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ALEARGĂ di Nicoleta Lefter (RO)

Nicoleta Lefter corre. Sola. Verso dove? Oppure fugge? Ma da cosa? Nicoleta Lefter non sta mai ferma, corre, come molti, nel parco. Si sfinisce. Ogni tanto la cuffia per non sentirsi sola, per escludere il mondo. Corre. Continuamente. Questo riempirsi la vita, badare al corpo per arrivare sani alla morte. Si ha l’impressione che si corra ciechi verso il baratro, come nella parabola pittorica di Brughel.

Un’altra immagine viene evocata. I Runners de Il Paese delle ultime cose di Paul Auster. Una sorta di setta. Si allenano per morire di sfinimento. In gruppi da sei a dieci, perché da soli non ce la si potrebbe fare. Anni di allenamento per rafforzare il corpo mentre contemporaneamente ci si allena a ridurre progressivamente il cibo. Così al massimo della forma si può chiedere al corpo di fare di più, passare il limite e correre verso la morte, che avviene così, correndo, quasi l’anima fuggisse fuori dal corpo.

Soli, iperattivi, sani, in perenne fuga da se stessi, dagli altri, dal mondo, dai ricordi. Una parabola triste. Senza speranza. Il video iniziale presenta una donna sola, con i suoi gatti, i suoi allenamenti, nella sua casa, il guscio che protegge e isola dal mondo.

A volte piccole domande al pubblico: Cosa farai da grande? Cosa farai dopo lo spettacolo? Sei felice? Ti piace la mortadella?

Il cibo. Si mangia senza gusto, bulimici, riempiendosi la bocca fino a scoppiare. Non c’è piacere, non c’è scopo. Tutto è fatto per riempire, ma il vaso è senza fondo.

Lei corre. Sola. Non si sa verso dove, non si sa per quanto. Intanto il tempo passa, i giorni scadono, il limite si avvicina e forse l’anima scapperà dal corpo fuggendo ancora.

Ph: Adi Tudose

Daniele Albanese

DRUMMING SOLO di Daniele Albanese EVERYTHING IS OK di Marco D’Agostin

Sabato 28 maggio alle Fonderie Teatrali Limone la serata di Interplay ha visto in scena alcuni lavori che, benché vi sia diversità di poetiche e di estetiche, hanno una sorta di tema comune. Rubando il motto a Gilles Deleuze, potremmo riassumere questa sorta di tema comune in due parole: differenza e ripetizione. Il lavoro di maggior spicco è stato Drumming Solo di Daniele Albanese. Un lavoro molto severo e rigoroso nel quale un ininterrotto mosaico di piccole frasi coreografiche si intrecciava magistralmente con le ritmiche minimaliste del pezzo per percussioni di Steve Reich. La dinamiche, le microvariazioni della tessitura musicale, si abbracciavano con il movimento continuo ed intenso di Albanese. Un quadrato rosso al centro, appariva e spariva lasciando posto alla vastità della scena. Questo alternarsi della danza da un interno, a un esterno e il relativo indugiare sul confine tra i due spazi, era il controcanto alla trama di intrecci tra movimento e musica. Indagare il confine, il limite e il necessario sconfinamento da una parte, dialogo, intreccio, composizione e scomposizione dall’altro. I gesti che compongono la coreografia sono minimi, quasi quotidiani, incastonati nel fraseggio ritmico di tensione, abbandono, forza e debolezza, il tutto in un fluire inarrestabile e continuo come il fraseggio di percussioni incalzante fin quasi all’ossessione della musica di Reich.

Interessante il solo di Marco D’Agostin Everything is ok sebbene un po’ azzoppato da un finale non proprio convincente. Il danzatore avanza sulla scena fino al proscenio e incomincia un divertentissimo lavoro di voce in cui stili musicali diversi dall’Hip-Pop alla canzone latino-americana, annunci di premi inesistenti, pezzi di show si mischiano in un melting pot frutto di una sorta di zapping selvaggio. Poi una musica ipnotica, quasi per citare Brian Eno, una sorta di music for airport, accompagna una danza costruita da inserti e citazioni di stili, sport, avanspettacolo, televisione. Si vedono le Kessler, un po’ di Hether Parisi, x-factor, uno sciatore di fondo, e mille altre piccole forme provenienti per lo più dall’immaginario televisivo, come se quello che siamo fosse ciò che assorbiamo dai media e dal bombardamento di immagini che subiamo da quando siamo al mondo. Siamo la somma di tutto questo e niente altro sembra dire questa coreografia che ha il solo difetto di esser smisurata, abnorme nella durata. Il finale poi è un po’ inconcludente, non riesce a tirare le fila di tutto questo esser altro da sé per alimentazione forzata da media. D’Agostin è un interprete giovane che ha comunque dato prova di essere un coreografo e un danzatore promettente, che ha grandi margini di crescita e saprà senza dubbio emendare i difetti che ora gravano un poco su questo lavoro.

Per chiudere due parole sulla presentazione di Maps di Daniele Ninarello, lavoro frutto di un laboratorio tenuto presso Belfiore Danza. Una fila di danzatrici, ciascuna incanalata su una propria corsia, come una batteria di nuotatrici, comincia lentamente a costruire piccoli movimenti avanzando e retrocedendo. Mano a mano la frequenza di questi andirivieni si arricchisce di forme e di gesti, fino al culmine in cui tutte le danzatrici si sincronizzano e mano a mano escono di scena una per una. Al di là che il lavoro è risultato di un laboratorio devo dire che da Ninarello mi aspettavo qualcosa di più per complessità e spessore. Il lavoro mi sembra un po’ troppo basico, frutto di uno schema più che di una vera ricerca, schema che finisce per imbrigliare le diverse energie delle danzatrici partecipanti al progetto, addirittura limitandole. É stato un po’ come ammirare la quadrettatura sotto il disegno e questo pareva meno interessante dei quadretti che lo supportano. Emerge lo schema e non la danza.

foto: Andrea Macchia

blitz metropolitani

SPECIALE INTERPLAY: BLITZ METROPOLITANI

 

Sabato pomeriggio 21 maggio in Piazza Vittorio Veneto a Torino hanno avuto luoghi i blitz metropolitani di Interplay. Uno spazio, all’interno della programmazione, in cui la danza incontra i contesti cittadini e esce dal teatro. Andare altrove dai luoghi costituiti, essere in contesti non inquadrati è un movimento costante delle arti a partire dai primi del Novecento. Una ricerca da parte degli artisti di ogni linguaggio di uscire dai contesti rigidi in cui si formalizzano i rapporti tra opera e pubblico. Non sempre queste uscite garantiscono un diverso rapporto, spesso siamo talmente incastrati nello schema che sfuggirvi diventa impossibile. Eppure nonostante tutto, vi è sempre un respiro maggiore, un’interazione più consapevole e dettata da una scelta precisa, più che un subire una ritualità stantia. Si dovrebbe cercare di più la possibilità di creare nuovi rapporti tra arte e pubblico, incontrare la comunità, confrontarsi fuori dal recinto protetto del teatro. L’intervento estemporaneo rischia di essere solo un momento esotico. Per lo meno si è provato.

Protagonisti di questi blitz metropolitani sono lavori in cui la danza incontra le forme ibride nate in contesti urbani di strada. Il circo, la street dance, break dance. Linguaggi spurii che raggiungono livelli di raffinatezza notevoli come nel caso di Eterea dei Los Innato. Due ballerini straordinari che eseguono un duo di grande impatto emotivo e di forte carica erotico-sensuale. Una danza piena di un ritmo dettato da movimenti carichi di energie trattenute e scaricate all’improvviso, di piccoli tocchi, di lotte furibonde. Forza e debolezza in continuo rapporto, un travasarsi di una nell’altra, non potendo sussistere l’una senza l’altra.

Impressionante anche Te odiero della compagnia spagnola Hurycan. Un ballerino (lo straordinario Arthur Bernard Bazin) si aggira nel cerchio formato dal pubblico. Incontra lo sguardo di una ragazza. La invita nel cerchio e inizia con lei un goffo ballo. Sembra tutto reale, che l’incontro sia casuale. Invece è solo un pretesto per dare l’illusione di un incontro. La danzatrice è la bravissima Candelaria Antelo. La danza che intrecciano è fatta di grande acrobazia che sconfina con la goffaggine, cadute, piedi pestati, errori, che diventano alfabeto di un incontro. Baci negati, baci rubati, litigi e lotte, rappacificazioni, tenerezze improvvise. Un rapporto amoroso danzato e composto da tutte le intermittenze, fraintendimenti, incontri e scontri tra due amanti. Un lavoro molto commovente e divertente allo stesso tempo.

Tra i lavori presentati in questi blitz metropolitani anche Humanhood dei Nomadis con Rudi Cole e Julia Robert-Pares. Un lavoro molto delicato seppur un po’ troppo classico, ma molto ben eseguito. Da ultimo il lavoro di Mathias Reymond e Christine Daigle una performance molto contaminata dalle arti acrobatico-circensi seppur un po’ debole a livello di drammaturgia.

foto: Andrea Macchia

 

Euripides Laskaridis

RELIC di Euripides Laskaridis (GR)

Francia 1896. sulle scene arriva una strana figura a forma di pera, con una sorta di spirale disegnata sul grasso ventre. La testa anch’essa a forma di pera. È vile, dissennato, vizioso, senza vergogna, osceno. Quell’apparizione è destinata a segnare le scene del teatro a venire. La sua presenza è scomoda, perché non ha misura, è fuori da ogni misura. Sgraziata, non bella, piena di tutto ciò che non vorremmo essere, dissacrante, ironica. È Padre Ubu. Il parto della mente patafisica di Alfred Jarry. L’Occidente non è stato più lo stesso da quando Ubu è apparso sulle scene.

Euripides Laskaridis, attore straordinario e artista sublime e intelligentissimo, ha molto di Ubu. Appare sulla scena tra improvvisi lampi di luce in un costume di figura umana sgraziata, eccessiva, con un culo enorme, con un culo in testa come corna, cosce esorbitanti, tacchi alti, viso cancellato dal collant.

Questa figura senza nome né volto attraversa la scena, danza volgare, piscia sulle rovine dove una testa di Alessandro o Apollo funge da WC, fa discorsi vuoti di significato perché sono solo suoni che imitano una lingua, imbastisce uno show osceno fatto di paillettes, luci e fumi, gioca con una palla come il Grande Dittatore ma senza saper bene come e perché. Tutto è osceno, senza misura perché fuori dalla misura, perfino disgustoso. Benché qualche risata attraversi il pubblico la sensazione è che si sia a disagio.

Ma questo spettacolo di Euripides Laskaridis ricorda anche le icone sante di Grecia, dove storie multiple appaiono sparse sulla tavola di legno, tra ori e luci. In questo caso la luce che emana questa parodia di icona è poco scintillante, fatta più di riflessi, cortocircuiti, lampi più che di pura emanazione. Le vicende che emergono sono dissacranti, quasi delle blasfemie. L’osceno ha preso posto sulla scena, la riempie tutta. Non esiste il fuori scena. Ma se tutto è piattamente osceno perché si prova disagio? Dovremmo essere confortati dall’eguaglianza che smussa i picchi, appiattisce le punte, ci rende tutti complici di quest’orgia disgustosa. È che lo specchio non restituisce mai il volto che ci immaginiamo, come una voce registrata che non ci pare mai la nostra. Eppure è così. Siamo parte di un’Europa oscena, che dilania la sua cultura e le sue radici, che si perde in vuoti discorsi senza sostanza né significato, che si perde in vaniloqui e show disgustosi. Siamo corpi sgraziati, senza volto, senza misura, solo ombre che camminano, poveri commedianti che si pavoneggiano e si dimenano per un’ora sulla scena e poi cadono nell’oblio. Siamo la storia raccontata da un’idiota, piena di frastuono e di foga, e che non significa più nulla.

 

 

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Michele Rizzo

HIGHER di Michele Rizzo

Una piccola lampadina si accende nel buio. Poi un’altra. E poi ancora. Man mano le piccole luci nel buio cominciano a diventare molte, a comporre linee geometriche, figure, percorsi nella notte. Infine esplodono in un bagliore che acceca.

All’eruzione della luce nella sua potenza, segue un buio in cui ancora lampeggiano sulla retina le immagini residue. Solo allora emerge il primo danzatore che sulla musica assillante e ripetitiva di Lorenzo Senni, comincia a disegnare sul palco una piccola danza fatta di passetti e piccole gestualità. Una sequenza che si ripete nello spazio, ora accompagnata da un secondo e infine un terzo danzatore. Una sequenza che si ripete anch’essa infinite volte, con piccole variazioni, accumulazioni, mutazioni. In Higher di Michele Rizzo tutto si ripete geometrico, infinito, ossessivo. Nonostante le micro variazioni del movimento e della musica che, piano piano, accumula sonorità e ritmi, si ha l’impressione che il tempo scompaia, si dilati nella ripetizione, nella riproduzione. Tutto torna sempre uguale, sempre diverso. Sembra che questi moduli ripetuti non debbano finire mai. Una generazione costante di forme modulari dallo stesso DNA che mantengono una loro unicità d’esistenza. Tutto scorre come non dovesse finire mai. Senza sentimento, senza immedesimazione, senza significazione. Le sequenze di danza e musica, si manifestano costanti, ipnotiche, come prodotti in una catena senza inizio né fine, il cui sviluppo è indeterminato, imprevedibile. Poi tutto sparisce nella notte. Il buio si riprende tutto. La trance ipnotica si evapora. Si torna nel tempo.

Quest’opera di Michele Rizzo che ha aperto Interplay possiede la rara qualità di affascinare nonostante i gusti personali. Io, per esempio, mi trovo in forte disagio di fronte a lavori fortemente ripetitivi, razionali e astratti nel loro formalismo. Eppure si supera il disagio, lo si mette per un momento da parte, apprezzando il tentativo di far nascere una nuova forma di trance estatico-religiosa, a partire dalla danza e musica per club. Benché comprenda la possibilità della manifestazione di una trance che sorga dalla ripetizione di moduli sonori e di movimento nello spazio, faccio fatica ad associare questo fenomeno a un sorgere di un qualche contatto con il sacro. La religiosità associata dalle asserzioni del coreografo al fenomeno di danza e musica per club, il paragone club-chiesa, mi pare un po’ azzardato. Più che una religiosità mi pare si possa scorgere nel fenomeno una ritualità laica, svincolata dalla coscienza che l’agire rituale possa condurre al divino o al sacro. Mi sembra più che altro un trascendere dal quotidiano, dal sé. Una ricerca di un abbandono che conduca al superamento di sé per un periodo di tempo. Poi come alla fine dello spettacolo si torna a essere se stessi, senza il raggiungimento di una nuova conoscenza e coscienza del mondo. Un esperimento interessante. Razionale e geometrico come un Mondrian, che però mi pare alla fine si riduca a un formalismo vuoto di sostanza. Il rito per il rito. Senza finalità. Auto giustificante. Senza sbocchi. Uno strumento senza scopo, perfettamente funzionante, lucidamente concepito.

fotografie@Jasmijn_Slegh

collective loss of memory

COLLECTIVE LOSS OF MEMORY di Jozef Fruček e Linda Kapitanea – RootLessRottDOT504 (SL/GR/CZ)

Collective loss of memory: nell’inizio c’è già il finale. Ma non lo sappiamo. Non lo possiamo sapere. Due uomini lottano a destra della scena. Uno guarda. Uno è seduto su una sedia. Uno al microfono ripete come un mantra: being a man, mainly a man.

Sembra un inizio un po’ concettuale. E gli interpreti ci scherzano sopra subito. Il tono da serio diventa buffo. I danzatori si presentano. Uno addirittura con un grosso e finto pene che viene presentato al pubblico. Sarà un elemento ricorrente questo pene grosso. Poi comincia lo sviluppo. La danza è maschia, acrobatica, coinvolgente (i cinque danzatori in scena sono straordinari). Elementi violenti appaiono costantemente, ma lì per lì, non ci si fa troppo caso.

Poi si offrono caramelle al pubblico. Non vengono date con gentilezza. Vengono lanciate con violenza. E poi il mantra si ripete: being a man. È una affermazione che si fa domanda. Comincia a essere chiaro che è il maschile l’elemento su cui ci si interroga. Ritorna il pene, che viene offerto al pubblico come oggetto da testare, toccare, farne esperienza.

Infine il racconto dell’origine di questo spettacolo: siamo nel 2008, in una piazza, dove tutto è molto tranquillo. Un uomo entra correndo inseguito da un altro. Spariscono. La scena torna calma. Poi altri che inseguono i primi due, in formazione, come una freccia. Un uomo guarda, non fa niente, guarda e basta perché chi guarda non fa. Il gruppo torna sulla scena e compie movimenti circolari e semicircolari. Poi tutti escono. La scena torna calma. Resta solo l’uomo che guarda e non fa niente.

Ancora non si è ben capito cosa sia successo, perché il racconto volutamente astrae, indica delle linee di movimento e di sviluppo, fa emergere i punti salienti: la calma, l’azione principale del gruppo, quella secondaria, ma non meno importante, dell’uomo che guarda e non fa nulla. Infine si svela l’evento reale, che in verità è già, come detto, contenuto nell’inizio: un video mostra la scena descritta. Un fatto accaduto in un centro commerciale nel 2008. Un uomo è inseguito. Prima da un uomo, poi da un gruppo. Per un attimo tutti escono di scena poi tornano. È un pestaggio. Di una crudeltà e violenza inaudite. L’uomo è percosso dal branco in ogni modo possibile. Gli saltano in testa a piedi pari, calciano il suo cranio come fosse un pallone da rugby. Il sangue sprizza, l’uomo percosso è preda di tremori fino all’immobilità. A fianco di questa scena terribile, un altro uomo guarda e non fa nulla. Niente di niente. Nemmeno quando l’uomo percosso, giace a terra, nel suo sangue, solo. Chi guarda non fa nulla. Guarda e basta. Questo guardare e questo essere uomini sono la domanda. Chi guarda davvero non fa nulla? Essere uomini è veramente questo truce delitto? Non è necessario rispondere. È necessario porre la questione. E l’altra che sta in sottofondo. In tutto quanto accade non c’è presenza femminile. Sia nella coreografia che nell’evento del 2008. Chi guarda, chi agisce, chi danza sono solo uomini. Being a man.

Il modo in cui sono state poste queste domande da Jozef Fruček e Linda Kapitanea in Collective loss of memory è intelligente, tagliente, ineludibile. Tutto è accennato, fin dall’inizio. La comprensione di quanto sta davanti ai nostri occhi viene svelato a poco a poco. La coscienza emerge dal suo sonno pian piano, fino a essere scossa, se non percossa, al termine di questo percorso.

Collective loss of memory, spettacolo inquietante e sconvolgente, ci pone di fronte a delle domande a cui non si può scappare. Bisogna porsele. Bisogna farci i conti. La scena in questo lavoro assume un valore tragico ma pregnante. Quello che ci viene posto davanti agli occhi è necessario alla comprensione della nostra natura, di uomini, di civiltà: siamo tra coloro che guardano e passano? Che accettano la violenza insita in noi senza far nulla? Siamo solo spettatori? O siamo qualcos’altro? E il femminile dov’è?

Alessandra Racca

ALESSANDRA RACCA: CONSIGLI DI VOLO PER BIPEDI PESANTI

Sta per iniziare il Salone del Libro, e quindi presto saremo assaliti da consigli su nuovi autori, volumi imperdibili, fiaschi clamorosi. Ognuno si affannerà a dire la sua sul grande evento. Così prima che la bagarre cominci, anch’io, nel mio piccolo, vorrei suggerire un titolo: Consigli di volo per bipedi pesanti, la nuova raccolta di poesie di Alessandra Racca in uscita per i tipi di Neo Edizioni. Nel farlo non vorrei tanto parlare del suo contenuto (di questo lascerò parlare la sua autrice), ma vorrei cercare di descrivere la sensazione che mi coglie quando mi trovo di fronte a un’opera che in qualche modo allarga i miei orizzonti. Diciamolo subito: non è questione di estetica. Il bello e il brutto stanno nella sfera del gusto personale. Un’opera invece, per essere veramente tale, deve avere due qualità fondamentali. Canetti nel descrivere la natura delle immagini, diceva che esse sono come delle reti entro cui impigliare il reale. Certo molto sfugge tra le maglie, ma quello che vi rimane impigliato è per lo spirito il modo attraverso cui si rielabora il mondo. E quante più di queste reti si riesce a trovare nella vita, quanto più si riuscirà a comprendere il mondo, a rielaborarlo, metabolizzarlo.

Poi c’è come una questione di risonanza. Come quando al vibrare di una nota, si entra in sintonia, si vibra all’unisono, in accordo o in disaccordo. Sì anche il lato negativo è fondamentale. Anche vibrare in opposizione ha un valore immenso.

Il libro di Alessandra ha queste due grandi qualità: è una rete che permette una pesca feconda. Mille piccoli oggetti, situazioni, immagini vengono a galla e attraverso questo sguardo attento e lucido verso ciò che è quotidianamente ricorrente e tende a scomparire dietro la patina del consueto, appaiono in luce i mille moti dell’animo che appartengono a ognuno di noi, al modo come affrontiamo la vita, le sconfitte, i dolori, l’amore e la morte. E nel fare questo, nell’essere rete che imbriglia il mondo, e lo fa riapparire sotto altra luce, il libro di Alessandra Racca fa anche risuonare corde nascoste, o seppellite, nel farci indifferenti e duri di fronte alla vita. E questo risuonare, non è lo squillo di tromba, né il rullo di tamburo, ma un suono delicato, come di soffio, che accarezza, colpisce, spinge e solleva. Come lo scorrer di ruscello di montagna: è lieve e carezzevole, ma nella sua fresca costanza leviga le pietre più aspre, le spinge a valle ci mettesse cent’anni. Questo è quello che ho provato di fronte al libro di Alessandra, che trovo il suo più maturo e intimo. Ed è quello che sempre vorrei trovare nel leggere un libro, nel vedere un film, nell’assistere a una performance: che il mondo in qualche modo per un momento si allarghi, che l’immagine si focalizzi, che si trattenga il fiato per un istante, prima di vedere le cose con uno sguardo nuovo. Il libro di Alessandra Racca ha questa forza e questa qualità, ed è per questo che lo consiglio. Ora però è tempo di far parlare Alessandra Racca.

EP: Com’è nato questo nuovo libro?

AR: Sono quattro anni di scrittura. E quando ho assemblato tutte le poesie per farne un libro, ho cercato di dar loro una struttura. Il libro quindi ha, non dico delle sezioni, ma dei temi ricorrenti, degli agglomerati di senso, che da un lato sono dati da queste serie o cicli, – devo confessare che molto ero attratta dall’idea di un filone e di trattarlo da ossessiva quale sono -; e poi intorno a queste serie ho accumulato delle altre cose che avevo scritto. Questo mio quindi non è un libro esattamente monografico, perché non parla solo di una cosa, ma è costruito per agglomerati.

EP: C’è molto quotidiano in queste poesie, sia negli oggetti, che nelle situazioni, e da questo quotidiano tu fai emergere uno splendore e un poetico inatteso. Ciò che quotidianamente ci circonda, a volerlo ben guardare, si scopre che è ripieno di senso, di poesia: piccole epifanie da una crepa nel muro, oggetti d’uso comune che si fanno tramite di dolori e gioie. Il quotidiano che tende sempre a sparire nell’abitudine, e si finisce a non vederlo più. Trovo che la tua poesia abbia un occhio attento a scovare filoni di poesia in ogni aspetto della vita quotidiana. La tua è una poesia delle cose minime?

AR: Io penso di aver sempre fatto questo tipo di lavoro. È una cosa che mi ha sempre attratta. Anche in quello che leggo. A me piace tanto Giudici, per esempio. Poi io non ho una vita così pazzesca, anzi direi proprio che è normalissima. Io sono estremamente quotidiana. Faccio robe normali: andare a lavorare, fare la spesa. E lavita delle persone che mi circondano è fatta così. Devi dare un senso a questo, al fatto che ogni giorno ti alzi, devi fare la colazione, ti devi guadagnare da vivere. Trovare un senso a tutto questo senza farsi sopraffare da questo cazzo di lavoro, dalla quotidianità. C’era Susan Sontag che diceva: “Viviamo stretti tra una banalità sconcertante e un dolore indicibile”, non so se siano proprio le sue parole esatte ma era questo il senso. Io questa roba la sento molto. Non è mai stata mia la posizione nichilista, io sono più positiva magari un po’ esistenzialista, cerco insomma di trovare un senso.

EP: Molta arte dell’ultimo secolo, ha cercato il senso proprio nell’oggetto quotidiano, dimenticato, negletto, persino nel rifiuto, nello scarto. È come se il senso si lasciasse scoprire proprio laddove l’occhio più non si posa per abitudine. A furia di troppo vedere si finisce per non vedere più, ed è lì che si forma la poesia, quando torni a vedere con occhi diversi la lucertola che corre sul muro, o i barattoli dentro cui metti così tante cose.

AR: È quello che diceva Calvino: trovare quello che non è inferno e dargli spazio. È quella roba lì. A me attrae quello, ho sempre guardato a quello. Mi piace chi fa questo lavoro, mi ha sempre incuriosito. Questo è quello che faccio.

EP: Cos’è per te la poesia? Non come definizione ma come fenomeno…

AR: Una pratica. Una forma di relazione con il mondo. Sono estremamente comunicativa e sono estremamente attratta dalla relazione. E anche dal linguaggio. È queste due cose insieme: il fatto che tu possa dire con un linguaggio che non è banale ma semplice, quello che nel semplice non è semplice, ma è doloroso, meraviglioso, vitale. Fondamentalmente ti trovi ad aver a che fare sempre con la morte, in continuazione. Per me è un modo per fare i conti con la morte, con il dolore, con i problemi. Questo però cercando di vedere che il tavolo non è solo un tavolo, cercando di vedere una possibilità.

EP: E che mi dici del titolo: Consigli di volo per bipedi pesanti?

AR: Probabilmente la mia è una poesia un po’ consolatoria, nel senso che è un tentativo di volo. Questo è un po’ il senso del titolo. Cercavo qualcosa che avesse a che fare con l’aereo, con il leggero, ma non perché bisogna essere svagati. Come per i palloncini: se tu riesci a riconoscere la leggerezza dici che non lo è; il palloncino se non lo ancori, vola via; se lo leghi, sta lì, ed è molto bello. Per me la leggerezza è stata una conquista. Io ero una bambina pesante. C’è una parte di me che è vecchia da sempre. Il fatto di poter seguire un principio di piacere, di relativizzare, di dire: va beh! Domani è un altro giorno: questa roba per me è stata una conquista.

Tommaso Serratore

DUE STUDI: IL CORAGGIO DI STARE di Tommaso Serratore e LUCI DI CARNI di Amina Amici

Venerdì 22 Aprile al Cecchi Point di Torino sono stati presentati al pubblico due interessanti studi di due coreografi giovani e molto capaci: Il coraggio di stare di Tommaso Serratore e Luci di carni di Amina Amici.

Prima di entrare nel merito dei due lavori faccio una doverosa premessa. Nella piccola Odissea di Menelao, viene raccontato l’incontro con Proteo. Menelao deve farsi dire la verità dal dio mutaforma, ma perché la verità venga proferita, Menelao non deve farsi irretire dalle continue metamorfosi del dio. Affinché la verità possa essere ascoltata, Menelao deve inchiodare al suolo il dio e aspettare che, sfinito e vinto, assuma la forma sua più vera. Solo allora il dio dirà la verità all’eroe.
Questo mito poco conosciuto dell’Odissea omerica dice molto del lavoro artistico. La forma per poter dire a chi la guarda, deve trasformarsi, modificarsi, affermare e negare se stessa infinite volte prima di poter dire la verità. Il fluire delle forme e delle immagini prima di trovare l’Immagine, è un processo rischioso, pieno di pericoli. Ci vuole molta forza per tenere fermo un dio fluente e proteiforme. Osservare l’artista che è ancora impegnato in questa lotta, è vedere ancora lo sforzo, il dibattersi, la lotta strenua. Non c’è ancora lo splendore, c’è il percorso verso lo splendore. Bisogna intuire la strada feconda tra i mille vicoli ciechi e non è un lavoro facile né per l’artista né per il critico né tanto meno per il pubblico.

E dunque fare la critica di due studi è affare molto complicato. Per la loro natura di incompiuti, di lavori fluidi, non ancora fissati in una forma definita e definitiva, gli studi sono instabili. C’è del lavorio grezzo. C’è del finito. E tra questi due poli c’è un processo in essere che trasformerà entrambi prima che si possa dire: questa è l’immagine, questo è ciò che volevo presentare. E a causa di questo fluire, di questo tendere verso una meta, quale essa sia, anche il lavoro del critico deve essere teso a individuare delle linee, dei tratti nel disegno che sono fondamentali alla costruzione dell’immagine, cercare con le proprie parole di farle emergere affinché l’artista possa trarne stimolo. E anche nel mettere in luce quello che pare un difetto, bisogna usare delicatezza, perché nel difetto possono esserci dei semi di uno sviluppo imprevisto e fruttuoso. Non tutto nasce dritto come una linea. È un difetto di questa civiltà quello di voler raddrizzare, parola molto in uso nell’educazione edipica, la pianta che cresce torta. L’evoluzione è un percorso tortuoso, fatti di sbagli, di svolte, di salti, di tentennamenti e di balbuzie. Con questo spirito quindi mi accingo a trattare dei due studi in oggetto, sperando di armarmi della delicatezza necessaria affinché le parole che riempiranno questa pagina possano essere utili a Tommaso e Amina.

Cominciamo dal lavoro di Tommaso Serratore. Il coraggio di stare è frutto di un laboratorio di 10 incontri con 8 performers. Ma è anche prodotto di un laboratorio tenuto alla Casa Circondariale di Castrogno (TE). Si parla del viaggio e della libertà a partire da alcuni pensieri dal diario di Christopher McCandless, ritratto da Sean Penn nel film Into the Wild. Viaggio e libertà, dunque.

Ciò che è stato presentato al Cecchi Point è un susseguirsi di immagini che prendono vita una dall’altra, senza che si intraveda, e questa credo sia l’intenzione, alcun intento narrativo. Un fiorire di eventi, spesso simultanei in varie aree del palcoscenico, che si formano con ritmi e velocità diverse. Un incontro-scontro di corpi, che tendono a correre liberi nello spazio e nel farlo si limitano e vengono limitati. L’agire simultaneo è spinta e vincolo. È come viaggiare in un campo di asteroidi, a volte le rocce volano in sciame, a volte solitarie, a volte collidono e generano altre collisioni, danzando nel vuoto, leggere seppur pesanti, ordinate dalle forze di attrazione e repulsione, ma anche disordinate dall’incedere casuale del caotico vorticare. Libertà e vincolo, legge e violazione della legge. Ma in questo viaggio bisogna evitare di fermarsi in luoghi conosciuti. A costo di morire di fame, bisogna andare nelle terre selvagge e non farsi ammaliare dal miraggio di conforto di ciò che è noto, la sirena maliarda che porta a perdizione i naviganti. Uscire dallo schema. Lottare con ciò che è facile. Questo è il grezzo che ancora appare, la pietra da togliere affinché appaia la scultura. Tommaso Serratore è un giovane coreografo molto dotato e credo che saprà evitare i rischi e i pericoli. Gli auguro di riuscire a completare questa sua ricerca e lo invito a non avere fretta. Il dio deve essere inchiodato a terra fino a che sfinito non dica la verità.

Il lavoro di Amina Amici, eseguito insieme ad Alessio Maria Romano, ha un titolo intrigante: Luci di carni. E l’intrigo si fa ancor più interessante nel sottotitolo: Caravaggio. La visione dei dipinti del Caravaggio, dei corpi e della luce. Questo il materiale.

Nella visione dello studio traspare però poco della chirurgica e tagliente precisione del Merisi nel far emergere l’interno patimento tramite l’uso della luce. La danza dei corpi è avviluppata da un senso di melanconia accentuata dal terzo movimento della prima sinfonia di Mahler. Nel Caravaggio non c’è traccia di spleen, c’è un agghiacciante luminosità che scolpisce il corpo nell’attimo in cui il suo agire rivela l’intimo travaglio. Prendiamo il San Tommaso. Il dito dell’apostolo penetra nelle carni del Cristo, il cui volto è in ombra, a occhi chiusi. Il solo petto è in luce. Non la ferita però, che è in parte velata dall’ombra della mano che scosta la veste affinché l’incredulo possa trovare la verità. Tommaso ha gli occhi spalancati, come se improvviso capisse: Il corrugare della sua fronte è in piena luce, direttamente illuminato. È ciò che avviene nella sua testa che Caravaggio vuole che si guardi. La luce colpisce le fronti anche degli apostoli che assistono alla prova. Anche loro sono stati visitati dal dubbio non meno di Tommaso. Guardano e il loro è un oscuro scrutare. Invasivo, voyeuristico, addirittura malsano. La luce mette in evidenza questo momento critico. L’ombra vela invece l’immensa mestizia del Cristo costretto a questa ulteriore prova, a questo emergere della carne sullo spirito, al nuovo infierire sul corpo della pochezza degli uomini. Il dramma emerge dalla lotta di luce e ombra ed è agghiacciante. Nel lavoro di Amina vi è la percezione di uno struggimento più sentimentale, più delicato, quasi un atto d’amore. La luce non ha ancora la violenza del Caravaggio, è più discreta. Accarezza, avvolge, non taglia né ferisce. Bisogna cercare una maggiore incisività, abbandonare l’abbandono, offrirsi alla crudeltà, sfoderare le lame, incidere le carni con una luce selvaggia e implacabile. È un atto doloroso e violento, ma necessario. Ma sono sicuro che Amina e Alessio sapranno affrontare questo viaggio. Questo è il mio augurio per loro.

foto: Barbara Calì

Arianna Dell'arti

ARIANNA DELL’ARTI: IO STO MOLTO BENE

Io sto bene. Lo cantavano anche i CCCP. Io sto bene è un eufemismo. Arianna Dell’Arti non è però una formalità, ma una questione di qualità. E così abbiamo compiuto il circolo. Abbiamo fatto la citazione, ma non per fare un complimento, per fare semmai una constatazione.

Arianna Dell’Arti racconta della vita, quella cosiddetta normale, dove tutto è una sorta di nevrosi, di idiosincrasia, con se stessi, con gli altri, con la propria sessualità. E lo fa con leggerezza, facendoci ridere e sorridere, partecipando con lei al racconto.

E lo fa così bene che pensi: e se questo raccontare fosse su un palco, sotto un bel riflettore, con un leggio, una voce impostata, senza quel romanaccio che le viene fuori spontaneo e accattivante, se il musicista che l’accompagna, il bravo Davide di Rosolini, avesse anche lui il suo bello spazio illuminato a lato di un palco, con la gente seduta nell’ombra: avrebbe la stessa forza? Direi di no. E questo è un complimento. Ciò che succede ad assistere ai monologhi, ai racconti di Arianna Dell’Arti, è che risorge il teatro popolare, quello dei racconta storie, quello che va nelle piazze, nelle osterie e condivide i suoi racconti con la gente, che è lì davanti a lei, che partecipa, commenta in piena luce. Ed è tutto un mare di sguardi che passano dal pubblico seduto ai tavoli del Polskykot di Torino, e lei, e Davide di Rosolini, e si sente che passa aria fresca, che c’è dialogo, e c’è presenza.

E questo è quello che manca a tanto teatro di parola che oggi spadroneggia sulle scene dei teatri italiani. Ci si dimentica che il pubblico non è mica lì solo per ascoltare quieto e in silenzio ciò che si declama aulici sul palco. Si è lì per condividere esperienza, comunità che riflette se stessa e su se stessa. Non c’è chi agisce e chi subisce, chi riempie un vaso vuoto e chi entra pronto e riempirsi di cultura.

Il teatro quando è in forma di racconto ed è popolare, veramente popolare nel senso nobile del termine, è condivisione. La vita che racconta e si racconta è vita condivisa, è di tutti, ed è per questo che è al centro del cerchio che il cantastorie racconta. Il cerchio racchiude ciò che condivide al suo interno. Non c’è nessuna wagneriana oscurità a celare il pubblico che ascolta silente e riverente. C’è cagnara, c’è dialogo, interazione. Arianna Dell’Arti ha questo tipo di qualità: quella di portare le sue storie al centro del cerchio, farcele vivere, farci pensare a quanto siamo lontani dalla normalità e vicini alla psicosi, e farci ridere di noi stessi, con intelligenza e delicatezza. Son cose rare queste. Da non perdere per nessuna cosa al mondo.

SPERIMENTAZIONI D’AUTORE: SI APRE IL PERFORMA FESTIVAL

Nell’ottobre del 2014 ho partecipato al Perfoma Festival diretto da Filippo Armati. Performa è un festival che agisce e propone interessanti progetti di sperimentazione nel campo delle Live Arts nel vicino Cantone Ticino tra Lugano, Bellinzona, Locarno e Ascona. È stata un’esperienza forte e indimenticabile, perché Performa è un festival che non solo propone un programma degno di attenzione, ma anche perché permette, a chi vi partecipa, di vivere a stretto contatto con gli artisti e i loro processi creativi. Le occasioni in cui condividere momenti non solo performativi tra pubblico e artisti non sono estemporanee ma costituiscono proprio la natura e l’ossatura del festival. Filippo Armati mi ha ospitato a casa sua nei pressi di Bellinzona, insieme alle performer svizzere Nina Williman e Paulina Alamparte. E durante la permanenza al festival non solo sono riuscito a percepire e comprendere la grande passione che anima Filippo nel voler radicare in un territorio difficile una proposta inconsueta di vivere e creare, ma anche la sua grande umanità e volontà di creare connessioni tra gli artisti e il pubblico che poi frequenta le performance. Così che da giornalista, sono stato ospite, amico, perfino performer, perché sono stato coinvolto proprio nella performance di Nina Williman, e si è sviluppata non solo la mia conoscenza di artisti innovativi che mi erano sconosciuti, ma anche amicizie, relazioni, affetti. Questo è ciò che dovrebbe essere un festival. Non una vetrina, non una passerella fatta di tappeti rossi e pubblici plaudenti, ma un luogo di scambio, di vita, di relazione tra una comunità e gli artisti che danno voce a ciò che attraversa e inquieta quella stessa comunità.

Proprio alla luce di questa mia esperienza consiglio i miei lettori a farsi un bel weekend nella vicina Svizzera e vivere un festival che può offrire molto in molti ambiti. E consiglio la partecipazione a Performa anche per un’altra ragione non meno importante: la Svizzera è un nostro vicino, un paese che ai più è noto solo per il cioccolato e le banche, oppure per essere un paese ricco e felice. Niente di più sbagliato. La Svizzera è un paese complesso, attraversato da molte problematiche e contraddizioni, ma è anche un paese molto vivace dal punto di vista culturale, e non solo perché ha molti soldi. La Svizzera ha avviato politiche culturali che andrebbero prese ad esempio, dove i giovani artisti hanno per lo meno la possibilità di giocarsi le proprie carte, usufruendo di una certa visibilità. Poi starà a loro, alle loro qualità, al loro talento, ma per lo meno possono provarsi e incontrare il pubblico. Il Cantone Ticino è a noi vicino, un paio d’ore di macchina, e vale la pena di farsi prendere dalla curiosità, varcare il confine e conoscere una realtà così vicina, anche linguisticamente, seppur molto diversa.

Performa Festival inizia domani 31 marzo e si protrarrà fino al 3 aprile vi invito dunque a visionare il programma completo del festival sul sito http://www.performa-festival.ch/ e non mi resta che augurarvi buona visione!

Intervista al direttore artistico Filippo Armati

EP: Filippo presentaci il festival di quest’anno.

FA: Il festival quest’anno presenterà performance provenienti dai più svariati ambiti e linguaggi artistici, sia arti performative sia arti visive, ma anche performance musicali, sperimentazioni video. Quest’anno abbiamo avviato una collaborazione con il CISA (Conservatorio Internazionale di Scienze Audiovisive) di Lugano, e infine avviato una collaborazione con Radio Gwen, una radio online che tratta principalmente di cultura legata alla musica, privilegiando quei prodotti che normalmente non passano sui canali ufficiali. Possiamo quindi dire che Performa Festival privilegia la creatività che si sviluppa su diversi livelli.

EP: C’è un tema conduttore che attraversa la programmazione, un filo rosso che si dipana in questa cornucopia di offerte performative?

FA: Non credo molto all’idea di connettere i lavori presentati in una sorta di tema o argomento, perché penso che a volte questo possa distorcere più che dare ordine a una manifestazione. È un atteggiamento più da curatore che si occupa di arti visive. Io non cerco di connettere lavori o artisti verso un tema comune, piuttosto tento di offrire il più vasto ventaglio possibile di diversità.

All’interno della programmazione c’è però un progetto, Tanzfaktor, che è una piattaforma di pezzi brevi di danza creati da giovani coreografi e che promuove la cooperazione tra diversi festival sparsi su tutto il territorio nazionale svizzero. Lo scopo di questo circuito è quello di promuovere la circuitazione dei giovani artisti anche al di fuori delle proprie aree linguistiche. Sono stati selezionati dieci progetti su novantadue presentati, e cinque di questi saranno ospitati all’interno di Performa quest’anno.

EP: La scorsa edizione sono stato tuo ospite e ho seguito tutto il festival e ho potuto constatare il tuo sforzo di radicare un progetto culturale ambizioso che cerca di portare artisti dediti alla sperimentazione nel campo delle performance arts in un territorio molto chiuso e difficile. Quest’anno hai cambiato periodo passando dal principio dell’autunno all’inizio della primavera. Pensi che questo possa aiutare a incrementare l’affluenza, l’affezione del pubblico alla tua manifestazione?

FA: Quello di cui mi sto rendendo conto è che il fatto che Performa Festival esiste è importante al di là dei numeri e dell’affluenza di pubblico. Sento che nei sei anni di esistenza del festival si è comunque radicata una consapevolezza nel territorio dell’esistenza di uno spazio creativo come Performa. La gente ne parla, prende il programma, discute il programma, anche se poi magari non riescono a venire o vengono solo una volta. Questo dimostra che c’è comunque un interesse, c’è una pertinenza, e c’è una volontà del pubblico di confrontarsi con quello che noi proponiamo.

EP: Cosa consiglieresti al pubblico che volesse partecipare a Performa? E c’è un progetto cui sei particolarmente fiero di presentare?

FA: Innanzitutto consiglierei al pubblico di fare il pass abbonamento e partecipare al festival nella sua interezza per viverne non solo la proposta artistica ma anche l’atmosfera. Per quanto riguarda i progetti quest’anno presentiamo una prima un progetto di cui siamo coproduttori. É il progetto di Katia Vaghi, un’artista ticinese, che vive e lavora tra Londra e Berlino, che presenta Jukebox: danze su misura, una sorta di Jukebox in danza interattivo con il pubblico, nel senso che il pubblico potrà su una lista proposta dall’autrice potrà scegliere una combinazione di elementi che lei riprodurrà in scena. Trovo questa opzione veramente interessante e ho fortemente voluto questo progetto.