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Bestie di Scena

BESTIE DI SCENA: Emma Dante e lo sguardo di Kore

In questi giorni è in scena al Piccolo Teatro Strehler di Milano il tanto discusso Bestie di Scena di Emma Dante. Conoscete la storia del gatto di Schödriger? Quella del gatto che sta in una scatola con una fiala di cianuro? Il gatto ha le medesime possibilità di vivere o morire. Solo aprendo la scatola e osservando il fenomeno si scopre il suo destino. Bestie di scena è quella scatola: solo gettando lo sguardo dentro l’involucro nero della scena è possibile farne esperienza, osservare il fenomeno e trarne, ciascuno per sé, le conseguenze. Anche a livello quantistico “la realtà non esiste finché non la si misura”.

Le Bestie di scena, all’entrata del pubblico in sala, sono già lì. Fanno training, si riscaldano, in pantaloni della tuta e maglietta. Durante tutto il tempo in cui gli spettatori, l’occhio che osserva, si accomoda sulle poltrone, loro continuano il loro training di riscaldamento. In cerchio, passandosi e trasformando i gesti, a ritmo variabile, fino a riunirsi in un gruppo compatto, attraversando la scena a ritmo di corsa.

A poco a poco cominciano a spogliarsi in proscenio, uno a uno, mentre gli altri continuano a correre, fino a restare tutti nudi di fronte al pubblico, coprendosi a malapena le pudenda. Platea e Bestie di scena si osservano a vicenda. Eppure il peso dello sguardo è tutto dalla parte del pubblico. Improvvisamente siamo, noi spettatori, trasformati in tanti signor Palomar che osservano il seno nudo e non sanno cosa fare.

Con questo primo atto Le Bestie di scena ci trasformano e ci consegnano una responsabilità: chi guarda crea la realtà. Sta a noi scegliere quale. Gli antichi greci conoscevano l’assoluto potere dell’occhio che guarda. É lo sguardo di Kore, la fanciulla che di nome fa Pupilla, che concede realtà al ratto di Ade. È nel momento in cui Kore fissa il suo sguardo tagliente nell’occhio del dio dei Morti che tutto succede. Noi pubblico siamo Kore.

Il secondo atto, che segue allo sguardo che prende coscienza di se stesso e del suo potere, ne segue un secondo: la scena è un riflesso della platea. Ciò che gli attori fanno e subiscono sul palcoscenico, non è qualcosa che attiene alla loro professione/vocazione. Lo shakespeariano idiota che si dimena per un’ora sulla scena, non è solo l’attore, è l’umanità tutta, ed è misera, denudata, in azione perché agita da un deus ex machina che non si vede, ma è presente e tirannico.

Gli oggetti giungono da dietro le quinte. Ognuno crea delle conseguenze e delle visioni. Non c’è un percorso verso una meta o un obiettivo. Si passa tra un qualcosa a qualcos’altro. Non c’è progresso né evoluzione. E così fino alla fine quando dalle quinte piombano sulla scena i vestiti che non vengono più indossati. Lo sguardo alla fine si è normalizzato.

Bestie di scena non è solo un’opera che si trasforma nel coltello che taglia l’occhio nel celebre Un chien andalou di Bunuel, è anche un grande quadro dell’umanità indifesa, in balia di ciò che avviene, senza un progetto e un percorso. Un’umanità spesso in fuga che non sa dove andare perché non può sfuggire dal palcoscenico in cui la natura l’ha messa.

Le azioni sono sempre in qualche modo coatte e obbligate. Giunge l’acqua, le Bestie di scena si lavano. Quindi giungono gli stracci, e si pulisce il palco. Giungono le chips, le si mangia; giungono le scope, si ripulisce il palco. Tra l’arrivo dell’oggetto e l’azione c’è sempre una scelta, che è comunque una delle tante possibilità previste. La scena è una scacchiera. Per quante mosse possano fare i pezzi, il numero delle partite giocabili è sempre finito.

Di tutte le immagini che sorgono sulla scena, si potrebbe certamente riscontrare una corrispondenza con alcuni grandi temi che agitano la società: i petardi che scoppiano e mettono in fuga le Bestie di scena possono essere sia il terrorismo che la guerra; la bambola/automa che trasforma una donna in un suo alter ego, può essere vista come una metafora della condizione femminile, così come la ballerina di carillon. Ma questo riferirsi univoco trovo che sminuisca le immagini. Più che questo o quell’argomento specifico, ci troviamo di fronte a un grande affresco della condizione umana.

Bestie di scena, spettacolo del 2017 lo ricordiamo, mi rammenta due altri lavori diversissimi ma che risuonano, come dire, di una stessa aria: Filth di Ene Liis Semper e In girum imus nocte di Roberto Castello. Entrambi queste opere mettono in scena un’umanità senza scopo e senza destino da realizzare. In un caso in una gabbia di vetro e di fango, nell’altro in viaggio continuo tra luce e buio. Al contrario di Bestie di scena di Emma Dante sono totalmente privi di ironia, sono gelidi come strumenti chirurgici, sono implacabili nel dire la loro verità.

Bestie di scena al contrario, benché descriva un’umanità miserevole e senza scampo, possiede una visione in qualche modo mitigata dall’ironia sempre presente e da una forte valenza estetica. Il bello in qualche modo attenua la crudeltà dello sguardo.

Le scene che si susseguono sul palco, a partire dalla fontana d’acqua iniziale, passando per la ballerina, la bambola, il gioco con la palla e lo spadaccino, le scimmie alle prese con le chips, i lavacri nei secchi, persino le pulizie forzate del palco, sono tutte immagini con una forte valenza estetica, quasi rinascimentale.

Non c’è solo un continuo richiamo a La cacciata dal Paradiso di Masaccio, continui sono i riferimenti pittorici per esempio Les damoiselles d’Avignon o le Ballerine di Degas. Le luci poi disegnano in maniera impeccabile la scena. Questa forte patina estetica, questa bellezza delle immagini diffusa e costante, trovo che in qualche modo disinneschi la crudeltà di quanto si vede. La ammorbidisce rendendola come più digeribile. E lo stesso discorso vale per l’ironia: ridendoci sopra si scongiura quel destino ineluttabile, lo si ridicolizza rendendolo piccolo e meno pericoloso.

Il gran discutere che si è fatto su quest’opera da molti trovata scandalosa, lo trovo eccessivo. Guardando Bestie di scena l’ho trovato innanzitutto bellissimo, forse troppo. Non c’è quadro che non sia studiato nei minimi particolari, costruito nei minimi dettagli. La nudità è sempre dosata, per quanto incredibile, non ostentata, mai erotica, persin pudica. La nudità come ricerca di un grado zero al di là della maschera, operazione che in parte fallisce, in quanto anche il nudo alla fine diventa un costume di scena. Come diceva François Tanguy si può solo tentare di uscire dalla rappresentazione.

Quanto avviene sulla scena non è mai aggressivo né polemico. È una riflessione in forma scenica sullo sguardo e l’umanità, ma senza crudeltà, senza aggressività. Uno spettacolo ironico, pacato, bellissimo che non ha nessuna intenzione di scioccare, semplicemente far riflettere. Le polemiche, come al solito, sono nell’occhio che guarda, ma anche questo era previsto.