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Sotterraneo

LO STATO DELLE COSE: INTERVISTA A SOTTERRANEO

Per la ventisettesima intervista de Lo stato delle cose incontriamo Daniele Villa di Sotterraneo. Lo stato delle cose è, lo ricordiamo, un’indagine volta a comprendere il pensiero di artisti e operatori, sia della danza che del teatro, su alcuni aspetti fondamentali della ricerca scenica. Questa riflessione e ricerca partita lo scorso dicembre crediamo sia ancor più necessaria in questo momento di grave emergenza per prepararsi al momento in cui questa sarà finita e dovremo tutti insieme ricostruire.

Sotterraneo è un gruppo di ricerca i cui membri fissi si affiancano, a seconda dei progetti, a diversi collaboratori. Sotterraneo nasce a Firenze nel 2005 ha vinto svariati premi tra cui due Premi Ubu (2018 come Miglior Spettacolo e nel 2009 come Progetto speciale). Tra gli spettacoli ricordiamo: Shakespearology, Overload, Be legend!, Be normal!

D: Qual è per te la peculiarità della creazione scenica? E cosa necessita per essere efficace?

Se dobbiamo scegliere una-e-una-sola peculiarità diciamo la liveness. Per dirla con un anglismo. Il suo accadere dal vivo garantisce in fondo una dimensione collettiva, partecipativa, ludica anche, carnale a volte, una ritualità laica – insomma ha i tratti dell’esperienza, questa cosa che ci è sempre più sconosciuta man mano che l’avanzamento tecnologico muta i nostri standard di percezione della realtà. Infatti confidiamo che il teatro guadagnerà centralità nelle diete culturali contemporanee proprio in risposta alla febbre della digitalizzazione. Ci piace illuderci che il bisogno di piccole adunanze sediziose incentrate sull’estetica e il pensiero aumenterà nei prossimi anni.

L’efficacia purtroppo rimane un mistero democratico: uno spettacolo per alcuni funziona e per altri no, a volte funziona quasi per tutti ma magari non funziona alla replica successiva, a volte sembra non aver funzionato e invece alla fine viene giù il teatro dagli applausi, altre ancora non funziona e basta ed è giusto così. Di base per funzionare un’opera dev’essere complessa ma accessibile, profonda ma comunicativa, spiazzante e perturbante ma capace di connettersi in modo trasversale con le persone, deve durare né più né meno del tempo necessario e deve essere composta da un sistema di segni e azioni essenziali e oneste ma anche dotate di carica poetica. Facile no?!

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D: Oggi gli strumenti produttivi nel teatro e nella danza si sono molto evoluti rispetto solo a un paio di decenni fa, – aumento delle residenze creative, bandi specifici messi a disposizione da fondazioni bancarie, festival, istituzioni -, eppure tale evoluzione sembra essere insufficiente rispetto alle esigenze effettive e deboli nei confronti di un contesto europeo più agile ed efficiente. Cosa sarebbe possibile fare per migliorare la situazione esistente?

Risorse. Tutto ciò che cresce cresce grazie alle risorse. Nel teatro italiano ci sono competenze, talenti e grandi capacità di sacrificio. Per crescere come movimento però, per far sì che il teatro torni a occupare una porzione significativa del tempo “libero” delle persone servono risorse che potenzino tutti gli aspetti coinvolti: comunicazione, produzione, studio e progettazione (anche dal punto di vista manageriale). Dopodiché le risorse vanno vincolate agli obiettivi: spingere perché il contemporaneo diventi una priorità non sarebbe male. Come dice Milo Rau, abbiamo bisogno anche di nuovi classici. Detto ciò esistono moltissimi fattori contingenti e ogni spazio/teatro/festival fa storia a sé ma se le più importanti realtà riuscissero a imporre a una qualunque agenda di governo l’idea che la cultura è una risorsa di cittadinanza e civiltà, che la democrazia o è cognitiva o non è e che teatri, scuole, biblioteche sono gli strumenti principali per lo sviluppo di una partecipazione attenta, razionale e civile allora forse l’Occidente tutto farebbe un salto di qualità. Però non siamo sicuri che la nostra classe dirigente persegua obiettivi del genere. Viviamo il tempo della post-verità, del narcisismo compulsivo, della crisi dell’intermediazione – insomma, per il momento la cultura è ancora “soltanto” un antidoto e non uno stato di salute permanente su cui investono i governi.

D: La distribuzione di un lavoro sembra essere nel nostro paese il punto debole di tutta la filiera creativa. Spesso i circuiti esistenti sono impermeabili tra loro, i festival per quanto tentino di agevolare la visione di nuovi artisti non hanno la forza economica di creare un vero canale distributivo, mancano reti, network e strumenti veramente solidi per interfacciarsi con il mercato internazionale, il dialogo tra gli indipendenti e i teatri stabili è decisamente scarso, e prevalgono i metodi fai da te. Quali interventi, azioni o professionalità sarebbero necessari per creare efficienti canali di distribuzione?

Domanda cui operatori e critici forse saprebbero rispondere meglio di noi artisti. La nostra impressione è che al momento l’unica cosa che fa vivere un’opera più a lungo e in contesti diversi è solamente la forza dell’opera stessa, che è troppo poco per creare cambiamenti strutturali. Di nuovo, o i cambiamenti sono sistemici o non sono. Bisognerebbe riequilibrare il rapporto di forze vigente fra tradizione e contemporaneo, bisognerebbe automatizzare in qualche modo il passaggio di certe proposte dai festival alle stagioni, facilitarne l’incontro con pubblici diversi, rendere l’immaginario teatrale più dinamico e privilegiare i progetti che riportino il discorso teatrale nel presente, combattendo quel cliché ormai diffuso per cui il teatro è luogo dell’archeologia culturale invece che un’avanguardia visiva e concettuale. E già che ci siamo potremmo partire dalla scuola: forse farne una materia curricolare lo priverebbe della sua carica interdisciplinare e “dionisiaca”, ma intanto discutiamo e vediamo cosa ci viene in mente, sicuramente educare al teatro come alla lettura e alla matematica significherebbe seminare cultura teatrale, diffonderne un po’ di più l’abitudine, instillare fame di discipline sceniche nei ragazzi. E lo sappiamo che nonostante la scolarizzazione di massa siamo un paese ad altissimo tasso di analfabeti funzionali… ma è proprio in questa contraddizione che bisogna operare per non perdere ancora più terreno.

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D: La società contemporanea si caratterizza sempre più in un inestricabile viluppo tra reale e virtuale, tanto che è sempre più difficile distinguere tra online e offline. In questo contesto quali sono oggi, secondo la tua opinione, le funzioni della creazione scenica che si caratterizza come un evento da viversi in maniera analogica, dal vivo, nel momento del suo compiersi, in un istante difficilmente condivisibile attraverso i nuovi media, e dove l’esperienza si certifica come unica e irripetibile ad ogni replica?

Il teatro accade dal vivo, porta le persone fuori dalla dimensione domestica, è un’esperienza non mediata, è un rituale laico, è un evento collettivo e contemplativo, è basato su una socialità diretta prima e dopo lo spettacolo come anche su una socialità non verbale durante, genera discussione fra spettatori e professionisti, nelle occasioni migliori genera spiazzamento e stupore, spesso vi si entra impreparati non sapendo a cosa andiamo incontro, spesso ci delude e ci fa arrabbiare su un livello collettivo e di senso (che è molto diverso che bestemmiare al volante o in coda alle Poste), è un evento comunitario che però crea una relazione col pubblico di tipo interrogativo e non necessariamente consensuale (come più spesso accade nei concerti), a volte ci cambia la vita o almeno alcuni nostri punti di vista su essa, a volte ci rende più intelligenti facendoci sentire più stupidi, a volte a teatro ci sembra che ci sia successo davvero qualcosa. La rivoluzione digitale ci sta in un certo senso costringendo a rinegoziare il nostro principio di realtà e sta narcotizzando l’attenzione profonda, mentre il teatro è una palestra di pensiero complesso e attento. Se riusciamo a trasmettere l’idea che venire a teatro significa espandersi, significa penetrare la superficialità del nostro tempo sperimentando la verticalità e soprattutto se riusciamo a far capire che a teatro si va per posizionarsi in modo personale di fronte a qualcosa e non per essere sottoposti a un esame di sofisticazione culturale, allora avremo sale sempre più piene e forse, ma forse, un dibattito pubblico di livello meno deprimente. 


D: Con la proliferazione dei piani di realtà, spesso virtuali e artificiali grazie ai nuovi media, e dopo essere entrati in un’epoca che potremmo definire della post-verità, sembra definitivamente tramontata l’idea di imitazione della natura, così come la classica opposizione tra arte (come artificio e rappresentazione) e vita (la realtà intesa come naturale). Nonostante questo sembra che la scena contemporanea non abbia per nulla abbandonato l’idea di dare conto e interrogarsi sulla realtà in cui siamo immersi. Qual è il rapporto possibile con il reale? E quali sono secondo te gli strumenti efficaci per confrontarsi con esso?

La questione della realtà è forse la questione cruciale di questo inizio millennio (non che non fosse già la questione ai tempi di Aristotele…) e il teatro è fra i mezzi che si interrogano in modo più puntuale e chirurgico sul problema, a partire dalla crisi radicale della rappresentazione in cui lavora come disciplina ormai dal ‘900. Moltissime delle opere che vediamo (e realizziamo) si fondano in pratica sulla continua rivelazione e messa in stato d’accusa del medium stesso, e questo modo di fare spettacolo non si limita a svolgere un qualche esercizio meta-teatrale ma sempre più spesso mira a portare in scena il trauma, la fatica e il disagio per l’aumento costante di stratificazioni, manipolazioni e falsificazioni che intercorrono nel nostro rapporto con la realtà. Per questo le discipline che noi come Sotterraneo sentiamo più vicine in questo momento sono le neuroscienze e la psicologia cognitiva, perché se l’inaccessibilità del reale è un problema che risale indietro nei millenni forse è giunto il tempo di spostare il dibattito dai colpevoli di ogni epoca alle nostre stesse teste, alle cause biologiche per cui ci è così difficile toccare la realtà senza pericolo di mistificazioni, allucinazioni collettive, conformismi ideologici. Il teatro in questo si assume già il rischio di accade dal vivo e di accadere nell’hic et nunc – banalità, ma in fondo banalità vera, noi lo riscopriamo ogni sera quando non sappiamo come il pubblico reagirà, quali intoppi ci saranno, quale “caduta” o imprevisto segnerà quella specifica replica. Per il resto noi che lavoriamo sul palco non abbiamo veramente mercato, non abbiamo abbastanza peso politico, non abbiamo spendibilità spettacolare per il mainstream – quindi chi, meglio di noi, periferici e appestati, può porsi il problema del principio di realtà al tempo della rivoluzione digitale? Ogni volta che facciamo finta sul palco in realtà non facciamo altro che cercare di essere vivi…

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Speciale Tdanse: cosa ci aspettiamo dall’occhio che guarda? Piccole riflessioni intorno all’audience engagement

Si è conclusa ad Aosta la terza edizione di Tdanse, Festival internazionale della nuova danza, diretto da Marco Chenevier e Francesca Fini in scena alla Cittadella dei giovani dal 14 al 21 di ottobre.

Benché nel nome Tdanse sembri rivolgersi esclusivamente all’arte coreutica, la sua programmazione propone una scena declinata secondo tutte le sue molteplici possibilità di espressione. È sempre più difficile, o forse inutile, distinguere le varie arti che sempre più si offrono ibride all’occhio di chi guarda.

La scena sfugge e sfida sempre più le definizioni tanto che viene da chiedersi se siano veramente necessarie. Mi sembra anzi questione oziosa e priva di importanza.

A mio avviso non è tanto il linguaggio utilizzato a essere importante quanto le funzioni che la scena assolve nel contesto sociale. Perché trovarsi in un luogo e partecipare a uno spettacolo dal vivo? Cosa propone di irrinunciabile il teatro, inteso nel senso più ampio possibile, che altre esperienze non possono dare? Che tipo di esperienza si vuole condividere con il pubblico sempre più ricercato e chiamato ad assistere?

Oggi la parola chiave di ogni progetto è audience engagement ma pochi si chiedono invece cosa sia necessario a questo pubblico tanto ambito quanto il regno del Prete Gianni. Si cercano i numeri e poco ci si interroga su cosa questi numeri dovrebbero trovare nello spettacolo dal vivo. Le strategie messe in atto dai singoli festival, anche quelle più efficaci, non sempre sembrano porsi queste domande. Tdanse in questo mi pare un’eccezione.

La Valle d’Aosta è un territorio difficile, definito dal Ministero regione “teatralmente disagiata”, priva di un Teatro Stabile, ma questo forse è un bene, e anche priva di compagnie di produzione riconosciute da Roma. Regione defilata, quasi isolata nell’angolo Nord-Ovest, chiusa dalle sue splendide montagne, difficilmente raggiungibile a meno che non si abiti a Torino o Milano. Inoltre la Valle d’Aosta si è resa colpevole di abbondanti tagli alla cultura in misura più significativa che nel resto del nostro paese.

In questo contesto il pubblico valdostano si è trovato orfano di un’offerta culturale e si è abituato a stare senza. Presentare un festival che si occupa esclusivamente di scena contemporanea è quindi una sfida difficile che rischia di naufragare se non si tiene in debito conto lo scenario in cui si viene a operare. Le strategie di incontro con il pubblico diventano fondamentali.

Tdanse cerca in primo luogo di creare una comunità costituita da artisti, pubblico e operatori e per ottenere questo risultato ha scelto intelligentemente di operare su tre livelli: l’inclusione delle nuove generazioni, inserimento nell’attività del festival delle categorie deboli della comunità come i disabili e i migranti, e l’ospitalità diffusa tra gli abitanti di Aosta che aprono le loro case private ad artisti e operatori.

Le azioni di maggior successo mi sembrano quelle rivolte ai giovani. Spesso gli studenti delle scuole sono utilizzati come l’ovatta per riempire i vuoti, deportati della cultura il cui unico scopo è aumentare la quota pubblico per nascondere il disinnamoramento dal teatro. A Tdanse questo non avviene perché si è costruito un rapporto, si è voluto che il festival fosse loro e non solo per loro. E i ragazzi rispondono con entusiasmo, non solo riempiendo il teatro, ma prendendosi carico della sua organizzazione.

Fin dalle prime ore del pomeriggio, liberamente, i ragazzi prendevano possesso della Cittadella chi aiutando i tecnici nella costruzione delle scene o nel reperimento materiali delle performance, chi partecipando ai lavoratori, chi ad aiutare lo staff nell’organizzazione e chi, semplicemente, veniva a incontrare gli artisti.

Tdanse tenta di ricostruire il rapporto con la scena partendo dai giovani, valorizzando la loro esperienza e il loro apporto. Il merito di questa operazione non va solamente allo staff del festival ma anche alle docenti del Liceo Artistico di Aosta che hanno sposato il progetto e hanno saputo coinvolgere i ragazzi nella giusta maniera.

Molta strada è ancora da fare perché la risposta della città di Aosta resta intermittente e discontinua. Molti settori di pubblico, soprattutto gli adulti e gli anziani restano in gran parte latitanti. Inoltre Tdanse si concentra quasi esclusivamente tra le mura della Cittadella dei Giovani e avrebbe bisogno di una maggiore apertura e diffusione sul territorio cittadino. La strada intrapresa è comunque quella giusta e darà frutti proficui negli anni a venire se perseguita con lo stesso entusiasmo ed energia.

Come abbiamo detto tutte queste operazioni di audience engagement tendono a raccogliere una comunità intorno agli spettacoli proposti e qui, dopo aver analizzato alcuni spettacoli, vorrei proporre alcune riflessioni.

Overload di Sotterraneo è un lavoro ad alto grado di interattività con il pubblico, costruito a cavallo tra la sfida e la complicità sulla questione dell’attenzione. A cosa siamo attenti? A quello che ci distrae e ci conduce a un continuo movimento di fuga da un argomento a un altro oppure a ciò che ci focalizza sul particolare escludendo il quadro d’insieme?

Overload si costruisce nel suo farsi, a seconda se il pubblico segue il racconto di David Foster Wallace o attiva i contenuti extra proposti dai performer. Ma scegliendoli veramente si è disattenti? Oppure l’attenzione si focalizza più sull’azione che sul discorso? É veramente interessante e degno di attenzione ciò che dice il finto David? Overload è una cornucopia di domande sulla nostra realtà e sul bombardamento di informazioni e stimoli a cui siamo quotidianamente sottoposti, gragnola di questioni che sorgono proprio secondo il grado di risposta del pubblico.

Melting pot di Marco Torrice, coreografo italiano residente a Bruxelles, propone un evento performativo in cui i confini tra esecutore e pubblico vengono resi permeabili. Come fosse un pezzo jazz, Melting Pot si compone di vaste aree di improvvisazione danzata che si intrecciano a linee più codificate e composte in cui il pubblico può inserirsi, scambiando esperienze di danza, liberando le proprie energie in comunione con i danzatori. Un evento che sta tra la performance danzata e una festa, non struttura solida ma fluida.

La compagnia 7/8 chili formata dal duo Davide Calvaresi e Giulia Capriotti presenta Ciak, gioco scenico a sfondo cinematografico sull’interazione figura-video. Una telecamera riprende in falsa prospettiva piccoli oggetti e l’azione della performer. Lo spettatore vede nello stesso tempo l’azione sulla scena e il suo risultato filmico, ne valuta lo scarto, si fa avvincere dalla malia della trasformazione. Inoltre in un caleidoscopio di citazioni filmiche, ironico e divertente, l’occhio dello spettatore riconosce e si riconosce. Il gioco non è limitato alla sola scena ma travalica in platea dove il pubblico stesso si trova a essere personaggio in questo vorticoso montaggio tra reale e immaginario.

In From Pierced Darkness flowers grow di Paul Carter ci si trova di fronte a una grande struttura nera, quasi piramide dal cui vertice emerge solo la testa dell’artista. Al pubblico viene chiesto di esprimere un pensiero sorto da questa architettura nera, di legarlo a un lungo palo di legno e di configgerlo nel cuore dell’edificio. Nella seconda parte il pubblico viene invitato a entrare nel monolite. Ci si trova di fronte al corpo dell’artista ricoperto d’oro, su un tappeto erboso trafitto dai bastoni alla cui base il pubblico può piantare dei fiori simboli di rinascita. La performance trae origine da un’esperienza dolorosa dell’artista che attraverso un’azione simbolica condivisa dal pubblico cerca di trasmutare il piombo in oro, quasi operazione alchemica passaggio tra la nigredo e l’albedo. L’azione di Carter utilizza il pubblico come strumento per una propria trasfigurazione senza veramente attivare un proficuo meccanismo di condivisione.

Nella sua seconda performance No man is a island: swim to me, il materiale della prima performance è sottoposto a trasformazione. L’artista è racchiuso in un fascio di legni neri e circondato da un cerchio di terra su cui sono poste le piantine di violette. Un lungo ombelico nero unisce la sua struttura con il pubblico. L’artista cerca faticosamente di distruggere la gabbia nera mentre gli spettatori grattano con coltelli e raschietti l’ombelico portando alla luce il bianco sottostante.

Pual Carter nel tentativo di liberarsi dalla sua gabbia di legni cade, fatica a rialzarsi, è evidente la sua sofferenza. Molte persone del pubblico entrano nel cerchio per aiutarlo ma l’artista rifiuta il loro soccorso. Con questo diniego fatalmente il rapporto con lo spettatore si frantuma e l’artista viene lasciato solo a continuare la sua performance. Quell’uomo rimane un’isola al di là dell’intenzione dell’opera.

Questa lunga descrizione mi conduce al nocciolo della riflessione che vorrei proporre. L’apertura o la chiusura di un canale di scambio e comunicazione diventa fondamentale nell’esperienza del pubblico. Laddove la possibilità di condivisione si chiude, il pubblico rifiuta di essere un semplice organo ricettivo. La complicità, la partecipazione, l’inclusione diventano i nuclei su cui misurare la necessità di un lavoro. Il pubblico non vuole più sentirsi spettatore ma desidera prendere parte a un processo.

L’azione di audience engagement di un festival si interseca quindi fatalmente con quella dell’artista che a sua volta propone delle regole di ingaggio allo spettatore. Se il rapporto con l’opera si esplica in una semplice visione passiva, se non vi è una strategia di inclusione o condivisione, il pubblico resta nella migliore delle ipotesi freddo, distante. Quindi l’efficacia delle strategie di un festival vanno a braccetto con quelle dell’opera e dell’artista? Devono venire in qualche modo integrate? L’una soggiace a quella dell’altro?

Forse il problema risiede proprio, come in Overload di Sotterraneo, nella nostra incapacità di prestare attenzione se non quando siamo iperstimolati. Forse invece è cambiata la percezione dell’opera d’arte da parte del pubblico che vuole condividere il processo artistico. Resta comunque la questione soprattutto quando il pubblico è composto da giovani o giovanissimi pronti a rifiutare una modalità di partecipazione passiva allo spettacolo dal vivo.

Tdanse ci ha dunque offerto un viaggio esplorativo delle dinamiche di partecipazione dell’opera d’arte dal vivo. Ci ha posto delle questioni che dovranno essere esaminate con attenzione, perché riguardano il futuro delle live arts e le sue funzioni nel nostro contesto sociale. Che tipo di esperienza ci chiede il pubblico? Cosa vogliamo veramente condividere con lui?

In conclusione vorrei riportare la risposta che mi hanno dato i ragazzi che in questi giorni ad Aosta hanno partecipato al mio laboratorio di critica alla domanda: cos’è per voi il teatro? Alcuni di loro mi hanno risposto: un luogo per discutere i problemi. Mi ha sorpreso. Una risposta del genere è rara persino tra gli artisti. Ma se è questo quello che veramente i ragazzi percepiscono forse dovremmo tenerlo in considerazione. Per discutere dei problemi bisogna essere in due. Se uno parla e l’altro ascolta non si dà un dialogo ma un monologo. Forse il dialogo lo dobbiamo costruire. Pensiamoci.