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Girolamo Lucania

LO STATO DELLE COSE: INTERVISTA A GIROLAMO LUCANIA

Per la quarantottesima intervista de Lo stato delle cose restiamo a Torino per incontrare Girolamo Lucania. Lo stato delle cose è, lo ricordiamo, un’indagine volta a comprendere il pensiero di artisti e operatori, sia della danza che del teatro, su alcuni aspetti fondamentali della ricerca scenica. Questa riflessione e ricerca partita lo scorso dicembre crediamo sia ancor più necessaria in questo momento di grave emergenza per prepararsi al momento in cui questa sarà finita e dovremo tutti insieme ricostruire.

Girolamo Lucania è regista e direttore artistico di Cubo Teatro nonché fondatore della Compagnia Parsec Teatro. Insieme a Bellarte, Acti – Teatri Indipendenti e Mulino di Amleto ha dato il via alla stagione condivisa Fertili Terreni Teatro. Tra le sue ultime regie ricordiamo: Blatte, Tito rovine d’Europa, La storia degli orsi panda raccontata da un sassofonista che ha un’amichetta a Francoforte di Matej Visniec.

D: Qual è per te la peculiarità della creazione scenica? E cosa necessita per essere efficace?

Quando si parla di creazione, si parla di qualcosa di nuovo. La parola stessa significa nascita, partire da zero, dal nucleo zero. Un’immagine, una sensazione specchiante spesso è sufficiente. Esplorare quell’immagine fino in fondo, ascoltare ciò che stimola. Da lì, può nascere qualcosa. Attorno a quell’immagine vanno create le relazioni: relazioni fra azioni, intenzioni, fra linguaggi, e relazione con il pubblico, a cui va dato un ruolo, su cui va espresso un obiettivo (non necessariamente diretto ed esplicito, ma fondamentale per definire il vero senso dell’immagine iniziale). Allo stesso tempo, bisogna dare alla creatura una lingua, il proprio modo di esprimersi, tentando di rendere quella lingua universale, e allo stesso tempo propria della creatura. Va dato uno spazio e un tempo, all’interno dei quali quel linguaggio diventa coerente e se possibile sorprendente. Un linguaggio che sia specchio del tempo. E poi, e poi. Per realizzare tutto questo è necessario un tempo/terreno fertile. Lo spazio dell’errore è fondamentale. Riprendere il concetto di prova. Tentare e trasgredire, sbagliare. Tempo.

Girolamo Lucania
La storia degli
orsi panda raccontata da un sassofonista che ha un’amichetta a Francoforte

D: Oggi gli strumenti produttivi nel teatro e nella danza si sono molto evoluti rispetto solo a un paio di decenni fa, – aumento delle residenze creative, bandi specifici messi a disposizione da fondazioni bancarie, festival, istituzioni -, eppure tale evoluzione sembra essere insufficiente rispetto alle esigenze effettive e deboli nei confronti di un contesto europeo più agile ed efficiente. Cosa sarebbe possibile fare per migliorare la situazione esistente?

Porre al centro la creazione e non la creatura. Ripristinare l’idea che la creazione è un processo complesso. Troppo spesso ci troviamo in teatro a vedere opere che paiono incompiute, colme di compromessi, per mancanza di tempo. Anzi spessissimo vediamo opere che sono repliche di altre opere: vediamo replicarsi in produzioni diverse gli stessi metodi, gli stessi linguaggi, la stessa lingua. Ciò accade perché il sistema spinge verso il risultato efficace. Questo processo di creazione rischia di diventare bulimico, e di fatto lo è. Il risultato è un costante aumento delle produzioni, figlie di scadenze e termini. Il Teatro necessita di tanto tempo, e la creazione, anche fallimentare, va posta al centro del processo produttivo. Diventa dunque necessario dare sostegno alla creazione e dare all’artista il giusto tempo per creare qualcosa di vero e unico.

D: La distribuzione di un lavoro sembra essere nel nostro paese il punto debole di tutta la filiera creativa. Spesso i circuiti esistenti sono impermeabili tra loro, i festival per quanto tentino di agevolare la visione di nuovi artisti non hanno la forza economica di creare un vero canale distributivo, mancano reti, network e strumenti veramente solidi per interfacciarsi con il mercato internazionale, il dialogo tra gli indipendenti e i teatri stabili è decisamente scarso, e prevalgono i metodi fai da te. Quali interventi, azioni o professionalità sarebbero necessari per creare efficienti canali di distribuzione?

Personalmente ritengo che il sistema distributivo sia sbagliato in partenza. Le produzioni sono troppe, e gli spazi non sono in numero sufficiente per accoglierli. Inoltre, molte produzioni sono figlie della velocità, e quindi mancano di un senso di compiutezza (che comunque è un paradosso per il teatro), e sono colme del senso di dejavu. Anche economicamente, il sistema di distribuzione ha dei costi elevatissimi. Ritengo si debbano ridistribuire le risorse verso la produzione e il tempo di prova; diminuire il numero di nuove opere annuali; immaginare che gli spazi siano stanziali e accolgano le opere teatrali per un numero elevato di repliche. Immagino che se volessi vedere il lavoro di un artista pugliese che mi interessa, dovrei spostarmi in Puglia. Oppure nei Festival. E la distribuzione sarebbe così necessaria solo per le opere veramente uniche, emblematiche, piene di senso, migliori. Ovviamente sto semplificando, il discorso è complesso.

Girolamo Lucania Tito Rovine d’Europa

D: La società contemporanea si caratterizza sempre più in un inestricabile viluppo tra reale e virtuale, tanto che è sempre più difficile distinguere tra online e offline. In questo contesto quali sono oggi, secondo la tua opinione, le funzioni della creazione scenica che si caratterizza come un evento da viversi in maniera analogica, dal vivo, nel momento del suo compiersi, in un istante difficilmente condivisibile attraverso i nuovi media, e dove l’esperienza si certifica come unica e irripetibile ad ogni replica?

Lo spettacolo dal vivo deve interrogarsi molto su questo punto. È un punto fondamentale, ma apertissimo, in cui l’artista può trovare la sua strada, la propria indagine. Personalmente ritengo che la regia sia un concetto in rinnovamento: la costruzione di un impianto con delle leggi nelle quali gli interpreti (tutti: attori, artisti tecnici, musicisti) trovano gli impulsi ad agire, e a comunicare fra loro e insieme con il pubblico. Nella relazione orchestrale, nell’ascolto collettivo degli interpreti all’interno delle leggi e del linguaggio di quella scena e di quell’opera, si trova l’unicità. Non si tratta di improvvisare, tutt’altro, si tratta di creare ogni replica qualcosa di nuovo, senza definire esattamente cosa accadrà, ma definendo esattamente le leggi con cui accadrà, pur all’interno di una gabbia strutturale che – è bene sottolinearlo – deve essere coerente, adesa al linguaggio e alle leggi della scena. Un altro punto, ribadisco, è la fondamentale relazione con il pubblico: ad esso va dato un ruolo – sottile, pesante, dipende dall’opera – e ad esso vanno poste domande: indirette, dirette, a volte anche solo uno sguardo è sufficiente. E quanto è potente uno sguardo.

D: Con la proliferazione dei piani di realtà, spesso virtuali e artificiali grazie ai nuovi media, e dopo essere entrati in un’epoca che potremmo definire della post-verità, sembra definitivamente tramontata l’idea di imitazione della natura, così come la classica opposizione tra arte (come artificio e rappresentazione) e vita (la realtà intesa come naturale). Nonostante questo sembra che la scena contemporanea non abbia per nulla abbandonato l’idea di dare conto e interrogarsi sulla realtà in cui siamo immersi. Qual è il rapporto possibile con il reale? E quali sono secondo te gli strumenti efficaci per confrontarsi con esso?

Dalla realtà non si prescinde. Ma oggi è un caleidoscopio di opinioni, diciamo di verità – come giustamente sottolineato nella domanda. Allora forse lì sta il punto: quali emozioni collettive, quale catarsi può suscitare un tale caos? A volte la domanda va rivolta al passato, alle flebili tracce del passato, o alle conseguenze della realtà liquida e multipla. La società sta perdendo valori importanti come il valore della Storia, la Memoria Collettiva, la progettazione di un futuro insieme, soprattutto le nuove generazioni sembrano perse senza un obiettivo (positivo) comune. Tutto ciò comporta delle conseguenze. La depressione giovanile, ad esempio, è in costante aumento. E l’Europa non è più oggetto di interesse delle opere narrative (basti pensare ai film o ai videogames): la partita della Storia si gioca altrove, il Vecchio Continente è apparentemente immobile. Ecco: in tutto questo (e non solo) si presenta un’enorme – e limitato – confine di indagine. L’Arte, come al solito, trova sempre il modo di essere politica.

La ballata di Johnny e Gill

LA BALLATA DI JOHNNY E GILL di Fausto Paravidino

La ballata di Johnny e Gill in scena in prima nazionale al Teatro Gobetti di Torino, è la nuova creatura di Fausto Paravidino nei cui geni si può osservare alcune linee di evoluzione della scena teatrale commerciale contemporanea.

Lo spettacolo è una coproduzione internazionale i cui partner principali sono distribuiti tra Italia (Teatro Stabile di Torino e Teatro Stabile del Friuli Venezia Giulia) e Francia (Theatre National de Marseille, Scene Nationale de Toulon e Scene Nationale de Chateauvallon) più il Theatre de la ville de Luxembourg. La ballata di Johnny e Gill è quindi un prodotto rivolto non solo al mercato italiano.

Il pubblico pensato per questa operazione è il più vasto possibile, ampio per età (anche se si strizza l’occhio maggiormente ai giovani) per opinioni politiche, per livello di istruzione e per censo. Può decisamente piacere sia all’abbonato anziano, sia allo studente delle scuole superiori, al conservatore di destra come di sinistra, è pop ma con alcuni elementi più colti e sottili, attinge disinvolto a generi teatrali diversi dal musical alla pantomima ma anche a modalità più tipicamente televisive (quiz e reality) o cinematografiche. È un oggetto teatrale decisamente mainstream anche se, proprio per le stesse ragioni, rischia di deludere le aspettative di molti.

Proviamo ad analizzare questi assunti più in dettaglio.

La ballata di Johnny e Gill inizia, come le storie antiche, a partire dalla genesi del mondo. Compare sul fondale la proiezione de La piccola torre di Babele di Brueghel il Vecchio a cui segue la storia di Abramo e del mancato sacrificio di Isacco. Da qui comincia la storia di Johnny e Gill, moderni Abramo e Sara, affiancati da Lucky, sorta di Arlecchino portatore di caos, che lasciano la propria terra diretti verso una nuova, non tanto indicata da Dio quanto dai propri sogni e ambizioni. Inizia un viaggio picaresco attraverso il deserto e il mare, per giungere negli Stati Uniti dove inizia un nuovo cammino verso il raggiungimento del sogno americano durante il quale accadono molte cose: dall’incontro con la mafia russa alla partecipazione a uno show televisivo. E poi i tentativi di mettere al mondo un erede attraverso un utero in affitto, una maternità che infine giunge anche se quel figlio nato, un giorno dovrà essere sacrificato. Difficile riassumere una vicenda che si dipana per circa tre ore di spettacolo e che utilizza tutti gli ingredienti disponibili come in ogni racconto avventuroso.

Tra i toni utilizzati prevale il comico, a volte leggero altre leggermente più impegnato. Non mancano momenti drammatici se non tragici (per esempio il naufragio, dopo la fuga dalla prigione nel deserto, in cui muoiono una donna e il suo bambino neonato). Non difettano anche un poco di sesso e violenza per rendere più pepata la narrazione. Fausto Paravidino è drammaturgo capace che sa dosare i vari elementi, le sorprese e le tecniche al fine di non annoiare il pubblico.

La recitazione utilizza registri grotteschi e caricaturali. I personaggi sono per lo più delle maschere (molte volte nel corso della pièce le indossano). Siamo immersi in un mondo picaresco, iperbolico e parodistico in cui i personaggi sono protagonisti di una sorta di nuova commedia dell’arte costruita su cliché e luoghi comuni (per esempio gli americani sulla spiaggia dove giungono Johnny, Gill e Lucky che mangiano enormi hot dog e sono definiti grassi e sciocchi).

La ballata di Johnny e Gill si conforma come una grande show in cui alcuni temi del nostro contemporaneo (immigrazione e integrazione su tutti) vengono declinati mediante un caleidoscopio di generi e tecniche, per renderli piacevoli senza turbare troppo. Potremmo quasi dire che se fosse cinema sarebbe una sorta di cinepanettone, dove a farla da padrona una comicità grossolana seppur sapientemente utilizzata.

La ballata di Johnny e Gill è come detto un prodotto costruito per essere mainstream, per piacere e divertire a teatro un pubblico che sia più vasto possibile e questo è anche il suo principale difetto. Per piacere a tutti devi dire cose che non urtano nessuno o lo fanno in maniera bonaria e inoffensiva. Con il voler piacere a tutti, finisci per scontentare. Si ha un senso di vuoto di fronte a tutto questo macchinario industriale del divertimento a teatro. Tutte quelle faccine, smorfie, vocine, tutti quei generi, quell’indulgere a un immaginario da serie televisiva, stanca e non soddisfa. Non risulta mai veramente incisivo anche in quei momenti drammatici che pur sono presenti e dovrebbero far pensare.

Si rimane sempre sulla superficie senza mai approfondire niente. Si accumula materiale, si bombarda lo spettatore di temi e situazioni, che scivolano via e poco resta alla fine di questa baraonda. Rispetto ad altri lavori di Paravidino, per esempio Il senso della vita di Emma, si assiste a incremento canceroso di strumenti impiegati e a una perdita di incisività direttamente proporzionale. Benché l’intento dell’opera sia chiara fin dall’inizio con il riferimento alla storia di Abramo, il tema dell’abbandono della terra d’origine e del sacrificio del proprio figlio per fedeltà a Dio si perde nelle macchinerie, nelle trovate a ogni costo, nei cliché che banalizzano, nelle volgarità per far ridere a ogni costo. Sembra che il tema sia solo un pretesto per avviare un percorso comico spettacolare che affascini e intrattenga il pubblico. Resta solo una forma che è guscio vuoto.

Materiali e tecniche sono impiegati per servire a una funzione, e quest’ultima non è altro che portare pubblico a teatro, farlo divertire, svagarlo, e incassare. É nient’altro che un prodotto commerciale finalizzato ai grandi numeri. Esattamente come un cinepanettone o il nuovo colossal con il super eroe di turno, senza cambiare nulla, senza rivoluzionare alcunché, si vuole stupire, affascinare senza interrogare la società sul mondo in cui si vive. Si usano tutti gli strumenti possibili per travestire un prodotto tradizionalmente conservatore, come moderno, divertente, simpatico, culturalmente aggiornato e giovane. Come dice lo sceneggiatore nella serie Boris: “la tradizione con una bella spruzzata di pazzia”. Siamo al polo opposto della drammaturgia di Davide Carnevali, di Jon Fosse o di Matei Visniec, dove la scrittura per il teatro è tesa a scuotere, interrogare, smuovere il pensiero e il pregiudizio.

Con questo non si vuole demonizzare questo tipo di prodotti. Non tutto il pubblico che va a teatro desidera prodotti impegnati e complessi ed è assolutamente comprensibile che i grandi teatri cerchino di produrre lavori che possano garantirgli numeri e incassi visti i costi di personale e di gestione. Quello che è più difficile da comprendere è il perché questo debba essere raggiunto sempre più attraverso banali semplificazioni. E visto che nel costruire questi progetti drammaturgici ci si riferisce sempre più al modello seriale televisivo, perché non prendere come esempio i migliori modelli. In fondo il citato Boris, Big bang theory, Shameless o Mozart in the Jungle, sono prodotti leggeri e divertenti non per forza basati su cliché stantii e, oltre al sano divertimento, non mancano di porre temi di riflessione.

La ballata di Johnny e Gill non risulta dunque convincente, soprattutto rispetto ad altri lavori di Fausto Paravidino. Anche l’impatto con il pubblico non è stato caloroso come nel passato. Forse bisognerebbe ripensare all’efficacia di questo tipo di operazioni. Come ci ricordano i Sotterraneo in Overload è vero che la nostra soglia di attenzione si sta riducendo sempre più, che siamo più disattenti e incapaci di elaborare pensieri complessi, ma non per questo chi si occupa di cultura, anche commerciale e pop, deve per forza cedere alla tentazione alla banalizzazione dei contenuti ad ogni costo, né per forza bisogna sacrificare la complessità sull’altare dell’audience engagement. Forse bisognerebbe avere più fiducia nel pubblico, soprattutto quello giovane. Potremmo rimanere sorpresi.

Parsec Teatro

LA STORIA DEGLI ORSI PANDA DI MATEI VISNIEC E PARSEC TEATRO

Dal 12 al 16 gennaio nell’ambito della rassegna Fertili Terreni va in scena al Cubo Teatro Storia degli orsi panda raccontata da un sassofonista che ha un’amichetta a Francoforte un testo di Matei Visniec prodotto da Parsec Teatro per la regia di Girolamo Lucania.

Un ragazzo si sveglia e scopre una sconosciuta nel suo letto. Non ricorda assolutamente dove e come l’abbia incontrata. Accende una sigaretta e prova a ricostruire quanto accaduto la sera precedente. Non affiora nessun ricordo. Nemmeno se ha fatto l’amore con quella misteriosa ragazza nuda. Quando questa si sveglia prova a chiederle il nome: “Solange, Elisabeth, o come desideri”. Lei ha fretta, ha un appuntamento importante. Prima di uscire gli rivela qualche indizio che non svela ma complica l’enigma: l’ha conquistata suonando il sassofono e recitando Baudelaire. Il ragazzo è ancora più confuso: Baudelaire? Io? Ma sei sicura? E prova a chiederle un altro appuntamento, o almeno il numero di telefono. Lei è impaziente, non può fermarsi ma promette di tornare stringendo con lui un accordo: nove notti per conoscersi meglio. Da ultimo un avvertimento: attento potresti perdere tutto.

Inizia così un viaggio tra il buio e la notte, intervallato da messaggi in segreteria di amici e colleghi di lavoro. Il ragazzo non risponderà mai, né mai uscirà di casa. Ha promesso di restare sempre ad aspettarla. E nel chiuso di quelle quattro mura inizia un cammino verso mete sempre più lontane. Ogni notte la giovane donna rispetta il suo patto, e a ogni suo ritorno lo spazio e il tempo mutano, si allargano, si spalancano verso dimensioni insospettate. Chi sia quella giovane ragazza indecifrabile diventa chiaro con il finale. I suoi molti nomi nascondono un’identità molto più complessa e terrificante di quanto ci sarebbe aspettati. Quel volto giovane, innocente e sorridente è il volto che si vorrebbe non vedere mai ma che aspetta ciascuno alla fine del viaggio.

Matei Visniac, autore rumeno naturalizzato francese, racconta un viaggio che è per tutti destino, quell’incontro fatale che ciascuno cerca di dimenticare. Il linguaggio è semplice, evocativo, quasi di piccola fiaba che disegna il volo di una coscienza verso una nuova vita indefinita, eterea, inspiegabile eppur così reale nella sua ineluttabilità.

La messinscena di Parsec Teatro rispetta l’essenzialità del testo di Visniac, nato radiodramma, ma senza rinunciare al poetico. La stanza del giovane sembra un piccolo bosco, un giardino incantato e un poco disordinato. Una corona di piccoli alberi spogli, le foglie cadute a terra ai bordi del letto e del tavolino. Pochi oggetti d’uso quotidiano, un piatto, una bottiglia, dei bicchieri. Due riquadri a destra e sinistra a metà scena accolgono delle proiezioni, che gradatamente esorbitano dalle cornici riversandosi sul fondale.

La regia di Girolamo Lucania crea uno spazio scenico dove l’immagine completa il testo rafforzando la sua leggera e ironica surrealtà. La recitazione dei due attori Jacopo Crovella e Giulia Mazzarino. ha una naturalezza candida ed essenziale, seppur limitata quasi sempre a un medesimo tactus. Una messinscena trapuntata di piccoli stupori e meraviglie, quasi da storia di bimbi, dove il volto minaccioso della nera signora diventa quello di ingenua e giocosa fanciulla, felice di accompagnarci nell’ultimo viaggio.

Storia degli orsi panda raccontata da un sassofonista che ha un’amichetta a Francoforte è al suo debutto e come ogni opera alla sua prima presenta qualche difetto emendabile nelle repliche successive. Un finale troppo lungo e stirato, che vuol troppo dire, pochi cambi di ritmo nella recitazione così come un quasi costante colore emotivo delle singole scene. Nel complesso questa produzione di Cubo Teatro insieme a Parsec Teatro è gradevole nella sua delicatezza. Con pochi semplici elementi, senza voler strafare, riesce a dar corpo alla poesia evocata dal testo, emozionando con lievi tocchi, accarezzando la nostra inquietudine senza ammansirla, facendoci riflettere sulle ultime cose con sguardo sereno.