivo C.re.s.co e alcune giovani compagnie aostane volto a indagare e a comprendere le esigenze delle arti sceniche nel contesto proprio della Valle D’Aosta.

Come si può evincere da questo piccolo e necessariamente breve racconto, Tdanse ha offerto un ricco e interessante ventaglio di eventi e occasioni di incontro, inserito in un clima altamente amichevole e ospitale. L’intreccio con la comunità aostana si è avviato nel migliore dei modi, il pubblico non è mancato, come le famiglie che hanno deciso di ospitare operatori e artisti nelle proprie case. Se il sostegno delle istituzioni e l’energia e le motivazioni di Marco Chenevier e dello staff di Tdanse non verranno a mancare, questo piccolo festival potrebbe crescere e diventare un ottimo e fertile momento di incontro e confronto all’interno del panorama festivaliero italiano. E questo lo auguro con tutto il cuore perché vi è l’urgente necessità di riscoprire il dialogo fondativo tra arti e comunità.