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Pergine Festival

Pergine Festival: il teatro come luogo di incontro e confronto

Pergine Festival: il teatro come luogo di incontro e confronto

I festival come gli spettacoli sono creature che necessitano di pazienza, grande lavoro, dedizione, ma soprattutto di una visione. Quale scenario si vuole allestire affinché il teatro nel suo senso più ampio possa fiorire? Per chi lo si appresta? Per quale tipo di pubblico? Come si innesta questa creatura estranea nel territorio in cui viene ospitata? Pergine Festival, in Trentino nella bella Valsugana, manifestazione giunta alla sua 44esima edizione con la direzione di Carla Esperanza Tomassini, è un evento in grado di rispondere in maniera particolarmente affascinante a tutte queste domande.

Pergine Festival cerca innanzitutto di creare un contesto in cui, attorno alle performance proposte, la comunità possa incontrarsi, vivere la cittadina, scoprirsi parte di una collettività animata da afflati e urgenze sia comuni quanto divergenti e nel confronto crescere. Il pubblico a cui ci si rivolge è quindi prima di tutto comune, popolare, non composto di addetti ai lavori e questo senza cedere a populismi culturali. Si cerca di incontrare uno spettatore inteso nel più ampio spettro possibile anche se l’obbiettivo primario sono le giovani generazioni. Recupera l’etimo della parola, costruisce una festa, un momento fuori dall’ordinario scorrere della vita quotidiana, portando l’eccezione, l’inconsueto, l’imprevisto nel borgo montano in cui si svolge. Un periodo dirompente a smuovere il pensiero e l’azione, per incontrarsi e discutere, per rompere l’abitudine e portare la comunità verso luoghi impensati.

Quello che colpisce a primo acchito non è tanto l’ottima affluenza, così rara oggigiorno dove l’evento performativo è spesso appannaggio di una sempre più ristretta riserva indiana, quanto la grande presenza di giovani. Tale pronta e costante risposta delle nuove generazioni è significativa di un incontro fecondo, di un lavoro intelligente, accorto nell’intercettare bisogni e desideri, nel saper sollecitare la curiosità.

La programmazione alterna performance partecipative a spettacoli dove viene prevista la possibilità di una visione più tradizionale benché frutto di ricerche ardite nei nuovi linguaggi teatrali. Nelle sale di Palazzo Crivelli, nel centro di Pergine, si è potuto assistere a After/Dopo di Effetto Larsen, gruppo operativo intento da anni nel sviluppare percorsi partecipativi e site specific. In sette stanze del palazzo il pubblico ha potuto riflettere sul tema della propria dipartita. Una sorta di meditazione sulla morte in sette passi. All’entrata ci viene consegnato un sacchetto colmo di sassi bianchi e rotondi. Nella prima stanza a terra troviamo le prime scottanti domande: hai mai visto un cadavere? Ti sei mai preso cura di lui? Pensi che tutto termini con la morte? I sassi servono a determinare il nostro pensiero, ma nel porli a terra, nel decretare la nostra scelta, ci sgravano da un peso, ci alleggeriscono e avviano verso un meditare raccolto in silenzio come di preghiera.

In ogni stanza una prova che ci profonda sempre più nel pensiero di noi scomparsi. Si tira le fila della nostra vita. L’abbiamo sprecata? Ci siamo dedicati alle cose veramente importanti? Cosa lasceremo di noi a chi sopravvive? Quale ricordo vorremmo lasciare? Un bilancio che porta a commozione, a prendere coscienza di sé, del proprio tempo, dell’agire e del patire, di cosa ancora sapremo donare e donarci.

Un percorso scottante, capace di scuotere nel profondo e lascia attoniti e pensierosi a lungo. Quasi una meditazione sul cadavere di pratica buddista. Un distaccarsi dalla terra per accoglierla nell’abbandono totale.

Come contraltare al pensiero sul morire seguiva Atto di adorazione di Dante Antonelli, in anteprima a Pergine Festival, prima del debutto autunnale a Roma Europa Festival. Scrittura originale dalle opere giovanili di Yukio Mishima, Atto di adorazione ritrae quattro giovani in un parco, tra ribellione e affermazione della propria libertà, intenti a cantare la vita e il dolore che l’accompagna. Come bruchi costretti a lottare per divenir farfalla, opponendosi a ciò che li vuole raddrizzare, costruire a propria immagine e somiglianza, educare a valori in cui non credono, i giovani combattono con rabbiose ed eleganti mosse di taekwondo. Una battaglia in graduale metamorfosi, verso un volo, verso il desiderio, spinti da un afflato prepotente innalzato nella vertigine, visione ed estasi: «il mio regno è fatto di luce». Il combattimento in questo atto di adorazione diventa danza (con la collaborazione alla coreografia di Salvo Lombardo), si trasforma in corpi che si mangiano ed accarezzano, si sfiorano e si battono, spinti da un desiderio insaziabile di vita inseguiti dal verme della morte: «Siedo sul trono del dolore come imperatore sul trono».

Un lavoro intenso, a cui necessita qualche ulteriore raffinazione per asciugare la meditazione, fino alla più pure essenzialità e in grado di spingere a riflettere su cosa potremmo essere una volta liberati dai vincoli di convenzioni fittizie e autoimposte. Meraviglioso, febbrile, estatico l’accompagnamento musicale live di Mario Russo.

Altro viaggio profondissimo, con Viaggio al termine della notte, laddove il nero abissale diventa luce abbagliante, è quello proposto da Elio Germano e Teho Teardo. Un personale attraversamento del capolavoro di Luis-Ferdinand Céline tra parole e musica, verbo che si fa melodia tra il sussurro e il tuono, musica simile ad un rumore di martello. Soffio leggero di vento per far emergere la cinica sfiducia nella vita, negli uomini, nei valori, tra gli afflati caotici di una natura umana incomprensibile nell’abbraccio stretto a una natura matrigna e inutilmente crudele.

Oh, little man di Giovanni Ortoleva interpretato da Edoardo Sorgente è invece meditazione caustica sul capitalismo. Un broker d’assalto, sulla sua nave da crociera, con un unico servitore di nome Lunedì perpetuamente assente, si trova attanagliato dall’incubo di vendere prima di un nuovo crollo economico. Il cellulare non funziona, gli strumenti di controllo non sono accessibili, il naufragio è inevitabile. Tocca a noi pubblico decidere se salvare o meno il piccolo uomo che affoga. Lo salveremo? Oppure come recita la frase che campeggia sui due schermi in proscenio :“è più probabile l’apocalisse che la fine del capitalismo?”. Quella di Giovanni Ortoleva, giovane drammaturgo e regista prossimo ospite della Biennale di Venezia, è opera intelligente, capace di porre domande lasciando il pubblico libero di trovare le risposte in cui crede. Un’ironica interrogazione sulla società di cui facciamo parte e contribuiamo a mantenere senza cercare alternative valide, sostenibili e credibili.

Amour dei Dynamis è performance partecipata, costruita attraverso una serie di residenze con quindici attori amatoriali intenti ad indagare quello che spesso, noi professionisti, si dimentica del teatro: l’amore di stare sulle scene, del creare monumenti effimeri, pensieri in movimento corrosi dalle termiti del tempo. Visionando una lunga fase di prova si è potuta apprezzare la capacità del collettivo romano nel creare sintonia con gli entusiasti partecipanti. Un lavoro colmo di ironia incentrato sul confine labile ma presente, in grado di dividere l’uomo dall’attore, limite spesso abolito nel portare in scena se stessi come se la propria esperienza fosse misura di tutte le cose. In questo progetto appare invece chiaro quanto i vasi siano comunicanti dove uno stato si nutra dell’altro, diversi e compatibili, mai uguali e proprio perché diversi, potenti, capaci di interessare e avvincere, in quel luogo dove l’io si scioglie nella moltitudine delle possibilità.

Pergine Festival, come si può evincere da questo breve excursus, ha una programmazione complessa volta a immergere il pubblico nell’idea di teatro come azione di comunità per la comunità, non fortino eburneo per addetti ai lavori ma luogo di incontro e scambio.

Pergine 5-8 luglio

Ph:@Giulia Pec Lenzi

The Repetition

Milo Rau e la rappresentazione del reale: The Repetition Histoire(s) du Theatre(i) a RomaEuropa Festival

Milo Rau torna in Italia a RomaEuropa Festival con la sua nuova creazione The Repetition Histoire(s) du Theatre(i) in scena al Teatro Vascello in prima nazionale dal 9 all’11 novembre. RomaEuropa ha presentato anche The Congo Tribunal, già in programma nella rassegna di cinema curata da Massimiliano Maltoni al Consolato di Svizzera a Venezia nello scorso mese di marzo.

Prima di affrontare un’analisi di The Repetition è necessaria una premessa: difficile, se non impossibile, analizzare un’opera di tale complessità in uno scritto breve. Questa creazione meriterebbe un saggio approfondito che non solo cerchi di comprenderne le intenzioni, ma approfondisca anche le modalità di costruzione della drammaturgia, il lavoro con gli attori e infine metta in connessione quest’ultima opera con le precedenti al fine di comprendere l’evoluzione del pensiero di Milo Rau.

The Repetition andrebbe, in primo luogo, messo in relazione con il Gent Manifesto (https://www.ntgent.be/en/manifest), in cui il regista svizzero non solo dichiara le sue intenzioni rispetto alla direzione artistica dell’NT Gent ma anche nei riguardi della concezione della produzione e distribuzione del teatro tout court.

Tale compito è a dir poco impossibile nella forma articolo e di conseguenza cercheremo di delineare dei vettori attraverso cui mappare, anche se in modo incompleto, la sua attuale ricerca.

Il primo passo ci conduce necessariamente al Gent Manifesto, datato 1 maggio 2018, in cui Milo Rau delinea una modalità di azione sia come direttore artistico che come regista, ma cerca anche di stabilire anche una modalità produttiva e distributiva. Cerca innanzitutto di superare l’opposizione teatro di ricerca/teatro stabile attuando una terza via in cui il teatro si affermi come un’istituzione di processi creativi in grado di coinvolgere la cittadinanza al fine di non ritrarre il mondo ma di cambiarlo. Secondo le parole del Manifesto lo scopo “non è quello di rappresentare il reale, ma di rendere reale la rappresentazione stessa”.

L’intenzione non è dunque quella di essere specchio ma strumento di riflessione, un recupero quindi della funzione originaria del teatro – luogo in cui la comunità riflette sulle crisi che la attraversano, ricercando delle soluzioni fattuali alla loro risoluzione. Lo spettacolo quindi non si presenta come un prodotto da consumare ma come un processo da vivere. Tale dichiarazione di intenti, come si può comprendere, integra tradizione e innovazione, recupero della finalità originaria della scena proiettata in un contesto contemporaneo.

Per giungere a questo sono necessarie alcune modalità produttive e distributive capaci di rendere concreto il raggiungimento del fine prefisso: il coinvolgimento delle persone, l’utilizzo di attori professionisti e non, l’apertura pubblica della fase creativa, prove condotte anche all’esterno dell’edificio teatrale (e questo non significa solo la fase attoriale ma anche quella di ricerca e di creazione drammaturgica), una distribuzione capillare che faccia conoscere il lavoro al di là dei confini cittadini. Questa partecipazione modifica sostanzialmente l’applicazione dell’audience engagement: non marketing finalizzato ad avere più pubblico in sala ma inserimento della fase creativa nel tessuto stesso della comunità.

A questo si aggiunge una decisa presa di posizione con la drammaturgia, innanzitutto con i testi preesistenti la creazione. Lo spettacolo non è un riferire qualcosa di già detto e fatto, ma un riflettere su una condizione, una circostanza, un evento. Per questo l’utilizzo di un testo non dovrà superare il venti per cento del totale rappresentato. Una limitazione che è un invito ad andare al di là del riferire per indagare, scoprire, ragionare.

Il Gent Manifesto è la premessa necessaria a The Repetition cui è sottesa la domanda cruciale: cos’è la rappresentazione? Quale la sua finalità? Prologo ed epilogo dello spettacolo pongono l’accento proprio su questa fondamentale questione.

Cos’è il lavoro dell’attore si chiede all’inizio? Per rispondere si usa una metafora ironica: è come il fattorino che porta la pizza. A essere importante è la pizza non chi te la consegna. L’attore quindi è colui che si fa da parte, si fa veicolo di voci che lo attraversano. Il suo compito è portare alla comunità. Anche in questo si recupera l’etimo dell’origine in cui l’hypokrites, (dal greco ypo=sotto, krinein=spiegare) era colui che evocava, con voce e gesto, situazioni e sentimenti.

Ma tale azione è inutile se dall’altra parte non c’è una collettività atta a ricevere. Nel finale un cappio scende dall’alto, l’attore vi infila il collo. Se la sedia cadrà ci sono solo due soluzioni: o il pubblico lo sostiene o lui morirà. Si spengono le luci. Cosa facciamo? In questa metafora ecco ancora un mito dell’origine: lo sguardo di Kore/Persefone, la Pupilla che guarda l’azione di Ade e la rende concreta e possibile. È l’occhio di Persefone che rende reale il ratto di Ade così come è l’occhio del pubblico a donare efficacia all’azione dell’attore. Il pubblico completa e definisce la rappresentazione.

Un’altra domanda è sottesa a The Repetition: è reale ciò che è rappresentato? Domanda complessa, fondamentale per l’esistenza stessa del teatro nel contemporaneo. La risposta sembra essere la costruzione di un meccanismo in cui il reale viene scomposto in multipli rappresentativi, che non produce una copia ma un doppio molteplice che sezionano il fatto di cronaca facendone scaturire tutti i significati possibili.

In The Repetition si vuole rappresentare il brutale assassinio di Ihsane Jarfi, giovane omosessuale, ucciso a botte, torturato e abbandonato agonizzante, nudo in un campo. Il fatto è avvenuto a Liegi il 22 aprile 2012. In cinque atti, come in una tragedia classica, si analizza l’evento in tutte le sue implicazioni. Come in una Crime story, si indagare il movente, il contesto, la vittima e gli assassini. I sei attori, professionisti e non, ricostruiscono l’accaduto investigando nello stesso tempo la rappresentazione in se stessa.

Durante la visione non si può fare a meno di pensare all’opera di Joseph Kossuth One and Three Chairs del 1965, in cui una sedia, la sua definizione e una foto che la ritrae sono accostate nello stesso spazio. Tutte rappresentano l’oggetto ma in quanto opera d’arte non sono una sedia. Il regista ci rappresenta l’omicidio di Ihsane Jarfi raccontandolo a parole, rappresentandolo in scena, mostrandone una versione diversa e complementare in video. Un multiplo rappresentativo che è e non è il reale. La rappresentazione è uno strumento per la sua comprensione ma è pur sempre una finzione. Ceci n’est pas une pipe. Come a rappresentare il dolore dei genitori, la loro ansia per la scomparsa di Ihsane? Un letto vuoto illuminato sul fondo della scena, due attori nudi su delle sedie, un filmato in cui gli attori nudi a letto impersonano i genitori e recitano un dialogo in cui esprimono la preoccupazione per un figlio che non riescono a contattare. Questa scomposizione di ciò che è accaduto impone all’occhio del pubblico una ricomposizione che segue alla riflessione.

The Repetition è dunque un passo avanti rispetto al semplice reenactment. Milo Rau, in Hate Radio, presentava una ricostruzione di un fatto storico, le due ore di trasmissione di Radio Mille Collines durante il genocidio dei Tutsi a opera degli Hutu. Si osservava qualcosa che era avvenuto nello stesso modo in cui era avvenuto. Ora l’evento di cronaca è sottoposto a un processo molto più complesso in cui attraverso la frammentazione del rappresentato o, meglio, la sua moltiplicazione, si attua nell’occhio del pubblico una messa in questione di ciò che avviene sulla scena e quindi della realtà stessa. Lo spettacolo dibatte anche l’origine del Male, visto come qualcosa di casuale, non premeditato, capace di materializzarsi in un istante. Una banalità del male che avviene nella quotidianità più inaspettata, durante la festa di due compleanni: uno degli assassini e quello a cui partecipa la vittima. Un’occasione di festa che si tramuta in tragedia senza quasi sapere il perché e capace di portare ad un’altra questione: la morte. Kantor diceva che il teatro parla sempre della morte. E in Milo Rau sembra che questo assunto sia più vero che altrove, una morte sempre commista con la violenza cieca, brutale, banale.

Come spiegato all’inizio non è possibile fare una disamina completa di uno spettacolo che, per coglierne tutte le implicazioni, andrebbe peraltro visto più volte. Analizzare la costruzione drammaturgica, frutto non solo di un lavoro di ricerca sul campo ma anche di un incastro di tasselli letterari (la poesia della Szymborska o le parti di Amleto), il rapporto tra attori professionisti e non (come già in Five easy pieces per esempio). Abbiamo cercato di delineare delle linee capaci di far emergere un quadro della ricerca di un regista che è sicuramente il più grande ed efficace pensatore della scena contemporanea.

Le questioni che pone al teatro contemporaneo sono urgenti. Necessitano di riflessione e dibattito perché affrontano il tema non solo della necessità di quest’arte antica ma anche la sua evoluzione nel futuro prossimo. Quale funzione per il teatro? Come si può rendere necessaria la rappresentazione dal vivo? Quale il rapporto tra società e teatro? Tali domande sono necessarie, soprattutto in Italia, dove sembra esserci un ritorno prepotente della rappresentazione classica. Ed è necessario inoltre il dibattito, magari anche acceso. Le idee per evolversi esigono di una vivacità per ora assente dal panorama, dove ogni posizione diversa dalla propria viene accolta come un attacco personale.

Ph: @Copyright Hubert Amiel