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Michele Santeramo

IL NULLAFACENTE di Michele Santeramo

Per Il Nullafacente di Michele Santeramo mi vengono in mente le parole che Gaber usava per raccontare la storia di un uomo qualunque e una donna qualunque: e poi e poi non ho più voglia di parlare, son confuso e non so neanche decifrare questo gran rifiuto che io sento. Non se se è un odio esagerato o un grande vuoto o addirittura un senso di sgomento, di disgusto che cresce, che aumenta ogni giorno, mi fa male tutto quello che ci ho intorno. […] E poi e poi io e lei, un uomo e una donna in cerca di una storia del tutto inventata, ma priva di ogni euforia e così concreta…

Prodotto dal Teatro della Toscana, Il Nullafacente porta in scena una drammaturgia firmata da Michele Santeramo, per la regia di Roberto Bacci. Sono due i poli opposti che si contrappongono, tanto nei presupposti ideali che costituiscono la base di questo lavoro quanto nello spazio scenico che li traduce: azione e inazione, la scelta di fare e quella di stare. In entrambi i casi, lasciarsi muovere dal desiderio e dal bisogno. La sala Thierry Salmon dell’Arena del Sole di Bologna si presta bene alla costruzione di questo ideale ring dialettico, nel quale di fronte allo spazio domestico di un uomo e sua moglie, chiusi in una scelta deliberata che esclude qualsiasi forma attivamente pratica di esistenza, vengono lasciate le sedie che ospitano gli altri tre personaggi quando non impegnati nella scena, al livello della platea. Al nostro livello, insomma. Quello dell’efficienza, dell’attività, del ritmo scandito dal circolo di denaro e lavoro, della pratica “vita agra”. All’interno della scena vera e propria, invece, all’interno della casa, ci sono una donna e suo marito. Lui un epicureo in vestaglia, lei prossima a morire.

A dispetto del titolo, con Il Nullafacente Michele Santeramo e Roberto Bacci sono ben lontani dal presentarci la vicenda di un individuo isolato che sceglie di perseguire il benessere tramite il non-agire. Il movente dello spettacolo risiede esattamente in questa impossibilità di isolamento. Del resto, in qualche modo era anche l’insegnamento dello scrivano di Melville: si afferma (ed eroicamente ci si ferma) attraverso la negazione. L’utopia resta però sempre un fatto personale, c’entra poco con tutto quello che continua a esistere, e soprattutto a desiderare, fuori dalla porta. In virtù di questo, lo spettacolo si evolve attraverso le continue invasioni ai danni di questo spazio di resistenza privata: si reclamano inutilmente i soldi dell’affitto, ci si cerca di convincere della validità di una forma pur velata di accanimento terapeutico, si inneggia e si litiga – con forse troppo didascalismo – tenendo sempre al centro la logica della distrazione quotidiana e di quel “riempire la vita con cose per diminuire la paura della morte”.

Quest’ultima, esattamente come gli altri personaggi, non la si può proprio tenere fuori dalla porta. E non si vuole neanche farlo, anzi. Allora viene reiterato il ben noto apologo del carpe diem, della fruizione dell’attimo presente, della condanna del lavoro in quanto inutile schiavitù, si preferisce parlare a una pianta, piuttosto che con chi non ha orecchie atte all’ascolto. E non c’è però alcuna banalità. Piuttosto è rivalutazione, apparentemente il fine ultimo de Il Nullafacente, di un livello ulteriore, quello che già nella classicità faceva di Seneca un proto-anarchico: quello del tempo, e del tempo da dedicarsi. Livello che con la praxis ha poco e nulla da spartire. Anche l’apatia ha la sua dose di purismo.

Ne Il Nullafacente, Michele Santeramo non nasconde la volontà di indagine e ascolto di un movimento contrario alla norma sociale dominante, che si estende all’interno e va in cerca di quell’interno. È ricerca di una essenzialità ripulita dall’eccesso e dalla distrazione non necessaria. Perché lo spettro è sempre lo stesso, la paura. Questa viene incarnata in modi differenti da tutti i personaggi che circondano il protagonista.

Nel suo nucleo progettuale, il Nullafacente affronta dei temi cardine, che ora più che mai c’è bisogno di non ignorare, di non lasciar passare sotto silenzio, ed è un lavoro che decisamente può dire molto. Ma il paradosso è che forse potrebbe farlo anche dicendo un po’ meno. Le dinamiche messe in campo effettivamente sulla scena infatti sono sì interessanti e necessarie, ma molteplici, decisamente complesse. Non siamo di certo nel regno di una limitante quanto fuorviante esaltazione della mindfullness, o della pratica ascetica: a saturare il campo ci sono anche la consapevolezza della finitudine, il panico prodotto dalla cultura della superficie, l’affetto che troppo spesso viene tradotto in una logica morale e materialmente assistenziale. Mi resta la sensazione che sia la parola stessa il limite de Il Nullafacente. Ci viene detto tutto, troppo. Le relazioni che si instaurano fra i personaggi corrono costantemente il rischio di perderne in onestà e in quella stessa essenzialità che però viene oralmente reclamata. Questo non ha molto a che fare con la qualità del lavoro, quanto con un tipo differente di sensibilità, probabilmente. Gli interpreti vestono eccellentemente i loro panni, ai nostri occhi sono credibili, ma molto meno lo è proprio la condensazione verbale della situazione, che rischia di arrivare a dei toni a tratti patetici e un po’ carichi, come nella scelta di far dialogare il protagonista con la sua pianta di bonsai, o nella scena del compleanno, preludio di un finale che si era annunciato fin dall’inizio.

Tuttavia devo ammetterlo, resto ammirata da qualcosa che lo spettacolo ha prodotto. C’è un drappello di ragazzi di colore che esce dalla sala, uno di loro in particolare è esaltato, sorridentissimo: chiede a tutti cosa ne pensano, ripete la sua, “mi è piaciuto moltissimo, vedi, lui aveva così tanti problemi ma faceva così bene così…”. E a quel punto sorrido io. Ripenso a quel Nulla così rumoroso che Il Nullafacente di Michele Santeramo ha messo in gioco. A ciò che parla rispetto a ciò che tace, alla differenza solo epidermica delle necessità, delle scelte di movimento. Al bisogno di far interagire i piani, esattamente come nello spettacolo, fra dentro e fuori. A chi ha bisogno di più silenzio e a chi, invece, vuole ascoltare una scena che parli con parole più che chiare e più che riconoscibili. E mi piace che si arrivi comunque sempre un po’ dappertutto, dove c’è bisogno.

Di Maria D’Ugo