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Michele Sinisi

LO STATO DELLE COSE: INTERVISTA A MICHELE SINISI

Per la trentottesima intervista incontriamo Michele Sinisi. Lo stato delle cose è, lo ricordiamo, un’indagine volta a comprendere il pensiero di artisti e operatori, sia della danza che del teatro, su alcuni aspetti fondamentali della ricerca scenica. Questa riflessione e ricerca partita lo scorso dicembre crediamo sia ancor più necessaria in questo momento di grave emergenza per prepararsi al momento in cui questa sarà finita e dovremo tutti insieme ricostruire.

Michele Sinisi è attore, più volte finalista al Premio Ubu, e regista, fondatore del Teatro Minimo. Tra i suoi lavori ricordiamo Amleto, Riccardo III, Edipo, il corpo tragico. In questi giorni di quarantena è stato protagonista con la sua famiglia del progetto Decreto quotidiano.

D: Qual è per te la peculiarità della creazione scenica? E cosa necessita per essere efficace?

Quando inizio un lavoro cerco sempre di non distogliere lo sguardo dall’azione per me principale: raccontare all’altro. Data la funzione comunicativa del linguaggio che adopero per raccontare, in questa attenzione fondo il senso politico del fare teatro. La creazione scenica è il risultato di questa tensione e tutto ciò, che progressivamente inserisco nel corpo del racconto (nel rapporto drammaturgico con Asselta, così come nel rapporto scenografico con Biancalani), diventa utile a quell’obiettivo. Il rapporto con gli artisti interpreti dei miei spettacoli anche si sviluppa sulla condivisione logica (umana e artistica insieme) del processo, che si crea in gruppo. La presenza dell”altro” è già registrata nel percorso di allestimento, anche nel senso fisico del termine. Spesso sono presenti spettatori in platea durante le prove perché non ci si ritrovi poi ad aver immaginato uno spettatore inesistente.

D: Oggi gli strumenti produttivi nel teatro e nella danza si sono molto evoluti rispetto solo a un paio di decenni fa, – aumento delle residenze creative, bandi specifici messi a disposizione da fondazioni bancarie, festival, istituzioni -, eppure tale evoluzione sembra essere insufficiente rispetto alle esigenze effettive e deboli nei confronti di un contesto europeo più agile ed efficiente. Cosa sarebbe possibile fare per migliorare la situazione esistente?

Il teatro, lo spettacolo dal vivo, inteso in senso popolare non può che essere contemporaneo e in questo dovremmo accettare con coraggio di volgere lo sguardo creativo sempre fuori dal teatro, perché questo accade nei paesi europei di cui invidiamo i sistemi teatrali. E questo lo intendo in senso contenutistico e formale per lo spettacolo in sé, ma anche per la comunicazione che accompagna lo spettacolo dalla sua generazione progettuale sino all’ultima replica. La società civile fuori è spesso più all’avanguardia di quello che accade sul palco, così il rito finisce per non essere più tale. Spesso fraintendiamo il senso del teatro accampando slogan quali “difendere il teatro”. Non esiste un teatro da difendere, non è mai esistito un linguaggio e un’identità da salvaguardare. Nel suo essere funzionale, il teatro nasce nell’esigenza che una comunità ha di riconoscersi tale, coesa, tesa, inquieta, e che corre a teatro per riequilibrarsi grazie alla catarsi che incontrerebbe in quello spazio. Non esiste un brevetto del teatro e le istituzioni teatrali dovrebbero, nella multidisciplinarietà, registrare continuamente la loro posizione spaziale, il pensiero, ed essere quindi concretamente in ascolto per accogliere i progetti artistici dei teatranti. Sembrerebbe una provocazione ma per me non lo è, il teatro, in quanto forma d’arte per eccellenza, non deve illuminare o insegnare, deve divertire – verbo, parola di cui si ha molta paura e che nulla ha a che fare coll’intrattenere.

D: La distribuzione di un lavoro sembra essere nel nostro paese il punto debole di tutta la filiera creativa. Spesso i circuiti esistenti sono impermeabili tra loro, i festival per quanto tentino di agevolare la visione di nuovi artisti non hanno la forza economica di creare un vero canale distributivo, mancano reti, network e strumenti veramente solidi per interfacciarsi con il mercato internazionale, il dialogo tra gli indipendenti e i teatri stabili è decisamente scarso, e prevalgono i metodi fai da te. Quali interventi, azioni o professionalità sarebbero necessari per creare efficienti canali di distribuzione?

In generale quando un artista ha qualcosa da dire, ha l’ascolto di un pubblico disponibile ad assistere alla sua opera, credo che primo poi finisca per venir fuori, lo si nota, per una sua opera specifica o con tutto il suo percorso. In generale, credendo il teatro (malgrado la sua volontà) specchio della società in cui abita e prende forma, quello che accade nel mondo teatrale italiano descrive pedissequamente il gap civile rispetto agli altri paesi europei. Il livello di emancipazione in generale riflette in teatro una mancanza di fuoco sull’opera in sé. Le voci (come quella della critica) che potrebbero segnalare esiti artistici da programmare e le strutture produttive (che dovrebbero invece sostenerle economicamente) finiscono per inquinare la relazione con lo spettatore creando mancanza di fiducia col pubblico. Da qui nasce e si sviluppa progressivamente lo scollamento col pubblico, il rito perde di concretezza, non ci sono più esperienze di cui essere testimoni fino alla conclusione presuntuosa per cui “i giovani non hanno la sensibilità per andare a teatro” e “i vecchi hanno gusti datati”. Il rito perde di concretezza fino a non corrispondere più alla funzione di cui sopra. Continuiamo a chiamare teatro qualcosa che non lo è più. Da anni. Questo fraintendimento riguarda il Teatro così come la sanità, l’economia, l’istruzione (con cui il teatro dovrebbe cominciare a dialogare strutturalmente per creare il pubblico del domani), lo stato sociale in generale. Una precisazione, da quando lavoro con Elsinor, così come quando avevo la compagnia Teatro Minimo, ho sempre girato coi miei spettacoli: monologhi o spettacoli di compagnia con 5-14 attori. Magari non tutta la critica è voluta venire a vedermi, oppure non ha potuto perché nel budget di produzione non ho mai avuto viaggio vitto e alloggio per tutti i giornalisti. Qui siamo nel campo delle scelte personali che contribuiscono a creare il sistema.

D: La società contemporanea si caratterizza sempre più in un inestricabile viluppo tra reale e virtuale, tanto che è sempre più difficile distinguere tra online e offline. In questo contesto quali sono oggi, secondo la tua opinione, le funzioni della creazione scenica che si caratterizza come un evento da viversi in maniera analogica, dal vivo, nel momento del suo compiersi, in un istante difficilmente condivisibile attraverso i nuovi media, e dove l’esperienza si certifica come unica e irripetibile ad ogni replica?

Per ciò che posso dirti io, il teatro parte da un presupposto: la presenza umana dell’attore, che deve esser lì. Poi accanto a lui, tutto ciò ch’è fuori e accompagna l’essere umano nella vita quotidiana, dovrebbe o potrebbe accompagnare l’artista sul palco (lo spazio scenico). In un momento come quello che stiamo vivendo (sto scrivendo in pieno periodo di quarantena), non potendo incontrarsi di persona fino a dicembre 2020 (così s’ipotizza) si ha di fronte una doppia possibilità: stare fermi o sperimentarsi in un altro linguaggio, che non è più teatro, e ch’è rappresentato dalle uniche vie possibile alla comunicazione: la radio, la rete… con la convinzione che quando ci ritroveremo in teatro il pubblico ritornerà a vederci più numeroso. La cosa è molto semplice e forse per questo per molti di noi spietata e difficile da digerire.

D: Con la proliferazione dei piani di realtà, spesso virtuali e artificiali grazie ai nuovi media, e dopo essere entrati in un’epoca che potremmo definire della post-verità, sembra definitivamente tramontata l’idea di imitazione della natura, così come la classica opposizione tra arte (come artificio e rappresentazione) e vita (la realtà intesa come naturale). Nonostante questo sembra che la scena contemporanea non abbia per nulla abbandonato l’idea di dare conto e interrogarsi sulla realtà in cui siamo immersi. Qual è il rapporto possibile con il reale? E quali sono secondo te gli strumenti efficaci per confrontarsi con esso?

Il reale nel corso della storia dell’umanità, nel suo stesso concepimento da quando l’uomo ha cominciato a riflettere se stesso, a ragionare, ha mutato continuamente la sua identità. Essendo il nostro specchio, il reale è cambiato sempre e gradualmente in base a quello che abbiamo scoperto di noi stessi. Il reale è direttamente legato a quello che noi percepiamo, a ciò che gradualmente cambia in noi e intorno a noi. Quindi, a mio avviso continuiamo ad imitare la natura e l’artificio, l’arte come fuoco della tecnica, continua ad essere necessaria per imitare il mondo intorno a noi e dentro di noi.

Platonov

Il Mulino di Amleto: Platonov ovvero come sfuggire alla tempesta

Dal 2 al 7 aprile al Teatro Astra nella stagione della Fondazione TPE è andato in scena Platonov de Il Mulino di Amleto per la regia di Marco Lorenzi.

Platonov è l’opera prima del giovane Cechov, nascosta dalla sorella del drammaturgo nel 1917 in una cassetta di sicurezza durante i disordini delle Rivoluzione d’ottobre e riscoperta qualche anno più tardi nel 1921. Cechov scrisse il testo a ventun anni e come tutti i giovani che si accingono a scalare l’ardua parete della loro prima opera, peccò in eccesso, volendo mettere tutto quello che si agitava nell’animo suo nel tentativo di creare un affresco che dipingesse la vita nella sua interezza. Vi è materia più per un romanzo che dispieghi la sua trama per un numero infinito di pagine più che per un dramma o tragedia teatrale che si consuma per poco tempo su un palcoscenico.

Molti i personaggi più vicini, nelle loro piccole misere abiezioni mischiate a grandi aspirazioni, a Dostoevskij che al Cechov che conosciamo. Quest’influenza non nasconde i temi classici cechoviani (l’incapacità di raggiungere la felicità, la tortura dello stare insieme giusto, etc.), ed è solo la traccia della ricerca di uno stile da parte di un giovane che ancora non si è liberato dell’autorità dei suoi modelli di riferimento.

Platonovè come detto afflitto dalla necessità spasmodica di dire tutto, senza nulla tralasciare, una foga che hanno tutti i personaggi, malati di un eccesso di vitalità, paralizzati proprio dalla sovrabbondanza e dall’eccedenza. Fulcro della vicenda è infatti l’eccesso d’amore che si avviluppa intorno alla figura del protagonista, il maestro elementare Michail Vasil’evic Platonov (impersonato da Michele Sinisi). Incapace di realizzare le proprie ambizioni, proprio perché esorbitanti, e richiuso in una sorta di cinismo punitivo, Michail attrae l’amore di tre donne: la moglie Aleksandra Ivanovna (Rebecca Rossetti), la giovane Sof’ja Egorovna (Barbara Mazzi) e la tenutaria in disgrazia Anna Petrovna (Roberta Calia). Platonov benché le attragga è incapace di concretizzare le sue accese passioni. Le sue promesse cadono sempre nel vuoto, inabili a superare l’entusiasmo del qui ed ora. Alla prima sospensione della tensione subito si affaccia la possibilità che la vita sia altrove. La felicità è sempre rimandata, sognata in un altro momento, mai nel presente.

L’eccesso di vitalità è inoltre manifesto nella festa banchetto nella tenuta. La vodka è il motore di un’ostentata ebbrezza e i brindisi non sono che la maschera delle molte infelicità che attraversano la compagnia. L’ubriachezza è anche la miccia che innesca gli scarichi violenti di tensione tra i personaggi che, trovandosi da soli nell’intimità di una relazione, non possono altro che scagliarsi gli uni contro gli altri proprio perché attratti da eccessiva forza gravitazionale.

Marco Lorenzi e il Mulino d’Amleto affrontano questo “mostro” drammaturgico operando alcune scelte registiche di grande interesse ed efficacia. Prima fra tutti l’inclusione del pubblico nel contesto scenico, inserzione e coinvolgimento che avviene ricambiando lo sguardo dell’osservatore come fosse il testimone oculare di quanto avviene, presenza vera e non nascosta nel buio della sala e separata da un’invalicabile quarta parete. Il pubblico viene interpellato, coinvolto nella festa e fin dall’entrata in sala quando viene offerto un bicchierino di vodka quasi partecipassimo anche noi alla festa di Anna Petrovna.

In secondo luogo il costante mutare del punto di vista che bascula tra interni ed esterni tramite una parete mobile trasparente. Scene e controscene si intrecciano così dando allo spettatore la possibilità di seguire, tra primo e secondo piano, la scena principale contrappuntata da ciò che avviene contemporaneamente e altrove come ne Le tre sorelle di Simon Stone dove questo effetto era dato dai vari ambienti della casa girevole. Gli effetti di quanto deve avvenire o di quanto avvenuto sono compresenti alla scena principale, i personaggi sono dunque sempre in scena, vivono le loro emozioni e le conseguenze delle loro azioni costantemente, senza sfuggirne mai. Inoltre sullo sfondo la proiezione in presa diretta di quanto avviene tramite cellulare, come in una qualsiasi festa di oggi. L’immagine video ci cala in una dimensione di realtà, di presenza immediata ma fornisce anche un ulteriore punto di vista in movimento.

Questo alternarsi di interno/esterno, di scene di insieme da cui emergono i singoli dialoghi crea un movimento come se da nubi tempestose fulmini abbaglianti si scaricassero a terra. I personaggi emergono dal coro della festa, per un attimo sono in proscenio a rivelare le loro intime contraddizioni, e infine vengono nuovamente riassorbiti dal caos. In questa corrente alternata si vedono anche le differenti maschere che i personaggi indossano durante la vicenda: quella intima e quella pubblica, quella dedicata alle singole persone e frutto di libere scelte contrarie agli equilibri esistenti in seno alla piccola congregazione, e quella dedicata alla piccola comunità avvinta in relazioni obbligate e inestricabili. L’esempio più evidente di questa tensione sempre presente tra ciò che si vorrebbe e ciò che si deve, è il triangolo Anna Petrovna, tenutaria in disgrazia, Porfirij Semenovic (Stefano Braschi), anziano possidente che vuole salvare dalla rovina Anna Petrovna ma in cambio le chiede di sposarlo, e Platonov amato dalla donna e a sua volta di lei innamorato. Il bisogno di Anna, le voglie di Porfirij e l’incapacità di prendere una decisione di Platonov continuano a provocare eccessi e scontri che non riescono in nessun modo a risolversi e che trascinano nel gorgo anche gli altri protagonisti: le tre donne, Kirill (Angelo Maria Tronca), il figlio di Porfirij medico degenerato, e Osip (Yuri D’Agostino), il ladro assassino che si aggira ai margini di questa piccola società.

Terzo elemento è una sorta di straniamento fatto di immersione e distacco, non critico come in Brecht, piuttosto più ironicamente giocoso, quasi a non prendersi veramente sul serio svelando il gioco delle parti al pubblico. Tale straniamento, spesso metateatrale come per esempio il tecnico luci che è personaggio in scena, è la valvola di sfogo che permette alla tensione di allentarsi. Il testo cechoviano ne sembra incapace, accumula attriti e dissidi che montano fino all’ovvia inevitabile tragedia finale.

In scena infatti si manifesta una pistola e come diceva lo stesso Cechov quanto un’arma appare non può far altro che sparare. Mulino di Amleto ha deciso invece di infrangere questa regola. Marco Lorenzi ha voluto liberare Platonov dell’obbligo di finire in tragedia prefigurando la possibilità che la tempesta tanto annunciata alla fine, in qualche modo, si sia potuta dissipare. È possibile sfuggire a questa cronaca di una morte annunciata? Si può sfuggire all’abbraccio stritolante di Ananke, la Necessità, rompere il destino tragico? Mulino di Amleto sembra asserire che il destino non sia scritto, che stia a noi cambiarlo, e per uscire dal circolo vizioso bastai semplicemente fare un piccolo passo.

Per concludere una piccola considerazione: questo Platonov se fosse stato sostenuto da una produzione più coraggiosa e consistente farebbe parlare di sé non solo in Italia ma anche in Europa. A volta la distanza tra i nostri autori e quelli di altri paesi, più accorti sotto questo punto di vista, consiste esclusivamente nel sostegno produttivo. E non sto parlando solo di soldi ma di figure professionali che agevolino l’immissione sul mercato e i contatti con gli operatori internazionali. Non crediamo abbastanza nei nostri autori e non li mettiamo veramente in condizioni di competere con i loro coetanei esteri. Concludo quindi con una domanda provocatoria: se a Mulino di Amleto fosse stata concessa una produzione pari a quella di Simon Stone ci sarebbe stata una così grande differenza di risultato? Se la risposta a questa domanda è negativa allora non sarebbe il caso di cominciare ad avere coraggio e puntare veramente sui nostri giovani?